Rivista Diritto Tributario 5/2017

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Vol. XXIX- Ottobre

Rivista di

Diritto Tributario

www.rivistadirittotributario.it

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Rivista bimestrale

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DIRETTA DA Mauro Beghin - Pietro Boria - Loredana Carpentieri (coordinamento di direzione) Gaspare Falsitta - Augusto Fantozzi - Andrea Fedele - Guglielmo Fransoni - Salvatore La Rosa - Francesco Moschetti - Pasquale Russo - Roberto Schiavolin - Giuseppe Zizzo

In evidenza: • Spunti di riflessione in materia di processo tributario telematico

Enrico Marello • La tutela cautelare nel rimborso della imposta

Mario Miscali • La rinnovata disciplina del giudizio di ottemperanza non dipana tutti i dubbi ermeneutici

in ordine all’esecuzione delle sentenze tributarie Marcella Martis • Tra esterovestizione ed attività di direzione e coordinamento della capogruppo: la Corte

d’Appello di Milano scrive l’epilogo della vicenda “Dolce & Gabbana” (nota a Corte App. Milano 440/2016) Andrea Perini • I limiti costituzionali al dovere di ottemperanza alle sentenze interpretative della Corte di

giustizia (nota a Corte Cost. 24/2017) Mario Esposito ISSN 1121-4074

Periodico bimestrale - Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in a.p. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, Aut. MBPA/CN/PI/0007/2016

Rivista di Diritto Tributario

2017

Vol. XXIX - Ottobre 2017

Pacini


Indici DOTTRINA Mario Esposito

I limiti costituzionali al dovere di ottemperanza alle sentenze interpretative della Corte di giustizia (nota a Corte Cost., n. 24/2017).................................................... II, 281 Enrico Marello

Spunti di riflessione in materia di processo tributario telematico............................. I, 535 Marcella Martis

La rinnovata disciplina del giudizio di ottemperanza non dipana tutti i dubbi ermeneutici in ordine all’esecuzione delle sentenze tributarie.................................... I, 613 Mario Miscali

La tutela cautelare nel rimborso della imposta.......................................................... I, 569 Andrea Perini

Tra esterovestizione ed attività di direzione e coordinamento della capogruppo: la Corte d’Appello di Milano scrive l’epilogo della vicenda “Dolce & Gabbana” (nota a Corte App. Milano, n. 440/2016)................................................................... III, 92 Luca Sabbi

La Corte di Cassazione illustra finalmente i criteri per la determinazione del regime applicabile alle operazioni di coassicurazione nell’imposta sul valore aggiunto (nota a Cass., n. 22429/2016)................................................................................. II, 308 Alessia Sbroiavacca

Il sistema tributario tedesco quale sistema tributario “più progressivo” dell’eurozona: analisi e riflessioni sul modello tedesco di progressività cd. “lineare” dell’imposta sul reddito delle persone fisiche............................................................ I, 647 Rubrica di diritto penale tributario

a cura di Ivo Caraccioli............................................................................................... III, 81 Tutti i lavori presenti nel fascicolo sono stati sottoposti a revisione esterna.

INDICE ANALITICO QUESTIONI GENERALI CORTE COSTITUZIONALE Procedimento – Rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea


II

indici

per l’interpretazione dell’art. 325, paragrafi 1 e 2, del TFUE, come interpretato dalla sentenza della Grande Sezione della Corte di giustizia dell’Unione europea 8 settembre 2015 in causa C-105/14, Taricco (L. 2 agosto 2008, n. 130, art. 2) (Corte Cost., 23 novembre 2016 - 26 gennaio 2017, n. 24; con nota di Mario Esposito)...................................................................................................................... II, 269 REATI TRIBUTARI Omessa dichiarazione – Art. 5, D.Lgs. n. 74/2000 – Gruppi di società – Luogo di residenza fiscale della società controllata – Esterovestizione – Società non costituente struttura di puro artificio – Rilevanza penale – Esclusione (Corte App. Milano, sez. III, 21 gennaio 2016 - 6 settembre 2016, n. 440; con nota di Andrea Perini).......................................................................................................................... III, 81

IVA (Imposta sul valore aggiunto) Operazioni esenti – Rapporti di coassicurazione – Operazioni di assicurazione – Natura giuridica delle prestazioni – Prestazioni unitarie, indipendenti o accessorie – Art. 10, comma 1, n. 2 e art. 12 del DPR n. 633/1972 – Regime di esenzione – Inquadramento delle fattispecie (Cass., sez. trib., 4 novembre 2016 - 12 settembre 2016, n. 22429; con nota di Luca Sabbi).................................................. II, 295

INDICE CRONOLOGICO Corte Costituzionale 23 novembre 2016 - 26 gennaio 2017, n. 24............................................................. II, 269 *** Cassazione, sez. trib. 4 novembre 2016 - 12 settembre 2016, n. 22429...................................................... II, 295 *** Corte d’Appello di Milano, sez. III 21 gennaio 2016 - 6 settembre 2016, n. 440.............................................................. III, 81


indici

III

Elenco dei revisori esterni Alberto Alessandri - Fabrizio Amatucci - Massimo Basilavecchia - Andrea Carinci - Alfonso Celotto - Giuseppe Cipolla - Silvia Cipollina - Andrea Colli Vignarelli - Giandomenico Comporti - Angelo Contrino - Roberto Cordeiro Guerra - Marco De Cristofaro Lorenzo Del Federico - Eugenio Della Valle - Valerio Ficari - Gianfranco Gaffuri - Emilio Giardina - Alessandro Giovannini - Manlio Ingrosso - Alessio Lanzi - Maurizio Logozzo - Massimo Luciani - Francesco Macario - Jacques Malherbe - Enrico Marello - Gianni Marongiu - Valeria Mastroiacovo - Giuseppe Melis - Salvatore Muleo - Mario Nussi Franco Paparella - Andrea Parlato - Leonardo Perrone - Franco Picciaredda - Cesare Pinelli - Francesco Pistolesi - Pasquale Pistone - Franco Randazzo - Claudio Sacchetto - Guido Salanitro - Livia Salvini - Salvatore Sammartino - Dario Stevanato - Maria Teresa Soler Roch - Thomas Tassani - Gianluigi Tosato - Loris Tosi - Antonio Uricchio



Dottrina

Spunti di riflessione in materia di processo tributario telematico Sommario: 1. Il rito telematico come occasione per alcune riflessioni critiche. – 2. Le fonti del processo tributario telematico: un ordito dalla trama incerta. – 3. Nuovi riti e vecchie questioni. – 4. Imperscrutabilità tecnologiche e strumentalità delle forme. – 5. Giudici, segreterie, sistemi informatici: chi governa il processo? Il lavoro è dedicato ad una sistemazione critica del processo tributario telematico. Prima viene ricostruito il farraginoso micro-sistema delle fonti del processo telematico: si evidenzia una sovrapposizione di regolamentazioni e una pluralità di rinvii non coordinati. In un successivo momento, si analizzano le principali problematiche di ordine processuale che possono toccare la fase di introduzione del giudizio, proponendo alcune soluzioni conservative, fondate sull’estensione di regole elaborate per il processo analogico. Quindi, si mettono in evidenza gli scopi cui sono ordinate le nuove forme telematiche, trattando delle ricadute effettuali nel caso di mancato rispetto delle stesse. Infine, si evidenzia la natura non neutrale di talune scelte normative, che incidono sul governo del processo, nel rapporto tra giudici, segreterie, parti: in particolare, si critica la attuale modalità di governo (e di normazione tecnica) del S.I.Gi.T. This article deals with a critical settlement of the “processo tributario telematico” (i.e. the online tax trial). First, it is rebuilt the micro-system of the sources, highlighting the overlapping of regulations and the uncoordinated referrals. At a later stage, we analyze the main procedural issues that may touch the stage of the introduction of the judgment, proposing some conservative solutions based on the extension of rules elaborated for the ordinary process. Then, the attention is focused on the aims for which new telematic forms are ordered, dealing with actual bias in the case of failure to respect them. Finally, we point up the non-neutral nature of some normative choices that affect the process of government, the relationship between judges, clerk of the courts and parties: in particular, the current mode of government (and technical standardization) of SIGiT is criticized.


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Parte prima

1. Il rito telematico come occasione per alcune riflessioni critiche. 1.1. – Dopo una fase di messa a punto abbastanza faticosa, il processo tributario telematico è entrato sul rettifilo di arrivo (1). La sperimentazione del processo tributario telematico è stata gradatamente portata a compiutezza territoriale: nel corso del 2017, si potrà accedere al processo telematico in tutte le regioni d’Italia, con una decorrenza variabile a seconda della regione. La fase sperimentale non ha una data di scadenza, ma sembra ipotizzabile che, in un lasso di tempo ragionevolmente breve, il rito telematico (2) possa divenire il rito ordinario, con la scomparsa, quindi, del processo fondato su documenti e atti cartacei (3). Il processo tributario si conforma al trend ordinamentale che vede la digitalizzazione del processo come un destino ineluttabile. Dopo i pioneristici passi in avanti del processo civile telematico e la rapida messa in azione del processo amministrativo telematico, anche il processo tributario si allinea a questa direzione di sviluppo. Questa sincronia ordinamentale consente all’interprete di fare tesoro dei problemi e delle soluzioni offerte nelle altre branche del diritto e, al contempo, di mettere in luce le specifiche nuove problematiche del rito tributario telematico. Lo scopo di questo lavoro è, quindi, quello di tratteggiare alcune delle problematiche interpretative che suscita il nuovo rito telematico. Sembra, infatti,

(1) Sul lento percorso di attuazione del processo tributario telematico vds. A. Comelli, Attuazione “in due fasi” del processo tributario telematico, in Corr. trib., 2011, 2506; Id., Processo tributario telematico più vicino al traguardo della concreta implementazione, in Corr. trib., 2013, 3033 ss. M. Conigliaro, Avanti adagio verso il processo tributario telematico, in Fisco, 2016, 1-2339 ss.; F. Montalcini - Ca. Sacchetto, Diritto tributario telematico, Torino, 2017, 322 ss. (2) Si fa qui un uso generico del termine “rito”: il processo telematico non introduce un nuovo procedimento, caratterizzato da scansioni logiche diverse da quelle del d.lgs. 546/1992; si tratta, piuttosto, di una sostituzione di forme (dalle forme analogiche a quelle telematiche), come si indicherà oltre. Peraltro come si sosterrà nel prosieguo, queste nuove forme (a) costituiscono un corpus complesso, da interpretare secondo nuove direttrici (§ 2) e (b) non sono neutrali, perché comportano una variazione degli assetti, tanto nella definizione del governo del processo (§ 4-5), quanto nella determinazione di alcune patologia processuali (§§ 3-4). Ecco perché si attribuisce a queste nuove disposizioni la dignità classificatoria di “rito”. (3) Più correttamente “analogici”, in osservanza al lessico del Codice dell’amministrazione digitale: per semplicità di comprensione, in questo testo si adopererà talune volte “cartaceo”, come sinonimo di “analogico”


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che il processo telematico consenta talune riflessioni di un certo interesse, che trascendono i minuti problemi applicativi. 1.2. – Il contesto logico in cui si colloca il processo telematico è duale. In primo luogo, si tratta di un tipico esempio di diritto delle nuove tecnologie, ossia di ricerca di soluzioni tratte dall’armamentario ermeneutico tradizionale, utili a dare spiegazioni di nuovi stati del mondo, creati dalla tecnologia. In questo quadro, l’esperienza del giurista del XX secolo è di aiuto, soprattutto nell’assunzione di un atteggiamento di pacata conservazione degli strumenti interpretativi: la tradizione ci ha consegnato figure giuridiche e principi dalla grande malleabilità, per cui spesso non è necessario andare a ricercare bizzarre figure di nuovo conio, ma è sufficiente recuperare e adattare l’esistente, per dare spiegazione del nuovo mondo tecnologico. In altri casi, lo strumento giuridico esistente sembra incapace di offrire una spiegazione e l’interprete deve cercare di formare nuove categorie, senza ansie sulla tenuta temporale delle stesse: le nuove categorie sono spesse destinate all’estinzione, insieme alla tecnologia che ha dato loro vita. In secondo luogo, il processo telematico è ironicamente ricorsivo. È sì una tecnologia che richiede un apparato di interpretazione giuridica dello strumento tecnologico, ma anche uno strumento che vuole essere di ausilio nella creazione del diritto. Il rito telematico è non solo oggetto esterno da studiare, ma anche parte essenziale del farsi del diritto, in quanto costituisce mezzo di realizzazione del processo (e quindi della decisione giudiziale) (4). Muovendo i primi passi da questo sdoppiamento, procediamo ad analizzare le aree che consentono le riflessioni che sembrano più interessanti. 2. Le fonti del processo tributario telematico: un ordito dalla trama incerta. 2.1. – Nel periodo transitorio si affiancheranno due riti: quello tradizionale, interamente disciplinato dal d.lgs. 546/1992, e quello telematico, che presenta un trattamento normativo che ricorda le coperte patchwork. Infatti, il processo tributario telematico presenta fonti dai confini irrego-

(4) Sugli effetti (anche non apparentemente desiderabili) che potrebbe indurre, in questa prospettiva, il processo telematico cfr. R. Caponi, Il processo civile telematico tra scrittura e oralità, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2015, 310-311.


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Parte prima

lari: vi sono tre discipline che l’interprete deve tenere in considerazione per giungere a tratteggiare gli istituti del nuovo rito. Alla base, vi sono le disposizioni del d.lgs. 546/1992, che dettano regole fondamentali per la definizione di oggetti ed effetti degli istituti processuali; ad un livello superiore (di specificazione) vi sono le regole che sono state dettate ad hoc per la componente tecnologica del processo tributario telematico; ad un livello di ulteriore specificazione vi sono quelle regole, ancora riferite al mezzo telematico, applicabili o per rinvio diretto (come il Codice dell’amministrazione digitale), o per rinvio indiretto (come alcune disposizioni sul processo civile telematico). Dato per acquisito il lamento per l’ennesima cattiva prova del legislatore, incapace di costruire testi normativi solidi e possibilmente completi, occorre svolgere lo “gnommero” delle fonti, estraendo ove possibile il bandolo interpretativo più opportuno. 2.2. – La fonte primaria di regolazione del processo tributario telematico è costituita dall’art. 39 c. 8 lett. (d) del d.l. 98/2011 (5). Questa disposizione non brilla per precisione, perché si limita a disporre che: “con regolamento ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, emanato entro centocinquanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto dal Ministro dell’economia e delle finanze, sentiti il DIgitPA e il Garante per la protezione dei dati personali, sono introdotte disposizioni per il più generale adeguamento del processo tributario alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, in attuazione dei principi previsti dal decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, e successive modificazioni”. La disposizione colpisce per l’ambiguità delle locuzioni adoperate. L’obiettivo è “il più generale adeguamento del processo tributario alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione”. Tralasciando l’uso prolettico del “più”, si richiede l’adattamento di un intero corpus normativo (il “processo” va inteso come l’ordinamento processuale fondato sul documento analogico) rispetto ad una componente tecnologica assolutamente indistinta: “tecnologie dell’informazione e della comunicazione”. La disposizione primaria non individua specificamente le disposizioni (o anche solo le fasi processuali) che andrebbero adattate e non indica quali siano

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Convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011 n. 111.


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le specifiche tecnologie che andrebbero adoperate per digitalizzare le specifiche fasi processuali. L’ambiguità della norma primaria ha delle ricadute interpretative che si metteranno in luce successivamente, perché il regolamento evocato dalla disposizione legislativa è un regolamento attuativo di una norma di principio. Non si tratta di un’opera di delegificazione, per il tramite di regolamento delegificante, ma di una funzione di integrazione, o più correttamente di attuazione di una norma di principio (6). Tali regolamenti non possono dettare norme in contrasto con altre disposizioni primarie diverse da quella delegante; trattandosi di norme regolamentari, possono poi essere disapplicate dal giudice, quando in contrasto con la legge (7). 2.3. – Il regolamento di attuazione emanato sulla base della delega è il d.m. 23 dicembre 2013, n. 163 (8). Si tratta della fonte che dà sostanza alla ampia ed ambigua delega, in quanto prevede le fasi processuali interessate dal rito telematico e i mezzi di attuazione del nuovo rito. In particolare, il decreto si dedica alle fasi di: notificazione del ricorso, costituzione in giudizio del ricorrente e della parte resistente, produzione di documenti e memorie. Sono regolati, inoltre: il modo di accesso al fascicolo per opera delle parti processuali, i modi delle comunicazioni da parte delle segreterie, i modi di conservazione del fascicolo da parte dell’ufficio giudiziario, i modi di redazione del processo verbale di udienza e della sentenza. Si noti che il decreto ministeriale regola le componenti tecnologiche e non

(6) Per comodità di lettura, si ricorda che il testo dell’art. 17 c. 3 l. 400/1988 dispone che “Con decreto ministeriale possono essere adottati regolamenti nelle materie di competenza del ministro o di autorità sottordinate al ministro, quando la legge espressamente conferisca tale potere. Tali regolamenti, per materie di competenza di più ministri, possono essere adottati con decreti interministeriali, ferma restando la necessità di apposita autorizzazione da parte della legge. I regolamenti ministeriali ed interministeriali non possono dettare norme contrarie a quelle dei regolamenti emanati dal Governo. Essi debbono essere comunicati al Presidente del Consiglio dei ministri prima della loro emanazione”. (7) Sul tema, come primi riferimenti vds. A. Cerri, voce Regolamenti, in Enc. giur., XXVI, Roma, 1991 e L. Verrienti, voce Regolamenti amministrativi, in Dig. disc. pubb., XIII, Torino, 1997. (8) Rubricato “Regolamento recante la disciplina dell’uso di strumenti informatici e telematici nel processo tributario in attuazione delle disposizioni contenute nell’articolo 39, comma 8, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111.”


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Parte prima

detta una nuova completa disciplina degli istituti (9): per conoscere i termini processuali, gli effetti degli atti, le forme contenuto, i modelli di validità si continua a fare riferimento al d.lgs. 546/1992. Il d.m. 163/2013 contempla a propria volta ulteriori decreti attuativi: all’art. 3 c. 3 si rimanda a successivi decreti contenenti le “regole tecnicooperative” utili a porre in essere le fasi telematiche del processo e, all’art. 20, si prevedono successivi decreti che determinano le Commissioni presso le quali entra gradatamente in funzione il processo telematico. In attuazione della prima di queste sub-deleghe, in materia di regole tecniche, è stato emanato il d.m. 4 agosto 2015 (10). 2.4. – Una disposizione di grande rilievo per il processo telematico compare all’esterno del micro-sistema dei decreti ministeriali, perché contenuta nel d.lgs. 546/1992: si tratta dell’art. 16-bis, introdotto dall’art. 9 lett. (h) del d.lgs. 156/2015. La disposizione si compone di tre parti ben distinte e tra loro autonome: i primi due commi sono dedicati alle comunicazioni; il terzo comma è dedicato alle notificazioni e ai depositi; il quarto comma affronta il tema della domiciliazione processuale digitale. La parte dell’art. 16-bis dedicata alle notificazioni telematiche ha un’efficacia ricollegata all’entrata in vigore delle disposizioni ministeriali di attuazione del processo telematico (11). Occorre notare che la disciplina delle notificazioni e delle comunicazioni per via telematica era già compiutamente dettata dal combinato disposto degli artt. 5 e 9 del d.m. 163/2013. L’introduzione dell’art. 16-bis è stata dettato da casualità e non da una scelta precisa: la legge delega di riforma del processo tributario (l. 23/2014, successiva all’approvazione del d.m. 163/2013) con-

(9) Una simile aspirazione del regolamento sarebbe risultata contra legem, proprio per la natura di decreto attuativo di una legge che indicava come obiettivo l’adeguamento alle tecnologie dell’informatica e non una nuova ridefinizione degli istituti processuali. (10) Che è intitolato “Specifiche tecniche previste dall’articolo 3, comma 3, del regolamento recante la disciplina dell’uso di strumenti informatici e telematici nel processo tributario in attuazione delle disposizioni contenute nell’articolo 39, comma 8, del decretolegge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111”. (11) Infatti, a mente dell’art. 12 c. 3 “3. Le disposizioni contenute nel comma 3 dell’articolo 16-bis del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, come modificati dall’articolo 10 del presente decreto, si applicano con decorrenza e modalità previste dai decreti di cui all’articolo 3, comma 3, del decreto del Ministro dell’economia e delle finanze 23 dicembre 2013, n. 163”.


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templava “il massimo ampliamento dell’utilizzazione della posta elettronica certificata per le comunicazioni e le notificazioni” (12) e, in attuazione di questa delega legislativa, il d.lgs. 156/2016 ha introdotto l’art. 16-bis per come descritto sopra. Nessuna giustificazione per questa sovrapposizione (tra art. 16-bis e d.m. 163/2013) si ritrova nelle relazioni parlamentari. In ogni caso, va rilevato che, in un eventuale conflitto tra quanto disposto dall’art. 16-bis e quanto disposto dal d.m. 163/2013, occorrerà far prevalere l’art. 16-bis, in quanto disposizione di rango superiore (e, comunque, successiva alla fonte primaria di delega del regolamento attuativo). 2.5. – Un’ulteriore fonte rilevante è il Codice dell’amministrazione digitale (d.lgs. 82/2005): già la legge delega, citata sopra, prevede l’adeguamento alle tecnologie dell’informazione, in attuazione dei principi del Codice dell’amministrazione digitale (13). In ogni caso, l’art. 2 c. 4 del d.m. 163/2013 ribadisce la dipendenza dal Codice dell’amministrazione digitale, disponendo un rinvio aperto e mobile all’intero Codice, con una clausola di salvezza per quanto non diversamente stabilito dal decreto ministeriale (14). Il Codice dell’amministrazione digitale contiene diversi istituti idonei al trapianto. Limitando l’elenco a quanto sarà trattato successivamente, si segnalano: gli indici nazionali degli indirizzi p.e.c. e degli indirizzi delle pubbliche amministrazioni (artt. 6-bis e 6-ter); nozione, oggetto, validità del documento informatico (artt. da 20 a 23-quater); nozione, metodi e validità delle firme elettroniche (artt. da 24 a 37); conservazione di documenti e documenti informatici (artt. 43-44). Il rinvio è specularmente disposto anche dallo stesso Codice dell’amministrazione digitale, pur con una limitazione in deroga: l’art. 2 c. 6 stabilisce l’applicabilità delle disposizioni del Codice anche al processo tributario, “in quanto compatibili e salvo che non sia diversamente disposto dalle disposizioni in materia di processo telematico”. Dal doppio rinvio emerge la funzione suppletiva, di integrazione, che appartiene al Codice come normativa di principio.

(12) L. 11 marzo 2014, n. 23, art. 10 c. 1 n. 4. (13) Va notato che, nell’ambito della telematica, il Codice costituisce legislazione di principio e, quindi, sarebbe applicabile anche in assenza di un rinvio espresso. (14) Questo il testo della disposizione: “Si applicano le disposizioni del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, e successive modificazioni e integrazioni, ove non diversamente stabilito dal presente regolamento”.


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Parte prima

2.6. – Infine, non possiamo trascurare la funzione del rinvio di cui all’art. 1 d.lgs. 546/1992 al c.p.c. Le disposizioni che regolano il processo civile telematico sono dettate al di fuori del codice (principalmente dall’art. 16 d.l. 179/2012), ma nulla mi sembra ostare ad una applicabilità residuale, con funzione di integrazione, anche di queste disposizioni speciali, in quanto creano a loro volta un corpus complementare rispetto a quello codicistico. 2.7. – In conclusione: da una analisi del tessuto normativo emerge una certa superficialità nel drafting legislativo. Per la messa a regime meriterebbe, al minimo, rivedere le disposizioni non tecniche e inserirle direttamente all’interno del d.lgs. 546/1992, offrendo loro la forza e la stabilità di legge primaria. Opportuna sarebbe, poi, una dichiarazione espressa di quali istituti generali del Codice dell’amministrazione digitale debbono intendersi derogati dalle disposizioni tecniche. 3. Nuovi riti e vecchie questioni. 3.1. – Il rito telematico può essere affrontato mettendo in luce alcune problematiche che, amplificate dai nuovi strumenti messi a disposizione delle parti, sono, però, riportabili a dibattiti già conosciuti con riferimento al processo cartaceo. Questi temi riguardano: la procura alle liti, l’elezione di domicilio, le notificazioni e la costituzione in giudizio. Prima di affrontarle brevemente, però, occorre ancora precisare un punto riguardante la potenziale asimmetria del rito, nella fase di temporaneo assestamento. Il legislatore, per il periodo transitorio, avrebbe potuto adottare due diverse impostazioni: il modello incentrato sull’effetto di trascinamento e il modello fondato sull’asimmetrica libertà dei riti. Sulla base del primo modello, il ricorrente (in primo e secondo grado) sceglie il rito (analogico o telematico), mentre il resistente si trova a dover seguire il rito prescelto; sulla base del secondo, ricorrente e resistente possono adottare liberamente la forma processuale che più aggrada. La scelta concretamente adottata dal legislatore è ambigua, ma mi pare che gli elementi interpretativi più numerosi siano a favore della tesi dell’asimmetria. Infatti, l’art. 2 c. 3 d.m. 163/2013 obbliga la sola parte che ha scelto il


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rito telematico ad adoperarle anche in appello (15), il che sembra suggerire che la parte resistente è libera di scegliere sia in primo che in secondo grado il rito che preferisce. O meglio, sembra suggerire che ove la parte ricorrente opti per il rito telematico, la parte resistente possa, in primo grado, mantenere il rito cartaceo ed eventualmente optare per il telematico in secondo grado, mentre per il resistente non varrebbe l’inverso (primo grado telematico e secondo grado analogico) (16). In senso opposto, potrebbe essere interpretato l’art. 10 d.m. 163/2013: la disposizione al primo comma chiarisce che – una volta notificato telematicamente l’atto introduttivo del giudizio – il ricorrente si può costituire solo per via telematica (mediante il S.i.gi.t.); al terzo comma, la disposizione, però si limita a statuire ambiguamente che “La costituzione in giudizio e il deposito degli atti e documenti della parte resistente avviene con le modalità’ indicate al comma 1”, il che può essere letto in maniera bifronte: o ritenendo che il resistente – che opti per il rito telematico – debba utilizzare lo stesso strumento di costituzione (S.i.gi.t.), o che il resistente debba obbligatoriamente seguire il rito prescelto dalla parte ricorrente. Questione diversa è quella attinente la possibilità di un’opzione autonoma da parte del resistente per il rito telematico, quando il ricorrente abbia scelto il rito cartaceo. L’art. 10 c. 3 appena citato sembrerebbe doversi leggere in senso negativo, correlando la costituzione telematica del resistente al caso in cui il ricorrente si sia costituito per via telematica. La circolare ministeriale sembra offrire la soluzione opposta (17). Occorre, poi, mettere in luce che il rito asimmetrico, dal punto di vista pratico genera più di un problema di corretto accesso agli atti processuali, sia per il giudice che per le parti (18).

(15) La disposizione è così formulata: “La parte che abbia utilizzato in primo grado le modalità telematiche di cui al presente regolamento è tenuta ad utilizzare le medesime modalità per l’intero grado del giudizio nonché per l’appello, salvo sostituzione del difensore”. (16) Non varrebbe l’inverso, perché diventerebbe applicabile l’art. 2 c. 3 ora citato e ci troveremmo dinanzi ad una parte (il resistente) che in primo grado ha optato per il rito telematico e che, quindi, lo deve replicare anche in appello. (17) La Circ. Min. Ec. 2/2016, punto 14.2, ipotizza un’asimmetria anche per opzione del resistente. (18) La circolare citata alla nota precedente obbliga le segreterie delle Commissioni tributarie a scansionare tutto ciò che è prodotto in via cartacea dalla parte che ha scelto il rito cartaceo e a metterlo a disposizione della parte che ha scelto il rito telematico, precisando al contempo che se per le ragioni più varie ciò non è possibile, le segreterie possono comunque mettere a disposizione della parte che ha optato per il rito telematico un elenco di documenti depositati dall’altra parte in cartaceo. Il problema logico e tecnico di questa interpretazione


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3.2. – Venendo ai profili problematici, un primo ambito di interesse è dato dalla procura alle liti. L’art. 4 d.m. 163/2013 è dedicato alle modalità di sottoscrizione della procura e di autentica della stessa. Si prevedono due modalità: una completamente digitale (19) (sottoscrizione della procura e sua autentica tramite firma digitale) (20) e una mista (sottoscrizione della procura su documento cartaceo, autentica, scansione e sottoscrizione con firma digitale del difensore) (21). Merita ricordare come la notificazione congiunta del ricorso sottoscritto dal difensore e della procura non autenticata possa considerarsi comunque produttiva di effetti, in virtù del condivisibile orientamento della Cassazione, secondo cui il ricorso per cassazione cui difetti l’autentica della procura possiede comunque i requisiti per il raggiungimento dello scopo (22). Questa impostazione risolve, quindi, anche la questione della legittimità della notificazione di un ricorso (firmato digitalmente), accompagnato da una procura firmata solo digitalmente (o solo analogicamente) dal difensore. Ancora, la procura sottoscritta digitalmente costituisce un file autonomo rispetto al ricorso. Non dovrebbero sorgere problemi di riferibilità della procura all’atto impugnato, anche nel caso in cui la procura non dovesse indicare

ministeriale è dato dal fatto che l’art. 11 del d.m. 4/8/2015 detta specifiche regole tecniche per gli atti depositati in formato analogico (fogli non rilegati, numerati etc.): ora, se il ricorrente sceglie il rito cartaceo, come può rispettare tali regole senza sapere – a priori – quale rito sceglierà il resistente e quindi adeguarsi a tali disposizioni? (19) Per semplicità espositiva (e per l’abrogazione dell’art. 1 c. 1 lett. (r) cod. amm. digit.), invece dell’endiadi firma elettronica qualificata o firma digitale, in questo scritto si adopererà l’espressione “firma digitale”. Per un’introduzione al tema delle firme elettroniche: F. Montalcini - Ca. Sacchetto, Diritto tributario telematico, cit., 302 ss. (20) Si noti che, anche in questo frangente, sebbene la sottoscrizione della procura provenga da soggetto identificato certamente (per il tramite della propria firma digitale), l’art. 4 cit. richiede comunque l’autentica del difensore. Tale impostazione è coerente con l’art. 25 cod. amm. digit. Quest’ultima disposizione richiede anche che la sottoscrizione digitale della procura avvenga alla presenza del soggetto abilitato all’autentica: si toglie così ogni appeal a questa modalità di sottoscrizione della procura. (21) Questa modalità comporta l’obbligo per il difensore di attestare anche la conformità della copia digitale rispetto al documento cartaceo (art. 4 c. 3 d.m. 2013/163), il che può avvenire nello stesso file, per un migliore ordine su foglio separato (ma nulla vieta che si possa prevedere una formula già nello stesso foglio contenente la procura sottoscritta per via analogica). Una carenza di questa attestazione di conformità sembra di una certa gravità, in quanto l’art. 22 c. 2 cod. amm. digit. condiziona l’efficacia della copia digitale (di documento analogico) alla presenza dell’attestazione di conformità. (22) Cfr. Cass. civ. Sez. II, 20/12/2011, n. 27774; in precedenza già Cass., Sez. Un., 6/5/1996, n. 4191.


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specificamente l’atto: soccorre la nuova formulazione dell’art. 83 c.p.c. (23), che parifica alla procura in calce la procura sottoscritta con firma digitale ed inviata congiuntamente con l’atto processuale. Trattandosi di un autonomo file, potrà forse accadere che il difensore notifichi il ricorso, dimenticando di allegare al messaggio di posta certificata la procura. Nell’intento di restringere l’ambito delle inammissibilità processuali, potremmo ritenere applicabile quell’orientamento della Cassazione, secondo cui la copia del ricorso notificata alla controparte non richiede l’apposizione della procura (24), mentre tale apposizione è necessaria sull’originale (25). A sostegno dell’estensione di questa linea interpretativa possiamo aggiungere la difficoltà, nei processi telematici, di distinguere tra originale e copie. 3.3. – Il domicilio processuale nel processo telematico è coerentemente identificato con l’indicazione dell’indirizzo di posta elettronica certificata (di seguito: p.e.c.); quindi l’elezione di domicilio coincide con l’indicazione della p.e.c. (all’interno del primo atto processuale). L’indicazione della p.e.c. era già resa obbligatoria ex art. 18 d.lgs. 546/1992 (26), per consentire le comunicazioni elettroniche da parte delle segreterie. Nel rito telematico, l’indicazione della p.e.c. diviene costituzione di domicilio digitale (ex art. 16 bis c. 4 d.lgs. 546/1992 e art. 6 d.m. 163/2013), consentendo anche le notificazioni processuali. L’indirizzo p.e.c. deve coincidere con quello comunicato all’ordine professionale di appartenenza e pubblicato sul registro Ini-pec: così dispone l’art. 7 c. 2 d.m. 163/2013 (27).

(23) Secondo cui: “La procura si considera apposta in calce anche se rilasciata su foglio separato che sia però congiunto materialmente all’atto cui si riferisce, o su documento informatico separato sottoscritto con firma digitale e congiunto all’atto cui si riferisce mediante strumenti informatici, individuati con apposito decreto del Ministero della giustizia”. (24) Cfr. Cass. civ. Sez. V, Sent., 07/06/2013, n. 14412 e, più di recente, Cass. civ. Sez. V, Sent., 09/08/2016, n. 16758. (25) Una diversa strada per conferire validità all’atto (anche questa non priva di fragilità) appare il ricorso all’art. 125 c.p.c.: non sarà possibile depositare l’originaria procura (che, non essendo più dotata della contestualità, spoglia il difensore del potere di autentica), ma potrà essere depositata una nuova procura autenticata da pubblico ufficiale, utile a sanare il difetto di rappresentanza processuale. (26) Si ricorda che la manca indicazione della p.e.c. comporta anche una sanzione consistente nell’aumento del contributo unificato. (27) Per gli enti impositori, l’indirizzo è quello risultante dal registro IPA: così dispone l’art. 7 c. 5 d.m. 163/2013, che ha così superato le difficoltà interpretative del processo civile


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Quid iuris se viene indicato un indirizzo p.e.c. valido e riferibile al difensore, ma diverso da quello che compare su Ini-pec? Sembra che la soluzione più ragionevole sia quella di ritenere validamente indicato il domicilio digitale, per due ordini di motivi: in primo luogo, il decreto ministeriale non indica una ricaduta per l’inadempimento e, in secondo luogo, per i difensori non iscritti agli ordini, l’art. 7 c. 3 richiede solo che sia indicato un indirizzo p.e.c. validamente rilasciato da un gestore abilitato: sarebbe distonico attribuire al difensore iscritto ad un ordine un trattamento deteriore e peggiorativo rispetto al difensore non iscritti ad albi. 3.4. – Una semplificazione applicativa notevole è costituita dalla possibilità di notificare gli atti processuali via p.e.c. (28). L’art. 16 bis c. 3 d.lgs. 546/1992 istituisce la notificazione per via telematica, condizionandola alle modalità fissate dal d.m. 163/2013 e dai decreti attuativi di questo. Il d.m. 4/8/2015, a propria volta, condiziona la possibilità di notificare per via telematica alla scelta del rito telematico: è quindi inibita la notificazione telematica seguita da una costituzione cartacea (29). In perfetta sintonia con quanto avviene nel processo cartaceo, gli artt. 5 e 8 d.m. 163/2013 sanciscono la scissione dei momenti di perfezionamento per il notificante e per il soggetto cui l’atto è diretto: per il primo, il momento rilevante è l’accettazione del messaggio da parte del proprio gestore, per il secondo, invece, il momento in cui il messaggio è reso disponibile. Venendo alle ipotesi problematiche, ricollegate alla notificazione via p.e.c., si possono ipotizzare almeno tre fattispecie critiche.

telematico, in cui l’art. 16 ter d.l. 179/2012 non sembra includere l’IPA tra i “pubblici elenchi”. (28) Sulle notificazioni telematiche nel processo tributario, anche prima dell’entrata in vigore delle disposizioni sul processo telematico, cfr. M.G. Bruzzone, Comunicazioni e notificazioni via p.e.c. degli atti tributari, in GT, 2016, 450 ss.; A. Mastromatteo - B. Santacroce, Processo tributario telematico ed elezione di domicilio digitale, in Fisco, 2016, 1-1142 ss. (29) Un tale modus operandi (notificazione telematica, costituzione cartacea) sembrerebbe in astratto condurre alla nullità della notificazione, perché svolta al di fuori del modello legale di riferimento; resta peraltro vivo il dubbio evidenziato sopra della legittimità di un’interpretazione che commini una nullità al di fuori di una espressa previsione legislativa. Si potrebbe, per contro, sostenere che la notificazione ha consentito la perfetta conoscenza dell’atto da parte del soggetto che l’ha ricevuto, nonché la riconducibilità dell’atto stesso al soggetto che l’ha formato (per la presenza della firma digitale): se, nella fase di costituzione, il ricorrente attestasse la conformità del cartaceo rispetto a quanto notificato, sarebbero salvi anche gli interessi di integrità dell’atto.


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In primo luogo, si può ipotizzare che l’indicazione della p.e.c. sugli atti processuali sia errata (anche solo per digitazioni imprecise). In questo frangente, soccorre una disposizione espressa (art. 7 c. 6 d.m. 4/8/2015): la segreteria e le altri parti possono validamente notificare all’indirizzo risultante dal registro pubblico Ini-pec. Si impone, quindi, alle altre parti un minimo onere di diligenza nella ricerca dell’indirizzo corretto. Resta insoluto il problema per quei difensori non iscritti ad un albo (che, quindi, non compaiono su Ini-pec): in tal caso, riterrei possibile notificare come indicato oltre, utilizzando metodi cartacei. In secondo luogo, si può ipotizzare che le comunicazioni non siano possibili, per causa imputabile al destinatario (malfunzionamenti della casella, spazio esaurito etc.). Si noti che l’art. 16 bis c. 2 d.lgs. 546/1992 detta una regola valida solo per le comunicazioni da parte della segreteria, consentendo alla segreteria della Commissione di depositare le comunicazioni (in cartaceo) presso la segreteria stessa: nulla si dice quanto alle notificazioni impossibili per le stesse cause. Facendo ricorso all’analogia, si può certamente sostenere che il notificante debba riattivare il processo notificatorio entro un termine ragionevole (30); se persiste l’anomalia, l’unico rimedio utile a garantire l’effettività del processo e a salvaguardare il contraddittorio sembra quello di mutare il metodo di notificazione, utilizzando metodi di notificazione cartacei (31). In terzo luogo, ci si può domandare quale sia l’effetto di una notificazione “notturna”. Poiché le notificazioni elettroniche non richiedono l’ausilio delle poste o degli ufficiali giudiziari, si può immaginare che alcune attività vengano compiute anche in orari notturni. È applicabile, in virtù del rinvio espresso di cui all’art. 1 d.lgs. 546/1992, l’art. 147 c.p.c., che tuttora limita temporalmente le notificazioni all’interno della fascia oraria compresa tra le ore 7 e le ore 21. Tale regola è applicabile anche ai processi telematici e la sua ratio sembra quella di garantire comunque una porzione di giornata libera dal controllo degli incombenti processuali. Una notificazione effettuata dopo le ore 21 sarà quindi da ritenersi perfezionata il giorno successivo, con il correlato rischio di tardività per il notificante (32).

(30) Vds. la sentenza Cass. civ. Sez. Unite, 15/7/2016, n. 14594. (31) Argomentato ex Cass. civ. Sez. I, 13/9/2016, n. 17946. (32) In termini, Cass. civ. Sez. lav., 4/5/2016, n. 8886. Se si ritenesse applicabile, in virtù dei rinvii mediati di cui al § 2, il d.l. 179-2012 (con funzioni di integrazione), la questione sarebbe risolta direttamente dall’art. 16-septies: “La disposizione dell’articolo 147 del codice di procedura civile si applica anche alle notificazioni eseguite con modalità telematiche. Quando


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3.5. – Un’ulteriore prospettiva di analisi è quella ricollegata alla fase di costituzione in giudizio (e di deposito di documenti e memorie ex art. 32 d.lgs. 5469/1992). Intanto, occorre rilevare che il procedimento telematico di costituzione in giudizio (e deposito di atti successivi) genera due diverse ricevute: una prima ricevuta di accettazione che attesta la trasmissione di atti e documenti (art. 7 c. 3 d.m. 4/8/2015 e, per il resistente, art. 8 della medesima fonte) e una seconda che informa dell’avvenuta iscrizione a ruolo (art. 7 c. 5). Tra le due ricevute, il sistema informatico controlla il rispetto delle caratteristiche tecniche dei file (assenza di virus, integrità dei file, firma digitale, formati) (33): solo in caso di esito positivo di questo controllo avviene l’iscrizione a ruolo: in caso di esito negativo (34), viene comunicata alla parte l’anomalia riscontrata (art. 7 c. 6). Se l’anomalia viene riscontrata esclusivamente negli allegati, avviene l’iscrizione a ruolo, ma non vengono acquisiti i file (art. 7 c. 7). Questa scissione tra la fase di presentazione e quella di accettazione può facilmente essere riportata all’esperienza del processo cartaceo. Anche nel processo cartaceo, la parte si presenta alle segreterie con il proprio fascicolo, le segreterie compiono un’analisi di quanto presentato e, successivamente, rilasciano la ricevuta. Il momento nel quale il fascicolo viene accettato è quello del rilascio della ricevuta e dell’apposizione della firma del funzionario della segreteria (35). La disposizione secondo cui nel processo telematico -in caso di controllo positivo- il deposito si deve ritenere effettuato al momento della presentazione (e quindi al rilascio della prima ricevuta) (36) è una disposizione di favore che pare orientata da una certa sfiducia nella possibilità attuale del sistema di funzionare costantemente in tempi rapidi: per l’assimilazione indicata ora, sarebbe stato in astratto più lineare imputare alla ricevuta dell’iscrizione a ruolo la funzione di attestazione del deposito.

è eseguita dopo le ore 21, la notificazione si considera perfezionata alle ore 7 del giorno successivo”. (33) Il sistema “assicura” che l’attività di controllo non occupi più di 24 ore (art. 7 c. 9 d.m. 4/8/2015), ma tale termine non ha alcuna cogenza e, nella fase di sperimentazione, si ha notizie di diversi casi in cui il termine non è stato rispettato. (34) Escluso il caso di irregolarità nei formati. (35) Argomentato ex art. 74 disp. att. c.p.c., che condiziona l’apposizione della sottoscrizione al controllo di regolarità degli atti depositati. (36) L’art. 8 c. 2 d.m. 163/2013 sancisce in maniera neutra che la data del deposito è data dalla “ricevuta di accettazione rilasciata dal S.I.Gi.T.”; invece, l’art. 7 c. 5 d.m. 4/8/2015 precisa che, in caso di esito positivo, è la prima delle due ricevute a determinare il momento del deposito.


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Una diversa prospettiva tocca il conosciuto dibattito sull’applicazione dell’art. 155 c.p.c. anche ai termini che scadono a ritroso. Come noto, l’art. 155 c.p.c. posticipa i termini che scadono il sabato, nulla statuendo per i termini a ritroso (come, nel nostro processo, quelli fissati dall’art. 32 d.lgs. 546/1922). La ratio di questo differimento viene normalmente rinvenuta nella difficoltà (o nell’impossibilità) dell’accesso alle segreterie nei giorni di sabato. Ora, in un processo telematico non si può sostenere che l’accesso sia difficile: l’art. 155 c.p.c. perde di significato tout court. Poiché il sabato non è giorno festivo, non esiste altresì alcuna ragione di tutela del riposo dei difensori. Ne deriva che mi sembra possibile, non potendo offrire un’interpretazione abrogatrice dell’art. 155 c.p.c. in generale, almeno limitarne l’applicazione per i termini a ritroso: pare quindi legittimo depositare memorie e documenti anche nel giorno di sabato tramite la piattaforma digitale. 4. Imperscrutabilità tecnologiche e strumentalità delle forme. 4.1. – Cosa si debba intendere per forma degli atti processuali è domanda che ha occupato (e occupa) generazioni di processualisti. In questo lavoro, si vuole accogliere la nozione più ampia e più accreditata di forma processuale, ossia di modo attraverso cui l’atto viene estrinsecato: attengono alla forma tutte le disposizioni che dettano i modi di esternazione dell’atto, comprese le disposizioni che attengono ai contenuti necessari dell’atto processuale (37). Accolta questa definizione, emerge subito come il corpus normativo che ha introdotto il processo tributario telematico sia soprattutto un insieme di regole formali: vengono dettati nuovi caratteri che l’atto deve possedere, per essere introdotto nel processo e per potersi dire appartenente ad esso (38). Queste disposizioni, dettate per la forma telematica, si sommano alle altre disposizioni, riguardanti la forma-contenuto, che si ritrovano nel d.lgs.

(37) Sulla forma degli atti processuali, senza nessuna pretesa di completezza, ma come semplice prima indicazione bibliografica: G. Chiovenda, Le forme nella difesa giudiziale del diritto, in Id., Saggi di diritto processuale civile, Roma, 1904; E. Redenti, voce Atti processuali civili, in Enc. Dir., IV, Milano, 1959, 105 ss.; Oriani, voce Atti processuali (dir. proc. civ.), in Enc. Giur., III, Roma, 1988; V. Denti, voce Procedimento civile (atti del), in Dig. disc. civ., XIV, Torino, 1996, 554 ss. (38) Sulla natura formale dei nuovi requisiti richiesti agli atti per i processi telematici cfr. P. Comoglio, Processo civile telematico e codice di rito. Problemi di compatibilità e suggestioni evolutive, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2015, 953 ss., spec. 958; F. Ferrari, Il processo telematico alla luce delle più recenti modifiche legislative, in Dir. Inf., 2015, 987.


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546/1992 e che non ne restano pregiudicate (p.e. l’art. 18 d.lgs. 546/1992) (39). Le forme del processo telematico appartengono, infatti, alla categoria della forma pura, essendo rare le ipotesi di forma-contenuto (40). Trattandosi di requisiti informatici, incentrati in particolare sui formati dei file, si può (forse scherzosamente) notare che, alla stringente tassatività delle forme processuali, si è aggiunta la nuova rigidità dei formati. 4.2. – Innanzitutto, al “rispetto dei formati descritti nel successivo art. 10” presidia il S.I.Gi.T. (sistema su cui si spenderà qualche riflessione, al § 5): così dispone l’art. 5 d.m. 4/8/2015: il che segnala anche una correlazione tra il modo informatico di formazione dell’atto e il modo automatizzato del controllo di essi. La disposizione cardine risulta proprio l’art. 10 d.m. 4/8/2015 che, sprezzante del termine “forma”, probabilmente ritenuto vetusto, detta quello che la rubrica definisce lo “standard” degli atti processuali. Lo “standard” evocato dalla disposizione non è altro che pura forma. Va messo in evidenza come il d.m. 4/8/2015 attribuisca un valore fondamentale ad una distinzione assai ambigua, ossia quella tra “atti” e “documenti” processuali, attribuendo a queste due classi una diversa richiesta di requisiti. Ora, la definizione di atti processuali è quantomai ambigua (41) e, in prospettiva classificatoria, certamente anche i “documenti” sono atti processuali, in quanto provengono da una parte e sono frutto di una manifestazione di volontà. Se nel d.lgs. 546/1992 la distinzione atti/documenti, seppure non cristallina dal punto di vista teoretico, è comunque funzionale alla individuazio-

(39) Peraltro, alcune piccole parti dei requisiti formali dell’atto, imposti dall’art. 546/1992, si sovrappongono a quelle dettate per il processo telematico (p.e., l’art. 18 citato nel testo richiede l’indicazione della p.e.c. (per le comunicazioni di segreteria), che per il processo telematico resa obbligatoria con la diversa funzione di elezione di domicilio digitale): sarà necessario, a regime, un intervento di maquillage normativo, teso a riportare un poco di ordine concettuale ad un testo che sembra male sopportare addizioni progressive. (40) Sul nodale concetto di forma contenuto, il richiamo bibliografico obbligatorio è a F. Carnelutti, Sistema del diritto processuale civile, vol. II, Padova, 1938, 168. Nel nostro processo telematico, alla forma-contenuto riterrei di ricondurre, al più, l’obbligo di indicazione di conformità della procura, come descritta sopra alla nota 21 e testo corrispondente. (41) Riconduce agli atti processuali ogni manifestazione di volontà espressione di un soggetto processuale (giudice, parti, ufficiali giudiziari), con approccio tendenzialmente critico sulla tenuta della categoria E. Redenti, voce Atti processuali civili, in Enc. Dir., vol. IV, Milano, 1959, 108 e 113; sull’ambiguità della categoria cfr. anche R. Oriani, voce Atti processuali (dir. proc. civ.), in Enc. Giur., vol. III, Roma, 1988, 1.


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ne di procedimenti ad hoc per la produzione dei “documenti”, con il d.m. 4/8/2015 si richiede invece all’interprete di tracciare una netta linea tra i due tipi di atti processuali, in quanto ad essi spettano due classi di requisiti formali differenti. La scelta maggiormente neutrale dal punto di vista interpretativo sembra quella di mantenere la distinzione presente già in nuce nel d.lgs. 546/1992: in particolare gli artt. 22, 23, 24, 32 contengono una distinzione tra gli atti rivolti al giudice e contenenti le diverse domande (“atti” in senso proprio) e gli atti che costituiscono il supporto probatorio di tali domande (“documenti”). “Atti” e “documenti” si distingueranno allora per l’oggetto (a seconda che contengano o meno una domanda o comunque un’argomentazione rivolta al giudice) e della funzione (a seconda che abbiano o meno una funzione di sostegno probatorio rispetto ad altri atti). La forma degli atti processuali telematici si caratterizza per cinque componenti: (1) una componente concerne il formato del file, ossia il modo di codificazione delle informazioni: il file deve essere in formato PDF/A-1a o in PDF/A1b; (2) una componente tocca le caratteristiche dinamiche: il file deve essere privo di elementi attivi; (3) una componente si riferisce al modo di fruizione attiva: il file deve consentire “le operazioni di selezione e copia”; (4) una componente riguarda le dimensioni del file: al momento i file non possono superare i 5 MB; (5) una componente che attiene alla sicurezza: il file non deve essere affetto da virus informatici; (6) un’ultima componente concerne la necessità che il file sia firmato con firma digitale. I documenti prodotti nel processo, che non siano considerati atti processuali (nel senso indicato sopra), debbono comunque essere immodificabili e firmati, ma non devono possedere il requisito previsto per la fruizione attiva e, quanto al formato, possono assumere anche la forma dei file TIFF (42).

(42) I file TIFF, come richiesto dall’art. 10 cit., debbono avere un ulteriore requisito, ossia “una risoluzione non superiore a 300 DPI, in bianco e nero e compressione CCITT Group IV (modalità Fax)”.


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4.3. – Per potere adeguatamente valutare queste forme, anche alla luce degli artt. 121 e 156 c.p.c. (43), occorre prima di tutto attribuire loro uno scopo, nella considerazione vuoi dell’atto in sé, vuoi della scansione processuale nella quale l’atto processuale si inserisce. Proprio su questo punto nodale, va notata una certa lacunosità delle disposizioni legislative e regolamentari. Nell’ordito indicato sopra al § 2 si ritrova qualche indicazione utile, ma mancano certamente le disposizioni di principio. Sembra che il legislatore abbia creduto che queste disposizioni formali fossero da relegare in un ambito tecnico, tendenzialmente neutro. Il che è profondamente errato: queste forme rispondono ad un disegno complessivo, magari non preciso, magari non raffinato, ma pur sempre esistente e unificante le diverse le disposizioni sul processo telematico; le nuove forme telematiche, quindi, vanno ascritte al quadro concettuale che è loro proprio, per comprendere quale sia la sorte dell’atto che non rispetti queste forme. Proviamo ad analizzare le diverse componenti nell’ordine in cui sono state esposte poco sopra al § 4.2. (1) La prima componente attiene al formato, che deve rispondere al modello dei file PDF/A. Questo tipo di file è una variante di un ben noto tipo di file (PDF, Portable document format), descritto in uno standard ISO e teso a garantire l’archiviazione nel lungo periodo (44). In maniera coerente con lo strumento tecnico adottato, all’art. 1 d.m. 4/8/2015 questo formato viene ricollegato proprio alla “archiviazione nel lungo periodo” (art. 1 lett. h). La stessa disposizione, alle lettere (i) e (j) distingue i PDF/A-1a e PDF/A-1b, ricollegando al primo l’aderenza “completa” allo standard ISO indicato sopra, con particolare riferimento “alle proprietà strutturali e semantiche di documenti” e riconnettendo al secondo un’aderenza “minima” allo standard che consente comunque una riproduzione identica del documento nel lungo periodo. In questa prospettiva, il primo requisito formale è allora ben comprensi-

(43) Sui modi di applicazione dell’art. 156 c.p.c. al processo telematico cfr. E. Zucconi Galli Fonseca, L’incontro tra informatica e processo, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2015, 1185 ss. (44) Standard ISO 19005-1, “Electronic document file format for long-term preservation”, così descritto dalla International Organization for Standardization: “ISO 190051 specifies how to use the Portable Document Format (PDF) 1.4 for long-term preservation of electronic documents. It is applicable to documents containing combinations of character, raster and vector data”.


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bile: si vuole che i file abbiano una struttura interna tale da garantire la loro esistenza e la conoscibilità del loro contenuto per tutta la vita processuale. (2) La seconda componente concerne la mancanza di elementi attivi nel file (45). Elementi attivi sono quelli che rendono variabile il contenuto del file a seconda del contenuto di fonti esterni, cui il file richiama. Ciò risponde al principio di immutabilità dell’atto processuale (46) e non sembra destare particolari questioni nell’individuazione della ratio. (3) La terza componente riguarda la possibilità di effettuare le operazioni di seleziona e copia (forma richiesta per gli atti e non per i documenti). Questo elemento formale è teso a facilitare la redazione degli atti da parte delle altre parti e -soprattutto- dei provvedimenti da parte del giudice. Quando il file (“nativo digitale”) consente la ricerca testuale, l’opera intellettiva delle parti e del giudice può essere più rapida; così come più rapida è l’opera di citazione delle posizioni delle diverse parti, quando è possibile copiare direttamente i testi dagli atti processuali per poi incollarli sul proprio redigendo documento. (4) La quarta componente riguarda la dimensione massima del file, che non può superare un certo numero di MB (oggi 5 MB). Questo requisito formale non tocca certamente la fruibilità del documento da parte del giudice o delle parti: ordinariamente i programmi informatici gestiscono file di ben maggiori dimensioni. La richiesta del rispetto di queste dimensioni (peraltro di molto inferiori a quanto richiesto dal processo civile telematico (47)) rispondono ad esigenze di archiviazione interne al S.I.Gi.T., che non sono state mai chiarite. (5) La quinta componente tocca la non dannosità del file: il file non deve essere affetto da virus informatici. La ratio è quella di garantire la sicurezza del sistema: si vuole evitare che altri file, o la struttura del S.I.Gi.T. siano infettati e compromessi nella loro funzionalità. (6) La sesta componente è data dalla necessaria apposizione al file di una firma digitale (requisito richiesto sia per gli atti che per i documenti).

(45) La mancanza di elementi attivi trova la propria radice negli artt. 11 e 12 d.m. 21/2/2011, n. 44 (specifiche tecniche per il p.c.t.). (46) Per riferimenti alla aspirazione a durevolezza e stabilità del documento, cfr. G. Di Benedetto - S. Bellano, I linguaggi del processo, Milano, 2002, spec. 126-127 dove si ricordano alcuni riferimenti all’evoluzione dei divieti nella formazione dei documenti (p.e. i divieti di redigere i documenti tramite l’uso di macchine dattilografiche). (47) Il limite di peso della “busta” nel p.c.t. è oggi di 30 MB.


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Questo elemento formale è quello di più complessa decifrazione. La firma digitale garantisce la provenienza dell’atto da un ben individuato soggetto (art. 24 cod. amm. digit.). L’apposizione della firma digitale consente di mantenere l’integrità del file (48): una volta firmato il documento, ogni modifica al file non consentirà più di verificare la firma apposta in precedenza. L’apposizione di una firma digitale, nella prospettiva del Codice dell’amministrazione digitale, tende, poi, a risolvere i problemi dell’efficacia probatoria al documento cui la firma è apposta: ex art. 21 c. 2 cod. amm. digit. il documento cui è apposta la firma digitale assume la stessa valenza probatoria della scrittura privata. Quindi, si potrebbe ritenere che la sottoscrizione con firma digitale abbia una triplice funzione: (a) sia tesa a garantire la provenienza dell’atto o del documento; (b) sia orientata a garantire l’integrità del file; (c) sia diretta a risolvere la questione dell’efficacia probatoria dei documenti presentati. Nessuna delle tre rationes sembra completamente soddisfacente. La sottoscrizione non può essere adoperata come strumento di provenienza univoca dell’atto processuale. O meglio, questa funzione può essere ricollegata alla sottoscrizione degli atti processuali, per cui è necessaria un’assunzione di provenienza dal difensore munito di procura; non funziona per nulla per i documenti: la sottoscrizione da parte del difensore dell’avviso di accertamento depositato in giudizio non cambia certamente la provenienza dell’atto amministrativo dall’ente impositore. La sottoscrizione non sembra, poi, poter essere lo strumento unico di garanzia dell’integrità del file. Non si può negare che il file sottoscritto digitalmente garantisca l’immutabilità del documento processuale, per come descritto sopra. Va, però, notato che è il S.I.Gi.T. stesso che (correttamente) non consente la sostituzione di un documento depositato con altro documento, o la modifica di un documento depositato (49). Il sistema informatico consente di

(48) Il principio di integrità appartiene per definizione alla firma digitale: ex art. 1 c. 1 lett. (s) cod. amm. digit.: “firma digitale: un particolare tipo di firma qualificata basata su un sistema di chiavi crittografiche, una pubblica e una privata, correlate tra loro, che consente al titolare tramite la chiave privata e al destinatario tramite la chiave pubblica, rispettivamente, di rendere manifesta e di verificare la provenienza e l’integrità di un documento informatico o di un insieme di documenti informatici”. (49) Si noti che ogni accesso al fascicolo informatico viene registrato dal sistema, con l’indicazione del soggetto che ha effettuato l’accesso e alle operazioni effettuate (art. 12 d.m. 4/8/2015).


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effettuare l’upload del file (deposito), il download del file (estrazione di copia) e niente d’altro: non è possibile per il difensore rimuovere uno dei file depositati o modificarlo, salvarlo e lasciarlo collocato nel fascicolo elettronico. La sottoscrizione digitale, infine, non può essere diretta a regolare l’efficacia probatoria dei documenti depositati. La disposizione che sembrerebbe utile a dare spiegazione della ratio è l’art. 22 cod. amm. digit., che potrebbe essere applicato (analogicamente), nella parte in cui conferisce piena efficacia alle copie informatiche di originali analogici (50). Vi è, però, più di un difetto in questa linea interpretativa, che individua lo scopo nell’attribuzione di efficacia probatoria. Intanto, la disposizione sarebbe applicabile solo al deposito di documenti (perché per gli atti in senso proprio non si pone una questione di efficacia probatoria, ma al più di conformità rispetto a quanto notificato); poi, perché per il processo tributario resta vigente (nel quadro descritto al § 2) l’art. 22 c. 4-5 che legittima l’uso di copie, senza necessità di attestazioni di conformità (51). In definitiva, non sembra chiaramente univoco lo scopo dell’apposizione della firma digitale, che al più può essere scomposto come segue: per gli atti lo scopo è quello di garantire la provenienza dal difensore abilitato, per atti e documenti congiuntamente lo scopo è quello di garantire l’immutabilità dell’atto processuale, scopo peraltro raggiunto autonomamente dal sistema informatico di gestione del processo, indipendentemente dalla presenza di una firma. 4.4. – Individuato, più o meno nitidamente, lo scopo delle forme richieste dal rito telematico, merita procedere alla trattazione dei vizi degli atti processuali che non rispettino queste forme.

(50) Art. 22 c.1 cod. amm, digit.: “I documenti informatici contenenti copia di atti pubblici, scritture private e documenti in genere, compresi gli atti e documenti amministrativi di ogni tipo formati in origine su supporto analogico, spediti o rilasciati dai depositari pubblici autorizzati e dai pubblici ufficiali, hanno piena efficacia, ai sensi degli articoli 2714 e 2715 del codice civile, se ad essi è apposta o associata, da parte di colui che li spedisce o rilascia, una firma digitale o altra firma elettronica qualificata. La loro esibizione e produzione sostituisce quella dell’originale.” (51) Cfr. in giurisprudenza Cass. civ. Sez. VI - 5 Ordinanza, 27/04/2015, n. 8446, dove si mette in luce che le parti possono liberamente introdurre nel giudizio le copie ed è onere della parte processuale contestare ex art. 2712 cod. civ. la conformità del documento rispetto all’originale. Si noti che l’art. 136 c. 2-ter cod. proc. ammin. richiede l’attestazione di conformità della copia digitale rispetto al documento analogico: una soluzione, quindi, intermedia: non si rende necessaria la firma dell’intero documento, ma solo di un’attestazione di conformità.


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Prima di affrontare tale questione, occorre, però, mettere in luce un altro profilo di un certo interesse. Sinora, si è sviluppato un percorso logico-ricostruttivo tradizionale: si sono descritte le forme, se ne è individuato uno scopo, per poterle valutare alla luce dell’art. 156 c.p.c. Ciò presuppone che l’atto, eventualmente mancante di forma prescritta, venga introdotto nel processo, portato all’attenzione del giudice e questi decida se l’atto possa ritenersi efficace (perché lo scopo è stato raggiunto), o meno. Il processo tributario telematico presenta, però, un assetto differente, che si sostanzia in questo: alcuni vizi formali comportano che l’atto non possa giungere ad essere valutato dal giudice. L’atto formalmente carente viene fermato prima dell’accesso nel sistema: non può essere ritualmente depositato. La struttura telematica della valutazione della forma degli atti tende, infatti, a creare una barriera preventiva, costruita intorno al concetto di “errore bloccante” (52). Se ne descrive la parte dinamica (art. 8 d. m. 4/8/2015): la parte processuale provvede ad effettuare la trasmissione degli atti e dei documenti tramite il S.I.Gi.T.; il sistema compie le verifica sulla forma, sub specie del controllo antivirus, verifica di dimensione ed integrità file, sussistenza della firma e sua validità, controllo dei formati (come descritto al § 3.5); se queste verifiche – escluse quelle del controllo dei formati – portano ad un esito negativo, il S.I.Gi.T. non acquisisce atti e documenti, comunicandolo alla parte (53). Il S.I.Gi.T. ha, quindi, un potere di rifiuto degli atti processuali, ben più ampio di quello desumibile per le cancellerie “analogiche” dagli artt. 46, 73, 74 disp. att. cod. proc. civ. (54).

(52) L’espressione “errore bloccante” non compare nei decreti ministeriali (che preferiscono nominare le “anomalie in fase di trasmissione”), ma viene ampiamente adoperato dalla circolare interpretativa, che lo mutua dalla prassi in materia di trasmissione telematica delle dichiarazioni. (53) Ex art. 8 c. 7, se l’anomalia riguarda solo i documenti, viene rifiutato il deposito solo di questi: con l’effetto per cui se l’atto processuale (con documenti allegati) è un atto di costituzione in giudizio, il sistema concederà l’iscrizione a ruolo, con deposito del solo atto. (54) L’accettazione del cancelliere implica la regolarità nella produzione degli atti (Cass. civ. Sez. VI - 5, 18/06/2015, n. 12670); il rifiuto è possibile solo nel caso di atti che violino l’art. 46 disp. att. proc. civ., oppure ove manchino le copie previste ex lege degli atti (art. 73 disp. att. proc. civ.). Se si adotta la definizione, secondo cui atto processuale è tutto ciò che dispiega effetti in relazione al rapporto processuale (cfr. V. Denti, Procedimento civile (atti del), in Dig. disc. civ., XIV, Torino, 1996, 553), anche il rifiuto è un atto processuale.


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Non si tratta di una differenza di poco conto e, come altri profili di rilievo in materia di processo telematico, merita metterne in luce la non neutralità: non si tratta di semplici opzioni tecnologiche, ma di attribuzione di (nuovi) poteri processuali, il cui cattivo esercizio deve essere bilanciato da un qualche altro potere in capo al giudice o alle parti. Premesso che appare certamente inopportuna (e forse anche illegittima) l’attribuzione di poteri amministrativi ulteriori al di fuori di ogni base legislativa, va notato che la spersonalizzazione tramite sistemi informatici comporta anche una deresponsabilizzazione: il personale di segreteria di Commissione tributaria che rifiuti indebitamente un atto regolare, impedendo una costituzione a ruolo può integrare, con il suo rifiuto, il reato di cui all’art. 328 cod. pen.: nel caso del S.I.Gi.T., invece, il rifiuto proviene da un sistema apparentemente impersonale e la funzione di prevenzione della disposizione penale viene elusa. L’ampliamento del potere di rifiuto non è l’unico nuovo potere attribuito al sistema. L’art. 5 d.m. 4/8/2015, con una formulazione lessicalmente improvvida, indica che il sistema conserva solo gli atti perfettamente regolari (art. 5 c. 8), mentre ciò che non è conforme potrebbe essere sì registrato (55), ma poi potrebbe essere rimosso o divenire (non si sa bene come) irreperibile (56). Vi sono, quindi, atti che non vengono rifiutati al primo controllo (in quanto l’errore di formato non comporta il blocco), ma che vengono inseriti nel sistema e che poi da questo potrebbero sparire, secondo dinamiche sconosciute. Questi poteri di rifiuto e di rimozione trascendono ciò che può essere fatto valere nella logica dell’art. 156 cod. proc. civ., che, come visto sopra, presuppone che l’atto arrivi alla percezione del giudice. Sembra necessario, quindi, che – accanto ad una valutazione conservativa degli scopi ex art. 156 cod. proc. civ. e di un’ampia estensione dell’area appli-

(55) Ne è caso emblematico l’atto inserito a sistema, ma irregolare nel formato (errore non bloccante), su cui ancora oltre. (56) La formulazione dell’art. 5 cit. è incentrata sulla voce verbale “garantire”: “Il S.I.Gi.T. garantisce”, “Il S.I.Gi.T. non garantisce”. Ora, premesso che “garantire” implica in genere un rapporto soggettivo, in questo frangente non chiaro (garantisce nei confronti di chi? del giudice? delle parti processuali tutte? chi ha tutela giurisdizionale per la violazione di questo obbligo?), l’espressione è massimamente ambigua: se il sistema “non garantisce” la reperibilità, significa che -per imperscrutabili ragioni tecniche- l’atto potrebbe essere rimosso, come ho suggerito nel testo? O, piuttosto, che l’atto potrebbe non essere più consultabile per un mutamento della tecnologia esterna al S.I.Gi.T., che renderebbe le parti non più in grado di prendere percezione del documento? E se quest’ultima è l’interpretazione corretta, la disposizione era necessaria?


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cativa della rinnovazione (come si specificherà oltre) (57) – si ipotizzi un utilizzo quasi creativo della rimessione in termini (specificata più avanti) (58): la scusabilità dell’errore in quest’ultima prospettiva diverrebbe l’impossibilità di adempiere a richieste di forme telematiche opache e scarsamente comprensibili. 4.5. – Tornando alle ricadute degli atti che non rispettano le forme telematiche, si possono formulare alcune considerazioni, che tendenzialmente seguono l’ordine di esposizione delle forme adottato sopra al § 4.3. (a) Quanto al formato del file, si possono ipotizzare diverse patologie. In primo luogo, possiamo ipotizzare che il file sia in formato non corrispondente rispetto alla richiesta regolamentare. L’errore di formato non compare tra quelli che impediscono il deposito dell’atto (errore “non bloccante”), ai sensi degli artt. 7-8 d.m. 4/8/2015. Peraltro, non è garantita la conservazione di questi atti che, per le loro caratteristiche tecniche non sono idonei alla conservazione di lungo periodo (come descritto sopra). In questo caso, occorre evitare un irrigidimento, distinguendo due fattispecie: se il file, per il formato assunto, non è idoneo a rappresentare il proprio contenuto (e quindi sia il giudice sia le parti non possono apprenderne le informazioni contenute), certamente l’atto sarà radicalmente nullo; se, invece, il file (p.e. in formato PDF non A) è in grado di rappresentare integralmente il proprio contenuto e si pone solo un problema di permanenza nel lungo periodo, mi pare che la soluzione più rispettosa del principio di conservazione sia quella di auspicare che il giudice ordini la rinnovazione dell’atto, in un formato conforme alle prescrizioni tecniche (59). Se l’ordine di rinnovazione mancasse e, nonostante ciò, l’atto continuasse a restare consultabile nel fascicolo elettronico (pur nel formato errato), avremmo comunque un raggiungimento dello scopo (conservazione) (60).

(57) Come notato ora, la rinnovazione ex art. 162 c.p.c. presuppone che il giudice possa conoscere l’atto, per pronunciare l’ordine di rinnovazione: è quindi ipotizzabile una estensione dell’istituto agli errori “non bloccanti”, mentre per gli errori “bloccanti”, questo appare più arduo. (58) Come già notato nel processo civile telematico: P. Pucciariello, Obblighi di deposito telematico: tra nuovi formalismi e regole di validità degli atti processuali, in Corr. giur., 2016, 1291 ss. (59) La rinnovazione, anche nel processo telematico, si accompagna al rispetto della condizione (implicita) di conformità, quanto ai contenuti, dell’atto rinnovato all’atto originario (conformità contestabile ex parte adversa, tanto che se l’atto risultasse non conforme, si potrebbe dire mancante la regolarizzazione e quindi inefficaci tanto l’atto originario, quanto l’atto rinnovato). (60) Una soluzione garantista e conservativa, come quella proposta, è rafforzata anche


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In secondo luogo, possiamo ipotizzare che il file di un atto rispetti la forma del PDF/A, ma non consenta le operazioni di selezione e copia (requisito indicato sopra al § 4.3 sub 3). Questo è un tema già ampiamente trattato con riguardo al processo civile telematico, ove si fronteggiano due linee di pensiero: da una parte vi è chi ritiene che la funzione di selezione e copia non costituisca elemento essenziale dell’atto e dall’altra chi ritiene che questo requisito formale sia invece necessario per il raggiungimento di uno scopo (61). Come visto sopra, le operazioni di selezione e copia facilitano l’opera degli altri soggetti del giudizio e tale obiettivo non viene raggiunto con una copia immagine. Il punto è, però, che tale scopo, soppesato nella valutazione con altri principi (conservazione degli effetti degli atti ed esplicazione del diritto di difesa, su tutti) non sembra degno di tutela prevalente: può essere al massimo valutato come parte del comportamento processuale (non cooperativo), ma non se ne può far discendere alcuna invalidità dell’atto. (b) Quanto alla carenza di elementi attivi, l’atto va certamente dichiarato nullo in quanto contravviene al principio di immutabilità dell’atto processuale (62). L’attenzione, in questa fattispecie, va richiamata piuttosto su cosa si debba intendere per elemento attivo: una definizione coerente con la funzione porta a ritenere tale qualsiasi componente del file idonea a mutare materialmente il contenuto lessicale dell’atto sulla base di un riferimento esterno. Quindi non debbono essere considerati elementi attivi: i link a risorse esterne, i link a indirizzi mail (certificati o meno), i riferimenti interni ad altre parti del documento. (c) Il rispetto delle dimensioni del file, come visto sopra, risponde ad imperscrutabilmente opache esigenze gestionali del sistema. Ci si trova qui dinanzi ad un errore “bloccante” che – quando affligge l’atto principale – impedisce l’iscrizione a ruolo (art. 7 c. 6 d.m. 4/8/2015). In questo caso, una possibilità di regolarizzazione (rectius: rinnovazione) su invito del giudice è astrattamente ipotizzabile (e sostenibile, considerata la

dalla scarsa chiarezza dei codici di errore: le parti possono sapere solo che l’errore (“codifica delle anomalie di trasmissione”) è un errore di “formato non conforme”, senza sapere di preciso quale delle innumerevoli variabili, che distinguono un PDF/A da altri formati non ammessi, sia difettosa nel caso concreto. (61) Su questa tema cfr. N. Gargano, Processo telematico e formalismo digitale alla vigilia dell’obbligatorietà del 31 dicembre 2014, in Ciberspazio e dir. 2014, 189 ss., che esclude che il vizio possa condurre a nullità; (62) Sul concetto collaterale di integrità e immodificabilità del documento informatico cfr. art. 21 cod. amm. digit.


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debole funzione del requisito), ma praticamente più complessa: in primo luogo, perché mancando in radice l’iscrizione a ruolo, il giudice non viene a conoscenza della problematica; in secondo luogo, poiché se il S.I.Gi.T. non acquisisce il file (ex art. 7 cit.), diventa assai complesso rilevare la conformità di un nuovo file rispetto al file originario (che la controparte non ha mai avuto modo di conoscere). Esiste, quindi, il rischio di un ostacolo iper-formale, non sostenuto da una funzione degna di tutela, che impedisce l’accesso al processo: nell’attesa di un intervento normativo che riduca l’impatto del vizio, si può ipotizzare un utilizzo conservativo della rimessione in termini (sempre che la parte processuale che è incappata nel vizio possa provare, in qualche modo, la conformità contenutistica del file regolare con quello originario, bloccato dal sistema). (d) Alla stessa dinamica soggiace il requisito della carenza di virus. Qui la componente valoriale della funzione è infinitamente più forte: la presenza di un virus può compromettere non solo i documenti del processo in cui è depositato il file affetto, ma anche quelli di altri processi conservati sui medesimi server. La difficoltà di ipotizzare una regolarizzazione condivide però le stesse ragioni indicate sopra: risulta difficile, se non impossibile, verificare la conformità contenutistica di un nuovo file rispetto al file originale, quando il file originale sia affetto da virus e quindi potenzialmente pericoloso nella sua apertura e nella sua esecuzione. (e) Infine, merita affrontare il trattamento del file carente di firma digitale. Sopra si è messa in luce l’ambiguità della funzione del requisito. Se si vuole far prevalere la funzione di mantenimento dell’integrità del file, è ben ipotizzabile un ordine di regolarizzazione, senza problemi quanto alla verifica della conformità (la regolarizzazione è particolarmente auspicabile per il deposito di documenti, perché, come visto sopra, la sottoscrizione dei documenti non costituisce di certo attestazione di provenienza). Se, invece, si ritiene che possa prevalere la funzione di attribuzione “genetica” del documento al difensore (per gli atti processuali, non per i documenti), allora si potranno mutuare tutte le soluzioni ordinariamente adottate per il processo analogico, quanto a validità ed efficacia dell’atto non sottoscritto (anche e soprattutto rispetto alla firma dell’atto già nella fase di notificazione). È presente anche in questo caso, come evidenziato sopra, la difficoltà costituita dalla mancata acquisizione del file da parte del sistema (in quanto in presenza di errore “bloccante”) e della mancata iscrizione a ruolo nel caso di atto introduttivo del giudizio.


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4.6. – È necessaria una precisazione quanto ad un’ambiguità che potrebbe trarre origine da quanto rilevato ora. Gli istituti tipici della rinnovazione su impulso giudiziale e della rimessione in termini sono certamente applicabili al processo telematico secondo le regole ordinarie: sopra se ne sono prefigurate alcune ipotesi. Per la rimessione in termini, resta da comprendere quanto strettamente i giudici adotteranno il concetto di colpa scusabile, in relazione all’errore “informatico” commesso (63): da ciò dipende l’area di concreta applicazione dell’istituto. Strutturalmente diverso è, invece, l’istituto disciplinato dagli artt. 7 c. 7 e 8 c. 7 del d.m. 4/8/2015. Tali disposizioni prevedono che, in caso di anomalie “bloccanti” sugli “allegati all’atto principale” (ricorso e atto di costituzione del resistente; ma per estensione di cui all’art. 9 anche i documenti depositati prima dell’udienza), il S.I.Gi.T. non acquisisca i file, con comunicazione al difensore, “con invito a provvedere ad un nuovo deposito dei file non acquisiti.”. Questa comunicazione non istituisce un nuovo potere di regolarizzazione. Si tratta di una comunicazione tesa a rendere trasparente il percorso di valutazione della regolarità compiuto dal S.I.Gi.T.. Se il primo deposito (tempestivo) è invalido, per mancato rispetto delle forme, non sarà questa comunicazione a rendere efficace un deposito valido, se effettuato oltre il termine decadenziale (i.e. questa comunicazione non è assimilabile ad una rimessione in termini, in quanto -tra l’altro- non è atto che proviene dal giudice). 5. Giudici, segreterie, sistemi informatici: chi governa il processo? 5.1. – La spersonalizzazione implica di solito una deresponsabilizzazione (come accennato sopra al § 4). O meglio, la scomparsa dei soggetti agenti implica una maggiore opacità nella ricerca delle responsabilità e dei poteri di controllo. Il tema è ben conosciuto nell’esperienza giuridica (basti pensare

(63) Sul punto vds. A. Barale, Il processo esecutivo telematico, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2016, 960-961, ove si nota che la mancanza di simultaneità tra deposito e controllo può intensificare questo problema; l’A. limita la rimessione alle sviste non colpevoli in chiave restrittiva (si può dire, in questa prospettiva, che il difensore debba necessariamente conoscere anche la tecnica informatica necessaria alla notificazione e al deposito telematico, come parte della diligenza professionale ordinaria); più permissiva altra posizione fondata sull’opportunità di applicare ampiamente la rimessione in termini “per combattere la guerra contro la prepotenza dell’elaboratore”: E. Zucconi Galli Fonseca, L’incontro tra informatica e processo, cit.


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a tutti i fenomeni di imputazione della responsabilità sanzionatoria) e viene accentuato dalla tecnologia. Questa premessa introduce uno dei temi più interessanti nel processo telematico: il ruolo ed il governo del S.I.Gi.T. Il S.I.Gi.T. compare nelle definizioni del d.m. 163/2013: all’art. 1 lett. (g) esso viene definito come “l’insieme delle risorse hardware e software mediante il quale viene trattato in via informatica e telematica qualsiasi tipo di attività, di dato, di servizio, di comunicazione e di procedura, relativo all’amministrazione della giustizia tributaria”. Un rassicurante e anodino insieme di risorse tecnologiche: questo è il S.I.Gi.T. nella visione dei redattori dei regolamenti. Se guardiamo alle funzioni, descritte dall’art. 3 d.m. 163/2013, si scorge come l’attività del S.I.Gi.T. sia tendenzialmente sovrapponibile a quella delle segreterie delle Commissioni per il processo cartaceo: si cura della ricezione degli atti e del rilascio delle rispettive attestazioni (64). Curiosamente, tra le funzioni elencate espressamente dall’art. 3 cit. non è presente la conservazione del fascicolo, che emerge, invece, come una funzione centrale nel sistema del codice dell’amministrazione digitale. Solo nel d.m. 4/8/2015 compare una funzione assimilabile alla conservazione, perché all’art. 5 n. 8 si precisa che il S.I.Gi.T. garantisce la “la leggibilità e la reperibilità degli atti e dei documenti informatici conformi ai requisiti indicati nell’art. 10”. Si tratta, però, di una mera imprecisione classificatoria e non di una scelta esplicita, perché la funzione di conservazione chiaramente spetta al sistema (e non più alle segreterie) (65). Da questa rassegna di funzioni, emerge come il S.I.Gi.T. costituisca il vero primattore del processo telematico, da cui dipendono funzionalità e patologie:

(64) Questo l’elenco delle funzioni attribuite al S.I.Gi.T. dall’art. 3 cit: “1. Il Sistema Informativo della Giustizia Tributaria assicura: a) l’individuazione della Commissione tributaria adita; b) l’individuazione del procedimento giurisdizionale tributario attivato; c) l’individuazione del soggetto abilitato; d) la trasmissione degli atti e documenti alla Commissione tributaria competente; e) la ricezione degli atti e documenti da parte della Commissione tributaria competente; f) il rilascio delle attestazioni concernenti le attività di cui alle precedenti lettere d) ed e); g) la formazione del fascicolo informatico.” (65) L’attribuzione della funzione di conservazione al S.I.Gi.T. è desumibile per implicito dall’analisi di altre disposizioni, come quelle che attribuiscono al sistema la cura della trasmissione dei documenti tra i componenti del collegio (art. 16 d.m. 163/2013) o la trasmissione dei fascicoli alla Commissione regionale (art. 18 d.m. 163/2013). L’art. 14 del d.m. 163/2013 attribuisce alle segreterie l’obbligo di formare il fascicolo, in un’operazione di abbinamento, ma chiaramente non è nel potere (e nei mezzi tecnologici) della singola segreteria la conservazione, che resta ineluttabilmente in capo al sistema centrale.


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merita quindi una collocazione sistematica ponderata, tanto più che le tecnologie difficilmente sono neutrali e autogovernate (66). 5.2. – In un sistema classico (analogico) il governo del rito processuale dipende dal rapporto tra giudici e cancellerie (per il processo tributario: segreterie). Il rito, anche nelle sue specificità locali, dipende da come i giudici riescono ad interagire con le segreterie, da come e quanto i giudici organizzano la micro-regolazione degli adempimenti, da come e quanto le segreterie collaborano con i giudici (67). Tra giudici e segreterie c’è una contiguità fisica e relazionale. Il S.I.Gi.T. si inserisce in questo contesto, con un effetto dirompente. In primo luogo, non vi è più contiguità tra i giudici e il soggetto che cura gli adempimenti. Il S.I.Gi.T. è elaborato altrove, lontano dai giudici e non si presta ad adeguamenti per “riti locali”; il S.I.Gi.T. non è governato dal Presidente della Commissione, ma da altri soggetti (di cui si dirà infra), su cui al momento i giudici non possono influire. Il S.I.Gi.T. assume alcuni poteri processuali (visti sopra, al § 4) che i giudici non possono controllare, ma a cui possono solo cercare di porre rimedio. In secondo luogo, il S.I.Gi.T. si pone come struttura tecnologica avanzata al fianco di un giudice al momento non professionale, che potrebbe non possedere una dotazione tecnologica d’ufficio adeguata rispetto alle richieste che il sistema pone. In terzo luogo, a differenza di quanto avviene nel processo civile, il S.I.Gi.T. non richiede operazioni di rilievo in capo alle segreterie. Mentre nel processo civile telematico, è rimasto un ruolo di un certo peso in capo alle cancellerie, il S.I.Gi.T. ha rimosso gli interventi delle segreterie (68).

(66) Se vogliamo guardare all’immaginario filmico, è difficile credere all’autogoverno dei sistemi (come nella prefigurazione di Kubrick, in “2001: Odissea nello spazio”): lo snodo essenziale è, invece, la scelta umana (politica in senso lato) che governa il procedimento tecnologico (come delicatamente descritto da Spielberg, in “Minority report”). (67) Ex artt. 31 e 35 d.lgs. 545/1996, gli uffici di segreteria collaborano all’esercizio dell’attività giurisdizionale, con diverse mansioni a seconda della qualifica funzionale. (68) La diversità rispetto al processo civile telematico e la riduzione di potere delle cancellerie è vista da parte della dottrina come un aspetto positivo, per la riduzione delle probabilità di errore: M. Mecacci, Il processo tributario telematico: principi, normativa e questioni aperte, in Corr. trib., 2016, 1175 ss. Per l’individuazione dei pochi compiti restati in capo alle segreterie, ai sensi degli articoli da 13 a 18 d.m. 163/2013, cfr. Montalcini - Ca. Sacchetto, Diritto tributario telematico, cit., 336 ss.


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Un errore concettuale che non si deve commettere è credere che questa rimozione di poteri in capo alle segreterie possa generare un rapporto diretto parti/giudici: non si configura un rapporto diretto, ma sempre un rapporto mediato: si vuole sostituire la terna parti/segreterie/giudici con la terna parti/S.I.Gi.T./giudici. 5.3. – Dal punto di vista classificatorio, il S.I.Gi.T. ha alcune caratteristiche degli oggetti, perché non è in grado di esprimere una propria volontà (se non quella di coloro che impartiscono le istruzioni ai sistemi) e alcune caratteristiche dei soggetti, perché compie azioni (p.e. rigettando un ricorso in fase di costituzione, o non conservando un atto che secondo il sistema non rispetta i requisiti) imputabili ad esso e non ad altri soggetti (non al giudice, non alle segreterie) (69). Come tutti i sistemi, peraltro, il S.I.Gi.T. deve essere “istruito” e “amministrato”, ossia governato. In maniera stupefacente, il d.m. 163/2013 non ha alcuna indicazione sul governo del S.I.Gi.T. Solo con l’art. 5 c. 1 d.m. 4/8/2015 compare finalmente il volto di questo soggetto (il volto del potere, se si preferisce): il S.I.Gi.T. è ascrivibile al Sistema integrato della fiscalità (S.i.f.) e, come apertamente dichiara la disposizione, “si avvale, pertanto, delle medesime infrastrutture, regole di governo, di sicurezza e di protezione dei dati personali”. Per via traslata diviene fondamentale mettere in luce, allora, come e da chi è governato il S.i.f. Il Sistema informativo della fiscalità ha origine con il Sistema informativo del Ministero delle finanze, teso a garantire il funzionamento dell’anagrafe tributaria (70). L’importanza del sistema nel tempo è cresciuta, proporzionalmente alla crescita delle diverse banche dati di cui nel tempo si è dotata l’Amministrazione finanziaria e che sono confluite nell’infrastruttura unitaria dell’anagrafe (71). Nella gestione tecnica del S.i.f., un ruolo fondamentale è

(69) Come si dirà anche oltre, vi sono delle posizioni giuridiche soggettive chiaramente imputabili al S.I.Gi.T. e a cui sono estranee le altre parti del processo. (70) Art. 1 l. 60/1976. (71) Le funzioni del S.i.f. e l’ampliamento del suo ambito sono state trascurate in dottrina, dove il tema è stato ritenuto (forse a torto) esclusivamente applicativo; per contro, mi pare che in una società tecnologica, le funzioni del S.i.f. meriterebbero un inquadramento sistemico. Le informazioni migliori si ritrovano nelle audizioni della Commissione parlamentare di vigilanza


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svolto da So.ge.i., la ben nota società interamente partecipata dal Ministero dell’economia e delle finanze (72). Il controllo del sistema integrato della fiscalità resta saldamente attribuito al Ministero dell’economia e delle finanze: ex art. 56 d.lgs. 300/1999: tra le funzioni attribuite al ministero si ritrova il controllo del S.i.f. (73). È prevista una Direzione, istituita presso il Dipartimento delle finanze del Ministero, dedicata specificamente al Sistema informativo della fiscalità. Da un documento pubblicato sul sito del Ministero (74), risulta che l’organo centrale per il controllo del S.i.f. è il “Comitato di Governo del S.i.f.”, presieduto dal Direttore del Sistema informativo della fiscalità del Dipartimento delle finanze e di cui fanno parte i dirigenti responsabili del sistema informativo dei cinque soggetti che partecipano attivamente al sistema: Dipartimento delle finanze, Agenzia delle entrate, Equitalia, Guardia di finanza, So.ge.i. 5.4. – Riassumendo: la realizzazione del processo tributario telematico è stata curata dal Dipartimento delle finanze del Ministero dell’economia e delle finanze (75); la gestione e il governo del sistema sono oggi lasciate al Dipar-

sull’anagrafe tributaria, di cui nel seguito verranno citate alcune trascrizioni. (72) La So.ge.i. può agire come società in house per tutte le attività affidate del Ministero dell’economia e delle finanze: So.ge.i., in questa prospettiva, resta un’articolazione dell’amministrazione da cui proviene, quindi del Ministero, come precisa anche il direttore generale del Dipartimento delle finanze: “si mantiene così il ruolo del Dipartimento delle finanze come controllore analogo della società, ossia come struttura preposta a impartire gli indirizzi alla società” (Commissione parlamentare di vigilanza sull’anagrafe tributaria, audizione del 19/3/2014). È invece dubbio che So.ge.i. possa ritenersi legittima affidataria di appalti in house da parte di altre articolazioni dell’amministrazione statale, come messo bene in luce dalla delibera Autorità nazionale anticorruzione, 16/11/2016, n. 1192, in cui si ripercorre il precedente parere reso dall’Avvocatura di Stato (reperibile sul sito dell’Autorità stessa). (73) La lett. (e) della disposizione citata recita: “coordinamento, monitoraggio e controllo, anche attraverso apposita struttura per l’attuazione di strategie di integrazione tra i sistemi del ministero, delle agenzie e della guardia di finanza, del sistema informativo della fiscalità e della rete unitaria di settore”. (74) Questo l’indirizzo abbreviato cui è reperibile il documento: goo.gl/GQzbey. (75) Il che è dichiarato dallo stesso direttore generale del Dipartimento delle finanze: “Il dipartimento delle Finanze ha portato a termine l’implementazione del processo tributario telematico, che è una realtà in alcune regioni italiane e che verrà progressivamente esteso all’intero territorio nazionale. Anche in questo caso il dialogo tra il sistema informativo e gli operatori della giustizia contribuisce a rendere snello il processo tributario; riduce i costi per i diversi attori del processo; consente all’amministrazione di ottenere traccia e rapidamente e a costo contenuto informazioni sul funzionamento della giustizia tributaria che possono poi


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timento delle finanze, con l’ausilio tecnologico della So.ge.i. (quindi, come notato sopra, di un’articolazione dell’amministrazione ministeriale): tanto che la principale circolare esplicativa sul funzionamento del processo telematico proviene proprio dalla Direzione delle finanze (76). Le decisioni nodali, quindi, vengono assunte da un soggetto che non è direttamente una parte processuale, ma che sulla parte processuale più frequentemente presente nei procedimenti contenziosi (Agenzia delle entrate) ha ex lege un potere di indirizzo, controllo, vigilanza, con poteri di amministrazione diretta in relazione agli atti generali (ex artt. 57, 59, 60 d.lgs. 300/1999). Senza contare, inoltre, che So.ge.i., gestore del S.I.Gi.T., è legato da un vincolo contrattuale diretto con l’Agenzia delle entrate, proprio per la gestione del Sistema informativo della fiscalità, cui ora appartiene il processo tributario telematico (77). Il governo delle “cancellerie virtuali” è nella mani di un soggetto che non può dirsi in posizione di imparzialità rispetto al processo che ad oggi è chiamato ad amministrare. Si tratta di un vulnus ancora più grave di quello (già pericoloso) riguardante la dipendenza del personale delle segreterie dal Ministero dell’economia e delle finanze (78). Nel processo telematico si tratta non solo della gestione delle attività, ma anche del disegno e dell’applicazione delle regole, da parte di soggetti estranei all’apparato giurisdizionale e riconducibili, invece, ad una delle parti in causa. Né si può dire che si tratti di una scelta obbligata, come dimostrato dagli altri sistemi processuali telematici: il governo del sistema del processo civile telematico è lasciato al Ministero della giustizia (che non è una delle principali

essere analizzate ed elaborate”: Commissione parlamentare di vigilanza sull’anagrafe tributaria, audizione del 21 settembre 2016. (76) Circ. Min. Ec. 11/5/2016, n. 2DF. (77) Si fa riferimento al Contratto esecutivo – prot. 194560/2009 – tra l’Agenzia delle Entrate e la So.ge.i. SpA del Contratto di servizi Quadro – prot. n. 2093/2005 – tra il Dipartimento delle Politiche fiscali (ora Dipartimento delle Finanze) e la So.ge.i. SpA, avente ad oggetto “la manutenzione, lo sviluppo e la conduzione del sistema informativo della fiscalità”. Questo contratto (dalla ricca dotazione complessiva pluriennale, superiore al miliardo di euro) copre anche le attività di So.ge.i. per il processo tributario telematico, come risulta dalla determinazione Corte conti, 7 luglio 2015, n. 78, “Determinazione e relazione sul risultato del controllo eseguito sulla gestione finanziaria della Società generale d’informatica (So.ge.i.) s.p.a.”, pag. 8, reperibile sul sito della Corte dei conti. (78) Su cui cfr., ex multis, A. Marcheselli, La (in)dipendenza del giudice tributario italiano nella lente della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, in Dir. prat. trib., 2013, I, 387 ss.


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parti in causa nel processo civile), il governo del processo amministrativo telematico è nelle mani del Segretariato generale della giustizia amministrativa. Esistono due soluzioni alternative che possono sanare questa deprecabile impasse. Il primo rimedio è di ordine normativo. A partire dal livello più elevato: il S.I.Gi.T. va estromesso dal S.i.f. Non si può accettare, come visto sopra, che la direzione (e la normazione) delle cancellerie si trovino nelle mani di un soggetto privo di imparzialità. Il soggetto che appare come titolare naturale di questo potere è il Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, organo non solo imparziale, ma anche idoneo a raccogliere le istanze di miglioramento provenienti dai giudici. E non sarebbe neppure difficile fornire il Consiglio delle risorse necessarie alla gestione tecnica, drenandole dal ricco contratto per la gestione del S.i.f., cui ora è imputata la spesa (di cui sopra, alla nota 77). Dal punto di vista della neutralità dei soggetti, una volta che la direzione e la governance del sistema siano riportate al Consiglio di presidenza, nulla osterebbe al mantenimento della parte tecnica in capo a So.ge.i., anche se probabilmente il servizio dovrebbe essere attribuito con un bando di gara (e non potrebbe essere affidato direttamente a So.ge.i.) (79). Il secondo rimedio è di ordine giurisprudenziale. Supponendo che il S.I.Gi.T. resti fuori dal governo dei giudici, questi potrebbero pensare di rimediare autonomamente alle rigidità del sistema e di riprendere il governo del processo, a loro sottratto. Ciò potrebbe avvenire con un’operazione interpretativa fondata da una parte sull’ampliamento dell’ambito di applicazione dell’istituto della rimessione in termini e dall’altra sull’interpretazione della strumentalità delle forme (80). Queste due direttrici porterebbero ad ampliare le ipotesi di regolarizzazione e rinnovazione e a configurare una più ampia area dell’errore scusabile (in relazione a richieste tecniche per le quali il sistema informatico si dimostra opaco).

(79) Se si segue l’impostazione dell’Autorità nazionale anticorruzione indicata sopra alla nota 72, per So.ge.i. non si può configurare un rapporto in house orizzontale rispetto al Consiglio di presidenza, per mancanza del controllo; quindi, sarebbe necessaria una gara di appalto aperta. (80) Un’ulteriore estensione giurisprudenziale suppletiva potrebbero toccare l’applicazione del c. 8 dell’art. 16-bis d.l. 179/2012: tale disposizione, non riprodotta nel p.t.t., consente al giudice civile di autorizzare il deposito di atti in via analogica, quando i sistemi informatici non siano funzionanti.


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5.5. – Esiste, poi, una terza via, la cui matrice è l’ignavia. Il legislatore potrebbe preferire il comodo status quo e il giudice, lontano dalla macchina tecnologica, potrebbe lasciarla proseguire per la propria via, fintamente neutrale. Il difetto di questa terza via è l’incertezza che genera sul medio periodo. Un qualche giudice a Strasburgo potrebbe, infatti, essere interessato al difetto di imparzialità connaturato a questo giudizio, in cui le cancellerie sono gestite e regolate da una delle parti. Un’inammissibilità o un’invalidità processuale di stampo telematico, opportunamente coltivata, potrebbe essere portata all’attenzione della C.e.d.u.: dell’ennesimo tutoraggio sovranazionale, almeno questa volta, vorremmo, però, fare a meno.

Enrico Marello


La tutela cautelare nel rimborso della imposta Sommario: 1. Premessa. – 2. La posizione della dottrina tributaria. – 3. L’orientamento giurisprudenziale. – 4. L’inesistenza di alcuna preclusione di carattere letterale – 5. Gli ulteriori argomenti a sostegno della insospendibilità. – 5.1. La correlazione tra efficacia dell’ordinanza cautelare ed efficacia della sentenza di merito. – 5.2. L’infondatezza della tesi secondo la quale i provvedimenti cautelari determinerebbero una perdita delle garanzie patrimoniali. – 5.3. L’infondatezza della tesi secondo la quale la tutela cautelare si risolverebbe nell’imposizione di un “facere” nei confronti della amministrazione finanziaria. – 5.4. Sull’inapplicabilità del rimedio residuale costituito dalla tutela d’urgenza ex art. 700 c.p.c. – 6. I profili ricostruttivi della tutela cautelare: la tutela demolitoria e la tutela ordinatoria. – 7. Il contenuto della tutela cautelare in punto di rifiuto (tacito ed espresso) della restituzione. – 8. La specificità dell’ordinanza propulsiva di carattere “ordinatorio”. – 9. La tutela cautelare nei gradi di giudizio successivi al primo. – 10. Conclusioni. L’indagine ha ad oggetto la tutela del diritto al rimborso d’imposta leso dal rifiuto (espresso o tacito) della restituzione nella fase cautelare del giudizio di primo grado. Il quadro normativo è stato recentemente oggetto di significativi interventi, ma è rimasto sostanzialmente invariato per quanto riguarda il tema in esame. Vengono criticamente vagliate le diverse posizioni assunte dalla dottrina e la scarna giurisprudenza di merito. La tesi che viene avanzata è che la tutela può essere efficacemente realizzata mediante l’adozione di provvedimenti d’urgenza di contenuto positivo. Poiché il giudizio cautelare è preordinato alla tutela delle ragioni del ricorrente nelle more del giudizio ordinario, nelle controversie aventi ad oggetto il rifiuto (espresso o tacito) della restituzione sono ammissibili provvedimenti intesi ad anticipare, in via meramente interinale, la produzione degli effetti del provvedimento di rimborso richiesto dal contribuente e negato dalla amministrazione finanziaria. The analysis relates to the protection of the right of tax refund harmed by the refusal (written or unwritten) in the precautionary phase of the process of first instance. The regulatory framework has recently undergone significant changes, but remained broadly unchanged as regards the subject under scrutiny. In this contribution are critically assessed the different positions taken by the doctrine and the gaunt case law. The protection can be effectively achieved through the adoption of court’s judgement by positive content. The precautionary proceeding protects the reasons of the claimant examined pending the trial, in disputes relating to the refusal of tax refund (written or unwritten) are admissible provisional court’s judgement of tax refund denied by the tax authorities.


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1. Premessa. – L’articolo 10 della legge 11 marzo 2014, n. 23 – al comma 1, lettere a) e b) – ha delegato il Governo all’emanazione di “norme per il rafforzamento della tutela giurisdizionale del contribuente, assicurando la terzietà dell’organo giudicante”. Tra i principi e i criteri direttivi della riforma, la legge delega menziona “l’uniformazione e generalizzazione degli strumenti di tutela cautelare nel processo tributario” e la “previsione dell’immediata esecutorietà, estesa a tutte le parti in causa, delle sentenze delle commissioni tributarie”. Il D.lgs. 24 settembre 2015 n. 156, in attuazione della suddetta delega, ha modificato le norme riguardanti la tutela cautelare e la esecutività delle sentenze provvisorie nel processo tributario. Sotto il primo profilo, quello della tutela cautelare, la riforma ha solo parzialmente rivisitato la disciplina della tutela cautelare nel primo grado (1). Le modifiche legislative più evidenti hanno riguardato l’estensione della tutela cautelare – già prevista per il solo primo grado di giudizio – ai successivi gradi del giudizio (2). Alla luce delle modifiche legislative – e del proclamato intento di ampliare gli strumenti di tutela cautelare all’interno del processo tributario – ci si interroga sul se e sul come venga garantita la tutela cautelare delle azioni aventi ad oggetto il diniego, tacito o espresso, di rimborso. Sotto il profilo della tutela esecutiva la riforma ha introdotto l’esecutività immediata delle sentenze non definitive concernenti i giudizi promossi avverso gli atti relativi alle operazioni catastali e di quelle, sempre non

(1) Per quanto riguarda l’oggetto dell’indagine è rimasta immutata la disciplina della tutela cautelare nel primo grado di giudizio. Infatti le modifiche dell’art. 47 del D.lgs. n. 546/1992 riguardano: il novellato comma 3 che prevede che il presidente provveda con decreto motivato sull’istanza del ricorrente; il comma 4 con la previsione della immediata comunicazione alle parti in udienza del dispositivo dell’ordinanza, termine che deve essere ritenuto ordinatorio; il comma 5 con la previsione della garanzia ai sensi dell’art. 69, co. 2 (come regolata dal D.M. 6 febbraio 2017, n. 22); il comma 8 bis che stabilisce l’applicazione, durante il periodo della sospensione cautelare, degli interessi al tasso previsto per la sospensione amministrativa (il D.M. 21.5.2009 prevede all’art. 4 gli interessi nella misura del 4,5%). (2) Il nuovo art. 52 D.lgs. n. 546/1992, al comma secondo, prevede la possibilità di chiedere nel giudizio di appello la sospensione (in tutto o in parte) della sentenza impugnata se sussistono gravi e fondati motivi, nonché di chiedere la sospensione dell’esecuzione dell’atto se da questa possa derivargli un danno grave ed irreparabile. L’art. 62 bis D.lgs. cit. ha esteso alla parte ricorrente nel giudizio di cassazione la possibilità di chiedere “alla commissione che ha pronunciato la sentenza impugnata di sospenderne in tutto o in parte l’esecutività allo scopo di evitare un danno grave ed irreparabile”, nonché la sospensione dell’atto, se dallo stesso possa derivare un danno grave ed irreparabile. Con l’introduzione del comma 3 bis all’art. 65 D.lgs. cit. è stata inoltre estesa la possibilità di proporre istanze cautelari nel giudizio di revocazione, secondo quanto disposto dal citato art. 52.


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definitive, recanti condanna al pagamento di somme a favore dei contribuenti (3) ed ha previsto il giudizio di ottemperanza (4). L’estensione della immediata esecutorietà delle sentenze delle commissioni tributarie a tutte le parti in causa ha inciso significativamente sul diritto al rimborso in quanto ha, di fatto, anticipato l’efficacia delle pronunce provvisorie favorevoli al contribuente (5). L’art. 69 del D.lgs. 546/1992 ha introdotto, quale temperamento alla immediata esecutività delle pronunce di condanna, la possibilità, per il giudice, di subordinare il pagamento delle somme di importo superiore a 10.000 euro alla prestazione di idonea garanzia, anche tenuto conto delle condizioni di solvibilità dell’istante. La regolamentazione della garanzia è stata disciplinata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze con decreto n. 22 del 6 febbraio 2017 “Regolamento di attuazione dell’articolo 69, comma 2, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, sulla garanzia per l’esecuzione delle sentenze di condanna a favore del contribuente”. Sotto il profilo della tutela esecutiva delle pronunce di condanna in materia di rimborso la riforma ha dunque cercato di superare le iniquità che caratterizzavano il precedente quadro normativo e che vedevano ingiustamente dilatate le tempistiche di esecuzione delle sentenze favorevoli al contribuente ivi incluse quelle di condanna al pagamento di somme in favore del contribuente. Cionondimeno residuano perplessità legate alla

(3) Nella nuova formulazione dell’art. 49 D.lgs. n. 546/1992 è stata soppressa l’esclusione dell’applicabilità dell’art. 337 c.p.c. alle sentenze delle commissioni tributarie; è stato introdotto l’art. 67 bis D.lgs. cit. che stabilisce che le sentenze emesse dalle commissioni tributarie sono esecutive “secondo quanto previsto dal presente capo”; l’art. 69 D.lgs. cit., nella nuova formulazione, stabilisce al primo comma che “le sentenze di condanna al pagamento di somme a favore dei contribuenti e quelle emesse su ricorso avverso gli atti relativi alle operazioni catastali indicate nell’art. 2 comma secondo, sono immediatamente esecutive. Tuttavia il pagamento di somme dell’importo superiore a diecimila euro, diverse dalle spese di lite, può essere subordinato dal giudice anche tenuto conto delle condizioni di solvibilità dell’istante, alla prestazione di idonea garanzia”. (4) L’articolo 68, co. 2 D.lgs. cit. riconosce al contribuente la possibilità di esperire il giudizio di ottemperanza delle sentenze di primo e secondo grado, ancorché non definitive, per ottenere il rimborso delle somme riscosse dall’Ufficio in pendenza del giudizio; l’articolo 69 D.lgs. cit., al quinto comma, riconosce la possibilità di esperire il giudizio di ottemperanza delle sentenze di primo e secondo grado, ancorché non definitive, in caso di mancata esecuzione delle sentenze di condanna dell’Ufficio al pagamento di somme in favore del contribuente. (5) Prima della riforma il contribuente – che pure otteneva una pronuncia di merito favorevole – doveva attendere il passaggio in giudicato per vedersi rimborsare le imposte, in quanto le sentenze divenivano esecutive solo in seguito al loro passaggio in giudicato.


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previsione della garanzia ed all’impatto della stessa sulla piena attuazione del principio di immediata esecutività delle sentenze tributarie. Le questioni “aperte” riguardano la ragionevolezza della imposizione di una tale misura (6), l’individuazione del giudice chiamato a valutare la solvibilità dell’istante, la necessità o meno di una istanza di parte, l’impugnabilità del provvedimento, il rapporto con l’eventuale inibitoria chiesta ai sensi dell’art. 52 D.lgs. cit. (7). Il tema di indagine riguarda la “effettiva portata” della tutela cautelare accordata in primo grado dall’art. 47 del D.lgs. n. 546 del 1992, ed ampliata dalla riforma ai successivi gradi di giudizio dagli artt. 52, co. 2, 62 bis e 65, co. 3 bis D.lgs. n. 546/1992, in particolare se mediante la tutela cautelare il giudice tributario possa rimuovere interinalmente il pregiudizio arrecato al contribuente dal diniego di rimborso, e se la “sospensione” possa essere “dilatata” fino a ricomprendere la potestà del giudice di concedere in via cautelare il rimborso dell’imposta illegittimamente negato dall’amministrazione finanziaria. Con la sentenza n. 332 del 9 luglio 2002, la Corte Costituzionale ha inaugurato una nuova stagione per il rimborso dell’imposta (8) aprendo ai principi del diritto civile in tema di ripetizione di indebito ed al generale canone di ragionevolezza. Il rifiuto di rimborso può essere sicuramente idoneo a determinare un danno grave ed irreparabile alle posizioni giuridiche del ricorrente danno che può riferirsi ai diritti fondamentali del contribuente (9); così nel

(6) Per E. Sepe, Nuove regole su esecutività delle sentenze e misure cautelari successive, in Il fisco, 1 2016, 1-38, non parrebbe ragionevole e conforme al principio di effettività della tutela giudiziaria che lo stesso giudice che ha riconosciuto legittimo e fondato il credito fatto valere dal contribuente, sottoponga la riscossione del credito alla prestazione di una garanzia. In sede amministrativa, tale cautela è disposta dall’Amministrazione a propria tutela (art. 38bis, D.Lgs. n. 633/1972) perché la situazione creditoria del contribuente non è stata oggetto di controllo giudiziale, ma sembra contraddittorio che a disporla sia lo stesso giudice che, con la pienezza della verifica giudiziaria, ha stabilito l’esistenza del credito in capo al contribuente, sottoponendo la sua riscossione alla condizione di una garanzia, integrante per il contribuente un onere che potrebbe rappresentare un ostacolo alla realizzazione del proprio diritto. (7) S. La Rosa, Giusto processo e parità delle parti nella disciplina delle tutele cautelari tributarie, in Riv. Dir. Trib., 3, 2017, 267 ss. (8) E. De Mita (Una pronuncia storica, ma in clamoroso ritardo, in Il Sole 24 Ore, 10 luglio 2002, 24) ha osservato che “l’importanza giuridica della sentenza n.332/2002 è pari a quella che ebbe nel 1961 la decisione che eliminò il solve et repete”. (9) F. Tesauro, Manuale del processo tributario, Torino, 2017, 106, n. 10 e in precedenza S. Menchini, sub art.47 in T. Baglioni, S. Menchini, M. Miccinesi, Il nuovo processo tributario (Commentario), Milano, 1997, 390.


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caso dell’esercizio dell’attività d’impresa (e quindi del diritto all’esercizio dell’attività d’impresa) il mancato rimborso può avere gravi ripercussioni sulla liquidità dell’azienda provocandone lo stato di insolvenza (10). Ad avviso di alcuni l’art. 47 D.lgs. 546/1992 (e di conseguenza i nuovi artt. 52, co. 2, 62 bis e 65, co. 3 bis D.lgs. n. 546/1992) non realizzerebbe – con riguardo ai provvedimenti di diniego di rimborso – una tutela cautelare effettiva, in quanto la norma non legittimerebbe il giudice tributario ad adottare una misura sostitutiva del provvedimento di rimborso originariamente negato. Il vuoto di tutela, si è detto, potrebbe essere colmato attraverso l’applicabilità dell’art. 700 c.p.c. nell’ambito del processo tributario, allo scopo di soddisfare le esigenze di tutela urgente inappagate dalla mera sospensiva del provvedimento. Che sia attuata attraverso l’applicazione diretta delle norme sulla tutela cautelare, contenute nel D.lgs. 546 del 1992, o che venga accordata aliunde mediante il richiamo all’art. 700 c.p.c., è evidente la necessità di garantire la tutela cautelare del diritto al rimborso. Se così non fosse – come sembra negarsi da parte della dottrina e dalla giurisprudenza che si sono espresse sul punto – l’assenza di una adeguata tutela cautelare si porrebbe in palese contrasto e violazione del principio di effettività della tutela giurisdizionale, garantito dagli artt. 24, comma 1 e 113, comma 2, della Carta Costituzionale (11). Le modifiche apportate alle norme sulla tutela cautelare pare siano volte unicamente a disciplinare in maniera più dettagliata e organica rispetto al passato l’istituto della sospensione tanto degli atti quanto delle sentenze, estendendola a tutte le fasi del processo, in conformità con gli indirizzi progressivamente elaborati dalla giurisprudenza. A tal riguardo l’interpretazione fornita dall’Amministrazione finanziaria della novella legislativa esclude ancora una volta (12) la tutela cautelare del diniego di rimborso: la circolare n. 38/E del

(10) Corte di Giustizia CE, sez. V, 25 ottobre 2001, causa C-78/00, ha osservato che “le modalità di rimborso dell’eccedenza di Iva che uno stato membro stabilisce devono consentire al soggetto passivo di recuperare, in condizioni adeguate, la totalità del credito risultante da detta eccedenza di Iva. Questo implica che il rimborso sia effettuato, entro il termine ragionevole, mediante pagamento con somme liquide di denaro o in un modo equivalente. Comunque, il sistema di rimborso adottato non deve far correre alcun rischio finanziario al soggetto passivo”. (11) Per una attenta ricostruzione dell’evoluzione giurisprudenziale vedi M.V. Cernigliaro Dini, Sospensione dell’esecuzione dell’atto impugnato, in Codice commentato del processo tributario, a cura di F. Tesauro, II ed., Milano, 2016, 646. (12) Con la circolare n. 98/E del 1996 l’Amministrazione finanziaria aveva già escluso la possibilità di sospendere il diniego di rimborso in quanto in tal caso l’ordinanza di sospensione


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29 dicembre 2015, commentando l’art. 47, ha ribadito che la “funzione essenziale della sospensione dell’atto impugnato è paralizzare temporaneamente gli effetti pregiudizievoli dello stesso, in attesa della sentenza di primo grado. Per tale ragione, in linea di principio non può chiedersi la sospensione di atti a contenuto non impositivo, quali il diniego – espresso o tacito – di rimborsi, agevolazioni o definizioni agevolate di rapporti tributari, in quanto in tal caso l’ordinanza di sospensione imporrebbe all’Amministrazione finanziaria un obbligo di facere (cfr. circolare n. 98/E del 1996)”. 2. La posizione della dottrina tributaria. – L’art. 47 del D.lgs. 31 dicembre 1992 n. 546, che attribuisce al giudice tributario il potere di sospendere “l’esecuzione dell’atto” impugnato, colma una lacuna che negativamente caratterizzava il processo tributario (13). Fra le diverse questioni che si pongono all’interprete una spicca per l’indubbia singolarità e rilevanza: la sospendibilità degli atti negativi, consistenti nel rifiuto espresso o tacito, alla restituzione di tributi, sanzioni pecuniarie ed interessi o altri accessori non dovuti. Si contrappongono tesi in merito favorevoli e contrarie. Prima di procedere all’esame ed al vaglio critico delle prospettazioni, occorre raccogliere il catalogo degli argomenti di coloro che negano la sospendibilità degli effetti del rifiuto della restituzione, per poter avere un quadro il più preciso e completo delle posizioni negatorie in dottrina ed evidenziare gli argomenti addotti. In sintesi le questioni che hanno ad oggetto la tutela cautelare nei confronti dei provvedimenti negativi (14) attengono in primo luogo alla ammissibilità stessa della tutela cautelare; strettamente correlato a questo vi è il tema della sospendibilità del rifiuto della restituzione e quindi quale possa essere il contenuto della ordinanza cautelare. Parte della dottrina si è espressa nel senso di non ammettere il provvedimento di tutela cautelare ex art. 47 D.lgs. 546/1992 nel caso di rifiuto (tacito o espresso) al rimborso di somme e molti autori che si sono espressi in senso

imporrebbe all’Amministrazione un obbligo di facere. (13) S. Muleo, La tutela cautelare, in AA. VV., Il processo tributario, Torino, 1998, 829. (14) Quale il “provvedimento” di rifiuto espresso G. Falsitta, Manuale di diritto tributario, Parte generale, Padova, 2015, 486.


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sfavorevole non hanno argomentato la loro posizione (15). Altri (16) hanno escluso decisamente la sospensione degli atti che comportano il rifiuto alla restituzione dei tributi (estendendo l’esclusione anche al diniego di agevolazioni, al rigetto dell’istanza di condono e ai provvedimenti sulle operazioni catastali), osservando che la sospensione riguarda “il credito” e non la “potestà amministrativa” e che “la sospensione è sempre richiesta in relazione al pagamento di una somma di danaro” (17). Una motivazione che utilizza il più “tradizionale” degli argomenti negatori supporta la posizione negativa assunta sul punto dalla Amministrazione finanziaria, secondo cui l’istanza di sospensione può riguardare solamente alcuni tra gli atti impugnabili indicati dall’art. 19 D.lgs. n. 546 del 1992 (18) rimanendo esclusa la possibilità di chiedere ed ottenere la sospensione cautelare di atti a contenuto “non impositivo” (19) poiché imporrebbero un obbligo di facere. Altri autori hanno negato la possibilità riecheggiando in vario modo la posizione del Ministero delle Finanze (20); ad esempio, è stata negata la

(15) Così, ad esempio, G. Campeis, A. De Pauli, Il manuale del processo tributario, Padova, 1996, 334 (16) C. Bafile, Il nuovo processo tributario, Padova, 1994, 186 afferma: “la sospensione nonostante l’ampiezza e genericità della norma, riguarda la riscossione ossia il pagamento di somme di danaro; essa è riferita all’azione esecutiva (o ai suoi presupposti) non all’atto amministrativo in genere, come emerge dalla delega. Parallelamente essa và inquadrata nel processo civile di esecuzione e non nel processo innanzi al giudice amministrativo che persegue ben altri fini; oggetto della sospensione è il credito non la potestà amministrativa. Conseguentemente non sono sospendibili gli atti che concernono il rifiuto della restituzione di tributi (e a maggior ragione il silenzio) il diniego di agevolazioni, il rigetto della istanza di condono ed anche, è da ritenersi, i provvedimenti sulle operazioni catastali. Con questo si può accantonare il problema, che tanto travaglia il processo amministrativo, della sospendibilità dell’atto negativo”. (17) A. Finocchiaro, M. Finocchiaro, Commentario al nuovo contenzioso tributario, Milano, 1996, 655. (18) La circolare n. 98/E del 1996, come si è più volte in precedenza osservato, precisa che la sospensione cautelare è ammissibile per l’avviso di accertamento dei tributi, nelle sue varie forme di rettifica delle dichiarazioni di accertamenti d’ufficio e di accertamento valori, per l’avviso di liquidazione del tributo, per il provvedimento che irroga la sanzione, per il ruolo e la cartella di pagamento e per l’avviso di mora, non sono invece suscettibili di essere sospesi il rifiuto espresso o tacito della restituzione di tributi, sanzioni pecuniarie ed interessi od altri accessori non dovuti o il diniego o la revoca di agevolazioni o il rigetto di domande di definizione agevolata di rapporti tributari in quanto con l’ordinanza di sospensione, infatti, non può imporsi all’Amministrazione finanziaria un obbligo di facere positivo. (19) Circolare n. 38/E del 29 dicembre 2015. (20) C. Thomas, Codice del nuovo contenzioso tributario, Milano, 1996, 229.


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tutela cautelare in quanto gli atti a contenuto negativo sarebbero sforniti di efficacia esecutiva e per evitarne il pregiudizio non è sufficiente l’inibitoria dell’atto “ma occorre l’emanazione di una misura sostitutiva del provvedimento negativo…siamo quindi fuori degli ambiti di applicabilità dell’art. 47 del D.lgs. n.546/1992” (21). Si è sostenuto che la sospensione dell’efficacia di un atto a contenuto negativo non è idonea ad attuare una tutela efficace che richiede l’adozione di una misura sostitutiva del provvedimento (22). In altri casi il problema è stato affrontato (23) assumendo in prima istanza la sospendibilità anche degli atti negativi (in ragione del fatto che l’art. 47 D.lgs. 546/1992 rinvia genericamente all’art. 19 e quindi anche ai dinieghi e ai silenzi rifiuto e che dalla mancata esecuzione di un rimborso o da un diniego può concretamente derivare un danno grave e irreparabile), ma successivamente giungendo alla conclusione negativa “appiattendosi” sulle considerazioni svolte dalla Amministrazione finanziaria nella circolare n. 98/E del 23 aprile 1996. Tra gli autori che si sono espressi nel senso di ammettere la sospendibilità in via cautelare dei provvedimenti aventi contenuto negativo, vi è chi ha incluso nell’ambito di applicazione dell’art. 47 D.lgs. 546 del 1992 il rifiuto esplicito o tacito di restituzione dei tributi in ragione del fatto che da tale comportamento della amministrazione finanziaria può derivare un danno grave e irreparabile al contribuente (24), concludendo che il procedimento cautelare “non è altro che un giudizio autonomo finalizzato ad una pronuncia con effetti limitati che intende tutelare, con un provvedimento anticipatorio, le posizioni giuridiche soggettive del contribuente in attesa della sentenza di primo grado”. Si è osservato poi che la lettera dell’art. 47 non distingue fra atti impugnati “rinviando implicitamente all’elencazione dell’art. 19” che include anche atti aventi contenuto negativo (25), ne segue l’applicabilità della norma e la possibilità di emettere, da parte della commissione tributaria, un “ordine di rimborso”. Si è più problematicamente ritenuto che se da un lato i dinieghi di rimborso possono generare un danno

(21) G. Marinucci, Spunti sulla tutela cautelare nel processo tributario, in Fisco, 1999, 5542. (22) F. Battistoni Ferrara, B. Bellè, Diritto tributario processuale, Padova, 2014, 151. (23) O. Drigani, R. Lunelli, Guida al nuovo processo tributario, IPSOA, 1996, 204 e ss. (24) S. Trovato, Lineamenti del nuovo processo tributario, Padova, 1996, 179. Di recente M.V. Cernigliaro Dini, Sospensione dell’esecuzione dell’atto impugnato, cit., 657. (25) L. Tosi, L’azione cautelare dopo la riforma del processo tributario, in Boll. Trib., 1993, 789.


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grave ed irreparabile, d’altro canto la sospensione dell’efficacia dell’atto (l’inibitoria) non sarebbe idonea a rimuovere il pregiudizio arrecato al ricorrente e non sarebbe sufficiente, occorrendo l’emanazione di una misura sostitutiva del provvedimento impugnato che “non ha niente a che vedere con l’istituto della sospensione dell’efficacia dell’atto (che spesso, nelle ipotesi specifiche in esame, neppure esiste fisicamente)” (26); si è concluso ritenendo applicabili “in quanto compatibili con la struttura del processo tributario” i poteri di cui all’art. 700 c.p.c. In conclusione si osserva che le “ragioni del dissenso” circa la possibilità di procedere alla sospensione degli atti negativi sono così state autorevolmente espresse: “si è posta la questione se l’istituto della sospensione dell’esecuzione dell’atto impugnato sia in grado di coprire tutti i bisogni di tutela cautelare configurabili, e in specie se esso sia utilizzabile nei giudizi di impugnazione di atti che rifiutano la restituzione di tributi. Orbene, se non si perde di vista il dato incontestabile che la misura cautelare qui considerata ha ad oggetto non l’efficacia in sé dell’atto impositivo impugnato, bensì l’efficacia esecutiva del medesimo, si deve poi coerentemente ritenere che essa si appalesa inidonea a soddisfare l’interesse del ricorrente che agisca in ripetizione dell’indebito avverso l’atto con il quale la restituzione sia negata: in tal caso, infatti, al fine di impedire l’eventuale pregiudizio che ne possa discendere in capo all’interessato occorre un provvedimento del giudice che ingiunga all’ente impositore di corrispondere provvisoriamente, in tutto o in parte, la somma oggetto della domanda di condanna al rimborso, provvedimento che l’art. 47 non contempla né legittima, talché occorrerebbe invocare una norma diversa ed a spettro più ampio, quale quella contenuta nell’art. 700 c.p.c. Tale posizione trova conforto e conferma nelle vicende che hanno contrassegnato l’evoluzione dell’art. 21 della legge istitutiva dei TAR n. 1034 del 1971” (27). Pur assumendo che il ritardo nel rimborso può generare nell’aspettativa

(26) “… soltanto se si dilata il concetto di sospensione fino a ricomprendere la potestà del giudice di concedere ciò che è stato illegittimamente negato dall’ufficio, si consente l’uso dell’art.47 nei casi di specie; peraltro, tale estensione appare né corretta, perché l’emanazione di provvedimenti cautelari di natura sostitutiva non ha niente a che vedere con l’istituto della sospensione dell’efficacia dell’atto (che spesso, nelle ipotesi specifiche in esame, neppure esiste fisicamente) né necessaria, perché il vuoto di tutela può essere colmato in altro e più adeguato modo” (Menchini, in T. Baglione, S. Menchini, M. Miccinesi, Il nuovo processo tributario, Commentario, Milano, 1997, 393). (27) P. Russo, Manuale di diritto tributario, Milano, 2013, 57 ss.


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del contribuente una crisi di liquidità suscettibile di procurargli un pregiudizio, si è sostenuto che lo strumento previsto dalla legge processuale tributaria è inidoneo ad assicurare la tutela cautelare; si è detto che: “il pregiudizio non può essere neutralizzato che assicurando in via provvisoria la disponibilità della somma di danaro e quindi imponendo alla finanza un comportamento attivo… Nella specie non gioverebbe invocare la sospensione cautelare dei provvedimenti ad effetti negativi costruita dalla giurisprudenza in termini di tutela degli interessi pretensivi giacché a monte del rifiuto non v’è alcun provvedimento che abbia inciso sfavorevolmente sulla sfera del contribuente” (28). Le ragioni del “consenso” invece muovono da altro argomentare. In linea di principio assunto che: “in questi casi sono configurabili situazioni di pregiudizio attuale, grave ed irreparabile per gli inevitabili ritardi della statuizione di merito... non essendovi sostanziale differenza tra chi rischia di fallire, perché sottoposto ad una riscossione coattiva ingiusta, e chi rischia ugualmente di fallire, per il mancato rimborso di imposte illegittimamente non restituite, magari perché costretto …a prestiti rovinosi o allo smantellamento dell’impresa o altro” si conclude osservando che “la tutela cautelare non può non essere fornita dall’ordinamento a chi si trovi esposto ad una situazione di pregiudizio irreparabile, tanto se questa derivi dalla riscossione d’imposte non dovute, quanto se invece dipenda dal mancato rimborso di quanto spettante” (29). In concreto i giudizi relativi ai rimborsi sono identici ai giudizi che attengono agli altri atti autonomamente impugnabili di cui all’art. 19 del D.lgs. n. 546 del 1992; il rifiuto tacito costituisce una ipotesi di “silenzio-diniego, cioè di silenzio normativamente preregolato o tipicizzato, con valenza provvedimentale di segno negativo, dal cui annullamento… deriva l’obbligo …di provvedere al rimborso… debbono in via cautelare essere sospesi gli effetti preclusivi dell’attività di rimborso, ripristinando quindi l’obbligo di rimborso da parte dell’ufficio”. 3. L’orientamento giurisprudenziale. – L’orientamento giurisprudenziale delle corti di merito sul punto non è univoco. Si rinviene un precedente favorevoli e della C.T.P. di Bari, che con sentenza n. 113 del 25.5.2001 ha ac-

(28) C. Magnani, La sospensione della riscossione dei tributi fra autotutela amministrativa e tutela cautelare, in Studi in onore di Victor Uckmar, Padova, 1997, 841. (29) C. Glendi, La tutela cautelare del contribuente nel processo tributario riformato (art. 47 D.Lgs. n. 546 del 1992 e norme complementari), in Dir. e prat. trib., 1999, I, 146. Id., Procedimenti cautelari (dir. trib.), Enc. Treccani, Torino, 1999, 1.


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colto l’istanza di sospensione del diniego di rimborso motivando – in maniera assai succinta – con riferimento alla necessità di superare l’interpretazione letterale dell’art. 47 del D.Lgs. n. 546/1992 (30). In senso contrario, la Commissione Tributaria Provinciale di Padova (31) ha ritenuto “improponibile” l’istanza inoltrata con il ricorso dal ricorrente ai sensi dell’art. 47 primo comma del D.lgs. n. 546/92, con la quale veniva richiesta la sospensione degli effetti del diniego di un rimborso IVA. L’andamento argomentativo seguito dalla Commissione Provinciale nel decidere è il seguente. In primo luogo la Commissione osserva che vi è un argomento ostativo di ordine letterale-lessicale: “Le disposizioni racchiuse “nell’art. 47” evidenziano che “l’oggetto della sospensione” è l’ipotesi di sospensione della esecuzione dell’atto”. La chiara dizione normativa manifesta così il suo bersaglio, costituito dalla esecuzione dell’atto con ciò esternando il suo riferimento ad un provvedimento ablatorio, posto in esecuzione anche con i canoni della espropriazione forzata, piuttosto che a un provvedimento di rifiuto (espresso o tacito)”. In secondo luogo non è configurabile uno spettro applicativo dell’art. 47 tanto ampio da farlo coincidere o semplicemente accostarlo all’art. 700 c.p.c. stanti i differenti presupposti oggettivi e le diverse finalità. In terzo luogo l’art. 47 fa riferimento all’esecuzione del provvedimento: “ossia la misura cautelare opera sul provvedimento configurando un suo provvisorio stato di quiescenza, di giuridica inefficacia a produrre gli effetti che sono propri dell’atto. È così evidente che la declaratoria di inefficacia (provvisoria) del diniego di rimborso non equivale ad un ordine (provvisoriamente) esecutivo di immediato pagamento. Eliso, cioè ogni effetto del diniego non è dato di pervenire all’ implicita formula-

(30) Si legge nella sentenza “il ricorrente perciò chiedeva la sospensione cautelare dell’atto impugnato, così come letteralmente disciplinata dall’art. 47 del D.Lgs. n. 546/1992, superando una prospettiva meramente formalistica per affermare la portata primaria della ragione della norma, allorquando un atto a contenuto negativo (il rifiuto al rimborso) arrecherebbe un pregiudizio grave ed irreparabile al ricorrente. Nella seduta del 19 gennaio 2001 questa stessa Sezione accoglieva la richiesta di sospensiva” (in Fisco, 2002, 5379). Il richiamo al tenore letterale della norma sembrerebbe ammettere la possibilità di sospendere anche gli atti negativi quale è il diniego tacito di rimborso in quanto l’art.47 D.lgs. n. 546/92 prevede la sospensione dell’esecuzione dell’atto e non della riscossione. (31) Non si rinvengono editi precedenti sul tema specifico, la ordinanza citata si caratterizza per la dovizia degli argomenti esposti ancorché risulti incondivisibile come più avanti nella trattazione risulterà evidente, Comm. Trib. Prov. di Padova, sez. I, 12 giugno 1998, ord. n.170, in Boll. Trib., 1999, 513.


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zione di un ordine di pagamento”. Un quarto argomento fa leva sul parallelo tra: “il rito civile ed il contenzioso tributario”, osservando che “avanti al giudice ordinario per le contestazioni aventi per oggetto obbligazioni pecuniarie e contrapposti diritti di credito e pretese alla loro riscossione è prevista la cosiddetta inibitoria con la sospensione dell’efficacia esecutiva dell’atto suscettibile di esecuzione forzata... mentre non è prevista una misura cautelare che anticipi gli effetti esecutivi del provvedimento tuttora “in fieri”... il creditore... non può conseguire in via anticipata la riscossione, la percezione, l’acquisizione del bene (o del pagamento del credito pecuniario) ancor prima della emanazione della pronunzia di merito”. Un quinto argomento atterrebbe al fatto che: “la pronunzia di accoglimento e quindi la sospensione del diniego con l’ipotizzata quanto innaturale ed anzi abnorme conseguenza dell’obbligo d’immediato pagamento del rimborso darebbe poi vita ad ancora più anormale conseguenza in caso di accoglimento della domanda. Nel momento in cui si disponesse il pagamento, accogliendo la domanda di rimborso, verrebbe coevamente a cessare ogni effetto della sospensiva. Il rifiuto riprenderebbe vigore sino al momento del passaggio in giudicato della sentenza che lo dichiari illegittimo ed il creditore svanita la misura provvisoria non avrebbe più titolo per trattenere quanto pagato in via provvisoria”. Conclusivamente il giudice tributario di merito osserva: “in questa visione anamnestica della norma in esame non c’è spazio per eversive soluzioni, rivolte a sovvertire l’ambito di applicazione della misura cautelare, la sua origine storica, le volute finalità, e tentando di estenderla a provvedimenti che nessun giudice dell’impugnazione ha”. 4. L’inesistenza di alcuna preclusione di carattere letterale. – Occorre ora procedere all’esame degli argomenti addotti a sostegno della tesi della non sospendibilità del rifiuto tacito della restituzione. Alcuni argomenti farebbero leva sul dato letterale: la lettera dell’art. 47 conterrebbe concentricamente una doppia limitazione in quanto sarebbero sospendibili soltanto gli atti e non i fatti e fra gli atti solo quelli suscettibili di avere efficacia esecutiva. Un primo aspetto quindi riguarda la lettera dell’art. 47: “il ricorrente se dall’atto impugnato può derivargli un danno grave ed irreparabile può chiedere alla commissione provinciale competente la sospensione dell’esecuzione dell’atto stesso”. Secondo una prima interpretazione di carattere letterale stante l’esclusivo riferimento alla sospensione dell’esecuzione


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dell’atto impugnato il ricorso alla tutela cautelare non potrebbe ammettersi per il rifiuto tacito o espresso della restituzione d’imposta. Si replica osservando che è necessaria una interpretazione adeguatrice al disposto normativo conforme sia ai principi costituzionali codificati negli artt. 3 e 113 Cost. di uguaglianza e di effettività della tutela giurisdizionale (32) che ai principi di diritto comunitario sempre di pienezza ed effettività (33). Il principio di effettività impone di considerare la tutela cautelare nel processo tributario non soltanto ammissibile nell’ambito di controversie aventi ad oggetto l’impugnativa di atti impositivi, ma anche a controversie in cui la lesione avviene a seguito di provvedimenti negativi o di comportamenti, con la conseguenza di consentire l’adozione di ordinanze cautelari di contenuto positivo e dall’efficacia propulsiva (34). La sentenza del giudice tributario non ha, infatti, solo efficacia demolitoria, ma anche definitoria della norma agendi produttiva dell’effetto conformativo per la successiva azione amministrativa e questo proprio nel caso della condanna della amministrazione finanziaria al pagamento di somme in favore del contribuente. Peraltro la scelta del le-

(32) La Corte Costituzionale nella sentenza n. 190 del 1985 osservò che dall’art 700 cpc è enucleabile una direttiva, che si estende anche al processo amministrativo, secondo cui quando il diritto del soggetto è minacciato da un pregiudizio imminente ed irreparabile provocato dalla cadenza dei tempi necessari per farlo valere in via ordinaria spetta al giudice il potere di emanare i provvedimenti d’urgenza che appaiono secondo le circostanze più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione sul merito. (33) L’idea che la possibilità di conseguire protezione cautelare sia ritenuta coessenziale al diritto di tutela giurisdizionale ed implicita nel principio di effettività è rinvenibile sia nell’ordinamento comunitario che nella giurisprudenza della Corte di Giustizia. Sul fronte della normativa comunitaria vanno segnalate le c.d. direttive ricorsi, n. 665 del 1989 e n. 13 del 1992 e alcune decisioni della Corte di Giustizia che hanno ammesso il contenuto atipico della misura cautelare per rispondere alle esigenze del caso concreto, indipendentemente dalla materia oggetto della controversia: il riferimento è alle note sentenze Factortame (Corte di Giustizia, 19 giugno 1990, Causa C-213/89), Zuckerfabrick (Corte di Giustizia, 2 febbraio 1991, Cause C-143/88 e C-92/88) e Atlanta (Corte di Giustizia, 9 novembre 1989, Causa C-465/92). (34) “… senza escludere che danno grave ed irreparabile possa essere arrecato anche da un rifiuto di rimborso che può produrre una crisi finanziaria gravissima non soltanto in una impresa, ma anche in un patrimonio privato. Soccorre, anche a questo proposito, l’esperienza della giustizia amministrativa, nella quale, da un’iniziale assoluta chiusura verso la sospendibilità dei provvedimenti negativi, si è gradualmente pervenuti non solo ad ammetterla, ma anche ad elaborare forme originali di dialogo che, per evitare la sostituzione del giudice all’amministrazione, assegnavano all’ordinanza cautelare di sospensione una funzione propulsiva per la correzione dell’attività amministrativa, nella parte in cui risultasse incrinata dalle critiche dedotte in ricorso.” (M. Basilavecchia, Funzione impositiva e forme di tutela, Torino, 2009, 116).


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gislatore tributario si conforma al modello dell’azione cautelare propria del processo amministrativo (35).

(35) La tutela cautelare nel processo amministrativo si è sviluppata sotto la spinta di una crescente domanda di effettività della tutela, prevalentemente in via pretoria, nel quadro di una normativa insufficiente (sino alla legge n. 205 del 2000) poiché si limitava a prevedere il solo potere del giudice di sospendere gli effetti del provvedimento impugnato. Soltanto con il d. lgs. n. 104/2010, che nell’ambito della codificazione del processo amministrativo ha dedicato alla tutela cautelare un intero capitolo (il secondo del libro secondo del codice), si è finalmente colmato un vuoto di tutela (F. Caringella, Manuale del processo amministrativo, Roma, 2017, 413 e ss.; AA.VV., La tutela cautelare e sommaria nel nuovo processo amministrativo, F. Freni (a cura di), Milano, 2011; F. Caringella, Manuale di diritto amministrativo, Roma, 2017, 1839 e ss.; E. Picozza, Manuale di diritto processuale amministrativo, Milano, 2016, 219 e ss.). Il percorso si è originato con l’art. 12 della legge 31 marzo 1889 n. 5992 (ai sensi del quale la proposizione del ricorso non aveva effetto sospensivo del provvedimento impugnato se non in presenza di “gravi ragioni”). In tempi più recenti, l’art. 21, settimo comma, della legge 7 dicembre 1971 n. 1034 prevedeva la facoltà per il soggetto che “abbia proposto ricorso giurisdizionale” di chiedere al giudice la sospensione dell’atto impugnato. I tratti caratterizzanti erano l’insospendibilità automatica dell’efficacia del provvedimento impugnato, la tipicità del rimedio e la limitazione della cautela alla sola impugnativa di atti a contenuto positivo (per la restrittiva formulazione normativa). Restavano quindi prive di tutela tutte quelle posizioni giuridiche sostanziali incise da atti di contenuto negativo. A tal riguardo si osservava – in senso ostativo alla possibilità della tutela cautelare – che l’unico effetto di un atto negativo era quello di lasciare immutata la situazione giuridica del destinatario impedendo al soggetto di acquisire il bene della vita cui egli aspirava. L’eventuale sospensione dell’atto impugnato non avrebbe portato al ricorrente alcun effetto utile (costituito soltanto dalla condanna della pubblica amministrazione ad emanare il provvedimento richiesto dal privato). Era pertanto evidente l’insufficienza del modello cautelare ad offrire una tutela piena ed effettiva. La giurisprudenza progressivamente superò tale limitazione dapprima introducendo, nell’ambito degli atti negativi, una rilevante distinzione tra atti negativi in senso proprio ed atti negativi in senso improprio. Poi affrontando la questione più complessa relativa ai c.d. atti negativi propri (o puri) in quanto le obiezioni che venivano sollevate attenevano alla letteralità dell’art. 21 (che non prevedeva misure cautelari atipiche), alla inconciliabilità di misure cautelari atipiche con la giurisdizione di annullamento, al rischio di invadere la sfera di poteri riservata alla pubblica amministrazione. Determinante, ai fini del mutamento giurisprudenziale, si rivelò l’esigenza di garantire la stessa pienezza ed effettività della tutela cautelare assicurata dal processo civile, in forza della c.d. interpretazione adeguatrice dell’art. 21 della legge n. 1034/1971. Per reagire all’indicata mancanza di tutela, si era sviluppata, a partire dal 1975, una giurisprudenza pretorile che sosteneva l’ammissibilità del ricorso al giudice ordinario, per ottenere la tutela cautelare prevista dall’art. 700 c.p.c., anche quando la controversia principale rientrava nella giurisdizione del giudice amministrativo. Ma la strumentalità fra cautela e merito non può consentire il frazionamento della giurisdizione. Le Sezioni Unite (Cass., Sez. Un., 17 gennaio 1986, n. 277) dichiararono il difetto di giurisdizione del giudice ordinario, adito in sede cautelare ex art. 700 c.p.c. Fu così posta la questione di legittimità costituzionale dell’art. 21 ult. comma, della legge n. 1034/1971, nella parte in cui non consentiva, nell’ambito della giurisdizione esclusiva, di emettere pronunce sommarie di pagamento di somme, a carico


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Il dibattito sulla tutela cautelare nei confronti dei provvedimenti negativi nel processo amministrativo è stato ed è assai ampio; fra i contributi di approfondimento che risultano utili allo studioso del diritto tributario vi è indubbiamente lo spunto a considerare la tutela cautelare in una prospettiva estensiva che superi cioè qualsiasi interpretazione che abbia ad oggetto la mera “sospensione” degli atti impugnati; la distinzione fra misure cautelari “negative” o “positive” non identifica un limite per i poteri del giudice, ma corrisponde solo ad una distinzione interna utile per graduare il contenuto della ordinanza cautelare in funzione dell’ interesse fatto valere con l’istanza di tutela cautelare e quindi in funzione dei caratteri del provvedimento impugnato (36).

dell’amministrazione, ed in favore del pubblico dipendente. La Corte Costituzionale, n. 190 del 1985, dichiarò l’illegittimità costituzionale della norma. Sulla base del principio di effettività della tutela cautelare a partire dal 1990 la giurisprudenza amministrativa è giunta ad ammettere misure cautelari non limitate alla sola sospensione dell’atto impugnato, ma impositive dell’obbligo per l’amministrazione di adottare, in via provvisoria, determinati provvedimenti o comportamenti (c.d. ordinanze propulsive). Pertanto sull’assunto che la sentenza non ha soltanto un effetto demolitorio dell’atto impugnato, ma anche conformativo nel riesercizio del potere amministrativo susseguente all’annullamento, ne deriva che l’ordinanza cautelare può porre all’amministrazione un preciso obbligo di comportamento in sede di riesame del provvedimento (in modo da assicurare protezione agli interessi pretensivi). Inoltre si è osservato che per il principio di strumentalità sono ammissibili provvedimenti cautelari che, in via provvisoria, obblighino l’amministrazione a riesercitare il potere amministrativo in quanto la sospensione dell’efficacia del provvedimento negativo, provocando l’inidoneità dell’atto amministrativo a disciplinare la situazione giuridica, determina la reviviscenza del dovere dell’amministrazione di provvedere, regolando ex novo e medio tempore la situazione. L’art. 3 della legge n. 205 del 2000, nel riformulare l’art. 21 della legge n. 1034 del 1971, ha definitivamente positivizzato il principio di atipicità. Infine, il codice del processo amministrativo, nel Titolo II del Libro secondo, ed i successivi decreti correttivi hanno disciplinato le misure cautelari negli articoli da 55 a 61, stabilendo che il ricorrente può domandare l’emanazione delle misure che appaiono “secondo le circostanze, più idonee ad assicurare interinalmente gli effetti della decisione sul ricorso”. Due aspetti devono essere segnalati in relazione al tema che è oggetto di trattazione. Il primo attiene al fatto che la tutela cautelare nel processo amministrativo non soffre limitazioni nei confronti dell’inerzia dell’amministrazione, in tutti i significati che essa può assumere: dal mero inadempimento dinnanzi al diritto soggettivo del privato all’inadempimento dell’obbligo di provvedere o di accoglimento di un’istanza. Il secondo riguarda la tipizzazione della misura cautelare che prevede “l’ingiunzione a pagare una somma in via provvisoria” prevista all’art. 55, comma primo, c.p.a. (36) “La tutela degli interessi pretensivi che si assumono lesi da provvedimenti amministrativi di rigetto può essere efficacemente realizzata in sede cautelare mediante l’adozione di misure d’urgenza di contenuto positivo, determinate autonomamente dal giudice intese ad anticipare, in via meramente interinale, la produzione degli effetti del provvedimento richiesto dall’interessato e negato dalla amministrazione” (Cons. Stato, sez. V., 21 giugno


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Sul piano sistematico va pertanto condivisa quella opinione che consente di individuare nell’art. 47 l’esistenza di uno stretto legame tra il potere giurisdizionale decisorio e quello sospensivo, al duplice scopo di anticipare, seppur a titolo provvisorio, l’effetto tipico della decisione finale e di assicurare in tal modo che quest’ultima intervenga effettivamente re adhuc integra. Non vi è dubbio che il duplice scopo della cautela (strumentalità ed effetto anticipatorio) sia quello di fissare misure giurisdizionali in attesa e in vista di una sentenza di merito sulla res controversa, per poterne assicurare gli effetti, di talché l’attributo “cautelare” è meramente descrittivo e non postula alcuna definizione precisa (e men che mai quella di pura “sospensione” dell’atto impugnato, che ne è solo uno dei possibili effetti), essendo tutte le misure cautelari preordinate a non frustrare la tutela delle posizioni soggettive e ad assicurare la decisione definitiva (37). Questa definizione appare la più idonea a rappresentare la pluralità di modelli processuali che accanto al modello meramente impugnatorio - annullatorio del processo tributario e pur non sfociando in riti alternativi, si conformano alla natura dell’interesse azionato, in stretta relazione al tipo di utilitas che il giudicato di merito può concedere al contribuente. Le differenti modalità di realizzazione dell’interesse azionato implicano anche metodi di tutela cautelare diversificati, per l’evidente ragione che quest’ultima, nel silenzio o nel difetto delle norme che la strutturano in modo specifico, aderisce “naturalmente” alla struttura essenziale della tutela di merito. Tale “naturalità” è l’effetto automatico della struttura della tutela stessa e si determina per il sol fatto che esistono categorie qualitativamente diverse di interessi tutelabili e, quindi, altrettante azioni esperibili, altrettanti rimedi acquisibili ed altrettante conformazioni dell’attività della amministrazione finanziaria susseguente al giudicato. Pertanto, in difetto di altre e più ragionevoli scelte di diritto positivo, i principi della tutela cautelare tendono a conformarsi su quella di merito e producono risultati cautelari che non sono sempre o tutti solo anticipatori, o tutti solo a sommaria cognitio, o tutti solo a contenuto preventivo, ma che possono essere una combinazione tra questi diversi e pur correlati aspetti della cautela. 5. Gli ulteriori argomenti a sostegno della insospendibilità. – Vi sono poi gli argomenti che giungono alla soluzione negativa facendo leva sull’as-

1996, n.1210). (37) E. Fazzalari, Profili della cautela, in Riv.dir. proc., 1991, 4 e ss.


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sunto per il quale l’esercizio del potere cautelare del giudice tributario sarebbe subordinato a determinate e rigide condizioni; si tratterrebbe di limitazioni tali da affliggere sostanzialmente nell’area della tutela cautelare una fascia di situazioni e atti (il rifiuto alla restituzione dei tributi, incluso il silenzio, il diniego di agevolazioni, il rigetto dell’istanza di condono, i provvedimenti sulle operazioni catastali, etc.) tanto da rendere probabilmente aleatoria ed evanescente tale tutela. In particolare si sviluppa la sequenza argomentativa a sostegno della tesi restrittiva nel caso del rimborso delle imposte osservando quanto segue. 5.1. La correlazione tra efficacia dell’ordinanza cautelare ed efficacia della sentenza di merito. – La modifica dell’art. 69 – che ha consacrato l’immediata esecutività delle sentenze di condanna al pagamento di somme in favore del contribuente – ha fatto venir meno la preclusione normativa all’immediata efficacia della sentenza di rimborso (artt. 69 e 70) (38) ed ha sciolto i dubbi avanzati in merito alla utilità della concessione di un provvedimento interinale la cui efficacia sarebbe rimasta limitata alla fase cautelare, occorrendo comunque e sempre il giudicato al fine di ottenere il rimborso delle somme (39). A mio avviso, all’interno del mutato quadro normativo che vede l’esecutività immediata delle sentenze non definitive favorevoli al contribuente, appare ancora più evidente la necessità di assicurare il rimborso di imposta anche in via cautelare, a garanzia della piena ed effettiva tutela giurisdizionale del contribuente. La funzione tipica della tutela cautelare è infatti quella di evitare che nelle more del giudizio si verifichi un pregiudizio irreversibile al bene della vita oggetto di domanda (c.d. funzione conservativa), che renda successivamente inutile la tutela giurisdizionale della parte che abbia visto accolta la propria domanda di merito.

(38) Per le sentenze di condanna dell’amministrazione finanziaria la norma previgente prevedeva il rilascio della formula esecutiva e l’esperibilità del giudizio di ottemperanza solo dopo che la sentenza era passata in giudicato (39) L’argomento poteva essere resistito già prima della riforma sul piano sistematico, rilevando che l’ordinanza cautelare e la sentenza costituiscono espressioni provvedimentali di funzioni giustiziali autonome e appartengono a discipline “ontologicamente diverse” cosicché non era consentita alcuna omologabilità tra efficacia provvisoria e condizionata (tipica della tutela cautelare che trae origine dall’art. 47) ed efficacia immutabile e definitiva tipica del sentenza passata in giudicato (che traeva origine nell’art. 69 vecchia formulazione).


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5.2. L’infondatezza della tesi secondo la quale i provvedimenti cautelari determinerebbero una perdita delle garanzie patrimoniali. – La tutela cautelare del rimborso di imposta è stata in passato negata dall’Amministrazione finanziaria con riferimento al rischio della “perdita delle garanzie patrimoniali nelle more della definizione del giudizio principale o anche la maggiore difficoltà della esazione futura del credito erariale” (40). Si osservava che il provvedimento positivo interinale di rimborso provvisorio delle imposte avrebbe provocato una immutazione tendenzialmente irreversibile della situazione controversa (attesa la problematicità di un eventuale recupero delle somme rimborsate) e non avrebbe inciso su eventuali legittime aspettative al rimborso del contribuente che, in sede di esecuzione di giudicato, avrebbe potuto sempre conseguire. Inoltre alla decisione cautelare, emessa sulla base di una semplice delibazione della res litigiosa, mancherebbe l’attributo caratteristico della provvisorietà; infatti procurerebbe al contribuente effetti favorevoli maggiori di quelli che si potrebbero conseguire da una sentenza di accoglimento. Sarebbe integralmente satisfattiva dell’interesse concreto del ricorrente e renderebbe di fatto inutile la successiva fase della decisione nel merito (con conseguente attenuazione della garanzia della tutela giurisdizionale che si realizza appieno solo in questa seconda fase in cui la decisione viene adottata previo un analitico e motivato esame dei vari motivi di doglianza e di impugnativa). In sintesi la decisione cautelare procurerebbe al contribuente effetti favorevoli maggiori di quelli che potrebbe conseguire da una sentenza di accoglimento. L’assunto dal quale muove questa ipotetica posizione non è corretto ed è assolutamente incondivisibile: non vi è dubbio che la tutela cautelare anche nel processo tributario si giustifichi per la sua strumentalità e provvisorietà. La finalità ultima della tutela cautelare è quella di determinare un assetto interinale che eviti il danno grave ed irreparabile che una parte subisca a seguito della durata del giudizio. La interinalità dell’assetto comporta la provvisorietà e la reversibilità del medesimo; parrebbe oltremodo ovvia l’osservazione secondo la quale esula dalla tutela cautelare la produzione di effetti giuridici definitivi, poiché altrimenti viene ad essere superata la necessità del giudizio di merito. Non vi è dubbio inoltre che il giudice tributario non possa disporre in sede cautelare misure in ambiti soggetti alla discrezionalità amministrativa (trattandosi di funzione restitutoria d’imposta vincolata).

(40) Si veda Agenzia delle Entrate, circolare 23 aprile 1996, n. 98/E.


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Le conclusioni quindi non sono condivisibili. Il paventato rischio per l’amministrazione finanziaria del recupero di rimborsi indebitamente corrisposti non è diverso o maggiore da quello connesso alla ripetizione di qualsiasi rimborso erogato spontaneamente dalla amministrazione finanziaria in assenza di ogni controversia e che risulti successivamente non dovuto. Basti pensare all’ordinativo di pagamento erroneamente emesso ed al potere di iscrizione in ruolo speciale per il recupero delle somme ex art. 43 del d.p.r. n. 602 del 1973. Non viene a determinarsi alcuna immutazione tendenzialmente irreversibile della situazione controversa, poiché il rischio (eventuale) di mancato recupero può essere escluso in radice condizionando l’effettiva riscossione del rimborso e l’incasso delle somme alla prestazione di idonee garanzie di cui al quinto comma dell’art. 47 (41). In questo senso è assolutamente condivisibile quanto si è di recente osservato in dottrina (42), a seguito l’introduzione del Decreto Ministeriale n. 22/2017. Si è infatti ritenuto che si avranno, in termini numerici, notevoli richieste di pagamento delle somme scaturenti dalle sentenze di condanna dell’Amministrazione finanziaria, ancorché sia pendente l’impugnazione in quanto di fatto la garanzia è destinata ad entrare nell’ordinarietà degli strumenti a disposizione del giudice per contemperare il conflitto tra le opposte esigenze, in campo nel processo, tra la speditezza della tutela e, sull’altro fronte, la certezza dell’accertamento contenuto nella sentenza. Tale autore ha inoltre osservato che occorre “aspettarsi che questo strumento entrerà nella normalità dei casi anche sul versante delle sospensioni cautelari giurisdizionali dell’atto impugnato, in cui sino ad esso, a quanto consta, assai rari sono stati i casi in cui il giudice, ai sensi del comma 5 dell’art. 47, D.Lgs. n. 546/1992,

(41) Ritenere poi che il contribuente otterrà comunque in sede di esecuzione della pronuncia di accoglimento quanto dovutogli, equivale ad affermare sostanzialmente che soltanto all’esito del giudizio di ottemperanza (ove l’amministrazione finanziaria non esegua spontaneamente la sentenza) il contribuente può essere effettivamente tutelato ed ottenere giustizia; così disconoscendo di fatto, in contrasto con i più volte richiamati principi costituzionali e soprattutto con quello della inviolabilità del diritto di difesa in ogni stato e grado del procedimento, la configurabilità del danno grave e irreparabile anche a causa della sola incidenza del fattore tempo sul processo, ed in ultima analisi la stessa tutela cautelare in materia di rimborso d’imposta, inoltre esponendo i contribuenti che hanno i requisiti previsti dalla legge per la restituzione (e che su di essa hanno fatto affidamento) anche al rischio di gravi dissesti finanziari, senza alcun sostanziale vantaggio per gli interessi pubblici riconosciuti e tutelati dalla normativa in materia di rimborso d’imposta. (42) F. Randazzo, In vigore la garanzia per l’esecuzione delle sentenze tributarie di condanna dell’ufficio, in Corriere Tributario, n. 17, 2017, 1227.


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abbia subordinato la sospensione cautelare dell’atto alla prestazione di idonea garanzia” (43). È quindi evidente che la tesi secondo cui non sono ammissibili provvedimenti interinali poiché determinano una situazione di irreversibilità è infondata. La concessione della misura cautelare non mette affatto fine alla lite cautelata e non rende inutile la successiva fase processuale di cognizione piena, in quanto il riesame dell’attività provvedimentale (o, nel caso di comportamento omissivo, l’esercizio, per la prima volta, del potere) viene posto in essere, dall’Amministrazione finanziaria interinalmente, in esecuzione dell’ordine del giudice, e si fonda su di una illegittimità altamente probabile delle precedenti determinazioni o della precedente inattività (oggetto di «sospensiva»), che abbisogna pur sempre poi conferma nella sentenza di merito. Occorre poi soggiungere che anche la «sospensiva» di molti provvedimenti impositivi può incidere in maniera irreversibile sugli interessi in gioco, senza che sia stata mai posta in dubbio l’ammissibilità dei provvedimenti cautelari; che il cennato contrario argomento dell’irreversibilità degli effetti e della fine della lite cautelata si rivela erroneo nella misura in cui finirebbe per provare troppo, posto che, ove si aderisse a tale tesi, in termini generalidovrebbero escludere dalla tutela cautelare tutte le categorie di provvedimenti positivi restrittivi la cui «sospensiva» può incidere irreversibilmente sugli interessi pubblici sottesi e coinvolti, né più né meno di quanto potrebbe incidere la «sospensiva» di provvedimenti negativi e la successiva emanazione interinale del provvedimento richiesto.

(43) Lo stesso Autore è critico nei confronti della raccomandazione che l’Amministrazione finanziaria si è preoccupata subito di diramare ai propri Uffici periferici (circolare n. 38/E 2015) secondo cui “è opportuno che, nei giudizi aventi ad oggetto il rifiuto espresso o tacito ad una istanza di rimborso di somme superiori a diecimila euro, gli Uffici provvedano a fornire al giudice eventuali elementi in loro possesso idonei ad incidere negativamente sul giudizio di solvibilità del contribuente, al fine di ottenere, in caso di soccombenza, la previsione di idonea garanzia”. Randazzo osserva che “a ben vedere, la questione subisce un’irragionevole anticipazione della sua disamina, dal momento che la valutazione circa l’opportunità di subordinare l’esecuzione della sentenza alla prestazione di garanzia dovrebbe essere effettuata nel momento in cui la parte vittoriosa richiede l’immediata esecuzione della sentenza, e non prima di quel momento. Si tratta di una valutazione di opportunità che più propriamente rientrerebbe nella cognizione del giudice dell’ottemperanza, chiamato a dare esecuzione alla sentenza secondo il disposto del nuovo art. 69”.


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5.3. L’infondatezza della tesi secondo la quale la tutela cautelare si risolverebbe nell’imposizione di un “facere” nei confronti della amministrazione finanziaria. – Si è osservato che non sarebbero ammissibili nella fase cautelare misure che impongano alla amministrazione finanziaria incisivi obblighi di esecuzione (obblighi di facere) e pertanto non potrebbe essere accordata tutela alle azioni di rimborso; tale argomento presuppone un assunto (incondivisibile) secondo il quale non sussisterebbe alcuna analogia funzionale tra giudizio cautelare e giudizio d’ottemperanza nel processo tributario. È agevole preliminarmente osservare che nei casi in cui l’ordinanza di sospensione del provvedimento espresso di rifiuto o del rifiuto tacito impugnato non sia di per sé sufficiente a garantire l’effettività della tutela dell’interesse fatto valere dal ricorrente, ovvero nei casi in cui l’amministrazione finanziaria rifiuti o eluda l’ esecuzione dell’ordinanza cautelare, l’interessato ben può adire nuovamente il giudice tributario (la stessa Commissione tributaria provinciale (44)) chiedendo l’emanazione dei provvedimenti ritenuti idonei (e consentiti dal sistema) per assicurare l’esecuzione del provvedimento cautelare. Deve essere chiaramente affermato il principio secondo cui anche nella fase cautelare del giudizio (e non solo in sede di esecuzione del giudicato) al giudice tributario deve essere riconosciuto il potere di emanare, direttamente o per mezzo di commissario ad acta da egli nominato, provvedimenti dichiarativi di obblighi a carico dell’amministrazione finanziaria, e di imporre alla stessa autorità finanziaria adempimenti vari, analogamente a quanto già riconosciuto allo stesso giudice in relazione al giudizio di ottemperanza (45). Tale estensione analogica, alla fase cautelare, degli amplissimi poteri spettanti al giudice tributario in sede di esecuzione è motivata con riferimento alla identità della ratio della tutela cautelare e di quella in sede di esecuzione della sentenza oltre che con la natura decisoria dell’ordinanza di sospensione. L’effettività della tutela interinale può essere realizzata mediante strumenti diversi e ampiamente eccedenti

(44) Nelle forme del rito cautelare si insterà alla stessa Commissione tributaria provinciale rilevando la inottemperanza al provvedimento cautelare e quest’ultima dovrà direttamente provvedere nominando eventualmente un commissario ad acta (nello stesso senso C. Glendi, La tutela cautelare del contribuente nel processo tributario riformato , cit., 145). (45) “L’ottemperanza si pone in primo luogo come mezzo per costringere l’amministrazione ad un dare ed eventualmente ad un facere” M. Basilavecchia, Il giudizio di ottemperanza, in AA. VV., Il processo tributario, Torino, 1998, 943; vedi inoltre Comm. Trib. Prov. di Pisa, sez. I, 6 febbraio 1998, n.483, in Boll. Trib., 1999, 663.


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la pura e semplice paralisi degli effetti del provvedimento di rifiuto tacito od espresso anche imponendo all’ amministrazione finanziaria la tenuta di determinati comportamenti considerati necessari per la realizzazione della tutela giurisdizionale, vale a dire degli effetti sostanziali della pronuncia cautelare. 5.4. Sull’inapplicabilità del rimedio residuale costituito dalla tutela d’urgenza ex art.700 c.p.c. – Si è sostenuta l’applicabilità dell’art. 700 c.p.c. “quale innesto del procedimento… nel tronco della tutela giurisdizionale tributaria compiendo l’operazione già effettuata dalla Corte costituzionale con la ricordata sentenza n.190 del 1985… pertanto la commissione tributaria ben potrà esercitare i poteri di cui all’art. 700 c.p.c. adottando… in quanto compatibili con la struttura del processo tributario, le regole procedimentali di cui agli artt. 669-bis e ss. c.p.c.” (46). Ad analoga conclusione si è giunti allo scopo di sfuggire alla “censura di costituzionalità” (47) ritenendo che “l’esigenza di effettività della tutela… può essere soddisfatta mediante un provvedimento cautelare atipico con cui il giudice tributario faccia ordine alla amministrazione finanziaria di provvedere in via provvisoria… al pagamento in tutto o in parte delle somme dovute”. Và in primo luogo osservato che i medesimi argomenti addotti a sostegno dell’inapplicabilità dell’art. 700 c.p.c. nella vigenza del previgente d.p.r. n. 636/1972 vanno riconfermati anche nella vigenza del d.lgs. n. 546 del 1992 (48). Peraltro e da opposti versanti teorici la dottrina nega ora la estensibilità dell’art. 700 c.p.c. Per un autore infatti “deve ritenersi ultronea e tutt’affatto incompatibile con il processo tributario che ne occupa, l’applicazione… dell’art. 700 c.p.c. nella sua essenziale caratteristica di rimedio residuale utilizzabile ancor prima e al di fuori del giudizio di merito. Occorre infatti considerare che il processo tributario resta essenzialmente strutturato quale impugnativa per l’annullamento di atti aventi natura provvedimentale e che, in tale assetto strutturale, anche la tutela cautelare ad esso correlata assume

(46) T. Baglione, S. Menchini, M. Miccinesi, Il nuovo processo tributario-commentario, cit., 404. (47) M. Cantillo, La sospensione dell’atto impugnato, in AA. VV., Il nuovo processo tributario, (a cura di M. Miscali), Milano, 1996, 264. (48) Per l’orientamento giurisprudenziale vedi S. Muleo, La tutela cautelare, in AA. VV., Il processo tributario, cit., 837; C. Glendi, L’oggetto del processo tributario, cit., 58.


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tipicamente la forma della sospensione incidentale dell’esecuzione dell’atto impugnato, non già di rimedio di tutela preventiva esperibile ancor prima dell’emanazione di un atto autonomamente impugnabile” (49). Si è in conformità a tale opinione ritenuto da altro autore che “la consapevolezza delle limitazioni che affliggono la tutela cautelare offerta dall’art. 47 ha indotto taluni a sopperirvi affermando, anche allo scopo di preservare il sistema da fondate censure di illegittimità costituzionale, l’applicabilità al processo tributario dell’art. 700 c.p.c., il quale consentirebbe, in specie, di estendere detta tutela altresì alle ipotesi di esercizio dell’azione di condanna da parte del contribuente; e ciò sul presupposto incontestato ed incontestabile che in tali situazioni, durante il tempo occorrente per far valere il relativo diritto in via ordinaria, questo possa essere minacciato da un pregiudizio imminente ed irreparabile. L’assunto non può peraltro essere condiviso, e non soltanto perché esso presta il fianco all’obiezione insuperabile per cui non può comunque ritenersi consentito al giudice di attribuire all’interessato in sede cautelare più di quanto egli possa fare in sede decisoria. In effetti l’ostacolo che al medesimo si frappone è ancora più radicale: la sospensione dell’esecuzione dell’atto impugnato è essa stessa una misura riconducibile al novero dei provvedimenti di urgenza che possono essere emanati dal giudice in forza dell’art. 700; e se, dunque, il legislatore del processo tributario ha enucleato dal complesso di tali misure quella sola che ha poi espressamente e compiutamente disciplinato, questo sta a significare, in maniera implicita ma non meno inequivocabile, che egli ha inteso circoscrivere entro questi limiti l’ampio spettro applicativo che la stessa norma presenta in seno al processo civile. Nè in contrario vale opporre che siffatti limiti sono troppo angusti e come tali suscettibili di porsi in contrasto con la pienezza del diritto alla tutela giurisdizionale costituzionalmente garantito; e ciò in quanto, se è vero che le norme vanno interpretate magis ut valeant quam ut permeant, è altrettanto vero che l’interprete non può in alcun modo forzarne il significato oltremisura e neppure, e tantomeno, presciderne dall’armonia e coerenza del sistema nel quale esse sono inserite” (50). Esclusa l’applicabilità diretta dell’art. 700 c.p.c. e riaffermata la piena

(49) C. Glendi, La tutela cautelare del contribuente nel processo tributario riformato, cit., 146. (50) P. Russo, Manuale di diritto tributario, cit., 58 ss. Per le Sezioni Unite (Cass. sez. un., 17 gennaio 1986 n. 277) la strumentalità fra cautela e merito non può consentire il frazionamento della giurisdizione.


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applicabilità esclusiva dell’art. 47 occorre ora proseguire nella analisi delle tematiche positivamente stimolate dalle osservazioni della dottrina precedentemente richiamata. Assunta, come dato condiviso, la scarsità di disposizioni positive sulla tutela cautelare nel processo tributario, l’approccio che appare preferibile in relazione alla questione di effettività della tutela giurisdizionale sollevata attraverso il richiamo all’art. 700 c.p.c. è quello di comprendere entro quale misura la tutela cautelare in materia tributaria sia assoggettata a principi generali validi per ogni tipo di tutela cautelare. Vi sono indubbiamente principi essenziali comuni alla tutela cautelare presenti in ogni ordinamento processuale (51) e quindi sia al processo tributario che al processo civile; peraltro l’affermazione generale si scontra con il tema della loro concreta applicabilità. La diversa disciplina positiva dettata per la misura cautelare può costituire un limite all’applicazione del principio; basti pensare che nel caso dell’art. 700 c.p.c. l’istanza cautelare è presentata ante causam, mentre nell’art. 47 è necessario che il procedimento sia stato correttamente incardinato, che l’ordinanza cautelare nel processo civile è reclamabile, mentre nel processo tributario non lo è. La comunanza dei principi attiene ai principi stessi che caratterizzano essenzialmente la tutela cautelare, privando di esistenza i quali non si può neppure più parlare di tutela cautelare in senso proprio. Intendiamo riferirci alla strumentalità (con il corollario della interinalità e la connessa preclusione di misure che producano effetti irreversibili), all’oggetto della cognizione (fumus boni juris e periculum in mora), alla reclamabilità. 6. I profili ricostruttivi della tutela cautelare: la tutela demolitoria e la tutela ordinatoria. – Pur con tutte le limitazioni che più avanti meglio si preciseranno, l’art. 47 conferisce al giudice tributario il potere di provvedere cautelarmente anche in tema di rifiuto tacito ed espresso della restituzione; in altre parole non vi è alcun dubbio che il giudice tributario possa provvedere adottando provvedimenti giudiziali di carattere positivo, peraltro la questione che ora immediatamente si impone attiene al contenuto di tali provvedimenti. È imprescindibile a questo punto l’esame del tema relativo alla immediata esecutività delle sentenze di condanna dell’Amministrazione al pagamento

(51) Vedi P. Calamandrei, Introduzione allo studio sistematico dei provvedimenti cautelari, Padova, 1936.


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di somme in favore del contribuente, in termini di effettività, in relazione alla tutela interinale che può essere accordata in sede cautelare. Si tratta delle sentenze condannano al rimborso e che comportano il dovere della Amministrazione Finanziaria di provvedere al rimborso. Al fine di garantire il principio di effettività della tutela giurisdizionale sancito dall’art.24 della Carta Costituzionale il dlgs n. 546 del 1992 nell’art. 47 disciplina lo strumento che anticipa, nelle more del giudizio, il contenuto della decisione (definitiva) di merito per evitare che i tempi di durata del processo tributario possano frustrare in concreto gli effetti della statuizione giurisdizionale. La tutela cautelare è un istituto che anticipa ancorché provvisoriamente l’effetto tipico della sentenza consentendo che questa giunga re adhuc integra e possa consentire in concreto la soddisfazione dell’interesse tutelato. Nell’ambito del processo tributario la rilevanza dello strumento cautelare è strettamente connessa al carattere impositivo degli atti impugnati ed è quindi evidente l’importante funzione che viene svolta dall’incidente cautelare finalizzato a paralizzare l’esecuzione del provvedimento impugnato in attesa della definizione del giudizio di merito (52). Due aspetti devono essere ora esaminati da un lato la natura della decisione di merito (53) e dall’altra la tipicità o atipicità della tutela cautelare nel processo tributario. Per quanto riguarda il primo aspetto la decisione si conforma alla specialità della giurisdizione tributaria non soltanto diretta ad un controllo di legittimità degli atti della amministrazione finanziaria e azionabile anche in difetto di un atto impositivo in senso stretto purchè in presenza di un atto idoneo ad incidere sul “rapporto obbligatorio tributario” (54). La giurisprudenza ritiene che il giudizio tributario non è finalizzato soltanto ad eliminare l’atto impugnato, ma è diretto alla pronuncia di una decisione di merito sul rappor-

(52) Le caratteristiche essenziali della tutela cautelare sono: la sommarietà (le indagini non sono dotate della necessaria completezza e quindi l’attività logico-giuridica del giudice svolta alla scopo di assumere la decisione interinale è incompleta, poiché non fondata su tutti gli atti del processo, e superficiale); l’autonomia funzionale e strutturale; la strumentalità (in quanto assicura un assetto provvisorio degli effetti del successivo giudizio di merito); la provvisorietà; la revocabilità del provvedimento cautelare emesso. (53) Per un aggiornamento sulla giurisprudenza e sulle diverse posizioni della dottrina sia sull’oggetto del processo tributario, sia sulla natura dei poteri giurisdizionali, sul giudicato, etc. vedi C. Consolo, M. Stella, Appendice giuridico-sistematica su natura e oggetto del processo tributario (in generale e nella nuova disciplina dell’abuso del diritto), in C. Glendi, C. Consolo, A. Contrino, Abuso del diritto e novità sul processo tributario, 2017, 323 ss. (54) Corte Cass., Sez.Un., 20 novembre 2015 n. 23765.


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to tributario. Ne deriva come logico corollario la atipicità delle decisioni di merito e conseguentemente, per il nesso di strumentalità che lega cautela e merito, la atipicità delle misure cautelari. Viene quindi attribuito al giudice della cautela il potere di calibrare la misura interinale in relazione alla fattispecie concreta sottoposta al suo esame (55). Ne deriva che la ricostruzione delle diverse tipologie di provvedimenti cautelari deve essere condotta, alla luce del principio di effettività della garanzia della tutela giurisdizionale che informa l’art.47 del dlgs. 546 del 1992, distinguendo le forme della tutela cautelare a seconda che si tratti di controversie di carattere oppositivo o pretensivo. In altri termini il contenuto delle ordinanze cautelari può variare e si modella a quanto dedotto in giudizio. Se si coglie sul fronte della tutela cautelare l’evoluzione dell’orientamento giurisprudenziale che pone l’accento del giudizio tributario come un giudizio sul rapporto (e comunque nei limiti di quanto oggetto di cognizione da parte del giudice tributario) si potrà riconoscere cittadinanza nel nostro ordinamento a misure di carattere propulsivo e/o ordinatorie che in perfetta simmetria con le decisioni di merito attribuiscono al giudice della cautela poteri di sollecitazione dell’amministrazione a riesaminare o a provvedere al rimborso (56). Quindi nell’ipotesi di impugnativa del rifiuto espresso di rimborso il giudice tributario potrà emettere un provvedimento che unitamente alla sospensione del provvedimento negativo impugnato ordinerà alla amministrazione di esercitare la potestà restitutoria onde pervenire alla adozione di un atto emendato dei vizi riscontrati nella fase di cognizione cautelare o sussistendone i presupposti di emettere interinalmente un ordinativo di rimborso. Pertanto a seguito della

(55) Con l’ovvio limite della continenza in quanto è in ogni caso inibito al giudice della cautela assicurare utilità superiori e diverse rispetto a quelle conseguibili con la pronuncia di merito. (56) Significativo è in questo senso il dictum delle Sezioni Unite nella recente sentenza n.758 del 2017 dove premesso il riconoscimento della efficacia immediata delle sentenze delle commissioni tributarie concernenti atti impositivi (immediata esecutività espressamente prevista – ed ampliata – dall’art. 9 del d.lgs. 24 settembre 2015, n. 156, che ha introdotto varie modifiche al d.lgs. n. 546/92 in attuazione dell’art. 10 della legge di delega n. 24 del 2013) e premesso che il giudice tributario è giudice del “rapporto d’imposta” enuncia il principio di diritto secondo cui qualora intervenga una sentenza, anche se non passata in giudicato, del giudice tributario che annulla, in tutto o in parte, l’atto impositivo presupposto, l’ente impositore (così come il giudice dinanzi al quale sia stata impugnata la relativa cartella di pagamento) ha l’obbligo di agire in conformità alla statuizione giudiziale, sia nel caso in cui l’iscrizione non sia stata ancora effettuata, sia, se già effettuata, adottando i consequenziali provvedimenti di sgravio e, eventualmente, di rimborso dell’eccedenza versata.


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sospensiva dell’atto negativo sorge il dovere di riesaminare o di rimborsare regolando, seppur sempre a titolo provvisorio e tenendo conto del dictum del giudice tributario, la situazione oggetto di controversia. In linea con una concezione più adeguata e più moderna del processo tributario occorre riconoscere che le disposizioni contenute nel D.lgs. 31 dicembre 1992 n. 546 si caratterizzano per aver operato l’inserimento, nella sentenza, accanto alla misura demolitoria, di un contenuto di condanna comprendente anche misure di carattere ordinatorio, vincolanti il successivo comportamento dell’amministrazione finanziaria: si tratta di proposizioni che si risolvono in un indirizzo concreto, che si impone all’amministrazione finanziaria quale norma agendi (57) da seguire nel “riesercizio” della funzione restitutoria d’imposta. La riforma del 2015, nel tentativo di superare la disparità di trattamento esistente tra la parte pubblica ed il contribuente, ha generalizzato l’immediata esecutività delle sentenze (58). Per le controversie aventi ad oggetto il diniego espresso o tacito alla restituzione di quanto spontaneamente versato l’art. 69 presupponeva la definitività della sentenza ai fini della sua esecuzione. Con l’introduzione dell’art. 67 bis, l’abrogazione dell’art. 69 bis e la modifica degli articoli 68, 69 e 70, D.Lgs. n. 546/1992 il quadro normativo è profondamente mutato: tutte le sentenze delle Commissioni aventi ad oggetto l’impugnazione di atti impositivi ovvero dinieghi (espressi o taciti) su istanze presentate dai contribuenti per la restituzione di tributi sono provvisoriamente esecutive, cosicché viene “anticipata” l’efficacia di tali pronunce rispetto al loro passaggio in giudicato. Dalla sentenza immediatamente esecutiva promanano due effetti: uno negativo di carattere preclusivo (nei confronti della amministrazione finanziaria di inibizione di attività valutate contra legem dal giudice tributario) ed uno positivo di carattere conformativo (per l’ulteriore attività che l’amministrazione finanziaria deve porre in essere in osservanza al dictum del giudice tributario).

(57) Corte Cass., sez. V, 1 marzo 2004, n. 4126. (58) Prima della riforma alle sentenze favorevoli all’Amministrazione finanziaria emesse nei giudizi relativi ad atti impositivi si riconosceva da subito efficacia esecutiva, secondo i meccanismi della riscossione frazionata di cui all’art. 68, D.Lgs. n. 546/1992. Per le sentenze favorevoli al contribuente lo stesso articolo prevedeva il rimborso di quanto pagato in eccedenza rispetto alla statuizione del giudice, tuttavia il contribuente restava sprovvisto di rimedi giuridici di fronte all’inadempimento dell’Ufficio dovendo, così, necessariamente attendere il passaggio in giudicato della pronuncia.


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In altre parole il giudice tributario detta la regola dell’azione amministrativa di rimborso susseguente alla sentenza del giudice tributario nella parte del rapporto tributario che ha rappresentato l’oggetto del proprio accertamento. Il processo ha ad oggetto l’accertamento dell’esistenza, in capo all’amministrazione finanziaria, del dovere di provvedere (nel caso concreto), concentrando l’attenzione sulla conoscenza del c.d. “rapporto tributario” (di rimborso d’imposta), ossia sulla situazione di fatto e di diritto cui fa riferimento l’istanza inoltrata dal contribuente all’amministrazione finanziaria, per l’inerzia di quest’ultima, rimasta inevasa. Si è osservato che la domanda di annullamento del rifiuto non comporta alcun apprezzabile risultato pratico per il ricorrente; per questo con il ricorso avverso il rifiuto della restituzione il contribuente propone una domanda dal contenuto complesso in quanto chiede che venga accertato il credito negato dalla amministrazione, che venga annullato il rifiuto di rimborso e che l’Amministrazione venga condannata a pagare (59). Il quadro di riferimento normativo essenziale che vede da un lato l’art. 2 della legge n. 241 del 1990 (che prevede il dovere di provvedere entro un termine predeterminato con certezza) e d’altro lato le singole disposizioni dettate per i procedimenti d’imposta (che prevedono il dovere di rimborso d’ufficio o ad istanza ed i termini entro i quali l’amministrazione finanziaria deve provvedere) concorrono a disegnare con gli artt. 19, 21, 69 e 70 del D.lgs. n.546 del 1992 un ambito di sindacato del giudice tributario che non deve più essere limitato al mero riconoscimento del dovere di rimborso o di provvedere (in astratto), ma deve essere rivolto, nei limiti dell’attività vincolata dell’amministrazione finanziaria, a stabilire la fondatezza della pretesa del ricorrente e a definire, quindi, il contenuto del provvedimento che (avrebbe dovuto e) deve essere adottato. L’accertamento giudiziale è inteso, sotto il profilo procedurale o formale, a verificare il rispetto della procedura per la formazione del rifiuto (tacito o espresso) impugnabile; e, sotto il profilo sostanziale, a ricercare quelle norme, poste a tutela del diritto al rimborso che si assume insoddisfatto dal comportamento inerte dell’amministrazione finanziaria, in cui sono individuabili tutti i presupposti necessari per il doveroso (non solo nell’an, ma anche nel quid e nel quando, ove ciò risulti dalla disciplina del procedimento) esercizio della funzione restitutoria nel

(59) F. Tesauro, in Istituzioni di diritto tributario, vol. I Parte generale, Torino 1998, 335 ed ora in Id., Manuale del processo tributario, Torino, 2017, 101.


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caso specifico. Il diritto al rimborso – e lo speculare dovere di provvedere – pur se astrattamente previsto non potrà essere accertato giudizialmente a carico dell’Amministrazione Finanziaria qualora la domanda inoltrata dal contribuente sia manifestamente infondata o esorbitante dall’ambito delle pretese astrattamente riconducibili al rapporto tributario, ovvero essa sia inaccoglibile per motivi pregiudiziali o formali, quali, ad esempio, la carenza di legittimazione di chi abbia presentato l’istanza, ovvero l’incompetenza dell’organo adito, nonché l’insufficiente determinatezza dell’oggetto o la presenza di irregolarità formali. Il giudice tributario, con l’ampliamento dei suoi poteri cognitori e decisionali, è in grado di garantire che la posizione del contribuente ottenga in ogni caso una definizione; perché il giudice, nel dichiarare l’inaccoglibilità del ricorso avverso il rifiuto per infondatezza della domanda inoltrata dal contribuente all’Amministrazione Finanziaria deve aver comunque accertato, anche in questo caso (conformemente a ciò che fa in caso di domande fondate, in relazione alle quali l’esame del giudice è volto a definire, per quanto possibile, il contenuto concreto della determinazione che l’amministrazione finanziaria avrebbe dovuto adottare) la situazione di fatto e di diritto cui fa riferimento l’istanza rimasta inevasa. Ciò rappresenta senza dubbio, un risultato positivo per il ricorrente, nonostante il suo interesse sostanziale, nel caso concreto, non sia stato soddisfatto; in quanto il giudice, nel precisare le cause di inaccoglibilità del ricorso, da un lato offre all’istante tutte le indicazioni utili e necessarie per rendere, laddove possibile, accoglibile la propria richiesta e, dall’altro lato, elimina ogni situazione di incertezza nei rapporti fra Amministrazione Finanziaria e contribuente almeno fin quando non interverrà (in via giudiziale o amministrativa) un nuovo e diverso assetto di interessi. L’ambito della giurisdizione sul rimborso ha una estensione che va dall’accertamento della sussistenza dei requisiti formali per il riconoscimento del diritto al rimborso sino all’accertamento della sostanzialità del diritto al rimborso. Per quanto attiene il primo profilo l’inesistenza in concreto del dovere di provvedere al rimborso, utilizzato per respingere nel merito il ricorso avverso il rifiuto, consente di realizzare un effettivo dialogo con il contribuente e sta ad indicare che alla commissione tributaria viene consentito di accertare se la domanda del ricorrente sia inaccoglibile per ragioni formali o per ragioni sostanziali e tale estensione dell’oggetto del giudizio sul rifiuto risponde al fine di impedire un aggravio di lavoro all’Amministrazione Finanziaria, laddove, dopo l’esperimento del ricorso giurisdizionale, un suo intervento con un rifiuto espresso (che non potrebbe che avere contenuto sfavorevole


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per il contribuente) non modificherebbe la posizione del ricorrente e renderebbe inutile l’accoglimento del suo ricorso. 7. Il contenuto della tutela cautelare in punto di rifiuto (tacito ed espresso) della restituzione. – L’esigenza costituzionale di assicurare effettiva e non effimera tutela giurisdizionale anche nella fase cautelare del giudizio tributario non può che determinare il sorgere di forme innovative e ordinatorie di tutela cautelare del ricorrente, ma che nel caso specifico della tutela cautelare tributaria non richiedono necessariamente integrazioni normative o richiami a tutele naturalmente inapplicabili nella specie (quale l’art. 700 del c.p.c.) (60). Ciò comporta il potere per la commissione tributaria, oltre al potere sospensivo del provvedimento di imposizione impugnato, di attribuire alla amministrazione finanziaria un preciso obbligo di comportamento il cui contenuto è costituito dall’attività di riesame di aspetti od elementi della istruttoria accertativa considerati in modo incompleto o comunque inadeguato o di esame di aspetti od elementi non valutati nel corso della sequenza procedimentale conclusasi con il provvedimento. L’incidenza del fattore temporale sul processo tributario ed in particolare nelle situazioni di rimborso di imposta (61) rendono evidente al di là di ogni ragionevole dubbio, che l’effettività della giustizia tributaria risiede e si esaurisce quasi sempre in una tempestiva tutela cautelare idonea ad eliminare (o quanto meno attenuare), anche attraverso le cennate misure il deterioramento della posizione sostanziale del ricorrente destinata a subire modifiche sempre più gravi, e spesso irreversibili, per effetto del solo decorso del tempo (62).

(60) Come si è osservato in precedenza si ribadisce che “deve per contro ritenersi ultronea e incompatibile con il processo tributario che ne occupa l’applicazione pur da varie parti vanamente invocata dell’art.700 c.p.c. nella sua, essenziale caratteristica di rimedio residuale utlizzabile ancor prima e al di fuori del giudizio di merito” (C. Glendi, La tutela cautelare del contribuente nel processo tributario riformato (art.47 del d.lgs. n.546 del 1992 e norme complementari), cit., 1999, I, 146). (61) Il lasso temporale entro il quale in contribuente italiano ottiene il rimborso dell’imposta è ingiustamente troppo lungo. (62) Non vi è alcun dubbio che sia nel caso del rifiuto espresso che nel caso del rifiuto tacito si configurino gli estremi del fumus boni juris e del periculum in mora ben potendo originarsi danni gravi ed irreparabili dalla mancata o ritardata esecuzione di rimborsi in particolar modo quando questi sono di significativo ammontare; infatti nel caso di imprenditori il mancato rimborso potrebbe comportare gravi ripercussioni sulla liquidità dell’azienda provocandone lo stato di insolvenza (in tal senso, oltre a F. Tesauro, cit., e M.V. Cernigliaro Dini, cit., S. Menchini, in T. Baglione, S. Menchini, M. Miccinesi, Il nuovo processo tributario


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Prima ancora che a far giustizia, dunque, la tutela cautelare serve a garantire l’efficace funzionamento della giustizia, essendo per definizione finalizzata più che ad attuare il diritto ad assicurare l’efficacia pratica della pronunzia di merito che servirà ad attuare direttamente il diritto. Sicché, come acutamente osservava uno dei più insigni studiosi del processo civile, deve necessariamente ritenersi che in tutti gli ordinamenti processuali le misure cautelari mirano, al pari dei provvedimenti che il diritto inglese comprende sotto la denominazione di contempt of the court a salvaguardare l’imperium iudicis, ossia ad impedire che la sovranità dello Stato, nella sua più alta espressione, che è quella della giustizia, si riduca ad essere una tarda ed inutile espressione verbale, una vana ostentazione di lenti congegni, destinati, come le guardie dell’opera buffa, ad arrivare sempre troppo tardi. Nel quadro ricostruttivo in precedenza delineato attinente il sistema della tutela cautelare nel processo tributario avente ad oggetto il rimborso d’imposta, le ordinanze cautelari «ordinatorie» o «propulsive» attribuiscono al ricorrente utilità coincidenti con quelle che lo stesso ritrarrebbe da una immediata decisione del merito in senso favorevole: si tratta di ordinanze che anticipano gli effetti che derivano dalla sentenza (63). In tal caso l’interesse ad agire in via cautelare coincide, sul piano sostanziale, con la posizione soggettiva che legittima la proposizione della domanda giudiziale di merito ed il potere esercitabile dal giudice tributario in sede cautelare è di natura identica a quella

– Commentario, cit., 393, C. Glendi, La tutela cautelare del contribuente, cit., 57); quest’ultimo autore precisa che: “non può , d’altro lato, disconoscersi l’attualità del pregiudizio, posto che, nel caso, proprio la previsione normativa che differisce la concreta conseguibilità in via coattiva del rimborso giudizialmente riconosciuto al passaggio in giudicato della relativa sentenza di condanna (art.70 d.lgs. n.546 del 1992) rende ex se permanentemente attuale e costante, se, ovviamente, in concreto esiste, il pericolo nel ritardo ed il conseguentemente pregiudizio”. (63) Ciò non significa che va’ condivisa la tesi secondo la quale la valutazione della “strumentalità” deve essere intesa nel senso che la “quantità” di tutela attribuita in sede cautelare è strettamente proporzionale alla “quantità” di tutela ottenibile in sede di tutela di merito, cosicché la tutela cautelare non possa comportare utilità maggiori o diverse da quelle realizzabili con la sentenza; vi sono ragionevoli margini di autonomia nel procedimento cautelare che comportano la possibilità, nella prospettiva funzionale della caratterizzazione di strumentalità della tutela cautelare, di misure cautelari che comportino l’attribuzione di utilità anche maggiori di quelle ottenibili attraverso la sentenza in forza del principio di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale in ogni stato e grado del giudizio. Per quanto riguarda il rimborso d’imposta si ritiene che la tutela cautelare possa essere soddisfacentemente garantita mediante l’attribuzione alla amministrazione finanziaria di obblighi di emissione di provvedimenti di rimborso analogamente a quanto potrebbe accadere in sede di giudizio di ottemperanza.


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del potere spettantegli in sede di merito. Nel processo avente ad oggetto il rimborso d’imposta se è il c.d. effetto “ordinatorio” (accanto a quello “demolitorio” e di “condanna”) che può ritenersi caratterizzare la sentenza tributaria e se l’attività di rinnovazione del provvedimento annullato è funzionalmente dipendente dell’esecutività della sentenza, allora l’effetto anticipatorio della misura cautelare, in una visione unitaria del processo tributario, si rapporta all’utilità finale del provvedimento satisfattivo, consistendo nell’obbligo di emissione dell’ordinativo di rimborso. Nel caso del rimborso d’imposta non può seriamente disconoscersi, quindi, la sostanziale coincidenza tra l’ambito della tutela cautelare e quella della tutela conseguibile con la sentenza di merito, a seguito della sua esecuzione da parte dell’amministrazione finanziaria ovvero, nell’ipotesi di inerzia e/o elusione, a seguito della sua esecuzione attraverso il giudizio di ottemperanza; in sintesi il giudice tributario della cautela può spingersi fin dove può quello dell’ottemperanza (64). 8. La specificità dell’ordinanza propulsiva di carattere “ordinatorio”. – Le ordinanze «ordinatorie» di carattere propulsivo manifestazione del potere di sospensione dei provvedimenti negativi di rifiuto tacito o di rifiuto espresso

(64) Il dato letterale che conferma l’ammissibilità di una tutela cautelare propulsiva di carattere ordinatorio è l’art. 23 d. lgs. 472 del 1997. La norma riconosce la possibilità per l’amministrazione finanziaria di sospendere, con appositi provvedimenti, l’effettuazione dei rimborsi spettanti al contribuente, quando a costui sono notificati atti impositivi (definitivi o meno). Il terzo comma dell’articolo dispone però che “i provvedimenti di cui ai commi 1 e 2, che devono essere notificati all’autore della violazione e ai soggetti obbligati in solido, sono impugnabili avanti la commissione tributaria che può disporne la sospensione ai sensi dell’art. 47 del decreto legislativo 31 dicembre 1992 n. 546”. È evidente che la previsione di una tutela cautelare avverso i provvedimenti “negativi” di sospensione dei rimborsi, nella prospettiva delineata, non può che tradursi in un’ordinanza “ordinatoria” che obbliga l’amministrazione all’attuazione del pagamento. Attribuire un diverso contenuto alla previsione dell’art. 23 avrebbe quale effetto che la norma stessa risulterebbe priva di senso e inutile giacché, posta l’efficacia “negativa” del provvedimento impugnato, non accorderebbe alcuna tutela al contribuente. L’art. 23 consente probabilmente di non inquadrare la “tutela cautelare” dell’art. 47 entro i rigorosi limiti di un’ordinanza che esclusivamente sospenda l’efficacia esecutiva dell’atto impugnato, ma di riconoscere l’ammissibilità di un’ordinanza cautelare che invece imponga un facere positivo all’amministrazione consistente nell’effettuazione del rimborso in pendenza di causa “benché la littera legis sembra riferirsi alla sospensione di tali atti, occorre in realtà constatare come questi atti siano atti che incidono direttamente sul pagamento sospeso … Proprio in quanto tali la statuita sospendibilità cautelare di siffatti provvedimenti non può che risolversi nell’esecuzione dei loro effetti, e cioè nell’effettuazione del pagamento, non potendosi neppure astrattamente ipotizzare una qualsivoglia altra tutela cautelare in merito” (cfr. C. Glendi, Dinieghi di rimborso e tutela cautelare, in Corr. Trib., 1999, 2541).


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devono necessariamente realizzarsi, per definizione, in forma «specifica» e non generica, dato che consistono nell’emanazione di nuovi provvedimenti di rimborso manifestazione di quella novativa effusione di attività amministrativa stimolata dal provvedimento giudiziale. La forma «specifica» delle ordinanze cautelari in genere e, in particolare, di quelle di sospensione di provvedimenti di rifiuto espresso della restituzione o del rifiuto tacito della restituzione dovrebbe avere la seguente strutturazione. Il dovere di provvedere al rimborso regolando (ex novo o per la prima volta) interinalmente la situazione sulla quale ha inciso il provvedimento di rifiuto espresso della restituzione o del rifiuto tacito della restituzione sospeso, trova la propria riaffermazione nel «titolo» costituito dal provvedimento cautelare del giudice tributario che stimola l’esercizio della potestà di rimborso attribuita all’autorità finanziaria. Tale provvedimento non può non avere per contenuto che un obbligo di fare determinato in forma “specifica”. Soltanto in tal modo la esecuzione coattiva ad opera del giudice tributario nell’eventuale successivo giudizio di ottemperanza (65) a seguito dell’inadempimento all’ordinanza cautelare da parte dell’Amministrazione Finanziaria potrà necessariamente realizzarsi in forma «specifica». La giurisdizione del giudice tributario in sede cautelare, ed in particolare quella esercitata nella fase di esecuzione delle ordinanze di sospensione alle quali l’Amministrazione Finanziaria non ha ottemperato, ha caratteri del tutto analoghi a quelli del giudizio di ottemperanza o di esecuzione del giudicato (previsto e disciplinato dall’art. 70 del d.lgs. n. 546/1992). Com’è noto il giudizio di ottemperanza o di esecuzione del giudicato costituisce ipotesi tipica nella quale il giudice tributario ha giurisdizione di merito (66). In tale prospettiva viene innanzi tutto in rilievo l’elemento tipico della cognizione cautelare costituito dal potere del giudice tributario (al fine di procedere all’accertamento della effettiva sussistenza del presupposto della gravità che deve necessariamente caratterizzare, unitamente alla irreparabilità, il danno ai fini della sua giuridica rilevanza ai sensi dell’art. 47) di effettuare una

(65) Non vi è dubbio che in tal caso occorrerà rivolgersi alla stessa commissione tributaria provinciale nelle stesse forme del rito cautelare, perché questa con i medesimi “poteri di cui dispone in sede di giudizio di ottemperanza” (C. Glendi, La tutela cautelare del contribuente, cit., 145) potrà provvedere per l’attuazione del provvedimento cautelare ivi compresa la possibilità di nomina di un commissario ad acta. (66) Sembra esprimersi in questo senso M. Basilavecchia, Il giudizio di ottemperanza, in AA. VV., Il processo tributario, cit., 933.


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ponderazione o valutazione dell’interesse del ricorrente con l’interesse pubblico dell’Amministrazione Finanziaria comparando il danno che il permanere dell’efficacia del provvedimento impugnato produrrebbe al ricorrente – tenuto anche conto del periodo di tempo (di solito molto lungo) necessario per la trattazione del merito – con il danno che, in caso di accoglimento della domanda cautelare, riceverebbe l’amministrazione finanziaria (67). È da porre in rilievo infine l’ulteriore carattere tipico della giurisdizione cautelare che va individuato nella compenetrazione della fase «integrativa» di esecuzione dell’ordinanza cautelare e della fase di emanazione della stessa ordinanza rimasta poi ineseguita. Nell’ambito precettivo disegnato dall’art. 47 il giudizio cautelare ha carattere unitario e non sembrano identificabili procedimenti distinti di cognizione e di esecuzione, in quanto il potere cautelare implica anche la capacità di assicurare l’attuazione della misura cautelare con gli ordinari rimedi «essendo l’eseguibilità, anche con mezzi coercitivi, connotato proprio e indefettibile del tipo di tutela richiesto con la domanda cautelare» (68).

(67) “Le argomentazioni difensive debbono essere ponderate con l’esigenza erariale di una sollecita riscossione dei tributi, bilanciando i rispettivi interessi” (L. Tosi, L’azione cautelare, cit., 790; S. Muleo, La tutela cautelare, cit, 865). (68) Tali principi sono stati affermati ed ulteriormente precisati anche dalla Corte Costituzionale con le sentenze n. 419 dell’8 settembre 1995 e n.435 del 15 settembre 1995, la cui motivazione al riguardo si articola nelle seguenti proposizioni: «una volta intervenuta una pronuncia giurisdizionale la quale riconosca come ingiustamente lesivo dell’interesse del cittadino un determinato comportamento dell’amministrazione, o che detti le misure cautelari ritenute opportune e strumentali all’effettività della tutela giurisdizionale, incombe su quest’ultima l’obbligo di conformarsi ad essa; ed il contenuto di tale obbligo consiste appunto nell’attuazione di quel risultato pratico, tangibile, riconosciuto come giusto e necessario dal giudice»; «in base al già ricordato principio di effettività della tutela deve ritenersi connotato intrinseco della stessa funzione giurisdizionale, nonché dell’imprescindibile esigenza di credibilità collegata al suo esercizio, il potere di imporre, anche coattivamente in caso di necessità, il rispetto della statuizione contenuta nella pronuncia e, quindi, in definitiva, il rispetto della legge stessa. Una decisione di giustizia che non possa essere portata ad effettiva esecuzione (eccettuati i casi di impossibilità dell’esecuzione in forma specifica) altro non sarebbe che un inutile enunciazione di principi, con conseguente violazione degli artt. 24 e 113 della Costituzione, i quali garantiscono il soddisfacimento effettivo dei diritti e degli interessi accertati in giudizio nei confronti di qualsiasi soggetto: e quindi anche nei confronti di qualsiasi atto della pubblica autorità, senza distinzioni di sorta»; «in questi termini la previsione di una fase di esecuzione coattiva delle decisioni di giustizia, in quanto connotato intrinseco ed essenziale della stessa funzione giurisdizionale, deve ritenersi costituzionalmente necessaria»; «Se quindi l’esercizio di poteri autoritativi al fine della effettiva realizzazione della tutela garantita dalla Costituzione è una fase (pur se eventuale)


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9. La tutela cautelare nei gradi di giudizio successivi al primo. – Prima dell’intervento del legislatore delegato la tutela cautelare era prevista unicamente per il giudizio di primo grado dall’art. 47 D.lgs. n. 546/1992. La questione di legittimità costituzionale della normativa – che non prevedeva la tutela cautelare nei gradi di giudizio successivi al primo – era stata oggetto di vaglio della Corte Costituzionale (69). Si è condivisibilmente osservato (70) da un lato la necessità di generalizzare la tutela cautelare a tutta la durata del processo in quanto componente essenziale del diritto di azione e del diritto di difesa, dall’altro la possibilità di attuare la generalizzazione della tutela cautelare attraverso una interpretazione adeguatrice delle norme vigenti (71).

intrinsecamente complementare e necessaria all’esercizio della giurisdizione, ne deriva, quale logico corollario, l’impossibilità di operare distinzioni di sorta tra funzioni giurisdizionali di natura diversa (ordinaria, amministrativa, di legittimità, di merito, esclusiva) per inferirne che solo in alcune, e non in altre, detti poteri sarebbero legittimamente esercitabili»; «In linea di principio non sono configurabili giurisdizioni passibili di esecuzione ed altre in cui il dovere di attuare la decisione si arresti di fronte alle particolari competenze attribuite al soggetto il cui operato è sottoposto a giudizio. Al contrario la garanzia della competenza cede a fronte della contrapposta garanzia di ogni cittadino alla tutela giurisdizionale, la quale rappresenta e dà contenuto concreto, in definitiva, alla garanzia della pari osservanza della legge: da parte di tutti ed in egual misura». (69) Corte costituzionale, ordinanza 16 luglio 2015, n. 161; ordinanza 5 aprile 2007, n. 119; ordinanza 27 luglio 2001, n. 325; ordinanza 19 giugno 2000, n. 217; sentenza 31 maggio 2000, n. 165. (70) C. Glendi, Dubbi di costituzionalità sulla mancata previsione della tutela cautelare in appello, in “Corriere tributario”, 1, 2009, 53, ripercorrendo gli insegnamenti di Calamandrei ribadisce che “la tutela cautelare si concretizza, rispetto alla tutela di merito, proprio sotto il profilo della «contingenza», cioè del suo manifestarsi e necessitarsi nel tempo, anche in ordine ai suoi presupposti, cioè, in primo luogo, quanto al periculum in mora, ma anche, talvolta, pur con riferimento al solo fumus boni iuris. Sia l’uno che l’altro dei due presupposti essenziali della tutela cautelare vanno così monitorati lungo tutto l’arco del processo, potendo variare dall’uno all’altro momento del processo stesso, a seconda della varietà dei casi concreti … Dopo la conclusione del primo grado, anche il fumus boni iuris può benissimo cambiare, non solo in ragione delle statuizioni rese, o non rese, dal giudice investito della causa, bensì pure, ad es., per effetto del diverso ius superveniens, o di un intervento della Corte costituzionale o a livello comunitario, e così via. Se dunque l’esigenza della tutela cautelare costituisce, com’è ormai da tutti riconosciuto, una componente essenziale del diritto di azione e del diritto di difesa, che neppure esisterebbero se non fosse possibile evitare la loro vanificazione nel tempo occorrente per il definitivo giudizio di merito, non v’è dubbio che siffatta tutela cautelare, per essere veramente tale, deve essere, per l’appunto, generalmente riconosciuta, anche per tutta la durata del processo, salvo casi assolutamente eccezionali previsti dalla legge”. (71) C. Glendi, Dubbi di costituzionalità sulla mancata previsione della tutela cautelare


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Il D.lgs. 24 settembre 2015 n. 156 in attuazione della direttiva di uniformazione e di generalizzazione degli strumenti di tutela cautelare nel processo tributario ha esteso la tutela cautelare a tutte le fasi del processo attraverso l’introduzione di apposite norme che hanno previsto la possibilità di chiedere al giudice di appello, alla corte di cassazione e al giudice competente per la revocazione di sospendere l’esecutività della sentenza impugnata o dell’atto (72). La scelta del legislatore è stata criticata dal punto di vista sistematico da chi auspicava che la riforma della tutela cautelare avvenisse semplicemente mediante l’inserimento di una norma che consentisse l’applicazione dell’art. 47 del D.Lgs. n. 546/1992 ai diversi gradi del processo tributario,

in appello, cit. sostiene “È ben vero che l’art. 47 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, al comma 1, parla di «commissione provinciale» e che la stessa norma, al comma 7, prevede la cessazione degli effetti della sospensione dalla data di pubblicazione della sentenza di primo grado. Ma si può ben far notare che l’art. 47 è inserito nel capo I del titolo II del D.Lgs. n. 546/1992, che regola specificamente «il giudizio dinnanzi alla commissione tributaria provinciale» e si deve altresì tener conto che, in base all’art. 61 del D.Lgs. n. 546/1992, «nel procedimento d’appello si osservano in quanto applicabili le norme dettate per il procedimento di primo grado, se non sono incompatibili con le disposizioni della presente sezione», relative, per l’appunto, al «giudizio d’appello davanti alla commissione tributaria regionale». A questa stregua, non pare proprio che, con riferimento alla disciplina di cui all’art. 47 del D.Lgs. n. 546/1992, risultino espressi divieti alla sua applicabilità oltre il primo grado e specificamente in appello. Non v’è, ad es., l’espressa previsione limitativa riscontrabile nell’art. 48, comma 2, secondo cui «la conciliazione può aver luogo solo davanti alla commissione provinciale e non oltre la prima udienza». Tanto meno, risulta legislativamente proibito l’esercizio del potere cautelare da parte della Commissione tributaria regionale, che di tale potere è dotata, come riconosciuto anche dall’art. 19, comma 2, del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, sia pure quanto alle sanzioni. Non sembra quindi sussistano insormontabili ostacoli per far sì che l’art. 47, riportato nell’ambito del procedimento di secondo grado, già possa trovare piena attuazione a livello interpretativo, intendendo l’espressione «commissione provinciale», contenuta nel comma 1, equivalente all’espressione «commissione adita» (prevista per il 1° grado e raccordata al 2°) e considerando l’espressione «sentenza di secondo grado», contenuta nel comma 7, equivalente a quella di «sentenza conclusiva del grado» in cui si è pronunciata l’ordinanza cautelare, sia esso il primo o il secondo grado, a seconda che nell’uno o nell’altro detta ordinanza sia stata emessa”. (72) L’art. 52 D.lgs. n. 546/1992, al comma secondo, ha previsto la possibilità per l’appellante di chiedere nel giudizio di appello la sospensione (in tutto o in parte) della sentenza impugnata se sussistono gravi e fondati motivi; il contribuente potrà chiedere la sospensione dell’esecuzione dell’atto se da questa può derivargli un danno grave ed irreparabile; l’art. 62 bis D.lgs. cit. ha esteso alla parte ricorrente nel giudizio di cassazione di possibilità di chiedere “alla commissione che ha pronunciato la sentenza impugnata di sospenderne in tutto o in parte l’esecutività allo scopo di evitare un danno grave ed irreparabile”, nonché la sospensione dell’atto, se dallo stesso possa derivare un danno grave ed irreparabile; l’introduzione del comma 3 bis all’art. 65 D.lgs. cit. ha esteso la possibilità di proporre istanze cautelari nel giudizio di revocazione, secondo quanto disposto dal citato art. 52.


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e nello specifico attraverso l’inserimento all’interno dell’art. 61 del D.lgs. cit. il richiamo all’art. 47; inserendo analogo richiamo anche nell’art. 66 e riformulando l’art. 62 (73). C’è chi ha però osservato, a tal riguardo che la struttura dell’art. 47 “è preordinata a disciplinare la sospensione dell’atto impugnato. Se, quindi, è pur vero che la sua applicabilità anche ai gradi diversi dal primo è pienamente sostenibile nell’ottica costitutivista, per la quale la sentenza tributaria che rigetta l’impugnazione dell’atto non si sostituisce ad esso, conservando il provvedimento autonoma efficacia, è anche vero che il legislatore della Riforma allo scopo di assicurare la “generalizzazione dello strumento cautelare” non poteva non tenere conto della circostanza che, per effetto della riformulazione degli artt. 68, 69 e 70 del D.Lgs. n. 546/1992, anche l’Amministrazione finanziaria potrà d’ora in poi trovarsi, ove soccombente, nella necessità d’invocare a sua volta la misura cautelare. Ed in tal caso, l’oggetto della cautela non potrà essere la sospensione dell’atto impugnato, quanto piuttosto la sentenza che lo ha annullato o, per quanto riguarda l’obbligo restitutorio che discende dal comma 2 dell’art. 68, la sospensione dell’effetto c.d. esterno della sentenza di annullamento del provvedimento impugnato” (74). Si è poi osservato che all’efficacia costitutivo-sostitutiva immediata delle sentenze tributarie di accoglimento, che danno luogo non soltanto all’annullamento dell’atto ma alla riforma sostitutiva dello stesso, fa da pendant il potere cautelare del giudice tributario che nei gradi di giudizio successivi al primo si estrinsecherà nell’adozione di provvedimenti inibitori aventi ad oggetto l’efficacia immediatamente confermativa o ablatoria della sentenza tributaria impugnata (75). Il riformato art. 52 D.lgs. n. 546/1992, al comma secondo, prima parte ha previsto la possibilità per l’appellante di chiedere nel giudizio di appello la sospensione (in tutto o in parte) della sentenza impugnata se sussistono gravi e fondati motivi; la regola generale è dunque che l’appellante, sia esso la parte pubblica o quella privata, possa agire in via cautelare per la sospen-

(73) C. Glendi nell’audizione alla Commissione finanze e tesoro del Senato relativa alla riforma del contenzioso tributario, ora pubblicata con il titolo La Riforma del contenzioso tributario, in Dir. prat. trib., n. 5/2015, 795 ss. (74) F. Randazzo, La riforma della sospensione cautelare nel processo tributario, in Corriere Tributario, n. 5, 2016, 375. (75) C. Consolo in C. Glendi, C. Consolo, A. Contrino, Abuso del diritto e novità sul processo tributario, Milano, cit., 225.


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sione della sentenza di primo grado. L’art. 52 al secondo comma, seconda parte ha previsto per il solo contribuente la possibilità di chiedere la sospensione dell’atto, se da questo può derivargli un danno grave ed irreparabile. Conseguentemente nell’ipotesi di soccombenza totale del contribuente, questi avrà interesse ad ottenere la sospensione dell’esecuzione dell’atto impugnato (76); nel caso di parziale accoglimento del ricorso, il titolo da sospendere coinciderà con la sentenza che ha riformato e sostituito l’atto; in ipotesi di soccombenza della Amministrazione finanziaria si applicherà la prima parte del secondo comma dell’art. 52: in questo caso il parallelismo con l’inibitoria civilistica ai sensi degli artt. 283 e 351 c.p.c. sarà perfettamente congruente (77). Come evidenziato il primo comma del nuovo art. 69 D.lgs. n. 542/1992 ha fissato l’immediata esecutività delle sentenze di condanna al pagamento di somme in favore del contribuente e nel contempo ha introdotto - nella seconda parte del comma 1 - la possibilità per il giudice di imporre una idonea garanzia per il pagamento di somme (diverse dale spese di lite) di importo superiore a 10.000 Euro. Sotto il profilo della tutela cautelare alla immediata esecutività delle pronunce di condanna fanno da contrappeso disposizioni che regolano le garanzie in favore dell’Amministrazione finanziaria. I primi commenti hanno messo in dubbio la ragionevolezza e conformità della misura al principio di effettività della tutela giudiziaria, atteso che nell’ipotesi di rimborso la situazione creditoria del contribuente è stata già oggetto di accertamento giudiziale, cosicché la sottoposizione del rimborso a garanzia potrebbe rappresentare un ostacolo alla realizzazione della piena tutela accordata all’esito del giudizio di primo grado (78). Non è mancato chi ha osservato che il giudice “può” subordinare l’immediata esecutività della sentenza di condanna al rimborso al rilascio di una idonea garanzia, previa valutazione dei presupposti della domanda cautelare, ciò che renderebbe il rimedio perfettamente in linea con i principi costituzionali (79). Criticità sono state poi individuate nella mancata individuazione del giu-

(76) Cfr., u. op. cit., 231 secondo cui la sentenza che rigetta il ricorso del contribuente è meramente dichiarativa della inesistenza del potere del contribuente di ottenere l’annullamento dell’atto, cosicché il solo atto dotato di efficacia esecutiva suscettibile di essere sospeso sarà l’atto impugnato. (77) U. op. cit., 231. (78) E. Sepe cit., 1-38. (79) C. Glendi, C. Consolo, A. Contrino, cit., 225.


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dice chiamato a valutare la solvibilità dell’istante, se quello della lite principale o il giudice dell’ottemperanza (80); così come permangono dubbi sulla necessità o meno dell’istanza della parte, sull’impugnabilità o meno del provvedimento, sul tipo di provvedimento da emettere, etc. Perplessità sono state inoltre espresse sul novellato art. 15, comma 2, quater del D.Lgs. n. 546/1992 che ora prevede che con l’ordinanza che decide sulle istanze cautelari la commissione provveda sulle spese della relativa fase, e che la pronuncia relativa alle spese conservi efficacia anche successivamente alla definizione del giudizio di merito salvo diversa statuizione della pronuncia. Si è rimarcato il forte impatto negativo della nuova norma sull’assetto sistematico della disciplina della tutela cautelare nell’ambito del processo tributario che ha natura rigorosamente incidentale e non si caratterizza per l’autonomia del provvedimento cautelare (81). 10. Conclusioni. – Il giudizio cautelare è preordinato esclusivamente alla conservazione delle ragioni del ricorrente nelle more del giudizio ordinario, risolvendosi nell’anticipata definizione del merito della controversia, peraltro senza garantire la piena attuazione del contraddittorio. Pertanto la tutela del diritto al rimborso d’imposta leso dal rifiuto (espresso o tacito) della restituzione può essere efficacemente realizzata (82) in sede cautelare, mediante l’adozione di misure d’urgenza di contenuto positi-

(80) S. La Rosa, Giusto processo e parità delle parti nella disciplina delle tutele cautelari tributarie, in Rivista di diritto tributario, 3, 2017, 267 ss. suggerisce di colmare tale lacuna individuando il soggetto deputato a tale giudizio nel giudice dell’ottemperanza in luogo di quello chiamato a pronunciare sulla fondatezza delle ragioni creditorie vantate dal contribuente. (81) C. Consolo e M. Stella sub art. 49 in C. Glendi, C. Consolo, A. Contrino, Abuso del diritto e novità sul processo tributario, Milano, 157 e ss. osservano che la norma contrasta con l’art. 111 Cost. in quanto non è previsto alcun rimedio impugnatorio avverso l’ordinanza che statuisce sulle spese e costituisce un vistoso eccesso di delega. La norma comporta inoltre una diminuzione di tutela per i contribuenti, ed in un pregiudizio per l’amministrazione finanziaria che verrà gravata delle spese in tutti i casi di accoglimento delle istanze cautelari. (82) È da condividere l’opinione secondo la quale “la fruizione dell’intervento cautelare in tema di rimborsi può essere ottenuta senza alcun intervento legislativo, attraverso una adeguata interpretazione dei dati normativi vigenti, opportunamente coordinati, che consentono…. di ottenere in fase di esecuzione del provvedimento cautelare misure anticipatorie provvisorie sempre che, naturalmente, ne sussistano tutti i presupposti” (C. Glendi, La tutela cautelare del contribuente, cit, 147).


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vo (83), intese ad anticipare, in via meramente interinale, la produzione degli effetti del provvedimento di rimborso richiesto dal contribuente e negato dalla amministrazione finanziaria. Il diritto al rimborso azionato si realizza non solo con il risultato formale dell’annullamento del provvedimento espresso di rifiuto della restituzione (cui si può equiparare la sospensione dell’efficacia), ma soprattutto con la conformazione dell’attività di riemanazione e di riesercizio della funzione restitutoria d’imposta; ben lungi dal far ottenere al ricorrente un vantaggio interinale e immediato superiore a quello che egli potrebbe ottenere dalla pronuncia di merito, l’ordine all’Amministrazione Finanziaria della doverosa riemanazione non è altro che l’anticipazione provvisoria dell’esecuzione della sentenza. L’art. 47 consente alla commissione tributaria l’emissione di ordinanze cautelari che, rispettose della struttura del processo tributario, si limitano a dettare all’Amministrazione Finanziaria l’obbligo di riemanazione (o, in caso di rifiuto tacito, di emanazione per la prima volta) dell’ordinativo di pagamento fondato sul rapporto tributario di restituzione d’imposta, come effetto immediatamente discendente dalla pronuncia cautelare. Poiché la misura cautelare incide sulla mancata produzione degli effetti voluta dall’atto impugnato (in quanto il diniego in ciò consiste, nella negazione degli effetti giuridici richiesti o pretesi dal ricorrente) allora si avrà una negazione (recata dall’ordinanza cautelare del giudice tributario) della ne-

(83) Come osservato dalla giurisprudenza comunitaria quindi secondo quanto già osservato in precedenza al paragrafo 1 nel noto caso “Atlanta” la Corte di Giustizia del Lussemburgo ha affermato che l’art. 189 del Trattato CE non può essere interpretato nel senso di escludere la possibilità di misure cautelari «positive» dei giudici nazionali nei confronti di provvedimenti amministrativi, fondati su norme comunitarie che abbiano formato oggetto di un rinvio pregiudiziale. La Corte di giustizia, richiesta di pronunziarsi da parte di un tribunale amministrativo tedesco, ha negato che le norme del trattato limitassero la tutela cautelare alla sospensione dell’esecuzione del provvedimento amministrativo impugnato: il giudice tedesco poteva quindi esercitare con pienezza tutti i propri poteri cautelari previsti dalla legge federale sul processo amministrativo anche se in gioco era l’assetto degli interessi determinato da un atto comunitario. In particolare, la Corte di giustizia afferma in via generale che «la tutela cautelare che i giudici nazionali debbono garantire ai singoli, in forza del diritto comunitario, non può variare a seconda che questi ultimi chiedano la sospensione dell’esecuzione di un provvedimento amministrativo nazionale adottato sulla base di un regolamento comunitario o la concessione di provvedimenti provvisori che modifichino o disciplinino a loro vantaggio situazioni di diritto o rapporti giuridici controversi»: dunque, in questo ambito, la tutela cautelare deve contemplare «necessariamente» anche la possibilità di misure positive. È evidente quindi che la tutela cautelare rispetto a provvedimenti attuativi di atti comunitari non può essere diversa e più ampia di quella ammessa contro atti che applicano il diritto interno.


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gazione (recata dal provvedimento di rifiuto di restituzione), il cui risultato comporta la produzione degli effetti denegati. Ma tale risultato è dato non dal giudice tributario, ma dalla amministrazione finanziaria cui resta la competenza sul disporre il rimborso, in quanto titolare della funzione restitutoria, per cui ad essa spetta di regolare quest’ultimo ex novo e medio tempore, accogliendo la domanda del ricorrente o disattendendola in base ad altri, legittimi motivi, come se il provvedimento impugnato non sia più efficace, né utilizzabile. La sospensione dell’efficacia del provvedimento di rifiuto implica l’inidoneità temporanea a disciplinare il rapporto tributario di restituzione dell’imposta; la misura cautelare resa a seguito del comportamento omissivo della amministrazione finanziaria implica l’emanazione di un atto che definisca per la prima volta tale rapporto. In tali casi l’effettività della tutela si ottiene non con misure cautelari meramente inibitorie (c.d. “sospensive”), ma soltanto con statuizioni di tipo ordinatorio e propulsivo, che anticipino l’esecutività della sentenza ed ammettano il diritto al rimborso con riserva (e, quindi, fino alla definizione nel merito della controversia). Diversamente argomentando si concreterebbe l’esclusione sostanziale dei comportamenti omissivi e dei provvedimenti negativi dall’area della tutela cautelare risultato, questo, che limitando di fatto la tutela stessa verso determinate categorie di atti o comportamenti violerebbe i principi ex art. 3 e 113 Cost., senza che, in base a un equo contemperamento degli interessi, ciò poi implichi un apprezzabile mantenimento delle ragioni d’interesse pubblico. Ma il giudice non può determinare effetti nuovi e diversi e l’ordinanza non può stabilirli dovendovi provvedere, per doveroso esercizio della funzione restitutoria, la amministrazione finanziaria soccombente in sede di riemanazione, che deve ex novo e medio tempore provvedere al rimborso. Cadono ovviamente le obiezioni fondate sul fatto che saremmo dinanzi ad uno snaturamento della strumentalità del procedimento cautelare, poiché la necessaria correlazione tra la misura cautelare e la sentenza di merito opera in quanto la prima, in maniera meramente anticipatoria e interinale, tende a conseguire il medesimo risultato cui è preordinata la seconda. La tutela cautelare, anche nel processo tributario si giustifica proprio per la sua strumentalità, nel senso che essa è preordinata a determinare un assetto interinale, tale da evitare che l’interesse di una parte possa essere gravemente o irreparabilmente compromesso dalla durata del giudizio. Ma la sentenza a plena cognitio non è certo inutile sol perché la rinnovata attività provvedimentale o l’esercizio per la prima volta del potere di rimborso, in caso di rifiuto taci-


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to della restituzione, vengono effettuati in base al dictum cautelare, secondo un giudizio prognostico sull’illegittimità altamente probabile del provvedimento espresso della restituzione o del rifiuto tacito. L’assetto degli interessi, che il giudice della cautela imprime alla questione, potrà anche essere forte, addirittura materialmente più significativo della sentenza, ma dovrà essere comunque confermato da quest’ultima. La riemanazione cautelare serve a paralizzare fin dall’inizio la efficacia del provvedimento reiettivo dell’istanza di rimborso illegittimo, protrattasi nel tempo occorrente per la definizione del merito e per il suo inesorabile annullamento, che stabilizza il risultato già acquisito. In sintesi: la sospensione “demolitoria” sta alla sospensione “ordinatoria”, come la quiescenza dell’efficacia dell’avviso di accertamento impugnato sta alla quiescenza degli effetti di negazione del diritto al rimborso derivante dal provvedimento espresso o tacito di rifiuto della restituzione impugnato: non si vede perché il ricorrente non possa godere fin dall’inizio l’utilità che comunque, in un dato tempo, egli dovrà ottenere. Diversamente argomentando, non solo si determinerebbe una nociva differenza di tutela tra le diverse situazioni, ma si frustrerebbe la funzione tipica della cautela processuale, cioè l’insensibilità (giuridica, non materiale, è ovvio) del passare del tempo per la consistenza dell’interesse tutelato e proprio della situazione soggettiva. In una prospettiva ricostruttiva e de iure condendo (84) il tema può indirizzarsi verso la valutazione di ammissibilità in subiecta materia di provvedimenti di carattere monitorio (ancorché il procedimento monitorio processualcivilistico presenti caratteri del tutto peculiari e sostanzialmente estranei alle modalità organizzative funzionali tipiche della giustizia tributaria). Deve per contro ammettersi nella nuova configurazione assunta dal processo tributario la possibilità di ipotizzare schemi operativi che tendenzialmente perseguono esigenze di celerità e di concentrazione del giudizio. Si intende far riferimento a procedimenti camerali (accelerati) riservati a determinate questioni di pronta ed agevole soluzione. Sul piano dell’amministrazione della giustizia tributaria e nell’ottica di incentivare gli strumenti che tendono a deflazionare il contenzioso, sono ipotizzabili misure per tutte quelle controversie che, in concreto, non palesano la necessità di una

(84) Pensiamo, ad esempio, all’art. 55 del codice del processo amministrativo che prevede espressamente che fra le misure cautelari il ricorrente possa richiedere l’ingiunzione a pagare una somma in via provvisoria.


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cognizione piena e che, almeno potenzialmente, possono esaurirsi, con il soddisfacimento del contribuente, mediante un provvedimento di tipo sommario, potenzialmente idoneo ad acquistare efficacia di sentenza, nel caso di estinzione del processo. A seguito dell’emanazione di un’ordinanza camerale all’interno di un procedimento sommario, il ricorrente che fosse rimasto parzialmente insoddisfatto, ovvero l’amministrazione finanziaria soccombente che intendesse contestare, in tutto o in parte, il provvedimento, avrebbero l’onere di dare impulso all’ulteriore corso del giudizio. La rilevanza di tale approccio è particolare proprio nell’ambito del processo di rimborso d’imposta che ha tempi patologicamente lunghi e comunque inadeguati ad un sollecito soddisfacimento di una pretesa restitutoria, tenuto anche conto dell’attuale assetto delle strutture e delle risorse disponibili della giustizia tributaria, cosicché la mancanza di tali strumenti diventa un grave ostacolo all’efficacia del sistema processuale. Peraltro un utilizzo “ragionevole” ed “intelligente” di ordinanze “propulsive” potrebbe consentire di accelerare e nel contempo deflazionare il contenzioso.

Mario Miscali



La rinnovata disciplina del giudizio di ottemperanza non dipana tutti i dubbi ermeneutici in ordine all’esecuzione delle sentenze tributarie Sommario: 1. Brevi considerazioni preliminari. – 2. La natura del processo tributario.

Riflessi in tema di sentenze favorevoli al contribuente. – 3. L’esecutività delle sentenze delle Commissioni tributarie. – 4. Il giudizio di ottemperanza. Inquadramento sistematico – 5. Problematiche applicative.

Lo studio si propone di offrire una breve ricognizione degli strumenti messi a disposizione del contribuente per l’esecuzione delle sentenze delle Commissioni tributarie, con particolare riguardo alla nuova disciplina di cui agli art. 68 ss. del D.lgs.156/2015. Dopo un inquadramento sistematico dei principi posti in materia di esecuzione delle sentenze e dell’ottemperanza, volto a sublimarne i caratteri essenziali e le novità introdotte dalla novella, verranno poste in luce le principali criticità di una disciplina che presenta alcune problematiche applicative che nascono, a ben vedere, da un dettato normativo non sempre chiaro e da un’attività ermeneutica dell’Amministrazione che tende a negare alcuni dei nuovi diritti riconosciuti al contribuente dal D.lgs. 156/2015.

The paper means to offer a short survey of tax Tribunal decision execution devices, with a focus on art. 68 ss. D.lgs.156/2015 legislation. Starting with a systematic framework concerning execution and decisions compliance principles, the paper will analyse the recently introduced legislation and its criticism and applicative problems given by an uncertain legal clarity which risks to affect tax payer rights as introduced by D.lgs. 156/2015 itself.

1. Brevi considerazioni preliminari. – La disciplina del giudizio di ottemperanza è stata recentemente innovata con la riforma del processo tributario di cui al D.lgs. 24 settembre 2015, n. 156, emanato in esecuzione della


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Legge delega 11 marzo 2014, n. 23 con il dichiarato scopo di rafforzare la tutela giurisdizionale del contribuente (1). Come si vedrà nel corso della trattazione, si tratta di una riforma da tempo auspicata, e ciò a cagione della patente disparità degli strumenti offerti dalla previgente normativa alla parte privata rispetto a quella pubblica (2). Non può infatti sottacersi come l’art. 70 del D.lgs. n. 546 del 1992 nella sua formulazione ante riforma, non garantisse la c.d. “parità delle parti”, spe-

(1) Il presente lavoro, opportunamente approfondito, e integrato con l’apparato di note, ripercorre la relazione illustrata al convegno “Giustizia tributaria, diritti e doveri del contribuente”, organizzato dalla Camera UNCAT della Provincia di Palermo il 24 settembre 2016. (2) In particolare, la Legge 11 marzo 2014, n. 23, nel conferire al Governo una delega finalizzata alla realizzazione di un sistema fiscale più equo, trasparente ed orientato alla crescita, all’art.10, primo comma ha enunciato tra i principi ed i criteri direttivi, quello della “immediata esecutività” delle sentenze delle Commissioni tributarie, estesa a tutte le parti in causa. Come si evince dalla lettura della stessa relazione illustrativa alla predetta legge, le ragioni che hanno stimolato un ulteriore intervento in materia sono sostanzialmente riconducibili ad una riscontrata disparità tra la parte pubblica e quella privata. Difatti, nell’assetto normativo antecedente al D.lgs. 156/2015, attuativo della Legge Delega, l’esecuzione della sentenza si atteggiava diversamente a seconda che si trattasse di pronunce favorevoli all’Ente impositore, oppure al contribuente. Peraltro, è stato evidenziato che se la predetta impostazione poteva trovare una qualche giustificazione nell’attribuzione di una posizione di preminenza alla parte pubblica nel procedimento amministrativo, tale deroga non risultava fondata nel procedimento giurisdizionale, dove il principio della parità delle parti è corollario del principio del giusto processo, ex art. 111 della Costituzione. In tal senso cfr. E.A. Sepe, Nuove regole su esecutività delle sentenze e misure cautelari successive, in il fisco, 1/2016, 38 ss. L’art.111 della Cost. prevede che il processo si debba svolgere: nel contraddittorio tra le parti; in condizione di parità davanti ad un giudice terzo (Corte Cost. 15.10.1999 n. 387 in Banca dati Pluris Wolters Kluwer) e imparziale (Corte Cost. 22.10.1997 n. 311 in Banca dati Pluris Wolters Kluwer); nel rispetto del principio della ragionevole durata. Per un quadro d’insieme della giurisprudenza della Corte Costituzionale in materia, cfr. M. Cecchetti, Giusto Processo (Dir. Cost.), in Enc. Dir. Agg. Ad vocem, Milano, 2001, 595. Una parte della dottrina processual-tributaria che si è occupata dell’interpretazione dell’art. 111 Cost., non ha avuto dubbi nell’estendere le garanzie di cui alla predetta disposizione al processo tributario. Cfr., sul punto, F. Gallo, Verso un “giusto processo”, in Rass. trib., 2003, 11; P. Russo, Il giusto processo tributario, in Rass. trib., 2004, 11; A. Marcheselli, Il giusto processo tributario in Italia: il tramonto dell’interesse fiscale?, in Dir. prat. trib., 2001, 793; L. Del Federico, Il giusto processo tributario: tra art. 6 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, e art. 111 Cost., in G.T. – Riv. giur. trib., 2005, 154 ss.; R. Miceli, Giusto processo tributario: un nuovo passo indietro della giurisprudenza di legittimità!, in Riv. dir. trib., 2004/12, 763 ss.; A. Poddighe., Giusto processo e processo tributario, Milano, 2010, 19 ss; M. Villani, La giustizia tributaria tra esigenze pratiche e vincoli di diritto interno ed europeo del “giusto processo”, in Dir. prat. trib., 2016, n. 3, 1004. In senso contrario cfr. F. Tesauro, Giusto processo e processo tributario, in Rass.trib., 2006, 12 ss.


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cie per ciò che concerne i rimedi riconosciuti al contribuente per l’esecuzione e l’ottemperanza delle sentenze emesse dalle Commissioni Tributarie (3). Nella disamina che segue, si porrà in rilievo come la novella di cui al D.lgs. 156/2015, abbia offerto una soluzione solo parziale alla suindicata problematica che sembrerebbe ancora non garantire una piena attuazione dei principi sul cd. “giusto processo”. Prima di approfondire funditus la disciplina del giudizio di ottemperanza, appare opportuno procedere alla ricostruzione del quadro normativo relativo all’esecuzione delle sentenze delle Commissioni Tributarie. Come infatti si avrà modo di chiarire, tale tematica presenta degli innegabili punti di contatto con l’ottemperanza, di guisa che una panoramica sulle novità introdotte dal Legislatore col D.lgs. 156/2015 in materia di esecuzione delle sentenze della Commissioni tributarie, si rivela senz’altro essenziale per meglio comprendere le novità dell’istituto dell’ottemperanza, e per evidenziarne le peculiarità. Come d’altro canto posto in rilievo dalla stessa relazione illustrativa allo schema del D.lgs. 156/2015 (4), era necessario colmare quelle lacune che vedevano il contribuente del tutto sfornito di rimedi giuridici di fronte

(3) È tuttavia doveroso sottolineare come l’invocata “disparità tra le parti”, abbia più volte superato il giudizio di conformità alla Carta fondamentale. In svariate occasioni, la Corte Costituzionale non ha infatti riscontrato alcuna disparità di trattamento nelle varie fattispecie sottoposte al suo esame. E così, a mero titolo esemplificativo, la Consulta ha dichiarato la conformità alla Costituzione dell’art. 46, comma 3 del D.lgs. 546 del 1992 nella sua originaria formulazione, a mente del quale, le spese del giudizio estinto rimanevano a carico del contribuente anticipatario (cfr. Corte Cost. 12 luglio 2005, n. 274, in Banca dati Pluris Wolters Kluwer). La Corte Costituzionale ha inoltre affermato la non contrarietà alla Costituzione della previsione dell’art. 23, comma 3 del D.lgs. 546 del 1992, che consente alla parte resistente di costituirsi in giudizio anche oltre il termine di sessanta giorni assegnato dalla norma, senza la previsione di alcuna decadenza a differenza di quanto previsto in capo alla parte ricorrente (cfr. Corte Cost. 8 marzo 2006, Ord., n. 144, in Banca dati Pluris Wolters Kluwer). Peraltro, per quanto riguarda gli artt. 47 e 70 del D.lgs. 546/1992 nella loro primigenia versione, nonostante la Consulta ne abbia affermato la conformità alla Costituzione (Corte Cost. Ord. 316/2008 e 165/2000; 217/2000; 225/2001; 119/2007, tutte in Banca dati Pluris Wolters Kluwer), è stato lo stesso Legislatore a rilevare una disparità di trattamento di fondo, e ciò sia in ordine all’assenza di strumenti a favore del contribuente per conseguire l’esecuzione della sentenza di primo grado, sia per quanto riguarda la tutela cautelare, limitata solo al primo grado di giudizio. Proprio su tali tematiche è intervenuta, come si vedrà, la Legge Delega 23/2014. (4) Cfr. “Schema di decreto legislativo recante misure per la revisione della disciplina degli interpelli e del contenzioso tributario” del 26.06.2015. Atto del Governo n.184, XVII Legislatura, in www.senato.it


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all’inerzia dell’Amministrazione finanziaria, che all’esito di una sentenza – anche non definitiva – favorevole al ricorrente, omettesse di eseguire il rimborso delle somme che medio tempore fossero state riscosse dall’Ente impositore. Il Legislatore delegato ha pertanto riformato in modo sistematico la disciplina relativa all’esecuzione delle sentenze delle Commissioni tributarie, inserendo all’interno del capo relativo all’esecuzione del D.lgs. 546/1992, il nuovo art. 67 bis, e modificando gli artt. 68-69-70. Con la riforma è stata inoltre esclusa la facoltà concessa al contribuente di ricorrere alle norme del codice di procedura civile sull’esecuzione forzata in via concorrente e cumulativa con il giudizio di ottemperanza, che ad oggi rimane, di fatto, l’unico strumento utilizzabile (5). Il presente lavoro si propone l’obiettivo di offrire una ricognizione dell’attuale disciplina dettata in materia di esecuzione delle sentenze tributarie e dell’istituto dell’ottemperanza, volta ad evidenziare gli elementi di novità, e a porre in rilievo alcune criticità che tutt’oggi permangono. L’indagine deve tuttavia prendere le mosse da una concisa disamina della natura del processo tributario e dei provvedimenti che lo definiscono, onde porre in rilievo il rapporto intercorrente tra le sentenze favorevoli al contribuente e la natura del giudizio. 2. La natura del processo tributario. Riflessi in tema di sentenze favorevoli al contribuente. – Secondo l’impostazione interpretativa maggiormente condivisa in dottrina e in giurisprudenza, il processo tributario è un

(5) Detta modifica, che ha condotto alla parziale abrogazione delle norme del codice di procedura civile disciplinanti l’esecuzione forzata (artt. 474 ss. c.p.c.), è stata fortemente contestata da una parte della dottrina. Ed infatti, pur trascurando le ragioni che hanno condotto all’abolizione dell’utilizzo del rimedio dell’esecuzione forzata, secondo le norme di cui al c.p.c., contemplando quale unico strumento a disposizione del contribuente, il giudizio di ottemperanza davanti alle commissioni tributarie, ciò che ha formato oggetto di censura è stato il modus operandi seguito dal Legislatore. Infatti, la modifica che ha interessato la fase esecutiva avrebbe dovuto essere sancita per le vie ordinarie, e non tramite un provvedimento delegato. L’utilizzo di tale modalità sembrerebbe confliggere con la disposizione di cui all’art.10, comma 1, nonché col punto 10, sub b) del medesimo comma della Legge 23/2014, che al contrario prevedono, da un lato, un preciso indirizzo cui avrebbe dovuto conformarsi il Legislatore, finalizzato a rafforzare la tutela giurisdizionale del contribuente. Dall’altro, un ampliamento della tutela giurisdizionale del contribuente, con l’introduzione del principio della immediata esecuzione estesa a tutte le parti in causa della sentenza delle Commissioni tributarie. cfr. Glendi, Fermenti legislativi processualtributaristici: lo schema di Decreto delegato sul contenzioso, in Corr. trib., 32-33/2015, 2468.


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giudizio di impugnazione-merito, piuttosto che di impugnazione-annullamento (6). In tal senso, è stato rilevato come l’impugnazione dell’atto impositivo rappresenti il veicolo attraverso il quale viene consentito al giudice tributario di entrare nel merito del rapporto di imposta, venendosi a configurare un giudi-

(6) Tra le prime elaborazioni volte a qualificare il processo tributario in termini di impugnazione-merito cfr. E. Capaccioli, Interessi legittimi e risarcimento dei danni, Milano, 1963, 79; P. Russo, Diritto e processo nella teoria dell’obbligazione tributaria, Milano, 1969, 286; Id., Il nuovo processo tributario, Milano, 1974, 79. Tra gli interventi più recenti sul punto cfr. P. Russo, L’accertamento tributario nel pensiero di Enzo Capaccioli: profili sostanziali e processuali, in Riv. Dir. Trib. 2010, I, 661; G. Fransoni, Spunti ricostruttivi in tema di atti impugnabili nel processo tributario, in Riv. Dir. Trib., 2012, 980; . F. Terrusi, Assetto del processo tributario, funzione della sentenza e actio iudicati, in Diritto e processo tributario, 1/2015, 59 ss.; G. Porcaro, Il ruolo del giudice tributario nella dinamica della tutela giurisdizionale. Stato degli atti e prospettive, in Diritto e processo tributario, 2/2016, 207 ss. Essenziali si sono inoltre rivelati alcuni contributi girusprudenzali sul punto. E così secondo la sentenza della Cassazione n. 22937/2013 «Costituisce ormai ius receptum nella giurisprudenza di questa Corte l’affermazione secondo cui il processo tributario non è annoverabile tra quelli di impugnazione-annullamento, bensì tra quelli di impugnazione-merito, in quanto non diretto alla mera eliminazione dell’atto impugnato, bensì alla pronuncia di una decisione di merito sostitutiva, sia della dichiarazione resa dal contribuente, sia dell’accertamento dell’amministrazione finanziaria. Ne discende che, qualora il giudice tributario ravvisi la parziale infondatezza – il principio non si attaglia, invero, per evidenti ragioni, all’ipotesi di totale nullità dell’atto impositivo – della pretesa fiscale dell’amministrazione, non deve, né può, limitarsi ad annullare l’avviso di accertamento, ma deve quantificare la pretesa tributaria ritenuta corretta, entro i limiti posti dal petitum delle parti» (Cass. n. 22937/2013, in Banca dati Pluris Wolters Kluwer). Ed, ancora, secondo la sentenza della Cassazione n. 20052/2014 «L’impugnazione davanti al giudice tributario attribuisce a quest’ultimo la cognizione non solo dell’atto, come nelle ipotesi di “impugnazione- annullamento”, orientate unicamente all’eliminazione dell’atto, ma anche del rapporto tributario, trattandosi di una cd. “impugnazione-merito”, perché diretta alla pronuncia di una decisione di merito sostitutiva dell’accertamento dell’amministrazione finanziaria, implicante per esso giudice di quantificare la pretesa tributaria entro i limiti posti dalle domande di parte; ne consegue che il giudice che ritenga invalido l’avviso di accertamento non per motivi formali, ma di carattere sostanziale, non deve limitarsi ad annullare l’atto impositivo, ma deve esaminare nel merito la pretesa tributaria, e, operando una motivata valutazione sostitutiva, eventualmente ricondurla alla corretta misura, entro i limiti posti dalle domande di parte» (Cass. n. 20052/2014, in Banca dati Pluris Wolters Kluwer). Tra le più recenti pronunce in materia cfr., Cass., 3 agosto 2016, n. 16154, in Banca dati Pluris Wolters Kluwer; Cass., Sez. V, 6 marzo 2015, n. 4574, in Corr. trib., 1466, con nota di F. Pistolesi, La natura “sostitutiva” della sentenza tributaria rispetto all’atto impugnato; Cass., Sez. un., 16 gennaio 2015, n. 640, in GT – Riv. giur. trib., 2015, 557; Cass., 28 agosto 2013, n. 19710, in GT – Riv. giur. trib., 2014, 47, con nota di M. Basilavecchia, La sentenza tributaria terzo atto di accertamento?.


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zio solo formalmente impugnatorio che, in realtà, tende all’accertamento del rapporto sostanziale (7). Occorre tuttavia distinguere a seconda che l’atto risulti essere affetto da vizi formali o sostanziali. Nel primo caso, infatti, la cognizione del giudice non si estende al rapporto d’imposta ma si arresta al giudizio sull’atto. Nel secondo caso, invece, il giudice non può limitarsi all’annullamento dell’atto impugnato ma deve esaminare nel merito la pretesa erariale, ed effettuare una propria motivata valutazione sostitutiva sulla base degli elementi in atti, e sempre entro i limiti posti dalle domande di parte. Proprio in tal senso, quello tributario è stato identificato come un processo a cognizione piena secondo le categorie del diritto processuale civile, pur nei limiti di compatibilità di tale rito con quello tributario delineati dall’art. 1, 2° comma, del D.lg.s. 546/1992 (8). Non può tuttavia non rilevarsi come sia da subito venuta in rilievo la natura ibrida del processo tributario, nel quale la tipologia di azione proponibile a tutela del diritto sostanziale è legata a doppio filo all’atto impositivo (9).

(7) F. Terrusi, Assetto del processo tributario, funzione della sentenza e actio iudicati, cit. 59 ss. (8) F. Terrusi, ivi, 76 ss. (9) Tra la dottrina che ha aderito all’impostazione volta a qualificare il processo tributario come giudizio di impugnazione-merito, non può non citarsi chi ha voluto offrire una ricostruzione storica del fenomeno, ponendo in rilievo come l’attuale natura di giudizio impugnatorio, da intendersi quale imprescindibile esistenza di un atto in relazione al quale spiegare l’azione, derivi dalla stratificazione e dal consolidamento di vari istituti. Sul punto è stato sottolineato come il carattere necessariamente impugnatorio del processo tributario discenda dall’evoluzione del sistema delle tutele, che per lungo tempo si è configurato come ibrido e distinto su due fronti, quello della giurisdizione ordinaria, e quello dell’azione dinanzi alle commissioni. In tal senso, il sistema processual-tributario di cui al D.lgs. 546/1992 rappresenta l’ultima evoluzione del processo di razionalizzazione cui si è dato impulso con il decreto delegato 26 ottobre 1972, n. 636. E così, se prima della legge abolitrice del contenzioso amministrativo (L. 20 marzo 1865, n. 2248, All. E) la giurisdizione era assegnata, per i principali tributi indiretti, al giudice ordinario, e per le imposte dirette, alle commissioni, l’art. 6 della L. 2248/1965 ha sancito la giurisdizione del giudice ordinario anche per le imposte dirette, lasciando tuttavia le competenze riconosciute dall’art. 12 della medesima legge alle commissioni, cui erano demandati compiti amministrativi. Negli anni ’30 del XX secolo si è tuttavia assistito a una “giurisdizionalizzazione” delle commissioni sicchè, per le imposte dirette, veniva a configurarsi una duplice tutela giurisdizionale tra giudice ordinario e tributario. Con la riforma delle commissioni del 1936-1937 anche le imposte indirette furono attribuite alla giurisdizione delle commissioni. Venne pertanto a realizzarsi un sistema bipartito e prettamente impugnatorio, in cui


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È quindi emersa una correlazione tra il provvedimento amministrativo e la relativa impugnazione, che risulta circoscritta al contenuto dell’atto impositivo. Proprio in tal senso è stato affermato che il processo tributario, pur finalizzato all’esame del merito del rapporto d’imposta, è comunque un giudizio di impugnazione, in quanto le ragioni poste a fondamento dell’atto impugnato, ne delimitano i confini (10).

l’accesso alla giurisdizione ordinaria era suburdinato all’impugnativa dell’iscrizione a ruolo per le controversie in materia di imposte dirette (art. 6, comma 1 della L. 20 marzo 1865, n. 2248, all. E) e comunque al pagamento del tributo (art. 6, comma 2 della L. 20 marzo 1865, n. 2248, all. E), mentre l’azione dinanzi alle commissioni presupponeva l’emanazione di un atto di accertamento. Con la riforma degli anni ’70, il Legislatore ha eliminato la differente tutela fra controversie in materia di imposte dirette e indirette, ripartita tra fasi amministrative e fasi giurisdizionali, e venne dichiarata l’incostituzionalità dell’art. 6 della l. 20.3.1865, n. 2248, all. E, che considerava quale presupposto per l’azione processuale il c.d. solve et repete. Sempre la riforma del 1972, ha sancito il superamento dei dubbi di costituzionalità sulle commissioni tributarie per violazione della VI disposizione transitoria e per l’assenza della garanzia di indipendenza ed imparzialità richiesta per un organismo giurisdizionale dall’art. 24 Cost., introducendo due gradi di giudizio davanti alle commissioni di primo e secondo grado, un terzo grado davanti alla Commissione tributaria Centrale oppure, davanti alla Corte d’Appello decorso il termine per l’appello di fronte alla Commissione Centrale, solo per motivi di legittimità e con esclusione delle questioni di semplice estimazione. Con la Legge delega 30.12.1991, n.413 si è infine avviato un processo di trasformazione culminato nei D.lgs. 31.12.1992, nn. 545 e 546, con i quali si è prevista la devoluzione delle controversie riguardanti la materia tributaria ad un giudice apposito: le Commissioni Tributarie Provinciali e Regionali (cui si affianca la Corte di Cassazione per le sole questioni di legittimità). Ad oggi, il processo tributario si delinea, pertanto, come un giudizio impugnatorio, che prevede quale presupposto dell’azione l’esistenza di un atto che, in via immediata o interpretativa sia comunque riconducibile al novero degli atti di cui all’art. 19 del D.lgs. 546/1992, e che esclude le azioni di mero accertamento negativo o positivo (con l’eccezione dell’azione di rimborso ingenerata dal sinlenzio dell’Amministrazione). Tra i principali contributi concernenti il passato assetto del contenzioso tributario, cfr. A. Berliri, Il processo tributario amministrativo, Reggio Emilia, 1940, passim; E. Allorio, Diritto processuale tributario, Torino, 1969, passim; P. Russo, Diritto e processo nella teoria dell’obbligazione tributaria, cit., passim; F. Tesauro, Profili sistematici del processo tributario, Padova, 1980, 86 ss.; C. Glendi, Contenzioso Tributario, in Enc. Giur. Treccani, Roma, III, 1988, ad vocem; C. Magnani, Commissioni Tributarie, in Enc. Giur. Treccani, Roma, VII, 1988, ad vocem; Id., Il processo tributario. Contributo alla dottrina generale, Padova, 1965, passim; G. Fransoni, Spunti ricostruttivi in tema di atti impugnabili nel processo tributario, cit., 979 ss. (10) In dottrina vi è chi ha rilevato la natura «ibrida» del processo tributario in cui i motivi del ricorso sono perimetro esterno della cognizione giudiziale. La commissione tributaria non sarebbe pertanto legittimata a oltrepassare tale limite, ma potrebbe comunque operare le opportune valutazioni all’interno dello stesso, riqualificando il rapporto. Cfr. G.


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Si tratta, quindi, di un processo di merito indissolubilmente legato all’atto, circostanza quest’ultima che definisce il concetto di impugnazione-merito. La natura del processo così come sopra delineata, a mente della quale il giudizio tributario non è inquadrabile tra quelli di impugnazione-annullamento, ma di impugnazione-merito, impone una riflessione sulle tipologie di sentenze che possono definirlo. E così, escluse le pronunce del giudice tributario con cui sono respinte le domande di impugnazione che, in quanto sentenze di mero accertamento non impongo all’interprete l’interrogativo sull’effetto sostitutivo dell’atto con il provvedimento giudiziale (11), proprio a cagione della natura di giudizio tributario come sopra delineata, la dottrina e la giurisprudenza hanno maggiormente approfondito il tema della natura delle sentenze di annullamento e di condanna. Difatti, se si afferma che il processo non è finalizzato alla mera eliminazione dell’atto impugnato, bensì ha ad oggetto una delibazione in ordine alla fondatezza della pretesa impositiva, deve inferenzialmente dedursi che, nelle ipotesi di annullamento, la sentenza del giudice tributario abbia funzione sostitutiva di merito, anche se bisogna distinguere tra l’annullamento per vizi formali dell’atto, e la rimozione dello stesso per vizi sostanziali. In particolare, se il giudice accerta che l’atto impugnato è inficiato da vizi formali, deve annullare il provvedimento, senza possibilità di esaminarne il contenuto, di guisa che il processo si risolve nella mera eliminazione giuridica dell’atto amministrativo (12). Differente è l’ipotesi in cui il giudicante individui delle illegittimità sostanziali dell’atto. In tal caso il giudice non potrà limitarsi al mero annullamento, ma dovrà conoscere nel merito la pretesa tributaria ponendo in essere,

Porcaro, Il ruolo del giudice tributario nella dinamica della tutela giurisdizionale. Stato degli atti e prospettive, cit., 236. Cfr. anche F. Terrusi, Assetto del processo tributario, funzione della sentenza e actio iudicati, cit. 59 ss.; F. Tesauro, Manuale del processo tributario, Torino, 2013, 76 ss. (11) Sul punto è stato correttamente evidenziato che le pronunce che respingono le domande di impugnazione degli atti tributari, non sono sentenze di accertamento positivo dell’obbligazione tributaria, ma sentenze di accertamento negativo del diritto all’annullamento, che si limitano a dichiarare l’insussistenza dei vizi dedotti con il ricorso e del diritto all’annullamento dell’atto impugnato. In tali ipotesi è indubbio che l’atto impugnato sopravviva al giudizio, senza alcun effetto sostitutivo/confirmatorio dalla pronuncia del giudice. Sul tema cfr. F. Tesauro, Le sentenze del giudice tributario, in G. Gaffuri, M. Scuffi (a cura di), Lezioni di diritto tributario sostanziale e processuale, Milano, 2009, 647. (12) F. Tesauro, Manuale del processo tributario, cit., 77.


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entro i limiti della domanda, una valutazione di tipo sostitutivo, della quale dovrà dare atto nella motivazione della sentenza (13). Il giudice dovrà, pertanto, emettere una decisione di merito, che riconduca alla corretta misura l’obbligazione tributaria per mezzo dell’annullamento totale o parziale dell’atto. In tal senso è stato quindi affermato che dall’atteggiarsi del processo tributario come giudizio di impugnazione-merito, discende la natura della sentenza del giudice tributario, che assume una funzione sostitutiva dell’atto nell’ipotesi di annullamento dell’atto per vizi sostanziali (14). L’altra categoria di sentenze tributarie che viene in rilievo nell’indagine che ci occupa è quella delle pronunce di condanna, che scaturiscono dalle azioni di rimborso o come azioni consequenziali all’impugnazione di un atto impositivo (15). Si tratta di decisioni dal contenuto complesso con cui viene statuito, non solo l’annullamento del diniego, ma anche l’accertamento del credito del ricorrente e la condanna dell’Amministrazione al rimborso, mentre nel caso di ricorsi proposti a seguito di silenzio, non è rinvenibile alcuna statuizione di annullamento, ma soltanto l’accertamento del credito e la condanna dell’amministrazione (16). Orbene, come si vedrà nelle pagine che seguono, la distinzione sopra delineata risulta strattamente connessa alla tematica oggetto di indagine. Se infatti, da un lato il Legislatore della riforma di cui al D.lgs. 156/2015 ha previsto la generalizzata immediata esecutività delle sentenze favorevoli

(13) Sul punto la giurisprudenza ha rilevato che se sono accertati vizi sostanziali, il giudice non deve limitarsi a rimuovere l’atto impugnato, ma deve emettere una decisione c.d. di merito, cioè sostitutiva sia della dichiarazione resa dal contribuente, sia dell’accertamento. E così in giurisprudenza si è statuito che, ove il giudice «ravvisi l’infondatezza parziale della pretesa dell’amministrazione, non deve limitarsi ad annullare l’atto impositivo, ma deve quantificare la pretesa tributaria entro i limiti del petitum» (Cass., 23 marzo 2001, n. 4280, in in Banca dati Pluris Wolters Kluwer). In senso conforme cfr. anche, ex multis, Cass. 12 luglio 2006, n. 15825, in Giust. Civ. Mass., 2006, 7-8; Cass., 3 agosto 2016, n. 16154, in Banca dati Pluris Wolters Kluwer; Cass., Sez. V, 6 marzo 2015, n. 4574, in Corr. trib., 1466, con nota di F. Pistolesi, La natura “sostitutiva” della sentenza tributaria rispetto all’atto impugnato, cit. (14) In dottrina sul punto cfr. A. Carinci, Dall’interpretazione estensiva dell’elenco degli atti impugnabili al suo abbandondo: le glissament progressif della Cassazione verso l’accertamento negativo nel processo tributario, in Giurisprudenza e prassi amministrativa, 623; F. Terrusi, Assetto del processo tributario, funzione della sentenza e actio iudicati, cit., 69; G. Porcaro, Il ruolo del giudice tributario nella dinamica della tutela giurisdizionale. Stato degli atti e prospettive, cit., 208. (15) F. Tesauro, Le sentenze del giudice tributario, cit., 651. (16) Ibidem.


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al contribuente, e dall’altro ha rivisitato la disciplina degli strumenti attuativi delle predette decisioni, eliminando il binomio esecuzione forzata – ottemperanza a favore del solo giudizio di ottemperanza, può da subito rilevarsi come, in realtà, i tratti essenziali del sistema risultino oggi tutt’altro che lineari, profilandosi molteplici problemi interpretativi e applicativi in relazione alle singole tipologie di sentenza che verranno appresso disaminati. 3. L’esecutività delle sentenze delle Commissioni tributarie. – Come evidenziato nelle premesse, la Legge delega 11 marzo 2014, n. 23 aveva auspicato l’estensione dell’immediata esecutorietà delle sentenze delle Commissioni Tributarie a tutte le parti in causa. In base a tale incipit, il D.lgs. 156/2015 ha previsto la soppressione di quella parte dell’art. 49 del D.lgs. 546/1992 (17) che escludeva l’applicabilità dell’art. 337 c.p.c. (18), introducendo, di fatto, un generale principio di esecutività delle sentenze anche per le pronunce del Giudice tributario. Si è peraltro accennato come il medesimo provvedimento abbia, altresì, inserito l’art. 67 bis, titolato “esecuzione provvisoria” a mente del quale “Le sentenze emesse dalle commissioni tributarie sono esecutive secondo quanto previsto dal presente capo” (19). Tale norma sembrerebbe, pertanto, consentire un’equiparazione, dal punto di vista effettuale, tra le sentenze emesse dalle Commissioni tributarie e quelle adottate dai Giudici ordinari e amministrativi (20).

(17) Norma che testualmente statuiva: “Alle impugnazioni delle sentenze delle Commissioni tributarie si applicano le disposizioni del titolo III, capo I, del libro II del codice di procedura civile, escluso l’art. 337 e fatto salvo quanto disposto nel presente decreto”. (18) L’art. 337 del c.p.c. dispone che l’esecuzione della sentenza non è sospesa per effetto dell’impugnazione di essa, salva l’applicazione degli artt. 283, 373, 401 e 407. (19) Ci si riferisce al capo IV del titolo II del D.lgs. n. 546/1992. (20) Occorre tuttavia rilevare come tale ultimo profilo richieda delle doverose precisazioni. A tal riguardo si deve infatti porre in rilievo come, in realtà, in forza del nuovo art. 67 bis del D.lgs. 546/1992, non si possa predicare un’equiparazione tout court intesa tra i concetti di esecutorietà delle sentenze delle Commissioni tributarie e quelle adottate dai Giudici ordinari e amministrativi. Il predetto art. 67 bis deve infatti essere interpretato alla luce del rinvio dallo stesso operato al Capo IV del medesimo D.lgs. 546/1992. In tal senso, una lettura sistematica dell’art. 67 bis e dell’articolo 69 del D.lgs. 546/1992 di cui al summenzionato Capo IV, induce a circoscrivere l’immediata esecutività delle sentenze tributarie, sebbene ancora non passate in cosa giudicata, solo alle pronunce di condanna al pagamento di somme in favore del contribuente, nonché alle sentenze emesse su ricorso avverso gli atti relativi alle operazioni catastali. In relazione a tutte le


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L’importanza dell’intervento legislativo può evincersi da una semplice disamina della disciplina ante riforma (21).

altre pronunce del Giudice tributario, prime tra tutte quelle non aventi un contenuto patrimoniale quali, a titolo esemplificativo, quelle relative al riconoscimento della qualificazione di ONLUS, o le pronunce che disconoscano delle agevolazioni, dovrebbe trovare applicazione la vecchia disciplina. Sul punto è stato osservato come il predetto approccio ermeneutico appaia coerente con la voluntas del Legislatore della riforma di cui al D.lgs. 156/2015, e in linea con i principi espressi nella Relazione Illustrativa di accompagnamento allo schema di decreto legge. Sulla tematica cfr. E.A. Sepe, Nuove regole su esecutività delle sentenze e misure cautelari successive, in il fisco, 1/2016, 38 ss.; L. Lovecchio, Attuazione solo parziale del principio di parità delle parti nel processo tributario, in il fisco, 31/2016, 3039; C. Glendi, C. Consolo, A. Contrino, Abuso del diritto e novità sul processo tributario, Milano 2016, 266 ss. Sulla limitata operatività del nuovo art. 67-bis del D.lgs. 546/1992, che riguarda l’esecutiva delle sentenza tributarie «non sempre ed in toto», cfr. S. La Rosa, Giusto processo e parità delle parti nella discipliona delle tutele cautelari tributarie, in I “Venerdì di Diritto e Pratica Tributaria” – Per un nuovo ordinamento tributario, Atti del Convegno 14-15 ottobre 2016, Genova, 488. In tema cfr. anche F. Randazzo, sub art. 67-bis, in C. Consolo, C. Glendi (a cura di), Commentario breve alle leggi del processo tributario, Padova, 2017, 908 ss. Deve inoltre evidenziarsi, che un’ulteriore argomentazione a supporto della tesi sopra esposta, sembrerebbe potersi trarre anche dalla disamina dell’art. 70 del D.lgs. 546/1992 così come novellato dal D.lgs. 156/2015, che reca ancora un espresso riferminento alla “sentenza passata in giudicato”. È allora evidente che se il Legilsatore avesse effettivamente voluto estendere a tutte le sentenze delle Commissioni tributarie il crisma dell’immediata esecutività, avrebbe dovuto elidere il predetto inciso dalla lettera della norma. Non può inoltre non rilevarsi come, la prassi più recente, stia di fatto limitando ulteriormente la portata dell’art. 67 bis del D.lgs. 546/1992. E così, con la nota 24 marzo 2017, n. 31568, l’Agenzia delle Dogane ha affermato l’inapplicabilità della disciplina sull’immediata esecutività delle sentenze di condanna al pagamento di somme a favore del contribuente, per ciò che concerne le ipotesi in cui le somme indicate in sentenza siano costituite da risorse proprie tradizionali ovvero da IVA riscossa all’importazione. Per tali fattispecie l’Agenza delle Dogane ha infatti precisato che il rimborso possa avvenire solo a seguito del passaggio in giudicato della sentenza, ovvero previa costituzione di garanzia, indipendentemente dall’importo oggetto di rimborso. (21) In ordine alla disciplina dell’esecuzione delle sentenze delle Commissioni tributarie nel quadro normativo precedente al recente intervento legislativo, cfr. P. Russo, Profili di legittimità costituzionale dei decreti delegati di riforma del contenzioso, in il fisco 1993, 8761; F. Grassi, L’esecuzione del giudicato nel nuovo processo tributario, in Dir. prat. trib., 1996, I, 1878; F. Baglione, Commento all’art. 70 del D.lg.s 546/1992, in T. Baglione, S. Menchini, M. Miccinesi, Il nuovo processo tributario. Commentario, Milano, 2004, 792; F. Batistoni Ferrara, Il rimborso del tributo ai sensi dell’art.68, comma 2, d.lgs. 31 dicembre 1992, n.546 soggetto ad apprezzamento discrezionale dell`amministrazione?, in Riv. dir. trib., 2009, II, 38 ss.; F. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario. Parte generale, Torino, 2009, 390 ss.; F. Randazzo, L’esecuzione delle sentenze tributarie, Milano, 2003, passim; C. Bafile, Il nuovo processo tributario, Padova, 1994, passim; N. Allegretti, L’esecuzione delle sentenze nel nuovo processo tributario, in il fisco, 1993, 11789; G. Fransoni, Giudicato tributario e attività


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In tal senso non può non essere citato l’art. 68 del D.lgs. 546/1992 dettato in tema di riscossione frazionata in pendenza del giudizio il quale, nella sua primigenia formulazione, prevedeva la possibilità per l’Amministrazione finanziaria di agire nei confronti del contribuente, intimando il pagamento delle imposte, interessi e sanzioni e spese del giudizio, in base alla sentenza, anche nell’ipotesi in cui la pronuncia medesima fosse stata oggetto di impugnazione. Non senza sottacere che, come meglio si vedrà in questo paragrafo, prima della recente modifica dell’art. 69 del D.lgs. 526/1992 di cui si dirà infra, la stessa facoltà non era tuttavia prevista a favore del contribuente il quale, nell’ipotesi di una pronuncia a lui favorevole, si trovava costretto ad attendere il passaggio in giudicato della sentenza al fine di ottenere un eventuale rimborso delle somme dovute e delle spese di giudizio cui fosse stata condannata l’Amministrazione soccombente (22).

dell’amministrazione finanziaria, Milano, 2001, passim; F. Gallo, Verso un “giusto processo” tributario, cit., 11; C. Glendi, L’esecuzione delle sentenze e la nuova disciplina transitoria, in L. Tosi, A. Viotto (a cura di), Il nuovo processo tributario, Padova, 1999, 153; V.S. Trovato, Esecutorietà degli atti di imposizione. Riscossione frazionata del tributo in pendenza del processo e tutela cautelare, in il fisco, 1997, 1099. (22) Le sentenze delle Commissioni tributarie venivano distinte secondo una tradizionale bipartizione, tra sentenze favorevoli al privato e sentenze favorevoli all’Ente impositore, avendo il Legislatore conformato diversamente “l’esecutività” in base alla qualificazione del soggetto interessato ad avvalersi degli effetti della pronuncia. In particolare, l’originaria lettera degli artt. 69 e 70 del D.lgs. 546/92, circoscriveva l’esecuzione a favore del privato ai soli obblighi previsti da sentenze passate in giudicato. Ben diversa era la disciplina dettata dal Legislatore con specifico riferimento all’esecutività delle sentenze favorevoli all’Ente impositore, che legittimavano l’immediata riscossione di una frazione crescente del tributo a seconda del grado del giudizio. A tal proposito la Corte Costituzionale, che era stata chiamata in più occasioni ad esprimersi in ordine alla legittimità della diversa efficacia attribuita alle sentenze delle Commissioni tributarie, ha respinto tale censura, sostenendo che la valutazione dell’efficacia da attribuire ai provvedimenti giurisdizionali fosse totalmente insindacabile in quanto integralmente rimessa alla discrezionalità del Legislatore. Peraltro, ad avviso della Consulta, l’inammissibilità della sollevata questione non avrebbe potuto “essere evitata neppure con una pronuncia … che attribuisse la provvisoria esecutività alle sentenze di primo grado, perché tale attribuzione – oltre a non essere costituzionalmente necessitata – comporterebbe necessariamente un’estesa e profonda riforma del complesso delle norme del processo tributario concernenti tanto la tutela cautelare quanto l’esecuzione delle sentenze in pendenza del giudizio…”. Cfr. Ord. Corte Cost. 30.07.2008, n. 316 in Banca dati Pluris Wolters Kluwer. In dottrina sul punto F. Coli, Esecuzione delle sentenze tributarie in corso di giudizio ed uguaglianza tra le parti, nota a C. Cost. 29-30.07.2008, n. 316, in Rass. dir. trib, 2009, II, 108 ss.; F. Randazzo, sub art. 68, in Consolo, C. Glendi (a cura di), Commentario breve alle leggi del processo tributario, Padova, 2017, 911 ss.; G. Tabet, La difficile strada dell’esecuzione delle sentenze tributarie favorevoli al contribuente, in G.T. – Riv. giur. trib., 2009, 105 ss.


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Con la revisione dell’art. 68 del D.lgs. 526/1992, il Legislatore delegato ha aggiunto al comma 1, la lettera c) bis, arricchendo in tal modo l’impianto normativo richiamato, e precisando che qualora sia prevista la riscossione frazionata del tributo oggetto di giudizio davanti alle Commissioni tributarie, l’imposta dovrà essere pagata per l’ammontare dovuto nella pendenza del giudizio di primo grado dopo la sentenza della Corte di Cassazione di annullamento con rinvio, e per l’intero importo indicato nell’atto in caso di mancata riassunzione. Con la predetta disposizione è stata colmata la lacuna legislativa in ordine ai poteri degli Enti impositori di riscuotere il tributo dopo la sentenza della Corte di Cassazione di annullamento con rinvio, che in passato conduceva gli Uffici a procedere, nel silenzio dalla norma, all’iscrizione a ruolo dell’intero importo, prassi quest’ultima, che a seguito della novella dell’art. 68 del D.lgs. 546/1992, non potrà più essere praticata. Il citato art. 68 precisa, altresì, che nell’ipotesi in cui si ometta di riassumere il giudizio dopo il rinvio, l’intero procedimento si estingue, riprendendo vigore l’atto impositivo che ne rappresentava il presupposto (23). Con tale previsione chiarificatrice il Legislatore si è palesemente allineato alle intenzioni proclamate nella relazione illustrativa al decreto di riforma, nella quale veniva auspicato che venissero espressamente disciplinati gli effetti della mancata riassunzione del giudizio (24). Il D.lgs. 156/2015 ha altresì modificato il comma 2 dell’art. 68 del D.lgs. 546/1992, riconoscendo al contribuente la possibilità di giovarsi del rimedio dell’ottemperanza in caso di mancata esecuzione da parte dell’Amministrazione del rimborso delle somme dallo stesso versate in pendenza del giudizio entro novanta giorni. In tal modo è stata superata quella carenza normativa che vedeva il contribuente del tutto sguarnito di rimedi giuridici in presenza dell’inerzia dell’Amministrazione soccombente, la quale avesse omesso di eseguire il rimborso

(23) La mancata riassunzione comporta la caducazione di tutte le sentenze medio tempore pronunciate e, per l’effetto, la reviviscenza dell’atto impositivo presupposto, che consentirà all’Amministrazione di esigere le somme portate dal provvedimento. Cfr. Cass, 1824/2005; Cass. 3040/2008; Cass. 5044/2012; Cass. 16689/2013; Cass. 15643/2014, tutte in Banca dati Pluris Wolters Kluwer. (24) Sul punto, testualmente, la relazione illustrativa al D.lgs. 156/2015 precisava che: “l’espressa previsione degli effetti della mancata riassunzione ha lo scopo di rendere chiare, soprattutto ai contribuenti, le conseguenze pregiudizievoli che derivano dalla mancata riassunzione del giudizio, indipendentemente da quale parte sia risultata vittoriosa in cassazione”.


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delle somme medio tempore riscosse nei confronti del ricorrente vittorioso (25). Come sopra accennato, tra le disposizioni novellate dal D.lgs. 156/2015, deve inoltre essere analizzato l’art. 69 del D.lgs. 546/1992, che nel suo tenore attuale disciplina l’esecuzione delle sentenze di condanna favorevoli al contribuente, sancendone la loro immediata esecutività anche se non passate in giudicato, con la contestuale previsione che la mancata esecuzione della sentenza entro il termine stabilito dalla medesimo norma, attribuisca al contribuente la legittimazione a richiedere l’ottemperanza in virtù dell’art. 70 del medesimo D.lgs. 546/1992 (26). E così, quanto alla sopra citata immediata esecutività delle sentenze favorevoli al contribuente così come disciplinata dai nuovi artt. 67-bis, 68 e 69 del D.lgs. 546/1992, l’esecuzione provvisoria, come si vedrà infra nell’unica forma consentita del giudizio di ottemperanza è prevista per le sentenze che, accertando la fondatezza delle pretese del contribuente e annullando in tutto o in parte l’atto, comportino un facere da parte dell’Ente impositore, nonché per le pronunce di condanna dell’Amministrazione al pagamento di somme che possono conseguire ad azioni di rimborso del contribuente, e per quelle che condannino l’Amministrazione al pagamento delle spese del giudizio (27),

(25) Sulle criticità della precedente disciplina cfr. P. Russo, Manuale di diritto tributario. Il processo, Milano, 2005, 309 ss. (26) Tra i primi contributi dottrinali sul punto, cfr. F. Randazzo, Con l’immediata esecutività delle sentenze non ancora in giudicato cambia il giudizio di ottemperanza, in Corr. trib., 25/2016, 1973; C. Glendi, Fermenti legislativi processualtributaristici: lo schema di Decreto delegato sul contenzioso, cit., 2467 ss.; E.A. Sepe, Nuove regole su esecutività delle e misure cautelari successive, cit., 42; L. Lovecchio, Attuazione solo parziale del principio di parità delle parti nel processo tributario, cit., 3037. (27) Sull’immediata esecutività delle sentenze di condanna alle spese del giudizio o, in generale, della parte del dispositivo che ponga a carico dell’Amministrazione le spese di lite, può rilevarsi come il dato letterale dell’art. 69 del D.lgs. 546/1992, possa prestarsi a una duplice e antitetica interpretazione. E così, la lettera del comma 1 della citata disposizione a mente della quale “… Le sentenze di condanna al pagamento di somme in favore del contribuente e quelle emesse su ricorso avverso gli atti relativi alle operazioni catastali indicate nell’articolo 2, comma 2, sono immediatamente esecutive. Tuttavia il pagamento di somme dell’importo superiore a diecimila euro, diverse dalle spese di lite, può essere subordinato dal giudice, anche tenuto conto delle condizioni di solvibilità dell’istante, alla prestazione di idonea garanzia…” può indurre a ritenere, per un verso, che nelle sentenze di condanna al pagamento di somme debbano essere ricomprese le pronunce di condanna alle spese del giudizio o, in ogni caso, la parte dispositiva delle stesse che condanni l’Amministrazione alla rifusione delle spese. Dall’altro, una lettura maggiormente restrittiva potrebbe indurre a escludere


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ovvero per le sentenze emesse su ricorsi avverso gli atti relativi alle operazioni catastali tributarie (28).

che l’esecutività immediata sia estesa anche alle statuizioni di condanna alle spese di lite in favore del contribuente. Se è vero, infatti, che la condanna alle spese del giudizio costituisce comunque condanna dell’Amministrazione al pagamento di una somma di denaro in favore del contribuente, potrebbe sostenersi che l’ordine imposto dal giudice all’Amministrazione in ordine al pagamento delle spese, consegua la condanna principale al pagamento di somme per la quale soltanto è dettata la disposizione di cui all’art. 69 citato, in cui manca un esplicito riferimento alle spese del giudizio. Da una lettura sistematica dell’art. 67-bis e dell’art. 69 del D.lgs. 546/92 si ritiene di aderire all’interpretazione maggiormente favorevole al contribuente specie se si considera che, come si vedrà nei paragrafi che seguono, la subordinazione del pagamento alla prestazione della garanzia per gli importi superiori a diecimila euro riguarda le somme “diverse dalle spese di lite”. Può pertanto affermarsi che l’immediata esecutorietà riguardi, a fortiori, le statuzioni del giudice tributario che pongano sull’Amministrazione le spese del giudizio posto che, per tali importi, non opererebbe nemmeno la disciplina sulla garanzia di cui meglio si vedrà infra. In generale, sulla tematica delle spese del giudizio M. Lovisetti, sub art. 15, in C. Consolo, C. Glendi (a cura di), Commentario breve alle leggi del processo tributario, Padova, 2017, 199 ss.; F. Graziano, sub art. 15, in V. Ukmar, F. Tundo (a cura di), Codice del processo tributario, Piacenza, 2007, 725 ss.; Rossi, Spese del giudizio, Il processo tributario, a cura di E. Della Valle, V. Ficari, G. Marini, Padova, 2008, 441 ss.; G: Porcaro, sub art. 15, in Tesauro (a cura di), Codice commentato del processo tributario, Milano, 2011, 227 ss.; C. Glendi, Nuove disposizioni generali del codice di procedura civile e processo tributario, in Corr. Trib., n. 32, 2010, 2570; A. Russo, L’incidenza sulle spese di lite dopo la riforma della sentenza impugnata, in Il Fisco, 13, 2016, 1244. (28) Non può non rilevarsi come, in effetti, il disposto dell’art. 69 del D.lgs. 546/1992, a mente del quale “Le sentenze di condanna al pagamento di somma in favore del contribuente e quelle emesse su ricorso avverso gli atti relativi alle operazioni catastali… sono immediatamente esecutive”, sembri porre sullo stesso piano pronunce dalla natura del tutto differente. Se infatti, da un lato è sancita l’immediata esecutività delle sentenze di condanna che impongano all’Amministrazione il pagamento di somme, dall’altro la medesima previsione è applicabile alle sentenze relative alle operazioni catastali, che non possono considerarsi pronunce di condanna. In tal senso può però osservarsi come, in realtà, la previsione dell’immediata esecutività di tali sentenze sia compatibile con la volontà del Legislatore, laddove si affermi che lo stesso, con i rinnovati artt. 67-bis, 68 e 69 del D.lgs. 546/1992 ha voluto sancire l’immediata esecutorietà non solo delle sentenze di condanna dell’Amministrazione al pagamento di somme ma anche di quelle che, appunto, pur di mero accertamento, comportino un facere per l’Ente impositore. Sulla natura del giudizio catastale, la dottrina ha rilevato che, avendo ad oggetto un atto dichiarativo, questo sia qualificabile come giudizio di accertamento positivo dello stato effettivo dei beni, cfr. G. Salanitro, Profili sostanziali e processuali dell’accertamento catastale, Milano, 2003, 133 ss. Vi è però chi ha posto in rilievo, come anche che il giudizio catastale potrebbe sfociare in una pronuncia di annullamento dell’atto nel caso di illegittimità formali dello stesso. Cfr. A.F. Uricchio, Il contenzioso catastale: la difficile convivenza di più giurisdizioni, in Rass. trib., 2005, 5, 1403 ss. Non mancano, invero, anche ricostruzioni del giudizio catastale come giudizio di annullamento (Cfr. C. Glendi, L’oggetto del processo tributario, Padova, 1984, 38). In ordine al giudizio catastale vi è peraltro chi ha sottolineato che nella disciplina ante


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Ad una prima disamina la predetta regola sembrerebbe produttiva di una dirompente carica innovativa, e ciò nell’ambito di un effettivo perseguimento della ratio sottesa al principio di parità delle parti. Occorre tuttavia rilevare come la suindicata previsione favorevole al contribuente, sia bilanciata dalla facoltà, concessa all’Ente impositore, di richiedere la sospensione giudiziale delle sentenze di annullamento degli atti impugnati (29).

novella, le sentenze d’accertamento del classamento o della rendita catastale degli immobili sarebbero restate prive di qualsiasi utilità pratica per il contribuente se l’Amministrazione non avesse provveduto ad adeguarvi le risultanze catastali salvo, ovviamente, l’esperibilità del giudizio di ottemperanza secondo i limiti del previgente art. 70 D.Lgs. n. 546, primo tra tutti quello del passaggio in giudicato della decisione. In dottrina sulla tematica cfr. G. Salanitro, Profili sostanziali e processuali dell’accertamento catastale, cit., 133 ss.; R. Suraci, Sull’esperibilità del giudizio tributario di ottemperanza per l’esecuzione dei giudicati di mero accertamento, in Riv. Dir. Trib., 2004, 789 ss.; S. La Rosa, Amministrazione finanziaria e giustizia tributaria, Torino, 2000, 92. Il nuovo art. 69 del D.lgs. 546/1992 risolve alla radice tale problema, sancendo espressamente l’immediata esecutività delle sentenze emesse su ricorso avverso gli atti relativi alle operazioni catastali, rendendo attuabili gli obblighi di facere gravanti sull’Amministrazione in ragione delli tali decisioni senza che sia necessario attendere il passaggio in giudicato. Sulla tematica catastale i contributi sono innumevoli. Senza pretesa di esaustività cfr., tra gli altri, A. Parlato, Il catasto dei terreni, Palermo, 1967; F. Molteni, G. Saccone, Catasto (diritto amministrativo), in Enc. Giur. Treccani, Roma, 1988; A. Di Pietro, I regolamenti, le circolari e le altre norme amministrative per l’applicazione della legge tributaria, in Trattato di diritto tributario, diretto da A. Amatucci, I, tomo II, Padova, 1994; Rumboldt, Catasto, in Nss. D. I., III, Torino, 1959, 3 ss.; Id., Catasto (diritto attuale), in Enc. Dir., VI, Milano, 1960, 495 ss.; F. Randazzo, Art. 69, 69 bis e 70, in C. Consolo, C. Glendi (a cura di), Commentario breve alle leggi del processo tributario, Padova, 2012; G. Salanitro, Nuovi orientamenti in materia di dichiarazione catastale e classamento dei fabbricati, in Riv. dir. trib., 2000; Id., Profili sostanziali e processuali dell’accertamento catastale, cit., passim; Id., Catasto (Diritto tributario), in Diz. dir. pubbl., Milano, 2006, II, 814 ss.; Id., Nuove forme di adesione all’accertamento ed esercizio dei poteri di indagine ai fini delle imposte sui trasferimenti e del classamento degli immobili, in Riv. dir., trib., 2011, 987 ss.; F. Picciaredda, La nozione di reddito agrario, Milano, 2004, 3 ss; M. Del Vaglio, Accertamento catastale e motivazione dell’atto di attribuzione della rendita, in Riv. dir. trib., 2005, 809 ss.; G. Melis, Questioni attuali in tema di catasto e “fiscalità immobiliare”, in Rass. trib., 2010, 703. (29) Sulla tematica si richiama il nuovo art. 52 del D.lgs. n. 546/1992, il quale testualmente prevede che “l’appellante può chiedere alla commissione regionale di sospendere in tutto o in parte l’esecutività della sentenza impugnata, se sussistono gravi e fondati motivi. Il contribuente può comunque chiedere la sospensione dell’esecuzione dell’atto se da questa può derivargli un danno grave e irreparabile”. Tale previsione ha permesso di superare la diatriba giurisprudenziale in ordine alla possibilità di richiedere la sospensione cautelare della sentenza della commissione tributaria provinciale, dettata dalla lettera dei previgenti artt. 47 e 49 del D.lgs. n. 546/92. Non senza rilevare come il nuovo art. 62-bis preveda letteralmente


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Il nuovo apparato normativo sul processo, che prima facie potrebbe sembrare connotato da solidi profili di garantismo in favore del contribuente, è peraltro ulteriormente temperato da una disposizione che, al contrario è chiaramente dettata nell’interesse del Fisco. Ci si riferisce all’art. 69, 1° comma, 2° periodo, a mente del quale, nell’ipotesi in cui l’importo dovuto dall’Amministrazione superi i diecimila euro, il giudice ha il potere di subordinare detto pagamento alla prestazione di una idonea garanzia. Alla Commissione tributaria viene pertanto attribuito un potere discrezionale del tutto identico a quello riconosciuto all’Amministrazione finanziaria ex art. 38-bis del D.P.R. 633/1972 (30), volto a subordinare il pagamento degli importi di cui alla sentenza di condanna, alla prestazione di una garanzia che tenga conto della solvibilità del ricorrente, valutata dal giudice sulla base della consistenza del patrimonio dello stesso e all’ammontare delle somme oggetto di rimborso. Come meglio si vedrà nelle pagine che seguono, si tratta di una norma manifestamente pro fisci, che pregiudica l’effettiva realizzazione del diritto di credito riconosciuto al ricorrente dal comma 1 dell’art. 69 del D.lgs. 546/1992 a seguito dell’emanazione di una sentenza di condanna immediatamente esecutiva. A ben vedere l’intero corpo dell’art. 69 citato presenta alcune problematicità, che in parte minano l’effettività della tutela del contribuente, e di cui si offrirà una dettagliata disamina nel prosieguo della trattazione (31).

che “la parte che ha proposto ricorso per cassazione può chiedere alla commissione che ha pronunciato la sentenza impugnata di sospenderne in tutto o in parte l’esecutività allo scopo di evitare un danno grave e irreparabile. Il contribuente può comunque chiedere la sospensione dell’esecuzione dell’atto se da questa può derivargli un danno grave e irreparabile”. (30) L’art. 38-bis del D.P.R. 633/1972, richiamato dallo stesso art. 69, comma 2 del D.lgs. 546/1992, statuisce che i rimborsi IVA di ammontare superiore a 15.000 euro siano eseguiti previa prestazione della garanzia di cui al comma 5, sotto forma di cauzione in titoli di Stato o garantiti dallo Stato, al valore di borsa, ovvero di fideiussione rilasciata da una banca o da una impresa commerciale che a giudizio dell’Amministrazione finanziaria offra adeguate garanzie di solvibilità ovvero di polizza fideiussoria rilasciata da un’impresa di assicurazione. Deve peraltro rilevarsi come l’art. 7-quater, comma 32, introdotto dalla legge n. 225/2016, che ha convertito D.L. n. 193/2016 (c.d. Decreto fiscale), intervenendo sulla formulazione dell’art. 38-bis, comma 3, del D.P.R. n. 633/1972, abbia innalzato l’ammontare di eccedenza IVA a credito, che può essere richiesta a rimborso senza la necessità di prestare la garanzia, da 15.000 a 30.000 euro. Come meglio si vedra infra, al par. 5, l’innalzamento della soglia di rimborso IVA al di sopra della quale risulta necessaria la prestazione di una garanzia a 30.000 euro, acuisce le discrasie con la disciplina di cui all’art. 69, comma 2, del D.lgs. 546/1992, per cui, come sopra accennato, il giudice ha il potere di subordinare il pagamento degli importi superiori a 10.000 euro, indicati nelle sentenze favorevoli al contribuente, alla prestazione di una garanzia. (31) Cfr. amplius, infra, par. 5.


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4. Il giudizio di ottemperanza. Inquadramento sistematico. – Effettuata una breve ricognizione della disciplina dell’esecuzione forzata delle sentenze nel processo tributario, occorre procedere alla disamina del giudizio di ottemperanza il quale, come visto, si presenta intimamente collegato alla tematica trattata nelle pagine che precedono. Il giudizio di ottemperanza trova il suo antecedente storico nell’omologo istituto amministrativo, introdotto dall’art. 4, n.4 della L. 31 marzo 1889, n. 5992, al fine di garantire l’attuazione delle sentenze del giudice ordinario nei confronti della Pubblica Amministrazione (32).

(32) Sul punto non si può trascurare di precisare che, storicamente, il giudizio di ottemperanza nacque con la precipua finalità di completare il sistema delineato dagli artt.4 e 5 della legge 20 marzo 1865, n.2248, All. E. Infatti, sotto la vigenza di detta legge e fino al 1889, il giudice ordinario non aveva il potere di revocare o modificare l’atto amministrativo lesivo di un diritto civile o politico (cfr. art. 4), potendo procedere unicamente alla sua disapplicazione nell’ipotesi in cui il provvedimento non fosse stato ritenuto conforme alla legge. Ciò in virtù della rigida separazione dei poteri cui era ispirata la legge 1865 (cfr. art. 5). Non solo, l’art. 4 della medesima normativa imponeva alle autorità amministrative l’obbligo di conformarsi al giudicato, senza tuttavia individuare uno strumento che potesse garantirne l’osservanza. Ebbene, tale finalità si riteneva potesse perseguirsi proprio attraverso lo strumento del giudizio di ottemperanza. Cfr. sul punto, M. Sanino, Il giudizio di ottemperanza, Torino, 2014, 6-7. Tuttavia, la legge n. 5992 del 1889 non aveva previsto l’inserimento di una medesima forma di tutela nei confronti del giudicato amministrativo. La ragione sottesa a tale scelta era legata alla previsione della giurisdizione amministrativa come una giurisdizione di mero annullamento, dalla cui efficacia retroattiva derivava la rimozione ab origine dell’atto considerato illegittimo. Sul giudizio di ottemperanza cfr. M. Basilvecchia, Il giudizio di ottemperanza, in Il processo tributario, cit., 929; B. Bellé, Riflessioni sul giudizio di ottemperanza, in Riv. dir. trib. 1998, II, 19; F. Benvenuti, Giudicato (diritto amministrativo), in Enc. dir., XVIII, Milano, 1969, 867; M. Clarich, L’effettività della tutela nell’esecuzione delle sentenze del giudice amministrativo, in Dir. proc. amm., 1998, 523; Id., Il giudizio di ottemperanza nel nuovo processo tributario, in Dir. prat. trib., 1997, I, 65; C. Consolo, L’effettività della tutela nell’esecuzione delle sentenze del giudice amministrativo, in Dir. proc. Amm., 1998, 523; Id., oggetto del giudicato e principio dispositivo, in Riv. trim.dir. proc. civ., 1991, I, 215; G. Fransoni, Giudicato tributario e attività dell’amministrazione finanziaria, cit., passim; M.S. Giannini, Contenuto e limiti del giudizio di ottemperanza, in Riv.trim.dir.proc.civ., 1960, 442 ss.; C. Glendi, Giudizio di ottemperanza (dir. trib.), in Enc. giur. Treccani, XV, Roma; Id., Prime sentenze nei giudizi di ottemperanza davanti alle commissioni tributarie, in GT-Riv. giur.trib., 1997, 1136; Id., Primi approcci della Suprema corte alle problematiche del giudizio di ottemperanza nel processo tributario, in GT-Riv.giur.trib., 2002, 1049; S. Muscarà, Giurisdizione di accertamento e giurisdizione di annullamento nella nuovo disciplina del processo tributario, in Dir. prat. trib., 1983, I, 1157; Id., In tema di giudizio di ottemperanza per rimborso di imposte, in Rass. trib., 1985, II, 180; M. Nigro, Giustizia amministrativa, Bologna, 1994 312 ss., A. Romano, L’attuazione dei giudicati da parte della pubblica amministrazione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2001, 411; A.M. Sandulli, Consistenza ed estensione dell’obbligo delle Autorità amministrative di conformarsi ai giudicati, in Riv.trim.dir.proc.civ., 1960, 334 ss.; S. Satta, Gli effetti secondari della


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La suindicata norma venne successivamente trasfusa, praticamente immutata, nell’art. 27, n. 4, del T.U. del Consiglio di Stato, R.D. 26 giugno 1924, n.1054, che testualmente stabiliva: “…Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale decide pronunciando anche in merito… dei ricorsi diretti ad ottenere l’adempimento dell’obbligo dell’autorità amministrativa di conformarsi, per quanto riguarda il caso deciso, al giudicato dei Tribunali che abbia riconosciuto la lesione di un diritto civile o politico…” (33). L’estensione analogica dell’ottemperanza anche alle sentenze del giudice amministrativo, rappresentò il frutto di una svolta giurisprudenziale del Consiglio di Stato (34), successivamente avallata dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (35). Sempre attraverso l’elaborazione pretoria tale rimedio, riservato al giudice amministrativo, venne progressivamente esteso alle sentenze dei giudici speciali, in particolare alle decisioni della Corte dei Conti (36) ed al giudicato delle Commissioni Tributarie (37).

sentenza, in Riv. dir. proc. civ., 1934, I, 251; F. Tesauro, Lineamenti del processo tributario, cit.; Id., Le situazioni soggettive nel processo tributario, in Riv. dir. fin., 1988, I, 387. (33) L’evoluzione del giudizio di ottemperanza è strettamente connessa alla trasformazione subita dall’intero processo amministrativo, che da processo di mero annullamento è stato successivamente caratterizzato anche da profili ordinatori. Sul giudicato amministrativo si veda F. Benvenuti, Giudicato (diritto amministrativo), cit., 893 ss. Il giudizio di ottemperanza è stato influenzato da tale cambiamento, conseguente alla presa di coscienza che lo strumento dell’annullamento di un atto illegittimo non fosse sufficiente a tutelare gli interessi dei consociati, non potendo derivare automaticamente dall’annullamento di un atto l’immediato ripristino della situazione precedente l’emanazione del provvedimento. (34) In un primo momento solo la giurisprudenza aveva ritenuto che il giudizio di ottemperanza si potesse ritenere estensibile anche alle sentenze definitive del giudice amministrativo. In tal senso cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 9 marzo 1928 n.181, in Foro amm., 1928, I, 1, 150 ss. Da tale pronuncia emerge che inizialmente l’estensione di tale procedimento era circoscritta alla tutela dei diritti soggettivi. Successivamente, il medesimo Consiglio di Stato si pronunciò a favore dell’esperibilità di tale rimedio con riferimento agli interessi legittimi (Cons. Stato, Sez. V, n.810/1934, in Banca dati Pluris Wolters Kluwer). Per una compiuta ricognizione dell’evoluzione storica del giudizio di ottemperanza cfr. F. Picciaredda, La solidarietà tributaria. Tendenze evolutive, Roma, 2016, 211 ss. (35) Cass. Sez. Un., 8 luglio 1953, n.2157, in Foro amm., 1953, II, 182. Sul punto cfr. D. Giannini, Il nuovo giudizio di ottemperanza, dopo il Codice del processo amministrativo, Milano, 2011, 5; G. Mari, Il giudizio di ottemperanza, in M.A. Sandulli (a cura di), Il nuovo processo amministrativo, Milano, 2013, 457. (36) Consiglio di Stato, 9 febbraio 1987, n. 87; Consiglio di Stato, 22 gennaio 1991, n. 29 in Banca dati Pluris Wolters Kluwer. (37) Cfr. Consiglio di Stato, 3 ottobre 1990, n. 740, conf. Ad. plen., 22 dicembre 1990, n. 11, in Banca dati Pluris Wolters Kluwer.


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Successivamente il Legislatore, recependo il sopra citato indirizzo interpretativo, inserì espressamente il giudizio di ottemperanza all’interno dell’art. 37 della L. 6 dicembre 1971, n.1034 istitutiva dei Tribunali Amministrativi Regionali (38). Occorre tuttavia rilevare che i successivi interventi normativi hanno sottratto alla competenza del giudice amministrativo l’ottemperanza al giudicato di alcuni giudici speciali, ivi comprese le Commissioni Tributarie, dettando una specifica disciplina (39). Per ciò che concerne, invece, la declinazione tributaria dell’istituto, la normativa primigenia è individuabile nel D.P.R. n. 739/1981, che ha riconosciuto alle Commissioni Tributarie il potere di emettere sentenze di condanna nei confronti dell’Amministrazione Finanziaria (40). Non solo, al medesimo organo era stato anche conferito il potere di richiedere l’esecuzione coattiva delle suindicate sentenze nell’ipotesi in cui l’Amministrazione soccombente fosse rimasta inerte (41).

(38) Con il predetto art. 37 della L. 6 dicembre 1971, n.1034, al T.A.R. è stata pertanto demandata l’esecuzione delle sentenze emesse dal giudice amministrativo, nonché dagli altri giudici speciali, ivi comprese la Corte dei conti e le Commissioni tributarie, in relazione alle sentenze di condanna al pagamento di somme. In realtà vi erano delle problematiche connesse alla mancanza di una esaustiva regolamentazione procedimentale dell’istituto, non colmata neppure con la legge 205 del 2000 di riforma del processo amministrativo, che non ha disciplinato organicamente detto istituto. Con la redazione del codice sul processo amministrativo approvato con il Decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 ed aggiornato con le modifiche apportate, da ultimo, dalla L. 28 dicembre 2015, n. 208, nonché dal D.L. 30 dicembre 2015, n. 210, convertito, con modificazioni, dalla L. 25 febbraio 2016, n. 21, il giudizio di ottemperanza ha trovato una precisa collocazione e disciplina nel libro IV del medesimo codice. Cfr. V. Cerulli Irelli, Lineamenti del diritto amministrativo, Torino, 2011, passim. (39) Ci si riferisce, in particolare, al D.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, che in attuazione dell’art. 44 della L. 18 giugno 2009, n. 69, ha razionalizzato le regole precedentemente vigenti, riconoscendo ammissibile (ex artt. 112 ss.) azionare il giudizio di ottemperanza anche per quanto attiene alle sentenze del giudice amministrativo non passate in giudicato. Cfr. E. Manoni, Il giudizio di ottemperanza, in il fisco, 16, 2014, 1556 ss. In tema cfr. anche E. Cannada Bartoli, Esecutività della decisione dei Tar e obbligo di conformarsi al giudicato, in Foro amm., 1975, II, 71. (40) Così S. Muscarà, Giurisdizione di accertamento e giurisdizione di annullamento nella nuova disciplina del processo tributario, cit., 1184. In merito alla possibilità che tra i poteri decisori delle Commissioni Tributarie sia ricompreso quello di condannare l’Amministrazione finanziaria al pagamento di somme di denaro delle quali risulti debitrice nei confronti del contribuente, e sugli elementi essenziali e i caratteri principali della condanna, Cfr. F. Tesauro, Le situazioni soggettive nel processo tributario, cit., 413. (41) Sul punto cfr. F. Tesauro, Lineamenti del processo tributario, cit., 260.


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Successivamente, in applicazione della Legge delega per la revisione della disciplina del contenzioso tributario (L. 30 dicembre 1991, n. 413), il Legislatore disciplinò l’istituto del giudizio di ottemperanza nell’art. 70 del D.lgs. 546 del 1992, dotando in tal modo le Commissioni Tributarie di uno strumento finalizzato a rendere effettivo il comando espresso nella sentenza. In tal senso, appare opportuno richiamare l’art. 70 del D.lgs. 546 del 1992 nella sua formulazione ante riforma. La predetta disposizione, pur facendo espressamente salve le previsioni del c.p.c. relative all’esecuzione forzata delle sentenze di condanna costituenti titolo esecutivo, prevedeva che la parte che vi avesse interesse potesse richiedere in via alternativa o cumulativa l’ottemperanza agli obblighi derivanti dalla sentenza della Commissione tributaria, che necessariamente doveva essere passata in giudicato (42). Tale innesto si è tuttavia perfezionato senza la previsione di alcun coordinamento con l’esecuzione ordinaria regolata dal codice di procedura civile (43). Proprio in tal senso, la dottrina prevalente ha asserito che lo strumento esecutivo e quello dell’ottemperanza nel quadro normativo ante riforma sarebbero cumulabili e contestualmente esperibili (44), di guisa che la scelta sarebbe stata interamente rimessa al contribuente vittorioso (45). L’art. 70 del D.lgs. 546/1992 non poteva tuttavia essere utilizzato al fine di ottenere l’ottemperanza delle sentenze favorevoli al contribuente non passate in giudicato, laddove l’art. 68 del medesimo decreto prevedeva espressamente

(42) Sulla tematica cfr. F. Ardito, Il giudizio di ottemperanza nel nuovo processo tributario, in Boll. trib., 1997, 188 ss.; M. Clarich, Il giudizio di ottemperanza nel nuovo processo tributario, cit., I, 65 ss. (43) Non vi è alcun dubbio che le indicazioni normative sul tema fossero piuttosto vaghe in considerazione del fatto che l’art. 70 del D.lgs. 546/1992, prima della sua recente riformulazione, faceva salvo quanto previsto dalle norme del c.p.c. per l’esecuzione forzata della sentenza di condanna costituente titolo esecutivo, in tal modo lasciando aperta la scelta tra l’alternatività o concorrenzialità tra i due giudizi, cfr. M. Basilavecchia, Il giudizio di ottemperanza, in F. Tesauro (a cura di), Il processo tributario, 1998, 945. Sul punto cfr. amplius, infra, par. 5; (44) Cfr. Cass., 12 marzo 2009, n. 5925, in il fisco, 2009, 7806 ss. In dottrina cfr. P. Russo, Manuale di diritto tributario. Il processo tributario, Milano, 2005, 315 ss.; M. Basilavecchia, Il giudizio di ottemperanza, cit., 935 ss. (45) Cfr. R. Racioppi, A. Vignoli, R. Lupi, Quale coordinamento tra giudizio di ottemperanza ed esecuzione ordinaria a favore del contribuente?, in Dialoghi trib. 5/2014, 513 ss.; A. Vignoli, Quale convenienza per l’ottemperanza rispetto all’esecuzione ordinaria?, in Dialoghi trib. 5/2014, 515 ss.


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la sola esecuzione frazionata in pendenza di giudizio delle sentenze favorevoli all’ente impositore (46). Come è stato evidenziato nel paragrafo che precede, tale disparità di trattamento è stata rimossa dalle recenti modifiche introdotte dal D.lgs. n. 156/2015 che hanno elevato il giudizio di ottemperanza ad esclusivo strumento di attuazione delle decisioni favorevoli al contribuente. Trattasi di una conclusione perfettamente in linea con la recente riscrittura dell’art. 69 del D.lgs. 546/1992 che, nell’originaria formulazione, prevedeva la possibilità di far munire di formula esecutiva solo le sentenze delle Commissioni tributarie di condanna dell’Amministrazione finanziaria e dell’Agente di riscossione che fossero passate in giudicato (47). La riforma di cui al D.lgs. n. 156/2015 non ha invece influito significativamente sugli aspetti procedimentali. In particolare, per ciò che concerne il giudice competente a conoscere la richiesta di ottemperanza, questo sarà individuabile nella Commissione tributaria provinciale qualora si tratti di una sentenza emessa da detto giudice. L’art. 70 del D.lgs. 546/1992 prevede che “in ogni altro caso” la competenza sarà della Commissione tributaria regionale. In assenza di ulteriori disposizioni sul punto, detto inciso deve essere inteso in senso residuale, rientrando nella competenza della Commissione tributaria regionale anche i giudizi di ottemperanza alle sentenze della Corte Cassazione ai sensi del combinato disposto dell’art. 62 del D.lgs. n. 546/1992 e dell’art. 384, 1° comma, c.p.c. (48), quelle emesse quelle emanate dalle Commissioni Tributarie di I e di II grado, e dalla Commissione Tributaria Centrale (49).

(46) Sul punto cfr. amplius, supra, par. 2; (47) Come supra meglio specificato, prima delle recenti modifiche l’art.70 del D.lgs. 546/1992 non poteva essere utilizzato al fine di ottenere l’ottemperanza delle sentenze favorevoli al contribuente non passate in giudicato, laddove l’art. 68 del medesimo decreto prevedeva espressamente (e ancora prevede) la c.d. esecuzione frazionata in pendenza di giudizio delle sentenze favorevoli all’Ente impositore. (48) A. Finocchiaro, M. Finocchiaro, Commentario al nuovo contenzioso tributario, Milano, 1996, 885; C. Glendi, Prime sentenze nei giudizi di ottemperanza davanti alle Commissioni tributarie, cit., 1140. (49) Sul punto cfr. E.A. Sepe, Nuove regole su esecutività delle misure cautelari successive, cit., 42; P. Russo, Giudizio di ottemperanza ed individuazione della commissione competente, in Rass. trib., 1/2004, 233 ss. C. Glendi, Giudizio di ottemperanza e decisioni delle “vecchie” Commissioni, cit., 247 ss. Per un’analisi della sentenza della Corte di Cassazione 1544/2002 circa l’applicabilità dell’art. 70 del D.lgs. 546/1992 alle decisioni delle Commissioni Tributarie di primo e secondo grado e della commissione centrale tributaria cfr. Id., Primi


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La condizione per proporre il ricorso è l’avvenuta scadenza del termine entro il quale è prescritto dalla legge l’adempimento dell’obbligo recato dalla sentenza o, in mancanza, decorsi trenta giorni dalla messa in mora a mezzo di ufficiale giudiziario (50). È allora evidente come la messa in mora, pur prevista dalla norma, perda la sua connotazione di condizione di ammissibilità, giacché gli artt. 68, 2 comma e 69, 4 comma del D.lgs. 546/1992, prevedono un termine di novanta giorni per l’adempimento dell’Amministrazione (51). Quanto ai provvedimenti oggetto del giudizio di ottemperanza, occorre porre in rilievo come il riferimento operato dal terzo comma dell’art. 70 del D.lgs. 546/1992 “alla sentenza passata in giudicato” abbia da sempre creato delle problematiche interpretative che rilevano sotto un duplice profilo, quello della valenza semantica del termine “sentenza”, e quello del significato da attribuirsi al termine “giudicato” (52). I dubbi ermeneutici sopra citati, appaiono tuttavia ormai superati quale portato dell’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale e dell’intervento dello stesso Legislatore operato con la riforma di cui al D.lgs. 156/2015. Viene quindi in rilievo come l’ottemperanza sia oggi applicabile ben oltre i limiti delle “sentenze” passate in giudicato, potendosi far ricorso al predetto strumento anche per l’esecuzione di provvedimenti caratterizzati per la medesima attitudine definitoria della situazione soggettiva dedotta in giudizio, quali le sentenze non ancora definitive di condanna al pagamento di somme, comprese le spese di giudizio, delle pronunce non ancora definitive relative alle operazioni catastali parzialmente o totalmente favorevoli al contribuente, delle sentenze relative ad atti impositivi che comportano, ai sensi dell’articolo 68, comma 2 del D.lgs. 546/1992, la restituzione al contribuente del tributo e relativi interessi e sanzioni, corrisposti in eccedenza, nonché dell’ordinanza

approcci della Suprema Corte alle problematiche del giudizio di ottemperanza nel processo tributario, cit., 1050. (50) L’art. 70, del D.lgs. 546/1992 ricollega, quindi, l’inadempimento dell’Amministrazione finanziaria a due ipotesi differenti. In una l’inadempimento deriva da una fattispecie normativamente predeterminata (mora ex lege), nell’altra, da uno specifico atto di messa in mora da parte dell’interessato (mora ex se), che ha natura residuale. Sul punto cfr. C. Glendi, Giudizio di ottemperanza, cit., 5. (51) Sulla tematica, diffusamente, F. Randazzo, Con l’immediata esecutività delle sentenze non ancora in giudicato cambia il giudizio di ottemperanza, cit., 1974. (52) Sul punto cfr. F. Picciaredda, La solidarietà tributaria. Tendenze evolutive, cit., 220; E. Manoni, Il giudizio di ottemperanza, cit., 1556 ss.


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con cui sono liquidate le spese di giudizio in caso di rinuncia al ricorso ai sensi dell’articolo 44, comma 2 del medesimo decreto sul processo tributario (53). Parimenti deve essere inteso in senso lato il concetto di “giudicato”, il cui significato non può ricondursi alla rigida nozione di “cosa giudicata formale” di cui all’art. 324 c.p.c. (54). L’ampia nozione di “sentenza” più sopra esposta impone, infatti, che anche il concetto di “giudicato” debba essere interpretato secondo dei canoni di per sé coerenti, volti a ricomprendere non solo i provvedimenti formalmente qualificabili come sentenze, ma anche quelli dotati della medesima stabilità, sì da precluderne l’impugnazione (55).

(53) Occorre porre in rilievo come, sebbene il dato letterale dell’art. 70 del D.lgs. 546/21992 sia rimasto inalterato quanto al riferimento alle “sentenze passate in giudicato”, sia oggi indubbio che la valenza del termine “sentenza” debba essere intesa in senso lato. A tal riguardo l’ottemperanza è riferibile, come sopra evidenziato, anche a provvedimenti giurisdizionali espressi in forme differenti (ordinanze, decreti), che abbiano una attitudine definitoria della situazione soggettiva dedotta in giudizio, giacché suscettibili di passare in giudicato. (54) A tal riguardo non può prescindersi dalla definizione della distinzione tra giudicato formale e sostanziale. La nozione di giudicato formale è posta dall’art. 324 c.p.c., il quale riferisce la condizione del ‘passaggio in giudicato’ alle sentenze che non siano più soggette né a regolamento di competenza, né ad appello, né a ricorso per cassazione, né a revocazione per i motivi di cui ai numeri 4 e 5 dell’articolo 395. E così, secondo la lettura più restrittiva, ai sensi dell’art. 324 c.p.c. è “cosa giudicata formale”, la sentenza “che non è più soggetta agli ordinari mezzi d’impugnazione”. Il giudicato sostanziale rinviene, invece, il proprio fondamentale referente normativo nell’art. 2909 c.c., ai sensi del quale l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto fra le parti, i loro eredi o aventi causa è principio generale dell’ordinamento. Esso, invero, assicura che il processo – quale istituto volto alla realizzazione di valori (pubblici e privati) di particolare rilevanza – non sia azionato invano e, a tal fine, prescrive la stabilità del suo risultato. Su tali tematiche cfr. G. Pugliese, Giudicato civile (dir vig.), in Enc. dir., XVIII, Milano, 1969, 801; M. Nigro, Giustizia amministrativa, Bologna, 1994, 297; G. Fransoni, Giudicato tributario e attività dell’amministrazione finanziaria, Milano, 2001, passim; P. Russo, G. Fransoni, I limiti oggettivi del giudicato nel processo tributario, in Rass. trib., 2012, 858 ss.; M. Basilavecchia, Funzione impositiva e forme di tutela, Torino, 2013, 351 ss. (55) Non senza rilevare che, come rilevato da parte della letteratura, la predetta impostazione trovi una maggior giustificazione alla luce dell’interpretazione sistematica del titolo II, Capi III e IV del D.lgs. 546/1992, così come riformato dal D.lgs. 156/2015. È stato infatti sottolineato come l’ottemperanza della “sentenza passata in giudicato”, come individuata dall’art. 70 del D.lgs. 546/1992, ad oggi sia necessariamente integrata dalla possibilità riconosciuta al contribuente di agire per l’ottemperanza delle sentenze ancora non passate in giudicato, quale diretto portato della scelta legislativa volta a consentire (mediante l’ottemperanza) l’esecuzione delle sentenze di condanna al pagamento di somme in favore del contribuente, anche se siano state oggetto di impugnazione. Sul punto cfr. F. Randazzo,


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Quanto al contenuto del ricorso in ottemperanza, questo deve essere indirizzato al Presidente della Commissione competente, deve contenere la sommaria esposizione dei fatti che ne giustificano la proposizione (56), con la precisa indicazione, a pena di inammissibilità, della sentenza (anche non definitiva) di cui si chiede l’ottemperanza, la quale deve essere prodotta in copia unitamente all’originale o, se necessario, a una copia autentica dell’atto di messa in mora (57). Uno dei due originali del ricorso è comunicato a cura della Segreteria della Commissione in capo ai soggetti obbligati a provvedere quali l’Ente impositore, l’Agente o il Concessionario della riscossione (58). Nei venti giorni successivi a tale comunicazione, la parte resistente, senza peraltro effettuare alcuna formale costituzione, trasmette le proprie osservazioni. Scaduto il suindicato termine, il Presidente della Commissione assegna il ricorso alla Sezione che ha pronunciato la sentenza da ottemperare. La fase successiva si articola in due fasi. Una prima fase del procedimento si svolge nel contraddittorio tra le parti e viene definita con sentenza (59). Il

Con l’immediata esecutività delle sentenze non ancora in giudicato cambia il giudizio di ottemperanza, cit., 1973. (56) La dottrina ha rilevato come il ricorso in ottemperanza sia caratterizzato da un petitum particolare, che esula da giudizi di merito e riguarda, invece, la sola richiesta di esecuzione dell’obbligo rimasto inattuato. P. Russo, Manuale di Diritto Tributario. Il Processo Tributario, cit., 323. (57) Come sopra detto, l’atto di messa in mora (mora ex se) costituisce condizione dell’azione se non è indicato nella sentenza un termine per l’adempimento a carico dell’Amministrazione (mora ex lege). Laddove manchi un termine per l’adempimento dell’obbligo derivante dal giudicato, il ricorso per l’ottemperanza è proponibile dopo trenta giorni dalla messa in mora dell’Amministrazione tramite l’Ufficiale Giudiziario. Si tratta, con tutta evidenza, di un presupposto pre-processuale del tutto simile a quello previsto per il giudizio amministrativo di ottemperanza dall’art. 90, 2° comma, del R.D. 642 del 1907, con l’unica eccezione che l’art. 70 del D.lgs. 546/1992 richiede formalmente l’intervento dell’Ufficiale giudiziario, in tal modo escludendosi forme equipollenti di comunicazione. Cfr. P. Russo, Manuale di Diritto Tributario. Il Processo Tributario, cit., 322. Sulla tematica cfr. anche M. Basilavecchia, Il giudizio di ottemperanza, cit., 937 ss. (58) Il D.lgs. 156/2015 è intervenuto con una rilevante modifica in ordine all’ambito soggettivo di applicazione dell’ottemperanza, potendo tale istituto essere esteso non solo nei confronti dell’Agente della riscossione, ma anche in capo ai cd. Concessionari privati, nei cui confronti sia intervenuta la pronuncia e che siano obbligati a darvi esecuzione (art. 70, comma 2, D.lgs. 546/1992). (59) Tale sentenza non esaurisce l’ambito delle attribuzioni del Collegio, che ha poteri decisori ordinatori ed istruttori cfr. C. Glendi, Giudizio di ottemperanza: iter procedimentale, cit., 631 ss.


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Collegio, oltre a poter dare attuazione alla sentenza emanando i provvedimenti più opportuni, può delegare un proprio componente o un soggetto estraneo, il cd. commissario ad acta (60). La seconda fase è caratterizzata dalla verifica della puntuale esecuzione degli adempimenti rimessi, o al componente del collegio delegato, o al commissario nominato, e si conclude con una ordinanza (61). Avverso la sentenza che conclude la prima fase del giudizio, l’art. 70 del D.lgs. 546/1992 precisa che l’unico strumento ammissibile è rappresentato dal ricorso per Cassazione per inosservanza delle norme sul procedimento, da interpretarsi non solo quale violazione di norme disciplinanti il giudizio di ottemperanza, ma anche di ogni altro error in procedendo in cui sia incorso il giudice (62). Deve da ultimo evidenziarsi come la novella abbia inserito un nuovo comma, il 10 bis, nell’art. 70 del D.lgs. 546/1992, il quale prevede che per l’esecuzione delle sentenze che comportano il pagamento di somme di importo fino a ventimila euro, o comunque per il pagamento delle spese del giudizio, il ricorso in ottemperanza venga deciso, dalla Commissione tributaria in composizione monocratica. La determinazione assunta dal Legislatore con la predetta novella suscita, invero, qualche perplessità che verrà meglio disaminata nelle pagine che seguono (63).

(60) La nomina del commissario ad acta non esautora il giudice dell’ottemperanza. Il commissario è infatti ausiliario del giudice, ed esegue i compiti a lui demandati sotto il controllo e la vigilanza di quest’ultimo. Gli atti compiuti da questi si configurano solo formalmente come atti amministrativi, giacché sotto il profilo della legittimazione al loro compimento, sono qualificabili come atti giurisdizionali. Sulla tematica cfr., tra gli altri, cfr. I. Pellecchia, Giudizio di ottemperanza nel processo tributario, in Digesto delle discipline privatistiche, sezione commerciale, ad vocem, Torino, 2009, 350; V. Pennella, Il giudizio per l’ottemperanza alle sentenze delle commissioni tributarie tra oggetto, modalità di esecuzione ed impugnazione, in Rass. trib., 2004, 287 ss. (61) L’ordinanza di chiusura del procedimento è impugnabile dinnanzi alla Cassazione se ha contenuto decisorio, ossia se produce effetti di diritto sostanziale o processuale. Sul punto cfr. Cass. 3435/2005, in Banca dati Pluris Wolters Kluwer. (62) Cfr. Cass. n. 3057/2008; Cass. n. 8830/2014, in Banca dati Pluris Wolters Kluwer. Sulla tematica cfr. P. Russo, Le impugnazioni in generale e l’appello alla Commissione tributaria regionale, in C. Tosi, A. Viotto (a cura di), Il nuovo processo tributario, Padova, 1999, 125 ss.; F. Randazzo, L’esecuzione delle sentenze tributarie, cit., passim. (63) Sulle criticità della norma cfr. F. Randazzo, Con l’immediata esecutività delle sentenze non ancora in giudicato cambia il giudizio di ottemperanza, cit., 1972, e infra, amplius, par. 4.


Dottrina

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5. Problematiche applicative. – Dopo aver sommariamente tratteggiato i tratti essenziali della nuova disciplina relativa all’esecutività delle sentenze tributarie e al procedimento di ottemperanza, occorre ora offrire una prospettazione degli aspetti maggiormente problematici della normativa dettata dal D.lgs. 156/2015 in ordine alle tematiche oggetto di indagine. Un primo profilo di criticità, può essere ravvisato nella formulazione non certo cristallina dell’art. 12 del D.lgs. 156/2015 il quale, come sopra accennato, prevede un articolato regime di entrata in vigore differito delle singole disposizioni. E così se le disposizioni introdotte dal corpus normativo sul processo dalla novella del 2015 sono applicabili dal 1° gennaio 2016, i nuovi articoli 67bis (esecuzione provvisoria delle sentenze delle commissioni tributarie), 69 (esecuzione delle sentenze di condanna al pagamento di somme in favore del contribuente) nonché l’art. 69-bis (esecuzione delle sentenze sugli atti relativi alle operazioni catastali) del D.lgs. 546/1992, spiegano efficacia a decorrere dal 1° giugno 2016. Non senza rilevare come l’art. 12, al comma 2 del D.lgs. 156/2015, prevedesse che l’art. 69, 1° comma, 2° periodo, potesse trovare applicazione solo a seguito dell’emanazione di un apposito decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze, con ultrattività, nelle more, della previgente disposizione di cui all’art. 69 del D.lgs. 546/1992. Ci si riferisce, è appena il caso di ricordarlo, a quell’innesto normativo che ha previsto che il giudice possa subordinare il pagamento dell’Amministrazione per importi superiori a diecimila euro, diversi dalle spese di lite, alla prestazione di una idonea garanzia da parte del contribuente (64), il cui concreto atteggiarsi, la durata, nonché il termine entro il quale questa può essere escussa, doveva trovare la disciplina di dettaglio nel succitato decreto del Ministro dell’Economia e delle finanze. Detto provvedimento è stato emanato solo dopo il decorso di diversi mesi dalla data di entrata in vigore del novellato art. 69 del D.lgs. 546/1992 che ha

(64) Testualmente l’art. 12 del D.lgs. 156/2015 prevedeva che: “1. Le disposizioni del presente decreto entrano in vigore a decorrere dal 1° gennaio 2016, ad eccezione dell’articolo 9, comma 1, lettere ee), gg) e hh) che entrano in vigore dal 1° giugno 2016, nonché di quella prevista dal comma 5 che entra in vigore dalla data di pubblicazione del presente decreto nella Gazzetta Ufficiale. 2. Fino all’approvazione dei decreti previsti dagli articoli 12, comma 4, e 69, comma 2, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, come modificati dall’articolo 10 del presente decreto, restano applicabili le disposizioni previgenti di cui ai predetti articoli 12 e 69”.


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introdotto il regime della immediata esecutività delle sentenze tributarie (65), probabilmente a seguito dell’impulso dato dal parere favorevole da parte del Consiglio di Stato, in ordine al sopra citato schema di decreto (66). Appare chiaro come, sulla base del tenore letterale dell’art. 12, comma 2 del D.lgs. 156/2015, nelle more dell’entrata in vigore del predetto D.M., le disposizioni relative all’immediata esecuzione delle sentenze a favore del contribuente risultassero applicabili alle sole ipotesi di condanna dell’Amministrazione al pagamento di somme inferiori a diecimila euro o liquidate per spese di lite, per cui non era normativamente prevista la concessione di una garanzia (67). Si tratta, a ben vedere, di una scelta legislativa non del tutto condivisibile, che in parte ha limitato l’operatività di una normativa, quella sull’esecutorietà delle sentenze tributarie, alla quale si sarebbe potuta senz’altro riconoscere un’efficacia più immediata senza necessariamente stabilire un collegamento biunivoco con un atto regolamentare (68). Ma non è tutto. L’efficacia delle disposizioni testé citate appariva ancora più limitata qualora ci si fosse attenuti all’approccio ermeneutico proposto

(65) Trattasi del Decreto Ministeriale 6 febbraio 2017, n. 22, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 13 marzo 2017, che contiene le modalità di concessione della garanzia in presenza di sentenze tributarie immediatamente esecutive, anche se non definitive. Occorre peraltro rilevare come la garanzia dovrebbe essere redatta in conformità a modelli da approvarsi a cura del Direttore generale delle Finanze, che ad oggi non sono stati ancora predisposti. Può tuttavia affermarsi come la mancanza dei predetti modelli ministeriali, non debba costituire un impedimento in capo al giudice per l’imposizione della garanzia. (66) Parere del Consiglio di Stato “emesso sullo schema di decreto recante regolamento di attuazione dell’art. 69, comma 2, del D.lgs. 31.12.1992, n. 546 sulla garanzia per l’esecuzione delle sentenze di condanna a favore del contribuente” del 17.11.2016, in www. giustizia-amministrativa.it. (67) La giurisprudenza aveva peraltro ritenuto che, nell’attesa dell’emanazione del suindicato regolamento di attuazione dell’art. 69, comma 2, l’immediata esecutività delle sentenze tributarie fosse applicabile anche nelle ipotesi di condanna dell’Ente impositore al pagamento di importi superiori a diecimila euro in cui il giudice non avesse ritenuto necessaria la garanzia alla luce di una positiva valutazione prognostica della solvibilità del contribuente. Sul punto cfr. tra le altre, Comm. Trib. di Venezia, 20 giugno 2016, n. 316/3/2016, in Banca dati Pluris Wolters Kluwer. (68) Sul tema cfr. F. Mattarelli, Esecutività delle sentenze tributarie: il colpevole ritardo del Mef e l’indifferenza delle commissioni tributarie, in Riv. dir. trib. – Supplemento Online, 4 novembre 2016, secondo il quale “a parte più qualificante e significativa dell’intervento riformatore è stata “sequestrata” e consegnata nelle mani del MEF, dicastero che non può certo dirsi “terzo” nel processo tributario. Non solo, come forse si poteva temere fin dal principio, a distanza di oltre un anno il Ministero ancora non ha emanato il decreto che certamente non presenta complessità tecniche tali da giustificare un simile ritardo”.


Dottrina

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dall’Amministrazione finanziaria, che con la circolare n. 38 del 29.12.2015 aveva statuito come le nuove previsioni sull’immediata esecutività delle sentenze non potessero trovare applicazione fino all’emanazione del predetto decreto ministeriale. In tal senso, secondo la prassi, fino all’emanazione del decreto attuativo dell’art. 69 del D.lgs. 546/1992, le sentenze delle Commissioni tributarie sarebbero divenute esecutive solo dopo il passaggio in giudicato, restando applicabili le disposizioni ante riforma (69). Si trattava, con tutta evidenza, di un’interpretazione eccessivamente favorevole alle ragioni erariali che, nelle more dell’emanazione del suindicato decreto ministeriale, ha di fatto posto del tutto nel nulla i precetti della novella di cui al D.lgs. 156/2015 inibendone la portata innovativa. Come sopra accennato tale aspetto era ben stato individuato dalla giurisprudenza, che si era discostata da quanto statuito dalle indicazioni dell’Amministrazione sottolineando, al contrario, come una simile lettura dell’art. 12, comma 2 del D.lgs. 156/2015 evidenziasse profili di incostituzionalità di una norma che, applicata sulla base di quanto statuito dalla circolare sopra richiamata, avrebbe rimesso alla parte pubblica del processo, i tempi e le modalità di attuazione di una disciplina posta a tutela della parte privata (70). La predetta impasse interpretativa deve oggi ritenersi superata a seguito dell’emanazione del Decreto Ministeriale 6 febbraio 2017, n. 22 pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 13 marzo 2017, che disciplina le modalità di concessione della garanzia in presenza di sentenze tributarie immediatamente esecutive che rechino la condanna dell’Amministrazione al pagamento di importi superiori a diecimila euro, anche se non definitive. Ne consegue che gli Uffici dovranno ora adempiere senza riserve alla restituzione di quanto dovuto a prescindere dal passaggio in giudicato delle sentenze favorevoli al contribuente, in relazione alle quali il pagamento dovrà essere eseguito entro 90 giorni dalla notificazione della sentenza ovvero, per gli importi superiori a diecimila euro, dalla presentazione della garanzia ove imposta dal giudice. In realtà il predetto decreto ministeriale non è immune da criticità, giacché, pur nell’ambito della scelta discrezionale del giudice, subordina la rea-

(69) Segnatamente l’Agenzia delle Entrate, nella suindicata circolare n. 38 del 29.12.2015, ha statuito che la nuova formulazione dell’art. 69 avrebbe dovuto trovare applicazione con riferimento alle sentenze depositate dal 1° giugno 2016 o dalla data del decreto ministeriale previsto dall’art. 69, comma 2, se approvato successivamente. (70) Commissione tributaria provinciale di Venezia, 20 giugno 2016, la n.316/3/2016, in Banca dati Pluris Wolters Kluwer, sul punto cfr. supra, in questo paragrafo, nt. 53.


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lizzazione del diritto di credito riconosciuto al contribuente al rilascio di una garanzia assai onerosa, che ricalca il contenuto delle previsioni in tema di rimborsi IVA di cui all’art. 38-bis del D.P.R. 633/1972 imponendo la prestazione di una cauzione fino al termine del nono mese successivo a quello del passaggio in giudicato del provvedimento che definisce il giudizio, ovvero fino al termine del nono mese successivo a quello dell’estinzione del processo (71). Vi è inoltre da rilevare come il medesimo decreto disciplini, anche, la garanzia da prestarsi, su richiesta del giudice, in caso di sospensione dell’atto o di sentenza sfavorevole al contribuente. In tali casi la cauzione dovrà essere prestata fino al termine del nono mese successivo a quello in cui è depositato il provvedimento che conclude la fase di giudizio nella quale la sospensione è stata disposta. In ipotesi di esito favorevole al ricorrente, la garanzia cessa automaticamente. In caso contrario, entro la fine del nono mese successivo a quello del deposito della sentenza, l’Ente impositore potrà escutere la garanzia, salvo l’adempimento da parte dell’interessato (72). Orbene, a prescindere da ogni ulteriore elucubrazione in ordine alle specifiche modalità di prestazione della garanzia, occorre sottolineare come il vero punctum dolens della nuova disciplina di cui all’art. 69, 1° comma, 2° periodo

(71) Si è sopra accennato come le garanzie di cui all’art. 38-bis del D.P.R. 633/1972 e quella prevista dall’art. 69, comma 2 del D.lgs. 546/1992, presentino più di un tratto in comune, e ciò non solo a cagione dell’espresso richiamo operato dal novellato art. 69 sopra citato. È infatti evidente come, di fatto, le modalità di prestazione delle due garanzie risultino del tutto similari, di guisa che la più rilevante differenza è individuabile proprio nella soglia al di sopra della quale può, o deve, essere prestata la fideiussione. Come infatti supra evidenziato al par. 2, l’art. 7-quater, comma 32, della L. n. 225/2016, ha innalzato l’ammontare di eccedenza IVA a credito che può essere richiesta a rimborso senza la necessità di prestare la garanzia, da 15.000 a 30.000 euro, mentre ai sensi dell’art. 69, comma 2 del D.lgs. 546/1992, il giudice ha il potere di subordinare alla prestazione di una cauzione, il pagamento degli importi superiori a 10.000 euro riportati nelle sentenze favorevoli al contribuente. Considerata la ratio delle due disposizioni, entrambe chiaramente volte alla tutela degli interessi erariali, risulta manifesta l’incongruenza di due discipline che, pur simili, pongono soglie differenti per il soddisfacimento del diritto di credito del contribuente. In tal senso, un elemento di bilanciamento tra le due regole normative può essere individuato nella circostanza che, in un caso, quella dei rimborso IVA di cui all’art. 38-bis del D.P.R. 633/1972, la prestazione della cauzione risulta obbligatoria, mentre per ciò che concerne il pagamento delle somme di cui all’art. 69, comma 2 del D.lgs. 546/1992, il Legislatore ha rimesso alla discrezionalità del giudicante la scelta in ordine all’imposizione della predetta garanzia. (72) Secondo il medesimo decreto 6 febbraio 2017, n. 22, nelle ipotesi di sospensioni aventi ad oggetto risorse proprie tradizionali, nonché IVA all’importazione, la garanzia è prestata fino al termine del nono mese successivo a quello in cui si verifica il passaggio in giudicato del provvedimento che definisce il giudizio ovvero l’estinzione del processo.


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del D.lgs. 546/1992, così come attuata dal D.M. 22/2017, sia ravvisabile proprio nell’imposizione stessa della cauzione, in ordine alla quale deve nutrirsi più di una perplessità, in primis per ciò che concerne l’equità della stessa. Se infatti, ad una prima analisi, la ratio che ha spinto il Legislatore ad introdurre una previsione a detrimento del ricorrente, sembrerebbe ravvisabile nella circostanza che una delle parti in lite è sempre un privato, che potrebbe rivelarsi insolvente nell’ipotesi in cui l’esito della sentenza dovesse essere ribaltato in un successivo grado di giudizio (73), dall’altro non può negarsi come la garanzia di cui all’art. 69, 1° comma, 2° periodo del D.lgs. 546/1992 persegua fin troppo incisivamente le ragioni erariali, a discapito dei diritti del contribuente. Appare evidente, infatti, come l’introduzione di un simile onere in capo al contribuente rappresenti un inevitabile ostacolo per la realizzazione del diritto di credito al medesimo spettante (74), in palese spregio del principio di effettività della tutela giudiziale. Un ulteriore spunto di riflessione sulla novella di cui al D.lgs. 156/2015, riguarda l’attuale formulazione dell’art. 70 del D.lgs. 546/1992, nella parte in cui preclude al contribuente la facoltà di ricorrere alle norme del codice di procedura civile in via concorrente e cumulativa con il giudizio di ottemperanza (75).

(73) Cfr. M. Canigliaro, Tutela cautelare in appello ed esecuzione delle sentenze tributarie, in IlFisco, 34/2015, 3217. (74) Cfr. E. A. Sepe, Nuove regole su esecutività delle e misure cautelari successive, cit., 42. (75) E così, se l’art. 70 nella precedente versione prevedeva che “salvo quanto previsto dalle norme del codice di procedura civile per l’esecuzione forzata della sentenza di condanna costituente titolo esecutivo, la parte che vi ha interesse può richiedere l’ottemperanza agli obblighi derivanti dalla sentenza della Commissione Tributaria passata in giudicato mediante ricorso da depositare in doppio originale alla segreteria della Commissione Tributaria provinciale, qualora la sentenza passata in giudicato sia stata da essa pronunciata, e in ogni altro caso alla segreteria della Commissione Tributaria regionale”, rimettendo alla determinazione del contribuente la scelta dello strumento più idoneo a garantire l’esecuzione degli obblighi portati dalla sentenza a lui favorevole, la modifica introdotta dal D.lgs. 156/2015 ha eliminato tale “doppio binario”, elidendo dalla predetta disposizione normativa l’inciso “salvo quanto previsto dalle norme del codice di procedura civile per l’esecuzione forzata della sentenza di condanna costituente titolo esecutivo”. Per la cumulabilità e della contestuale esperibilità dei due strumenti processuali nella formulazione dell’art. 70 citato ante riforma, in dottrina cfr. S. Muscarà, In tema di giudizio di ottemperanza per rimborso di imposte, cit., 180; M. Basilavecchia, Il giudizio di ottemperanza, cit., 935 ss. In senso adesivo, in giurisprudenza, cfr. Cass., 14 gennaio 2004, n. 358; Cass., 12 marzo 2009, n. 5925, tutti in Banca dati Pluris Wolters Kluwer. In senso conforme cfr. anche P. Russo, Manuale di diritto tributario. Il processo


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A tal riguardo occorre infatti porre in rilievo come non appaiano affatto persuasive le ragioni addotte in sede di relazione illustrativa al D.lgs. 156/2015 al fine di giustificare l’eliminazione del regime della cumulabilità tra gli strumenti del giudizio di ottemperanza e dell’esecuzione forzata di cui agli artt. 474 e ss. del c.p.c., secondo cui nella maggior parte dei casi le norme sull’esecuzione forzata sarebbero meno efficaci del giudizio di ottemperanza. Tale statuizione non pare invero sufficiente per giustificare l’esclusione dell’esecuzione forzata dal novero degli strumenti posti a tutela dei diritti del contribuente, giacché l’espropriazione forzata in talune ipotesi potrebbe essere preferibile o addirittura più efficace dell’ottemperanza (76). Proprio in tal senso, la scelta legislativa ha immediatamente suscitato non poche perplessità in dottrina, in quanto la novella priverebbe la parte vittoriosa di un mezzo di recupero del proprio credito, in palese contrasto con gli auspici della Legge Delega volti a “rafforzare la tutela giurisdizionale del contribuente” (77). Come sopra accennato, i rilievi operati dalla letteratura alle modifiche richiamate, debbono senz’altro condividersi, pur con le doverose precisazioni. È infatti evidente, che stante l’innegabile deminutio delle tutele della posizione creditoria del contribuente, si tratti di due istituti dalla natura e dalle finalità ben differenti. Se infatti l’espropriazione è finalizzata ad ottenere l’esecuzione coattiva del comando contenuto nella sentenza, l’ottemperanza persegue la finalità differente di rendere effettivo quel dictum, garantendo che vengano compiuti quegli accertamenti indispensabili a delimitare la portata precettiva della sentenza di cui si chiede l’attuazione (78).

tributario, cit., 315 ss., secondo il quale il dettato normativo dell’art. 70 del D.lgs. 546/1992 non escludeva la cumulabilità dei due strumenti, che di fatto avrebbero aumentato le chances per la parte vittoriosa di veder soddisfatte le proprie pretese, a condizione che, ovviamente, i due rimedi non venissero esperiti contemporaneamente. Per una disamina del rapporto tra l’azione esecutiva e il giudizio di ottemperanza cfr. Ibidem. (76) Ci si riferisce, in particolare, alle sentenze di condanna recanti la quantificazione dell’importo da rimborsare al contribuente, per la cui attuazione è senz’altro prevalente il profilo dell’esecuzione coattiva del comando portato dal giudicato rispetto a quello dell’attuazione dell’obbligo processuale di attenersi all’accertamento recato dalla sentenza da eseguire. Su tali profili cfr. F: Batistoni Ferrara, Appunti sul processo tributario, Padova, 1995, 131. (77) Cfr. E.A. Sepe, Nuove regole su esecutività delle e misure cautelari successive, cit., 38 ss. (78) Sul punto cfr. Cass., 18 gennaio 2012, n. 646 in Banca dati Pluris Wolters Kluwer. In dottrina cfr. Cfr. F. Batistoni Ferrara, Appunti sul processo tributario, cit., 131.


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In sostanza, rispetto al processo esecutivo, il procedimento dell’ottemperanza presenta dei caratteri del tutto peculiari, giacché è caratterizzato dalla compresenza di poteri cognitori ed esecutivi, in cui il giudice deve preliminarmente esaminare il contenuto della sentenza rimasta inapplicata, e successivamente adottare i provvedimenti necessari all’esecuzione della medesima, supplendo ad eventuali carenze della pronuncia laddove ciò sia funzionale all’esecuzione richiesta (79). È allora evidente come, considerate le evidenti differenze sul piano della ratio dei due strumenti, con ogni probabilità sarebbe stato opportuno un più attento intervento del Legislatore, che pur senza privare il contribuente di un ulteriore mezzo di realizzazione del credito, ben distinguesse le singole fattispecie in cui applicare l’ottemperanza o l’esecuzione di cui al codice di rito. Da ultimo, occorre sottolineare come anche l’inserimento all’interno dell’art. 70 del D.lgs. 546/1992 del comma 10 bis, ai sensi del quale “per il pagamento di somme dell’importo fino a ventimila euro e comunque per il pagamento delle spese di giudizio, il ricorso è deciso dalla Commissione in composizione monocratica”, non possa senz’altro ascriversi tra le scelte più assennate del Legislatore. Se infatti l’attribuzione al Giudice monocratico dell’ottemperanza delle sentenze aventi ad oggetto il pagamento di somme non superiori a ventimila euro sembra essere in linea con la finalità deflattiva che ha caratterizzato altri istituti quali il reclamo-mediazione, non altrettanto logica appare la scelta di conferire “comunque” ad un solo membro della Commissione la decisione sull’ottemperanza riguardo le spese di lite. Le perplessità emergono ictu oculi già ad una prima lettura della norma. Ben potrebbero verificarsi, infatti, dei casi in cui il giudizio venga radicato per il rimborso di somme indicate in sentenza superiori ad euro ventimila (con competenza collegiale), ma con condanne alle spese indicate nel dispositivo per importi inferiori, con competenza del giudice monocratico unicamente per il capo relativo al rimborso delle spese di lite (80). Trattasi, a ben vedere, di una lettura che avrebbe dei risvolti negativi in tema di economia processuale, nonché in ordine all’individuazione della san-

(79) Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 19 agosto 2014, n. 4269, in Banca dati Pluris Wolters Kluwer. (80) Perplessità sollevata da F. Randazzo, Con l’immediata esecutività delle sentenze non ancora in giudicato cambia il giudizio di ottemperanza, cit., 1974.


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zione nell’ipotesi di inosservanza del sopra citato comma e che, a cagione della lettera non certo cristallina del comma 10 bis dell’art.70 del D.lgs. 546/1992, con ogni probabilità dovrà essere oggetto di un intervento chiarificatore (81). Non resta che auspicare che la giurisprudenza e lo stesso Legislatore possano conferire il giusto grado di effettività a una normativa che, nonostante i coni d’ombra che la caratterizzano, costituisce un ulteriore passo avanti verso una sempre maggior tutela del contribuente che oggi, anche a seguito del Decreto Ministeriale 6 febbraio 2017, n. 22 pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 13 marzo 2017 che ha reso pienamente operante l’art. 69, 1° comma, 2° periodo del D.lgs. 546/1992, garantisce l’immediata attuazione delle sentenze tributarie favorevoli al contribuente anche in relazione alle sentenze non ancora dotate dell’efficacia del giudicato.

Marcella Martis

(81) Cfr. A. Carrato, Il difetto di composizione del giudice e il relativo regime di invalidità, in Corr. trib., 7/2009, 954.


Il sistema tributario tedesco quale sistema tributario “più progressivo” dell’eurozona: analisi e riflessioni sul modello tedesco di progressività cd. “lineare” dell’imposta sul reddito delle persone fisiche Sommario: 1. Introduzione. – 2. La peculiarità dell’Einkommensteuer rispetto alle

imposte personali progressive in essere negli altri Paesi europei: la struttura progressiva “lineare” delle aliquote d’imposta. – 3. Il cd. “Existenzminimum”: la tutela del minimo vitale. – 4. Altri elementi di accentuazione della progressività dell’Einkommensteuer. La struttura dell’imposta: la determinazione del reddito complessivo e l’incidenza delle deduzioni nel calcolo del reddito imponibile. – 5. Quali gli effetti dell’accentuata progressività “lineare” tedesca? – 6. Osservazioni conclusive.

Importanti studi comparatistici aventi ad oggetto l’analisi ed il confronto delle principali caratteristiche di alcuni sistemi tributari dell’eurozona hanno evidenziato che il modello tedesco di imposizione sui redditi delle persone fisiche risulta essere quello in grado di attuare al meglio il principio di progressività dell’imposizione. Tale merito sembra ascrivibile al peculiare design dell’imposta tedesca sul reddito delle persone fisiche, le cui aliquote marginali sono delineate secondo un andamento progressivo in parte “linearmente crescente” ed in via residuale “a scaglioni” – infatti, diversamente dalle strutture delle imposte personali italiana, francese ovvero spagnola, l’imposta personale tedesca applica la progressività “a scaglioni” esclusivamente ai redditi imponibili eccedenti una predeterminata soglia. La caratteristica in parola, congiuntamente ad altri elementi caratterizzanti l’Einkommensteuer, fa quindi dell’imposta personale tedesca un interessante spunto per un approfondimento di tale sistema tributario, analizzandone la struttura teorica ed i connessi effetti economici. Major comparative studies on the analysis of the main characteristics of some eurozone tax systems have shown that, among them, the German personal income tax should be regarded as the most effective in enforcing the principle of tax progressivity. This quality seems to be mostly due to the German personal income tax’s unique design as its marginal tax rates are partly outlined according to a progressively increasing pattern. Indeed, unlike the Italian, French and Spanish personal income taxes, in the German case only taxable incomes exceeding a predetermined threshold are subject to the tax brackets mechanism.


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The feature at stake, along with other elements characterizing the Einkommensteuer, thus makes the German personal income tax an interesting starting point for an in-depth analysis of this tax system, its theoretical structure and the related economic effects.

1. Introduzione. – In tema di progressività dell’imposizione, l’analisi del sistema tributario tedesco, ed in particolare dell’imposta personale sul reddito delle persone fisiche, risulta di estremo interesse considerato che, nell’opinione dottrinale consolidata, si suole considerare la Germania il Paese che più di ogni altro attua (almeno sulla carta) la progressività dell’imposizione (1), pur non essendo tale principio, nell’ordinamento tedesco, cristallizzato in una determinata norma di livello costituzionale – a differenza di quanto accade, a titolo esemplificativo, in Italia ovvero in Spagna, ove specifiche disposizioni di rango costituzionale contengono tale principio (2). Recenti studi economici (3) hanno messo a confronto le strutture dei modelli di imposizione personale dei principali Paesi dell’Unione Europea, valutandone le aliquote, la classificazione dei redditi imponibili, la previsione di fasce esenti da imposizione e la concessione di deduzioni ovvero detrazioni d’imposta, nonché realizzando complessi modelli economico-statistici per la valutazione degli effetti dell’imposizione in termini di gettito e redistribuzione delle risorse, e sono giunti alla conclusione che il particolare design del modello impositivo personale tedesco consente la realizzazione di una più marcata forma di progressività (cd. “Steuerprogression”) rispetto alle esperienze di altri Stati. In particolare, gli studiosi hanno evidenziato che la peculiare struttura delle aliquote dell’imposta personale tedesca (la quale, come si vedrà, segue uno schema di progressività in parte “lineare” ed in parte “a scaglioni”), combi-

(1) Secondo Seidl et. al. (2013), “… the German impost system is characterized by a secular trend towards more progression” (Seidl C., Pogorelskiy K., Traub S., Tax progression in Oecd countries, Springer, 2013, 298). (2) Ad esempio, la Costituzione spagnola, all’art. 31, sancisce che “Todos contribuirán al sostenimiento de los gastos públicos de acuerdo con su capacidad económica mediante un sistema tributario justo inspirado en los principios de igualdad y progresividad que, en ningun caso, tendrá alcance confiscatorio” (Trad.: “Tutti contribuiranno a sostenere le spese pubbliche in conformità con le loro capacità economiche mediante un sistema tributario giusto, ispirato ai principi di eguaglianza e progressività che, in nessun caso, avrà finalità espropriativa”). (3) G. Verbist, F. Figari, The redistributive effect and progressivity of taxes revisited: ad international comparison across the European Union, Euromod working paper n. EM6/14; S. Bach, G. Corneo, V. Steiner, Effective Taxation of Top Incomes in Germany, German Economic Review, 2012; Oecd, Taxing wages, 2011.


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nata con altri elementi – quali, a titolo esemplificativo, un livello di minimo vitale esente piuttosto rilevante e molteplici deduzioni concesse sulla base della situazione personale di ciascun contribuente –, sarebbe particolarmente efficace nel permettere una significativa graduazione del prelievo tributario ispirata a criteri di progressività, con forti implicazioni anche in tema di variazione dei patterns originari di distribuzione delle ricchezze. Quanto detto vale, stando ai risultati proposti, almeno in linea teorica, in quanto le evidenze statistiche emergenti da altri approfonditi studi economici (4) hanno di contro sottolineato la presenza, all’interno del sistema tributario tedesco, di forti elementi di distorsione della progressività realizzata tramite l’imposta personale sul reddito delle persone fisiche, tali per cui l’effetto complessivo risulta essere notevolmente calmierato (5). In altri termini, sembra che l’effetto fortemente progressivo dell’imposta personale venga smorzato dalla convivenza, nel sistema tributario tedesco, di forze per così dire opposte e, nello specifico, di forme di imposizione proporzionale e contributi obbligatori il cui effetto risulta essere regressivo. L’intervento che segue si prefigge quindi di analizzare alcune particolari caratteristiche dell’Einkommensteuer, evidenziando nel dettaglio quei tratti reputati idonei a rendere tale imposta particolarmente progressiva ed, in particolare, la struttura progressiva “lineare” delle aliquote, la tutela del minimo vitale (il cd. Existenzminimum) e le rilevanti deduzioni dal reddito previste nella determinazione della base imponibile, di volta in volta confrontando l’esperienza tedesca con le imposte personali vigenti in altri Paesi. 2. La peculiarità dell’Einkommensteuer rispetto alle imposte personali progressive in essere negli altri Paesi europei: la struttura progressiva “li-

(4) A. Peichl, N. Pestel, S. Siegloch, Ist Deutschland wirklich so progressiv? Einkommensumverteilung im europäischen Vergleich, DIW Berlin, 1/2013; A. Peichl, T. Schaefer, Wie progressiv ist Deutschland? Das Steuer- und Transfersystem im europäischen Vergleich, DIW Berlin, SOE Papers 2008. (5) La maggior parte degli studi, probabilmente per questioni di semplificazione, omette di considerare l’estrema difficoltà nell’elaborare uno strumento statistico-matematico che sia in grado di misurare il grado di progressività “complessiva” dell’intero sistema tributario. Per giungere ad un siffatto risultato bisognerebbe infatti avere la disponibilità di tutta una serie di dati specifici dei singoli contribuenti difficilmente reperibili nonché valutare l’impatto combinato delle molteplici imposte esistenti sulle risorse fiscalmente significative degli individui. Preso atto di tali complessità empiriche, modelli semplificati possono comunque essere in grado di fornire interessanti spunti su cui ragionare.


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neare” delle aliquote d’imposta. – In Germania, l’imposta sul reddito delle persone fisiche prende il nome di “Einkommensteuer” e costituisce una delle più importanti fonti di entrate per lo stato tedesco, considerato che genera oltre un terzo del gettito tributario totale (6) e rappresenta circa il 9% del Pil (7); secondo i più recenti dati pubblicati dal Ministero delle Finanze (dati anno 2015) l’Einkommensteuer risulta essere per la maggior parte finanziata da una ristretta platea di soggetti, considerato che circa l’80% dell’onere di tale imposta grava sul 25% della popolazione (8). Come anticipato, nell’ambito dell’imposizione personale, il sistema tributario tedesco è stato da alcuni ritenuto uno dei sistemi impositivi maggiormente progressivi in tutta Europa soprattutto per merito della “formula” unica dell’Einkommensteuer: il reddito imponibile dei contribuenti persone fisiche

(6) Secondo i dati ufficiali pubblicati dal Bundesministerium der Finanzen, nel 2014 il gettito tributario complessivo è stato pari a circa euro 640.000 mln, di cui circa euro 45.600 mln provenienti dall’Einkommensteuer (cioè dall’imposta personale sul reddito delle persone fisiche) e circa euro 168.000 mln dalla Lohnsteuer (i.e. gettito derivante dalle ritenute sul reddito di lavoro dipendente applicate dai datori di lavoro e da questi versate direttamente agli uffici delle imposte. L’aliquota della ritenuta applicata dai datori di lavoro sul reddito dei dipendenti non è uguale per tutti i contribuenti, essendo differenziata in base alla “Steuerklasse” a cui ciascun contribuente è ascritto). Nello stesso anno rilevante è stato, altresì, il gettito derivante dall’imposta sulle vendite (Umsatzsteuer), pari a circa euro 200.000 mln. Anche per il 2015 la predetta tendenza è confermata: il gettito tributario derivante dall’Einkommensteuer/ Lohnsteuer è stato tra i più consistenti, rappresentando circa il 38% del gettito fiscale totale, mentre le entrate provenienti dall’Umsatzsteuer si sono attestate al 31% circa. Il restante terzo delle entrate fiscali, invece, afferisce in via principale ai contributi sociali (cfr. European Commission, Taxation trends in the European union, 2016). (7) Secondo i dati Eurostat pubblicati nel 2016 e riferiti all’anno 2014, per la Germania il rapporto entrate fiscali su Pil ammonta a poco più del 38%; in particolare, le imposte dirette rappresentano il 12% del Pil (circa il 9% da ascriversi all’imposta personale e circa il 2,5% da ascriversi all’imposta societaria). Il rapporto imposte indirette su Pil è pari a circa l’11% (di cui, il 7% è da ascriversi all’Iva); il restante ai contributi sociali (circa 15%). Interessante è notare che il rapporto contributi sociali su Pil tedesco è maggiore di qualche punto percentuale rispetto al medesimo rapporto valente per l’Italia (il quale raggiunge il circa il 13%). Complessivamente considerando, tuttavia, il rapporto entrate fiscali su Pil per l’Italia è notevolmente maggiore rispetto a quello tedesco, attestandosi quasi al 44% (le imposte dirette rappresentano il 14,8% del Pil, quelle indirette il 15,5%), mostrando un trend crescente dal 2002 (quando era pari al 39,5%) sino ad oggi (cfr. European Commission, Taxation trends in the European Union, 2016). (8) Bundesministerium der Finanzen, Einkommen- und Lohnsteuer, 2016. Si registra un trend analogo anche in Italia ove, secondo i dati Istat, oltre il 50% dell’onere Irpef è sostenuto da circa il 10% dei contribuenti. Lo stesso vale per l’Inghilterra; studi dell’Equality Trust indicano infatti che sul top-10% dei contribuenti gravi circa il 35% dell’onere tributario.


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tedeschi viene infatti colpito da aliquote marginali costantemente crescenti all’aumentare del reddito imponibile. Naturalmente, la progressività non prosegue all’infinito: oltre una certa soglia di reddito imponibile vengono applicate aliquote marginali d’imposta “fisse”, analogamente agli scaglioni Irpef italiani. In Germania la progressività dell’imposizione personale sui redditi viene infatti attuata secondo un modello diverso rispetto quello “a scaglioni”, e precisamente secondo un modello di progressività cd. “lineare”: ferma restando una “no tax area” di non imponibilità (cd. “Nullzone”; cfr. infra, par. 3), è infatti previsto che un’ampia forbice di reddito imponibile (cioè da circa euro 8.600 a circa euro 53.600, intervallo in cui dovrebbero ricadere la maggior parte dei contribuenti) sia assoggettata ad aliquote marginali via via crescenti, determinate secondo le complesse formule matematiche stabilite, e costantemente aggiornate, dalla legge fiscale tedesca (9). In altri termini, la determinazione dell’imposta lorda avviene applicando al reddito imponibile dei contribuenti (che ricade entro i predetti valori) un’aliquota marginale variabile, non predeterminata, che incrementa man mano che aumenta il reddito imponibile: nel dettaglio, in prossimità di un reddito imponibile di circa euro 8.600 viene applicata un’aliquota marginale del 14%; al crescere del reddito imponibile l’aliquota marginale incrementa costantemente, fino a raggiungere poco meno del 42% in prossimità di un reddito imponibile di circa euro 53.600. Ciò significa che il modello di progressività lineare tedesco è strutturato ad aliquote marginali costantemente crescenti: facendo un esempio numerico, siffatta peculiare struttura implica che il contribuente percettore di un reddito imponibile di euro 30.000 sconterà un’aliquota marginale inferiore rispetto al soggetto percettore di euro 30.100 (10), il quale a sua svolta sconterà un

(9) Oecd, Taxing Wages, 2015, 277. In particolare il par. 23 dell’Einkommensteuergesetz (EstG), rubricato “Einkommensteuertarif”, prevede che per un reddito imponibile X (nel 2016) compreso nella prima fascia di progressività lineare (i.e. euro 8.653 – 13.669), l’imposta T sarà così calcolata: T = (993,62Y + 1.400)Y, con Y = (X – 8.652)/10.000; per un reddito imponibile X compreso nella seconda fascia di progressività lineare (i.e. euro 13.670 - 53.665), l’imposta T sarà così calcolata: T = (225,40Z + 2397)Z + 952,48, con Z = (X – 13669)/10000. I valori numerici indicati sono costantemente aggiornati. (10) Ipotizzando un contribuente celibe/nubile percettore di un reddito imponibile pari ad euro 30.000 (nel 2016), il prelievo fiscale complessivo ammonterà ad euro 5.768 (di cui euro 300 sono dovuti a titolo di contributo di solidarietà); la percezione di un reddito imponibile pari ad euro 30.100 invece comporterà un prelievo fiscale leggermente superiore,


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livello d’imposizione inferiore rispetto al soggetto percettore di euro 30.200 e così via fino al reddito di euro 53.600, oltre il quale sono previsti gli anzidetti scaglioni ad aliquote marginali fisse, prima del 42% e poi, al di sopra di una ulteriore soglia, del 45%. Potenzialmente, quindi, secondo tale schema anche un solo euro imponibile in più potrebbe determinare l’assoggettamento del reddito complessivo del contribuente ad un’aliquota marginale superiore (per il momento non considerando l’incidenza di altri elementi, quali deduzioni e detrazioni d’imposta…), e quindi in definitiva ad un maggior prelievo, così realizzando un più accentuato grado di progressività rispetto ai tradizionali modelli impositivi “a scaglioni”, i quali vedono applicare la medesima aliquota marginale d’imposta a predeterminate fasce di reddito imponibile. Pertanto, per il contribuente percettore di un reddito imponibile che ricade nell’ambito del suddetto intervallo (i.e. euro 8.600-53.600), l’aliquota marginale d’imposta sarà per così dire “personalizzata”, in quanto calcolata sulla base di una complessa formula matematica. Diversamente, oltre la predetta soglia reddituale più alta, i redditi imponibili vengono assoggettati ad imposizione non secondo il metodo della “progressività lineare”, bensì in modo analogo a quanto accade in Italia, e cioè secondo il modello di progressività “a scaglioni”, e precisamente con un’aliquota del 42% fino a circa euro 254.000 e del 45% oltre tale cifra. Si noti che le aliquote marginali d’imposta non risultano particolarmente elevate; anzi, rispetto alle imposte personali vigenti negli altri Paesi europei, l’andamento delle aliquote marginali dell’Einkommensteuer appare piuttosto moderato. Infatti, se è vero che, ad esempio, l’aliquota marginale superiore massima tedesca è pari al 45% mentre quella “italiana” raggiunge il 43%, parimenti la prima si applica a redditi imponibili superiori a circa euro 254.000, mentre la seconda si applica già per redditi superiori ad euro 75.000. L’andamento delle aliquote dell’imposta personale tedesca risulta inoltre più favorevole ai contribuenti rispetto a quanto faccia l’analoga imposta francese: in entrambi i casi, infatti, l’aliquota marginale superiore è pari al 45%; tuttavia, in Francia a siffatto prelievo sono assoggettati già i redditi superiori ad euro 150.000.

nello specifico pari ad euro 5.800 circa (di cui, euro 302 a titolo di contributo di solidarietà). Nel primo caso l’aliquota media (cd. “Durchschnittsbelastung”) sarà quindi pari al 19,23%, e l’aliquota marginale (cd. “Grenzbelastung”) al 31,33%; nel secondo caso le aliquote saranno rispettivamente pari al 19,27% e al 31,37%.


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In conclusione, rispetto ai consueti modelli di progressività per scaglioni, l’impiego del modello di progressività lineare realizza un costante incremento delle aliquote marginali d’imposta, via via che aumenta il reddito imponibile. Tale peculiare caratteristica – unicuum a livello europeo – ha fatto sì che il sistema tributario tedesco venisse considerato quale sistema “più progressivo” dell’eurozona (almeno con riferimento all’imposizione personale), proprio in quanto, all’interno della forbice reddituale supra specificata, le aliquote progressivamente crescenti permettono, in linea teorica, un prelievo personalizzato e differenziato che incrementa di pari passo all’aumentare del reddito imponibile. 3. Il cd. “Existenzminimum”: la tutela del minimo vitale. – Oltre all’andamento progressivo “lineare” delle aliquote marginale d’imposta – caratteristica alla quale, come visto, viene attribuito gran parte del merito di realizzare un livello di progressività nel prelievo particolarmente accentuato –, altri elementi contribuiscono a rafforzare tale sensazione. In particolare, rilevante è la previsione di una fascia esente da imposizione (cd. “Nullzone” o “Steuerfreizone”) che permette di non far scontare a redditi particolarmente bassi l’onere tributario, così esonerando dal prelievo fiscale le ricchezze minime (cd. “minimo vitale”, in tedesco “Existenzminimum”). Come visto, infatti, le aliquote dell’imposta sul reddito delle persone fisiche sono strutturate di modo che fino ad un reddito imponibile di euro 8.652 (nel 2016) non sia dovuta alcuna imposta – dopodiché inizia la prima “zona” di progressività lineare. Interessante è evidenziare la forte attenzione del legislatore fiscale tedesco al tema della tutela dei redditi inferiori ad un certo ammontare, ritenuto espressivo dell’incapacità a contribuire pena un’irrimediabile compressione di risorse destinate ad essere impiegate al soddisfacimento di bisogni essenziali della persona: basti infatti osservare che negli ultimi dieci anni la soglia dello sgravio fiscale di base (cd. “Grundfreibetrag”) è stata incrementata, passando da circa euro 7.700 nel 2006 a circa euro 8.500 nel 2016 (11). Tale

(11) In particolare si segnala che il più consistente aumento della soglia esente da imposta è avvenuto a cavallo tra gli anni 1996 e 1997, quando il Grundfreibetrag è stato raddoppiato, passando da 5.616 DM (corrispondenti a circa euro 2.871) a 12.095 DM (corrispondenti a circa euro 6.184). Sempre negli stessi anni è stata anche modificata, in aumento, la cd. Eingangssteuersatz (cioè la “prima” aliquota marginale d’imposta applicabile a redditi superiori al minimo vitale), la quale è stata incrementata dal 19% al 25,9%. Il fatto


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soglia viene periodicamente rivista al rialzo, tant’è che, per i redditi percepiti nel periodo d’imposta 2017, il par. 32 dell’Einkommensteuergesetzt fissa la zona di esenzione ad euro 8.820. Si noti, inoltre, che tale soglia deve essere presa a riferimento per le persone celibi/nubili; per le coppie sposate, infatti, la legislazione fiscale tedesca consente la presentazione congiunta della dichiarazione dei redditi, ciò implicando quale risultato un raddoppio della soglia “base” di esenzione da imposizione (attualmente pari a circa euro 17.000). Nonostante, quindi, nella carta costituzionale tedesca non trovino esplicita formulazione i principi di progressività dell’imposizione ovvero di capacità contributiva, il legislatore fiscale si è dimostrato particolarmente sensibile nel curare il profilo di esenzione delle ricchezze minime non espressive di capacità a contribuire, proprio in quanto destinate al soddisfacimento di bisogni essenziali non comprimibili. In questo processo, la produzione legislativa è stata supportata dalla Corte Costituzionale tedesca, la quale, prendendo spunto da diversi casi rappresentatele, ha saputo tracciare alcune linee guida a favore dell’enucleazione del principio di esenzione dell’Existenzminimum e della sua quantificazione (12). Anche con riferimento a tale profilo, quindi, il sistema tributario tedesco dell’imposta personale sul reddito delle persone fisiche si rivela particolarmente conveniente per i contribuenti tedeschi rispetto a quanto accade in altre legislazioni fiscali, posto che solo i redditi superiori alla predetta soglia minima sconteranno l’imposizione secondo le predette formule di progressività lineare (e, successivamente, a scaglioni). Si consideri infatti che, a titolo esemplificativo, in Francia l’esenzione del minimo vitale arriva fino a circa euro 6.000 (per redditi inferiori a tale ammontare viene infatti prevista l’appli-

che l’aliquota marginale “di ingresso” fosse così elevata aveva portato ad accesi dibattiti sull’opportunità di rivederla al ribasso, tant’è che appena due anni dopo il citato aumento è stata ridotta (al 23,9%), fino ad arrivare all’attuale 14%, in vigore dal 2009. Parallelamente, anche le aliquote marginali superiori “fisse” sono state nel tempo riviste in diminuzione, dal 53% negli anni Novanta fino alle attuali 42% e 45% introdotte a partire dagli anni d’imposta 2007-2008 (Dati BMF Tarifgeschichte). (12) Tra le diverse pronunce, si ricorda la sentenza del BVerGe del 10.11.1998 in cui ha trovato luogo l’affermazione della regola di non tassazione del reddito minimo. Sul fronte della quantificazione della soglia di esenzione, indicazioni si trovano anche nella sentenza del BVerGe del 25.09.1992 (secondo cui “la determinazione dell’Existenzminimum da esentare dipende dalle condizioni economiche generali e dal fabbisogno riconosciuto dalla comunità giuridica”) e nella più recente sentenza del BVerGe del 09.02.2010, ove la Corte si è espressa nel senso di ritenere necessario esentare da imposizione almeno quella somma che il legislatore concede ai bisognosi per il tramite dell’assistenza sociale.


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cazione di un’aliquota marginale dello 0%); in Italia trova pure accoglimento il principio di esenzione delle ricchezze minime, purtuttavia in pratica tale tutela è estremamente frammentata (13), trovando concreta applicazione solo con riferimento ai redditi imponibili provenienti da alcune determinate fonti, e subordinatamente al soddisfacimento di precise condizioni (14). 4. Altri elementi di accentuazione della progressività dell’Einkommensteuer. La struttura dell’imposta: la determinazione del reddito complessivo e l’incidenza delle deduzioni nel calcolo del reddito imponibile. – Altro elemento rilevante nell’analisi del livello di progressività che viene attuato dall’Einkommensteuer risiede nella moltitudine di deduzioni dal reddito complessivo concesse dalla legge fiscale tedesca. Sotto questo profilo, le regole poste per la determinazione del reddito da assoggettare ad imposizione sono per certi versi molto simili a quelle che dell’Irpef italiana. Invero, anche nell’esperienza tedesca la determinazione dell’imposta da versare passa attraverso molteplici stadi, in primis la determinazione del reddito complessivo di ciascun contribuente quale sommatoria di redditi afferenti a diverse categorie reddituali – ognuna delle quali trova una propria autonoma disciplina. Vi sono in ogni caso delle peculiarità rispetto al sistema italiano, in quanto le categorie reddituali in cui devono ascriversi i redditi percepiti dai contribuenti sono sette (è quindi prevista una categoria in più rispetto all’Irpef). Nello specifico, le categorie reddituali rilevanti sono le seguenti: redditi derivanti da attività agricole e forestali (15); redditi derivanti dall’esercizio dell’attività di impresa (16); redditi conseguiti a fronte dell’e-

(13) Si precisa che anche nell’esperienza tedesca di esenzione delle ricchezze minime manca una visione complessiva d’insieme. Invero, l’esenzione di base vale solo per i soggetti percettori di redditi di lavoro dipendente, non essendo prevista un’analoga tutela per i lavoratori self-employed. D’altra parte, diversamente rispetto a quanto è stabilito nell’ambito dell’Irpef italiana, l’Einkommensteuer tedesca consente un’esenzione di base per alcuni redditi di capitale. (14) Per una completa ed esauriente disamina delle criticità connesse alle eterogenee forme di tutela del minimo vitale nell’Irpef italiana, si rinvia a D. Stevanato, La giustificazione sociale dell’imposta, Bologna, 2014, 203 e ss; Id., Dalla crisi dell’Irpef alla Flat Tax, Bologna, 2016, 129 e ss. (15) Si tratta dei cd. “Einkünfte aus Land- und Forstwirtschaft” e cioè dei redditi derivanti da attività di sfruttamento del terreno. Tale classe include, a titolo esemplificativo, i proventi derivanti dalla viticoltura, dall’orticoltura, etc. Sono disciplinati dai par. 13-14 dell’Einkommensteuergesetz (EstG). (16) Si tratta dei cd. “Einkünfte aus einem Gewerbebetrieb”, disciplinati dai par. 15-17 EstG. Rientrano in questa categoria i redditi derivanti dall’esercizio di impresa commerciale.


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sercizio di attività da lavoro autonomo-professionale (17); redditi da lavoro dipendente ed assimilati (18); redditi di capitale (19); redditi derivanti da attività di locazione (20); ed infine la categoria residuale degli “altri redditi” (21). Analogamente a quanto previsto in tema di deduzioni e detrazioni d’imposta per l’Irpef italiana, anche la legge tedesca sull’Einkommensteuer prevede la possibilità per il contribuente di fruire, al ricorrere di determinate condizioni, di una molteplicità di opzioni di riduzione del reddito complessivo derivante dalla somma dei redditi ascritti alle suddette categorie. A titolo esemplificativo, la legge tedesca annovera tra gli importi deducibili dal reddito: deduzioni connesse all’età ed alla tipologia di contribuente (sono infatti previsti degli sgravi per famiglie monoparentali); deduzioni specifiche per lavoratori agricoltori e silvicoltori (22); deduzioni di costi relativi ad oneri assicurativi per un ammontare medio di circa euro 2.000; costi sostenuti per training professionale fino ad euro 6.000 annui; costi per alimenti corrisposti all’ex coniuge; donazioni effettuate nei confronti di associazioni ed organizzazioni culturali, sportive ovvero di beneficienza, in misura percentuale rispetto al reddito complessivo; spese sanitarie per i figli minori fino ad euro 4.000 annui; spese scolastiche e di formazione; etc. È inoltre prevista

(17) Si tratta dei cd. “Einkünfte aus selbständiger Arbeit”, disciplinati dal par. 18 EstG. (18) Si tratta dei cd. “Einkünfte aus nichtselbständiger Arbeit”, disciplinati dal par. 19 EstG. Questa categoria comprende tutte le entrate derivanti da rapporti di lavoro dipendente. Dai redditi pensionistici, assimilati al reddito da lavoro dipendente, sono deducibili indennità connesse alla percezione di assegni di assistenza e di integrazione della pensione. Tale categoria costituisce la classe reddituale più importante dell’Einkommensteuer; invero, stando ai dati delle dichiarazioni presentate per l’anno 2012 (ultimi dati elaborati disponibili), i redditi complessivi dichiarati dai contribuenti pre deduzioni e detrazioni ammontano a circa euro 1.200 mlrd, di cui 900 mlrd afferiscono alla voce “redditi di lavoro dipendente” (fonte: Statistisches Bundesamt, Finanzen und Steuern, 2012). (19) Si tratta dei cd. “Einkünfte aus Kapitalvermögen”, disciplinati dal par. 20 EstG. Rientrano in questa categoria i redditi percepiti a fronte dell’impiego di capitale (interessi, dividendi, etc.) che non sono già stati soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta, pari al 25% (cd. Abgeltungsteuer auf Kapitaleinkünfte). In pratica, dal 2005 questi redditi sono sostanzialmente sottratti dall’imposizione progressiva dell’Einkommensteuer. (20) Si tratta dei cd. “Einkünfte aus Vermietung und Verpachtung”, disciplinati dal par. 21 EstG. Si tratta di redditi connessi ad attività di locazione di case, appartamenti, locali commerciali, etc., i quali vengono determinati al netto di alcuni costi. (21) Si tratta dei cd. “Sonstige Einkünfte”, disciplinati dai par. 22-23 EstG. (22) Ad esempio il par. 13 EstG stabilisce che a tali lavoratori sia garantita un’indennità pari ad euro 900 (importo da detrarre dal reddito complessivo), che si applica qualora il reddito complessivo sia inferiore ad euro 30.700 (i parametri sono raddoppiati se si tratta di coniugi che presentano la dichiarazione congiuntamente).


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l’erogazione, ad abbattimento del reddito imponibile, di indennità e sussidi di vario genere, quali, a titolo esemplificativo, un sussidio mensile di circa euro 200 per i primi due figli (l’importo può variare a seconda della composizione del nucleo familiare, i.e. a seconda che si tratti di famiglia composta da figli con entrambi i coniugi, piuttosto che famiglia monoparentale, etc.), nonché la concessione deduzioni forfettarie dai redditi da lavoro dipendente (circa euro 1.000). Degna di nota (in quanto non prevista dall’ordinamento italiano) è, inoltre, la possibilità di compensare i redditi negativi (perdite) di una categoria con i redditi percepiti di un’altra categoria (23). Come intuibile, tutti i suddetti elementi contribuiscono ad abbattere il reddito complessivo dei contribuenti, riducendo l’ammontare di reddito imponibile su cui verranno in seguito applicate le aliquote marginali d’imposta e contribuendo a rendere “personale” l’Einkommensteuer. 5. Quali gli effetti del modello di progressività “lineare” dell’imposta personale tedesca? – Alla luce di quanto evidenziato, emerge come siano molteplici gli elementi che, almeno sul piano teorico, contribuiscono a rendere l’Einkommensteuer un’imposta particolarmente progressiva. Tra questi, per certo la struttura incrementativa lineare delle aliquote marginali d’imposta che colpiscono redditi imponibili fino a circa cinquantamila euro consente un costante aumento del prelievo fiscale anche per modesti incrementi del reddito imponibile dichiarato dai contribuenti; sulla stessa linea è rilevante, inoltre, anche l’articolato sistema di allowances e deduzioni dal reddito complessivo concesse dalla normativa fiscale – nonostante, si permetta di evidenziarlo, tali elementi rendano il sistema impositivo nel complesso piuttosto opaco, risultando particolarmente arduo, se non impossibile, per i contribuenti conoscere a priori la propria posizione fiscale, considerato l’intrecciarsi di aliquote marginali variabili e deduzioni il cui ammontare dipende da molteplici elementi (reddito complessivo, categorie reddituali, composizione nucleo familiare, etc.). Ciò premesso dal punto di vista tecnico-teorico, ci si può quindi chiedere quali siano gli effetti della forma di progressività lineare dell’Einkommen-

(23) Fino al periodo d’imposta 2003, la possibilità di compensare redditi e perdite di diverse categorie reddituali era quantitativamente limitata ad una soglia corrispondente a circa euro 50.000 (ovvero il doppio, per i coniugi che presentavano la dichiarazione congiunta) maggiorata della metà del totale dei residui redditi positivi. Dal 2004 il sistema di compensazione è stato modificato ed il riporto delle perdite è limitato al 60% del reddito imponibile alla condizione che esso superi euro 1 milione.


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steuer adottata dal sistema impositivo tedesco e, in particolare, se tale modello impositivo sia effettivamente in grado di determinare l’assoggettamento dei redditi imponibili dei contribuenti ad un maggior livello di progressività rispetto ai più consueti modelli di progressività “per scaglioni” vigenti in altri Paesi. Di primo acchito si potrebbe ritenere, e come anticipato parte della dottrina tedesca lo sostiene, che il delineare l’imposta sul reddito delle persone fisiche secondo il modello di progressività “lineare” determini la realizzazione di un livello di progressività decisamente marcato, garantendo l’applicazione al reddito imponibile delle persone fisiche di aliquote marginali costantemente crescenti - almeno nella fascia “mediana” di reddito imponibile, la quale dovrebbe interessare la maggior parte dei contribuenti. In tal senso, quindi, parte della dottrina economica tedesca giudica positivamente un sistema tributario progressivo lineare, auspicando anzi un ampliamento della platea dei soggetti interessati, attraverso un ampliamento della forbice di reddito imponibile cui applicare le aliquote progressive lineari, ai fini di una migliore realizzazione delle politiche fiscali del governo. Sul punto deve tuttavia evidenziarsi che, come anticipato, il calcolo del livello di progressività di un sistema tributario non può certo limitarsi agli effetti determinati dall’imposta sul reddito personale dei contribuenti, derivanti per la maggior parte dal peculiare andamento delle aliquote marginali (24). Ed invero, altra dottrina tedesca obietta, a mio avviso correttamente, ai precedenti studi economici-tributari i quali giungono a ritenere il sistema tributario tedesco quale quello in assoluto più progressivo e con effetti redistributivi, osservando che non è sufficiente considerare gli effetti della sola struttura dell’imposta personale sul reddito (25). Così facendo, invero, si limita l’analisi concentrandosi sugli effetti di una sola imposta la quale, seppur rappresenti una delle principali imposte in termini di gettito nel panorama tributario

(24) In altri termini, difficilmente può dedursi un’elevata progressività del sistema tributario tedesco per il solo fatto che le aliquote marginali dell’imposta personale sulle persone fisiche – seppure questa sia una delle principali imposte ivi vigenti – seguono un andamento costantemente crescente fino ad un reddito imponibile di circa euro 50.000. (25) Fermo restando che, come già rilevato alla nota n. 5, una compiuta analisi del “sistema” tributario nel suo complesso considerato dovrebbe tener conto al tempo stesso di tutti gli elementi che lo compongono, e non solamente di alcuni. Tuttavia, carenze documentali e difficoltà tecniche nell’elaborazione di un modello ponderato rendono pressoché impossibile un’analisi di questo tipo.


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tedesco, di per sé sola non è certo idonea ad inquadrare le caratteristiche del sistema tributario nel suo complesso né dei suoi risvolti pratici. All’opposto, proprio dato che si parla di “sistema” tributario e non di singole imposte, è necessario tener conto dell’ordinamento tributario nel suo complesso, e quindi sia dell’imposta personale, come visto linearmente progressiva, sia delle interferenze provocate, a titolo esemplificativo, dall’applicazione dei contributi sociali, dell’Iva, delle imposte sui trasferimenti, delle accise, etc. (26). Recenti studi condotti da economisti tedeschi hanno infatti dimostrato che i contributi sociali, ed in generale tutti gli aiuti erogati dallo Stato ai soggetti a basso reddito anche in altre forme, influenzano pesantemente la progressività realizzata dall’imposta personale tedesca, avendo un effetto sostanzialmente regressivo, che di fatto attenua notevolmente i benefici della progressività lineare. Tale effetto è probabilmente da imputare, tra le altre, ad una specifica circostanza e cioè al fatto che i suddetti fenomeni di aiuto statale hanno grande rilevanza nel sistema tedesco: secondo le statistiche diffuse dalla stampa tedesca, nel 2014 lo Stato ha erogato ben circa 849 miliardi di euro da destinare a molteplici servizi sociali (27). Sul punto, particolarmente interessante è uno studio dell’Istituto DIW Köln concernente la popolazione tedesca a basso reddito, secondo il quale tali soggetti ricevono infatti un discreto supporto dallo Stato rispetto alla loro partecipazione ai carichi pubblici. Sempre nel medesimo studio viene inoltre effettuato un confronto tra il sistema tedesco ed i sistemi di altri Paesi europei (di diversa estrazione: sia paesi continentali, come Germania e Danimarca; paesi del Nord, come Finlandia, Svezia; paesi dell’est, Lituania, Polonia; nonché Italia, Grecia ed Irlanda), dal quale emerge che il Paese che più di tutti effettivamente supporta i soggetti a basso reddito è l’Irlanda, e ciò avviene grazie ad un basso livello di imposizione (che non aspira eccessive risorse ai meno abbienti) combinato con un efficiente e mirato sistema di trasferimenti

(26) A. Peichl, N. Pestel, S. Siegloch, Ist Deutschland wirklich so progressiv? Einkommensumverteilung im europäischen Vergleich, DIW Berlin, 1/2013, secondo cui “Um die Progressivität des gesamten deutschen Steuer- und Transfersystems zu beurteilen, müssen zudem indirekte Steuern (Mehrwertsteuer und spezielle Verbrauchssteuern) betrachtet werden. Insbesondere die Mehrwertsteuer spielt bei der Bewertung der Gesamtprogression des Steuersystems eine wichtige Rolle…”. (27) Circa +3,8% rispetto l’anno precedente, cfr. Institut der deutschen Wirtschaft Köln (DIW), Viel haben, viel zahlen, 06.08.2015.


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sociali. In tale “classifica”, purtroppo l’Italia si posiziona al penultimo gradino - tra l’altro, prima della Grecia: in effetti, viene evidenziato che in entrambi tali Paesi i soggetti a basso reddito non solo ricevono meno sussidi statali, rispetto a quanto accade negli altri Paesi considerati, bensì sono altresì assoggettati ad un livello di imposizione decisamente più elevato (28). Tornando al caso tedesco, lo studio dell’Istituto DIW Köln evidenzia altresì che, nonostante i predetti trasferimenti sociali, il numero dei soggetti considerati “poveri” (“einkommensarm”) rimane consistente: in particolare, in Germania nel 2013 circa 12,5 milioni di persone (circa il 15% della popolazione) erano classificabili quali “povere”, e cioè guadagnavano un reddito mensile poco superiore a mille euro; all’opposto, solo il 3,5% della popolazione tedesca era classificabile entro la categoria degli “abbienti” in quanto percettore di un reddito mensile netto medio di circa euro 4.000. Secondo le statistiche dell’Istituto di Ricerca tedesco, inoltre, si rinverrebbe una maggiore concentrazione di soggetti einkommensarm in alcune zone industriali, ed in particolare in quelle che lambiscono le città di Bremerhaven, Gelsenkirchen, Köln, Duisburg e Bremen (29). 6. Osservazioni conclusive. – Venendo quindi a tirare le somme di quanto sinora osservato, emerge dagli studi degli economisti tedeschi che l’Einkommensteuer presenta peculiari caratteristiche tali da rendere il prelievo fiscale sulle persone fisiche residenti in Germania, che ivi percepisco redditi imponibili, particolarmente progressivo. La progressività nel prelievo risulta invero realizzata in primis tramite un sistema di aliquote marginali progressivamente lineari (fino ad un reddito imponibile di circa euro 50.000), congiuntamente alla previsione di una zona esente da imposizione (cd. Nullzone, che dal 2017 riguarderà i redditi fino ad euro 8.820) e dalla possibilità, per i contribuenti, di fruire di una molteplicità di deduzioni e detrazioni d’imposta. Tra tali caratteristiche dell’Einkommensteuer, proprio la prima menzionata rende tale imposta “speciale” rispetto alle imposte personali in vigore negli altri Paesi dell’Eurozona, le quali sono tipicamente strutturate secondo una progressività cd. “a scaglioni”. Se, quindi, di primo acchito gli economisti tedeschi hanno ritenuto il sistema tributario tedesco fortemente progressivo proprio per merito dell’anzidetta caratteristica, parimenti è stato osservato che esistono spinte uguali e contrarie

(28) Institut der deutschen Wirtschaft Köln (DIW), Von oben nach unten, 26.09.2013. (29) Institut der deutschen Wirtschaft Köln (DIW), Städte machen arm, 05.12.2016.


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connesse a fenomeni distorsivi della progressività, e precisamente alla convivenza, nel sistema, di forme di imposizione proporzionali ovvero regressive. In tal senso, l’effetto progressivo dell’imposta personale tedesca deve essere calibrato considerando la presenza di elementi potenzialmente distorsivi; è stato infatti dimostrato che il design progressivo del sistema “lineare” dell’Einkommensteuer risulta, nella pratica, notevolmente mitigato soprattutto a causa dell’influenza regressiva da ascriversi all’applicazione di altre forme di imposizione proporzionale, tra cui spicca l’incidenza distorsiva dei contributi sociali. Di fatto, in un confronto internazionale, la Germania si colloca quindi in una posizione mediana; infatti, seppure indubbiamente l’imposta personale tedesca consenta di attuare (teoricamente) un più alto livello di progressività dell’imposizione rispetto alle altre imposte vigenti in altri Paesi dell’Eurozona, l’effetto contrario dovuto alle forme di imposizione proporzionale menzionate fa sì che, complessivamente considerando, il sistema tributario tedesco si posizioni, appunto, “nella media” (30). Recentemente, alcuni esponenti del partito SPD hanno proposto di incrementare il livello di progressività dell’imposta personale, attraverso un aumento delle aliquote marginali d’imposta ed, in particolare, dell’aliquota marginale più elevata, così da incidere maggiormente sui top incomes. L’opportunità di effettuare un simile intervento è peraltro ciclicamente discussa anche da esponenti di partiti politici di altri Paesi europei e, in Germania, è stata giustificata dall’esistenza di precedenti studi economico-statistici in base ai quali la progressività dell’Einkommensteuer sembrerebbe essere particolarmente elevata in prossimità di redditi “medi” (31), mentre decrescerebbe all’incremento dei redditi imponibili dei contribuenti, fino a “svanire” in prossimità dei redditi più elevati (top 1%, (32)). Su questa tematica gli studi empirici sono molteplici; nel tempo, diversi

(30) A. Peichl, N. Pestel, S. Siegloch, Ist Deutschland wirklich so progressiv? Einkommensumverteilung im europäischen Vergleich, DIW Berlin, 1/2013; in precedenza, A. Peichl, T. Schaefer, Wie progressiv ist Deutschland? Das Steuer- und Transfersystem im europäischen Vergleich, DIW Berlin, SOE Papers 2008. (31) Secondo Peichl (2013), infatti, “Die Kombination von progressivem Einkommensteuertarif und regressiven Sozialversicherungsabgaben fuhrt in der Summe zu einer verhältnismäßig starken Belastung del Mittelschicht (sogenannter Mittelstandsbauch)” (cfr. A. Peichl, N. Pestel, S. Siegloch, Ist Deutschland wirklich so progressiv? Einkommensumverteilung im europäischen Vergleich, DIW Berlin, 1/2013, 113). (32) S. Bach, G. Corneo, V. Steiner, Effective taxation of top incomes in Germany, German Economic Review, 2012, 124 e ss.


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economisti tedeschi hanno infatti vagliato la possibilità di potenziare la progressività dell’Einkommensteuer proprio attraverso un incremento delle aliquote marginali d’imposta. I fini perseguiti, a detta degli analisti, sarebbero compositi ed in linea generale motivati dall’esigenza di ridurre le disuguaglianze tra i contribuenti, promuovendo un’eguale distribuzione delle ricchezze post-imposizione (33). Alcuni studi economico-statistici hanno persino portato ad individuare un livello “ottimale” di progressività dell’imposizione che sia in grado di soddisfare i predetti obiettivi, il quale potrebbe raggiungersi con un incremento di taluni punti percentuali delle aliquote marginali d’imposta (34). Alla base di questi studi sembra esservi la convinzione che il sistema tributario tedesco, così come attualmente è conosciuto, non sia in grado di perseguire con successo obiettivi di perequazione delle risorse e di riduzione delle disuguaglianze tra i contribuenti (forse dimenticando che gli effetti redistributivi, più che essere caldeggiati tramite aumenti delle aliquote marginali d’imposta, devono essere perseguiti agendo sul lato della spesa pubblica). In realtà, i dati statistici più recenti in punto di disuguaglianza e distribuzione delle ricchezze sembrano suggerire che la situazione sia leggermente diversa: la Germania si collocherebbe all’ottavo posto nella classifica sulle diseguaglianze distributive redatta dall’istituto DIW Köln; inoltre, sempre nello stesso documento viene argomentato che, in realtà, negli ultimi dieci anni la disuguaglianza nella distribuzione dei redditi e delle ricchezze è diminuita (35).

(33) A titolo esemplificativo, supporta questa proposta Bach (2012) secondo cui “a heavier taxation of top incomes in Germany may be recommendable based on distributional grounds, i.e. if one wants to restore the level of income concentration that prevailed in the mid 1990s” (S. Bach, G. Corneo, V. Steiner, Effective taxation of top incomes in Germany, German Economic Review, 2012, 128-130). (34) In particolare, il modello utilizzato da Boeters (2012) ha portato l’autore ad evidenziare che “the optimal degree of tax progressivity turns out to be higher than the one in the actual German tax schedule. The optimum is located at marginal tax rates that are 6 percentage points higher than the actual rates” (S. Boeters, Optimal tax progressivity in unionised labour markets: simulation results for Germany, Springer 2012). (35) Institut der deutschen Wirtschaft Köln (DIW), Die Schere im Kopf, 08.09.2016. Nello studio la diseguaglianza distributiva viene misurata secondo l’indice di Gini, il cui range va da un valore pari a 0 (i.e. totale uguaglianza) ad un valore massimo pari ad 1 (i.e. concentrazione delle ricchezze nelle mani di un solo soggetto). Prendendo a riferimento i 20 stati fondatori dell’Oecd nel 2015, la Danimarca presenta l’indice maggiore (0,89) ed il Belgio l’indice minore (0.63). Come detto, la Germania si posiziona ottava, con un indice di Gini pari a 0,78, alle spalle di Danimarca, Usa, Turchia, Svizzera, Norvegia ed Austria. Secondo lo studio, l’Italia ha un indice di diseguaglianza pari a 0,67 (il secondo più basso).


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Peraltro, contro un indiscriminato aumento delle aliquote marginali d’imposta a danno dei top income earners vi sarebbero anche altri studi i quali dimostrano che la fascia “ricca” della popolazione tedesca già contribuisce in modo decisamente consistente ai carichi pubblici, tale da rendere altamente indesiderabile un ulteriore incremento del carico d’imposta. Ed invero, il top 10% della popolazione tedesca (36) contribuisce agli oneri pubblici ben nella misura del 50% ed il top 1% (37) vi contribuisce nella misura del 2025% (38): complessivamente, ben il 92,5% delle imposte sono pagate dal 50% della popolazione più “ricca”! Seppure tali dati non siano recentissimi (39), i risultati sono essenzialmente in linea con quelli più di recente registrati, secondo i quali il top 10% della popolazione “ricca” tedesca contribuisce ai carichi pubblici nella misura del 60% ed il 50% della popolazione complessiva paga il 95% delle imposte (40). Come accennato, la questione dell’aumento delle aliquote marginali d’imposta, ed in particolar modo l’incremento delle aliquote destinate a colpire i top incomes è un tema familiare anche ai dibattiti in essere in altri Paesi europei, oltre che in Germania. La delicatezza della questione ha fatto sì che anche l’Oecd se ne preoccupasse, rendendo disponibili i dati raccolti sui Paesi membri e rilasciando pareri. In particolare, in un documento del 2014 che affronta proprio la questione della tassazione dei top incomes e l’opportunità (o meno) di incrementare le aliquote delle imposte sulle persone fisiche, l’Oecd ha messo in guardia dal fatto che “… higher top marginal tax rates would result in lower economic growth, largely via disincentive effects” (41).

Alessia Sbroiavacca

(36) In questa categoria appartengono i soggetti che hanno guadagnato più di 65.950 euro/anno. (37) Più di euro 162.231. (38) Unzaga, Martin, Junyi, Bracket Creep Revisited: Progressivity and a solution by adjusting the rich tax in Germany, 2014. (39) M. Schäfers, 10 Prozent zahlen 50 Prozent, Frankfurter Allgemeine, 10.10.2007; A. P., Top-Verdiener tragen die Hälfte der Steuerlast, Die Welt, 10.10.2007. (40) M. Greive, 14,7 Prozent aller Deutschen sind arm, Die Welt, 4.4.2015; M. Schäfers, 50 Prozent zahlen 95 Prozent der Steuern, Frankfurter Allgemeine, 11.09.2013; Bach, Corneo, Steiner, Effective taxation of top incomes in Germany, German Economic Review, 2012. (41) Oecd, Top incomes and taxation in Oecd countries: was the crisis a game changer?, 2014.



Giurisprudenza e interpretazione amministrativa

Corte Cost., 23 novembre 2016 - 26 gennaio 2017, n. 24; Pres. Grossi; Red. Lattanzi; M.A.S.; M.B.; Pres. Cons. ministri. Corte costituzionale – Procedimento – In genere – Rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea per l’interpretazione dell’art. 325, paragrafi 1 e 2, del TFUE, come interpretato dalla sentenza della Grande Sezione della Corte di giustizia dell’Unione europea 8 settembre 2015 in causa C-105/14, Taricco – (L. 2 agosto 2008, n. 130, art. 2) Nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 2 l. 2 agosto 2008, n. 130, impugnato nella parte in cui autorizza alla ratifica e rende esecutivo l’art. 325, paragrafi 1 e 2, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), come interpretato dalla sentenza della Grande Sezione della Corte di giustizia dell’Unione europea 8 settembre 2015 in causa C-105/14, Taricco, sono sottoposte alla Corte di giustizia dell’Unione europea, in via pregiudiziale ai sensi e per gli effetti dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, le seguenti questioni di interpretazione dell’art. 325, paragrafi 1 e 2, del medesimo Trattato: – se l’art. 325, paragrafi 1 e 2, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea debba essere interpretato nel senso di imporre al giudice penale di non applicare una normativa nazionale sulla prescrizione che osta in un numero considerevole di casi alla repressione di gravi frodi in danno degli interessi finanziari dell’Unione, ovvero che prevede termini di prescrizione più brevi per frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione di quelli previsti per le frodi lesive degli interessi finanziari dello Stato, anche quando tale omessa applicazione sia priva di una base legale sufficientemente determinata; – se l’art. 325, paragrafi 1 e 2, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea debba essere interpretato nel senso di imporre al giudice penale di non applicare una normativa nazionale sulla prescrizione che osta in un numero considerevole di casi alla repressione di gravi frodi in danno degli interessi finanziari dell’Unione, ovvero che prevede termini di prescrizione più brevi per frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione di quelli previsti per le frodi lesive degli interessi finanziari dello Stato, anche quando nell’ordinamento dello Stato membro la prescrizione è parte del diritto penale sostanziale e soggetta al principio di legalità; – se la sentenza della Grande Sezione della Corte di giustizia dell’Unione europea 8 settembre 2015 in causa C-105/14, Taricco, debba essere interpretata nel senso di imporre al giudice penale di non applicare una normativa nazionale sulla prescrizione che osta in un numero considerevole di casi alla repressione di gravi frodi in danno degli interessi finanziari dell’Unione europea, ovvero che prevede termini di prescrizione più brevi per frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea di quelli previsti per le frodi lesive degli interessi finanziari dello Stato, anche quando tale omessa applicazione sia in contrasto con i principi supremi dell’ordine costi-


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tuzionale dello Stato membro o con i diritti inalienabili della persona riconosciuti dalla Costituzione dello Stato membro

(Omissis) Nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 2 della legge 2 agosto 2008, n. 130 (Ratifica ed esecuzione del Trattato di Lisbona che modifica il Trattato sull’Unione europea e il Trattato che istituisce la Comunità europea e alcuni atti connessi, con atto finale, protocolli e dichiarazioni, fatto a Lisbona il 13 dicembre 2007), promossi dalla Corte d’appello di Milano con ordinanza del 18 settembre 2015 e dalla Corte di cassazione con ordinanza dell’8 luglio 2016, rispettivamente iscritte al n. 339 del registro ordinanze 2015 e al n. 212 del registro ordinanze 2016 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 2 e 41, prima serie speciale, dell’anno 2016. Visti gli atti di costituzione di M.A.S. e M.B., nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell’udienza pubblica del 23 novembre 2016 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi; uditi gli avvocati Gaetano Insolera e Andrea Soliani per M.A.S., Nicola Mazzacuva per M.B. e l’avvocato dello Stato Gianni De Bellis per il Presidente del Consiglio dei ministri. Fatto. - Ritenuto in fatto e considerato in diritto 1. La Corte di cassazione, terza sezione penale, e la Corte d’appello di Milano hanno investito questa Corte della questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 della legge 2 agosto 2008, n. 130 (Ratifica ed esecuzione del Trattato di Lisbona che modifica il Trattato sull’Unione europea e il Trattato che istituisce la Comunità europea e alcuni atti connessi, con atto finale, protocolli e dichiarazioni, fatto a Lisbona il 13 dicembre 2007), nella parte in cui autorizza alla ratifica e rende esecutivo l’art. 325, paragrafi 1 e 2, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), sottoscritto a Roma il 25 marzo 1957 (Testo consolidato con le modifiche apportate dal Trattato di Lisbona 13 dicembre 2007), come interpretato dalla sentenza della Grande Sezione della Corte di giustizia dell’Unione europea 8 settembre 2015 in causa C-105/14, Taricco. Con questa decisione la Corte di giustizia ha affermato che l’art. 325 del TFUE impone al giudice nazionale di non applicare il combinato disposto degli artt. 160, ultimo comma, e 161, secondo comma, del codice penale quando ciò gli impedirebbe di infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione, ovvero quando frodi che offendono gli interessi finanziari dello Stato membro sono soggette a termini di prescrizione più lunghi di quelli previsti per le frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione.


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Per effetto degli artt. 160, ultimo comma, e 161, secondo comma, cod. pen., gli atti interruttivi della prescrizione, per i reati fiscali puniti dal decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205) e aventi a oggetto l’IVA, comportano, di regola e salvo casi particolari, l’aumento di un quarto del tempo necessario a prescrivere. Ove questo aumento si riveli in un numero considerevole di casi insufficiente per reprimere le frodi gravi in danno degli interessi finanziari dell’Unione, che dipendono dalla mancata riscossione dell’IVA sul territorio nazionale, il giudice penale dovrebbe procedere nel giudizio, omettendo di applicare la prescrizione, e nello stesso modo il giudice dovrebbe comportarsi se la legge nazionale prevede per corrispondenti figure di reato in danno dello Stato termini di prescrizione più lunghi di quelli stabiliti per le frodi in danno degli interessi finanziari dell’Unione. I giudici rimettenti procedono per frodi fiscali punite dal d.lgs. n. 74 del 2000 e attinenti alla riscossione dell’IVA, che reputano gravi e che sarebbero prescritte ove si dovessero applicare gli artt. 160, ultimo comma, e 161, secondo comma, cod. pen., mentre nel caso contrario i giudizi si potrebbero concludere con una pronuncia di condanna. I rimettenti aggiungono che l’impunità conseguente all’applicazione degli artt. 160, ultimo comma, e 161, secondo comma, cod. pen. ricorre in un numero considerevole di casi. La Corte d’appello di Milano prende in esame anche un’ipotesi normativa che ritiene lesiva del principio di assimilazione, perché il delitto di associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri, previsto dall’art. 291-quater del d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43 (Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative in materia doganale), assimilabile all’associazione per delinquere allo scopo di commettere delitti in materia di IVA, lesivi degli interessi finanziari dell’Unione, non è soggetto al limite dell’aumento di un quarto stabilito nei casi di interruzione della prescrizione. In entrambi i giudizi sussisterebbero perciò le condizioni enucleate dall’art. 325, paragrafi 1 e 2, del TFUE, in presenza delle quali il giudice, escludendo la prescrizione, dovrebbe decidere nel merito. I rimettenti tuttavia dubitano che questa soluzione sia compatibile con i principi supremi dell’ordine costituzionale italiano e con il rispetto dei diritti inalienabili della persona, espressi dagli artt. 3, 11, 24, 25, secondo comma, 27, terzo comma, e 101, secondo comma, della Costituzione, con particolare riguardo al principio di legalità in materia penale. Questo principio comporta che le scelte relative al regime della punibilità siano assunte esclusivamente dal legislatore mediante norme sufficientemente determinate e applicabili solo a fatti commessi quando esse erano già in vigore. Secondo i giudici rimettenti, invece, la disapplicazione degli artt. 160, ultimo comma, e 161, secondo comma, cod. pen., che concerne anche le condotte ante-


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riori alla data di pubblicazione della sentenza resa in causa Taricco, determina un aggravamento del regime della punibilità di natura retroattiva. Mancherebbe, inoltre, una normativa adeguatamente determinata, perché non è chiarito, né quando le frodi devono ritenersi gravi, né quando ricorre un numero così considerevole di casi di impunità da imporre la disapplicazione degli artt. 160, ultimo comma, e 161, secondo comma, cod. pen, cosicché la relativa determinazione viene rimessa al giudice. I giudizi vertono su analoghe questioni e meritano di essere riuniti per una decisione congiunta. 2. Il riconoscimento del primato del diritto dell’Unione è un dato acquisito nella giurisprudenza di questa Corte, ai sensi dell’art. 11 Cost.; questa stessa giurisprudenza ha altresì costantemente affermato che l’osservanza dei principi supremi dell’ordine costituzionale italiano e dei diritti inalienabili della persona è condizione perché il diritto dell’Unione possa essere applicato in Italia. Qualora si verificasse il caso, sommamente improbabile, che in specifiche ipotesi normative tale osservanza venga meno, sarebbe necessario dichiarare l’illegittimità costituzionale della legge nazionale che ha autorizzato la ratifica e resi esecutivi i Trattati, per la sola parte in cui essa consente che quell’ipotesi normativa si realizzi (sentenze n. 232 del 1989, n. 170 del 1984 e n. 183 del 1973). Non vi è inoltre dubbio che il principio di legalità in materia penale esprima un principio supremo dell’ordinamento, posto a presidio dei diritti inviolabili dell’individuo, per la parte in cui esige che le norme penali siano determinate e non abbiano in nessun caso portata retroattiva. Tale principio è formulato dall’art. 25, secondo comma, Cost., per il quale «Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso». Se l’applicazione dell’art. 325 del TFUE comportasse l’ingresso nell’ordinamento giuridico di una regola contraria al principio di legalità in materia penale, come ipotizzano i rimettenti, questa Corte avrebbe il dovere di impedirlo. 3. Occorre perciò preliminarmente stabilire se l’art. 325 del TFUE vada effettivamente applicato nel senso indicato dai rimettenti, oppure se sia suscettibile di interpretazioni anche in parte differenti, tali da escludere ogni conflitto con il principio di legalità in materia penale formulato dall’art. 25, secondo comma, della Costituzione italiana, oltre che con analoghi principi contenuti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e, in una versione adattata, il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, e nelle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri. In presenza di un persistente dubbio interpretativo sul diritto dell’Unione, che è necessario risolvere per decidere la questione di legittimità costituzionale, appare pertanto opportuno sollecitare un nuovo chiarimento da parte della Corte di giustizia sul significato da attribuire all’art. 325 del TFUE sulla base della sentenza resa in causa Taricco.


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4. La regola tratta dall’art. 325 del TFUE con la sentenza resa in causa Taricco interferisce con il regime legale della prescrizione dei reati, che il giudice sarebbe tenuto a non applicare nei casi indicati in quella decisione. Nell’ordinamento giuridico nazionale il regime legale della prescrizione è soggetto al principio di legalità in materia penale, espresso dall’art. 25, secondo comma, Cost., come questa Corte ha ripetutamente riconosciuto (da ultimo sentenza n. 143 del 2014). È perciò necessario che esso sia analiticamente descritto, al pari del reato e della pena, da una norma che vige al tempo di commissione del fatto. Si tratta infatti di un istituto che incide sulla punibilità della persona e la legge, di conseguenza, lo disciplina in ragione di una valutazione che viene compiuta con riferimento al grado di allarme sociale indotto da un certo reato e all’idea che, trascorso del tempo dalla commissione del fatto, si attenuino le esigenze di punizione e maturi un diritto all’oblio in capo all’autore di esso (sentenza n. 23 del 2013). È noto che alcuni Stati membri invece muovono da una concezione processuale della prescrizione, alla quale la sentenza resa in causa Taricco è più vicina, anche sulla base della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell›uomo, ma ve ne sono altri, tra cui la Spagna (STC 63/2005, del 14 marzo), che accolgono una concezione sostanziale della prescrizione non differente da quella italiana. Pare utile osservare che su questo aspetto, che non riguarda direttamente né le competenze dell’Unione, né norme dell’Unione, non sussiste alcuna esigenza di uniformità nell’ambito giuridico europeo. Ciascuno Stato membro è perciò libero di attribuire alla prescrizione dei reati natura di istituto sostanziale o processuale, in conformità alla sua tradizione costituzionale. Questa conclusione non è stata posta in dubbio dalla sentenza resa in causa Taricco, che si è limitata a escludere l’applicazione dell’art. 49 della Carta di Nizza alla prescrizione, ma non ha affermato che lo Stato membro deve rinunciare ad applicare le proprie disposizioni e tradizioni costituzionali, che, rispetto all’art. 49 della Carta di Nizza e all’art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, risultano per l’imputato di maggior favore. Né ciò sarebbe consentito nell’ordinamento italiano quando esse esprimono un principio supremo dell’ordine costituzionale, come accade per il principio di legalità in campo penale in relazione all’intero ambito materiale a cui esso si rivolge. 5. Sulla base della giusta premessa che il principio di legalità penale riguarda anche il regime legale della prescrizione, questa Corte è chiamata dai giudici rimettenti a valutare, tra l’altro, se la regola tratta dalla sentenza resa in causa Taricco soddisfi il requisito della determinatezza, che per la Costituzione deve caratterizzare le norme di diritto penale sostanziale. Queste ultime devono quindi essere formulate in termini chiari, precisi e stringenti, sia allo scopo di consentire alle persone di comprendere quali possono essere le conseguenze della propria condotta sul piano penale, sia allo scopo di impedire l’arbitrio applicativo del giudice.


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Si tratta di un principio che, come è stato riconosciuto dalla stessa Corte di giustizia, appartiene alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri quale corollario del principio di certezza del diritto (sentenza 12 dicembre 1996 in cause C-74/95 e C-129/95, punto 25). La verifica deve quindi svolgersi su due piani. Anzitutto, si tratta di stabilire se la persona potesse ragionevolmente prevedere, in base al quadro normativo vigente al tempo del fatto, che il diritto dell’Unione, e in particolare l’art. 325 del TFUE, avrebbe imposto al giudice di non applicare gli artt. 160, ultimo comma, e 161, secondo comma, cod. pen. in presenza delle condizioni enunciate dalla Corte di giustizia in causa Taricco. È questo un principio irrinunciabile del diritto penale costituzionale. Occorre infatti che la disposizione scritta con cui si decide quali fatti punire, con quale pena, e, nel caso qui a giudizio, entro quale limite temporale, permetta «una percezione sufficientemente chiara ed immediata del relativo valore precettivo» (sentenza n. 5 del 2004). Non spetta certamente a questa Corte attribuire all’art. 325 del TFUE un significato differente da quello che gli conferisce la Corte di giustizia; è invece suo dovere prendere atto di quel significato e decidere se esso fosse percepibile dalla persona che ha realizzato la condotta avente rilievo penale. Analoga preoccupazione è peraltro condivisa dalla Corte di Strasburgo in base all’art. 7 della CEDU e alla necessità, costantemente affermata, che reato e pena siano conoscibili dall’autore di un fatto fin da quando esso è commesso. E può essere utile osservare che, pur non negando che lo Stato aderente possa riconoscere alla prescrizione carattere processuale (sentenza 22 giugno 2000, Coëme e altri contro Belgio), ugualmente la Corte EDU si riserva di sanzionarlo quando, in materia penale, non vi sia una base legale certa e prevedibile a sorreggere l’estensione del potere punitivo pubblico oltre il limite temporale previsto al tempo del fatto (sentenza 20 settembre 2011, Oao Neftyanaya Kompaniya Yukos contro Russia). La compatibilità della regola enunciata dalla sentenza resa in causa Taricco con la CEDU, pertanto, andrebbe valutata sulla base della premessa che in Italia la prescrizione ha natura sostanziale. Per tale ragione, è poi necessario chiedersi, alla luce dell’art. 7 della CEDU, se tale regola fosse prevedibile, e avesse perciò base legale (tra le molte, Grande Camera, sentenza 21 ottobre 2013, Del Rio Prada contro Spagna, paragrafo 93). In tale prospettiva questa Corte è convinta che la persona non potesse ragionevolmente pensare, prima della sentenza resa in causa Taricco, che l’art. 325 del TFUE prescrivesse al giudice di non applicare gli artt. 160, ultimo comma, e 161, secondo comma, cod. pen. ove ne fosse derivata l’impunità di gravi frodi fiscali in danno dell’Unione in un numero considerevole di casi, ovvero la violazione del principio di assimilazione.


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In secondo luogo, è necessario interrogarsi, sia sul rispetto della riserva di legge, sia sul grado di determinatezza assunto dall’ordinamento penale in base all’art. 325 del TFUE, con riguardo al potere del giudice, al quale non possono spettare scelte basate su discrezionali valutazioni di politica criminale. In particolare il tempo necessario per la prescrizione di un reato e le operazioni giuridiche da compiersi per calcolarlo devono essere il frutto dell’applicazione, da parte del giudice penale, di regole legali sufficientemente determinate. In caso contrario, il contenuto di queste regole sarebbe deciso da un tribunale caso per caso, cosa che è senza dubbio vietata dal principio di separazione dei poteri di cui l’art. 25, secondo comma, Cost. declina una versione particolarmente rigida nella materia penale. In tale prospettiva si tratta di verificare se la regola enunciata dalla sentenza resa in causa Taricco sia idonea a delimitare la discrezionalità giudiziaria e anche su questo terreno occorre osservare che non vi è modo di definire in via interpretativa con la necessaria determinatezza il requisito del numero considerevole dei casi, cui è subordinato l’effetto indicato dalla Corte di giustizia. Questa Corte non dubita che esso si riferisca alla sistematica impunità che il regime legale dell’interruzione della prescrizione comporterebbe per le frodi fiscali, tuttavia il concetto rimane per sua natura ambiguo, e comunque non riempibile di contenuto attraverso l’esercizio della funzione interpretativa. Nell’ordinamento italiano, come anche nell’ordinamento europeo, l’attività giurisdizionale è soggetta al governo della legge penale; mentre quest’ultima, viceversa, non può limitarsi ad assegnare obiettivi di scopo al giudice. Non si può allora escludere che la legge nazionale possa e debba essere disapplicata se ciò è prescritto in casi specifici dalla normativa europea. Non è invece possibile che il diritto dell’Unione fissi un obiettivo di risultato al giudice penale e che, in difetto di una normativa che predefinisca analiticamente casi e condizioni, quest’ultimo sia tenuto a raggiungerlo con qualunque mezzo rinvenuto nell’ordinamento. 6. Dopo aver messo a fuoco gli specifici profili di incompatibilità esistenti tra la regola che la sentenza resa in causa Taricco ha tratto dall’art. 325 del TFUE e i principi e i diritti sanciti dalla Costituzione, è necessario chiedersi se la Corte di giustizia abbia ritenuto che il giudice nazionale debba dare applicazione alla regola anche quando essa confligge con un principio cardine dell’ordinamento italiano. Questa Corte pensa il contrario, ma reputa in ogni caso conveniente porre il dubbio all’attenzione della Corte di giustizia. In base all’art. 4, paragrafo 3, del Trattato sull’Unione europea (TUE), come modificato dal Trattato di Lisbona, firmato il 13 dicembre 2007, ratificato e reso esecutivo con legge 2 agosto 2008 n. 130, ed entrato in vigore il 1° dicembre 2009, i rapporti tra Unione e Stati membri sono definiti in forza del principio di leale cooperazione, che implica reciproco rispetto e assistenza. Ciò comporta che le parti siano unite nella diversità. Non vi sarebbe rispetto se le ragioni dell’unità pretendessero


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di cancellare il nucleo stesso dei valori su cui si regge lo Stato membro. E non vi sarebbe neppure se la difesa della diversità eccedesse quel nucleo giungendo ad ostacolare la costruzione del futuro di pace, fondato su valori comuni, di cui parla il preambolo della Carta di Nizza. Il primato del diritto dell’Unione non esprime una mera articolazione tecnica del sistema delle fonti nazionali e sovranazionali. Esso riflette piuttosto il convincimento che l’obiettivo della unità, nell’ambito di un ordinamento che assicura la pace e la giustizia tra le Nazioni, giustifica una rinuncia a spazi di sovranità, persino se definiti da norme costituzionali. Al contempo la legittimazione (art. 11 della Costituzione italiana) e la forza stessa dell’unità in seno ad un ordinamento caratterizzato dal pluralismo (art. 2 del TUE) nascono dalla sua capacità di includere il tasso di diversità minimo, ma necessario per preservare la identità nazionale insita nella struttura fondamentale dello Stato membro (art. 4, paragrafo 2, del TUE). In caso contrario i Trattati europei mirerebbero contraddittoriamente a dissolvere il fondamento costituzionale stesso dal quale hanno tratto origine per volontà degli Stati membri. Queste considerazioni sono sempre state alla base dell’azione, sia di questa Corte, quando ha rinvenuto nell’art. 11 Cost. la chiave di volta dell’ordinamento europeo, sia della Corte di giustizia, quando, precorrendo l’art. 6, paragrafo 3, del TUE, ha incorporato nel diritto dell’Unione le tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri. Ne consegue, in linea di principio, che il diritto dell’Unione, e le sentenze della Corte di giustizia che ne specificano il significato ai fini di un’uniforme applicazione, non possono interpretarsi nel senso di imporre allo Stato membro la rinuncia ai principi supremi del suo ordine costituzionale. Naturalmente, la Corte di giustizia non è sollevata dal compito di definire il campo di applicazione del diritto dell’Unione, né può essere ulteriormente gravata dall’onere di valutare nel dettaglio se esso sia compatibile con l’identità costituzionale di ciascun Stato membro. È perciò ragionevole attendersi che, nei casi in cui tale valutazione sia di non immediata evidenza, il giudice europeo provveda a stabilire il significato della normativa dell’Unione, rimettendo alle autorità nazionali la verifica ultima circa l’osservanza dei principi supremi dell’ordinamento nazionale. Compete poi a ciascuno di questi ordinamenti stabilire a chi spetti tale verifica. La Costituzione della Repubblica italiana, a tale proposito, la rimette in via esclusiva a questa Corte, e bene hanno perciò fatto i rimettenti a investirla del problema, sollevando una questione di legittimità costituzionale. 7. Quanto appena esposto in termini generali trova conferma nel caso sottoposto a giudizio. La sentenza resa in causa Taricco ha stabilito che l’art. 325 del TFUE ha efficacia diretta e comporta l’obbligo di non applicare una normativa nazionale sulla prescrizione dei reati che, nei casi e alle condizioni individuate, compromette l’effettività della sanzione. La decisione ha altresì escluso, ma solo con riferimento al divieto


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di retroattività della sanzione penale, che la regola così enunciata sia in contrasto con l’art. 49 della Carta di Nizza e con l’art. 7 della CEDU. La sentenza europea prescinde dalla compatibilità della regola con i principi supremi dell’ordine costituzionale italiano, ma pare aver demandato espressamente questo compito agli organi nazionali competenti. Infatti, il paragrafo 53 della sentenza afferma che, «se il giudice nazionale dovesse decidere di disapplicare le disposizioni nazionali di cui trattasi, egli dovrà allo stesso tempo assicurarsi che i diritti fondamentali degli interessati siano rispettati». Il paragrafo 55 seguente aggiunge che la disapplicazione va disposta «con riserva di verifica da parte del giudice nazionale» in ordine al rispetto dei diritti degli imputati. Il convincimento di questa Corte, del quale si chiede conferma alla Corte di giustizia, è che con tali asserzioni si sia inteso affermare che la regola tratta dall’art. 325 del TFUE è applicabile solo se è compatibile con l’identità costituzionale dello Stato membro, e che spetta alle competenti autorità di quello Stato farsi carico di una siffatta valutazione. Nell’ordinamento italiano ciò può avvenire attraverso l’iniziativa del giudice che, chiamato ad applicare la regola, chiede a questa Corte di saggiarne la compatibilità con i principi supremi dell’ordine costituzionale. È poi dovere di questa Corte accertare, se del caso, l’incompatibilità, e conseguentemente escludere che la regola possa avere applicazione in Italia. Se questa interpretazione dell’art. 325 del TFUE e della sentenza resa in causa Taricco fosse corretta, cesserebbe ogni ragione di contrasto e la questione di legittimità costituzionale non sarebbe accolta. Resterebbe in ogni caso ferma la responsabilità della Repubblica italiana per avere omesso di approntare un efficace rimedio contro le gravi frodi fiscali in danno degli interessi finanziari dell’Unione o in violazione del principio di assimilazione, e in particolare per avere compresso temporalmente l’effetto degli atti interruttivi della prescrizione. Ciò posto, occorrerebbe verificare nelle sedi competenti se il problema sia stato risolto dall’art. 2, comma 36-vicies semel, lettera l), del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 14 settembre 2011, n. 148, che ha aumentato di un terzo i termini di prescrizione dei reati puniti dagli articoli da 2 a 10 del d.lgs. n. 74 del 2000, con una disposizione che però non è applicabile a fatti commessi prima dell’entrata in vigore della legge. Se l’esito della verifica fosse negativo sarebbe urgente un intervento del legislatore per assicurare l’efficacia dei giudizi sulle frodi in questione, eventualmente anche evitando che l’esito sia compromesso da termini prescrizionali inadeguati. 8. Questa Corte tiene a sottolineare che l’interpretazione appena delineata, se da un lato serve a preservare l’identità costituzionale della Repubblica italiana, dall’altro non compromette le esigenze di uniforme applicazione del diritto dell’Unione e si


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propone pertanto come soluzione conforme al principio di leale cooperazione e di proporzionalità. Infatti essa non pone in discussione il significato che la Corte di giustizia ha rinvenuto nell’art. 325 del TFUE. L’impedimento del giudice nazionale ad applicare direttamente la regola enunciata dalla Corte non deriva da una interpretazione alternativa del diritto dell’Unione, ma esclusivamente dalla circostanza, in sé estranea all’ambito materiale di applicazione di quest’ultimo, che l’ordinamento italiano attribuisce alla normativa sulla prescrizione il carattere di norma del diritto penale sostanziale e la assoggetta al principio di legalità espresso dall’art. 25, secondo comma, Cost. È questa una qualificazione esterna rispetto al significato proprio dell’art. 325 del TFUE, che non dipende dal diritto europeo ma esclusivamente da quello nazionale. Va aggiunto che tale qualificazione, nel caso di specie, costituisce un livello di protezione più elevato di quello concesso agli imputati dall’art. 49 della Carta di Nizza e dall’art. 7 della CEDU. Esso, perciò, deve ritenersi salvaguardato dallo stesso diritto dell’Unione, ai sensi dell’art. 53 della Carta, letto anche alla luce della relativa spiegazione. La Costituzione italiana conferisce al principio di legalità penale un oggetto più ampio di quello riconosciuto dalle fonti europee, perché non è limitato alla descrizione del fatto di reato e alla pena, ma include ogni profilo sostanziale concernente la punibilità. Appare a ciò conseguente che l’Unione rispetti questo livello di protezione dei diritti della persona, sia in ossequio all’art. 53 della Carta di Nizza, il quale afferma che «Nessuna disposizione della presente Carta deve essere interpretata come limitativa o lesiva dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali riconosciuti […] dalle costituzioni degli Stati membri», sia perché, altrimenti, il processo di integrazione europea avrebbe l’effetto di degradare le conquiste nazionali in tema di libertà fondamentali e si allontanerebbe dal suo percorso di unificazione nel segno del rispetto dei diritti umani (art. 2 del TUE). Al contrario, la Corte di giustizia ha riconosciuto che le modalità con le quali ciascuno Stato membro tutela i diritti fondamentali della persona, anche quando questo comporta una restrizione alle libertà attribuite dai Trattati, non devono necessariamente essere le stesse. Ogni Stato membro protegge tali diritti in conformità al proprio ordinamento costituzionale (sentenza 14 ottobre 2004, in causa C-36/02, Omega Spielhallen und Automatenaufstellungs GmbH contro Oberbürgermeisterin der Bundesstadt Bonn). Il caso qui esaminato si distingue nettamente da quello deciso dalla Grande Sezione della Corte di giustizia con la sentenza 26 febbraio 2013 in causa C-399/11, Melloni, con la quale si è escluso che, in forza delle previsioni della Costituzione di uno Stato membro, potessero aggiungersi ulteriori condizioni all’esecuzione di un mandato di arresto europeo, rispetto a quelle pattuite con il «consenso raggiunto dagli Stati membri nel loro insieme a proposito della portata


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da attribuire, secondo il diritto dell’Unione, ai diritti processuali di cui godono le persone condannate in absentia». In quel caso una soluzione opposta avrebbe inciso direttamente sulla portata della Decisione quadro 26 febbraio 2009, n. 2009/299/GAI (Decisione quadro del Consiglio che modifica le decisioni quadro 2002/584/GAI, 2005/214/GAI, 2006/783/GAI, 2008/909/GAI e 2008/947/GAI, rafforzando i diritti processuali delle persone e promuovendo l’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle decisioni pronunciate in assenza dell’interessato al processo), e avrebbe perciò comportato la rottura dell’unità del diritto dell’Unione in una materia basata sulla reciproca fiducia in un assetto normativo uniforme. Viceversa, il primato del diritto dell’Unione non è posto in discussione nel caso oggi a giudizio, perché, come si è già osservato, non è in questione la regola enunciata dalla sentenza in causa Taricco, e desunta dall’art. 325 del TFUE, ma solo l’esistenza di un impedimento di ordine costituzionale alla sua applicazione diretta da parte del giudice. Questo impedimento non dipende dalla contrapposizione di una norma nazionale alle regole dell’Unione ma solo dalla circostanza, esterna all’ordinamento europeo, che la prescrizione in Italia appartiene al diritto penale sostanziale, e soggiace perciò al principio di legalità in materia penale. Appare perciò proporzionato che l’Unione rispetti il più elevato livello di protezione accordato dalla Costituzione italiana agli imputati, visto che con ciò non viene sacrificato il primato del suo diritto. 9. Inoltre questa Corte osserva che la sentenza resa in causa Taricco ha escluso l’incompatibilità della regola lì affermata rispetto all’art. 49 della Carta di Nizza con riguardo al solo divieto di retroattività, mentre non ha esaminato l’altro profilo proprio del principio di legalità, ovvero la necessità che la norma relativa al regime di punibilità sia sufficientemente determinata. È questa un’esigenza comune alle tradizioni costituzionali degli Stati membri, presente anche nel sistema di tutela della CEDU, e come tale incarna un principio generale del diritto dell’Unione (si veda la già citata sentenza 12 dicembre 1996, in cause C-74/95 e C-129/95). Anche se si dovesse ritenere che la prescrizione ha natura processuale, o che comunque può essere regolata anche da una normativa posteriore alla commissione del reato, ugualmente resterebbe il principio che l’attività del giudice chiamato ad applicarla deve dipendere da disposizioni legali sufficientemente determinate. In questo principio si coglie un tratto costitutivo degli ordinamenti costituzionali degli Stati membri di civil law. Essi non affidano al giudice il potere di creare un regime legale penale, in luogo di quello realizzato dalla legge approvata dal Parlamento, e in ogni caso ripudiano l’idea che i tribunali penali siano incaricati di raggiungere uno scopo, pur legalmente predefinito, senza che la legge specifichi con quali mezzi e in quali limiti ciò possa avvenire. Il largo consenso diffuso tra gli Stati membri su tale principio cardine della divisione dei poteri induce a ritenere che l’art. 49 della Carta di Nizza abbia identica portata, ai sensi dell’art. 52, paragrafo 4, della medesima Carta.


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Tuttavia, l’art. 325 del TFUE, pur formulando un obbligo di risultato chiaro e incondizionato, secondo quanto precisato dalla Corte di giustizia, omette di indicare con sufficiente analiticità il percorso che il giudice penale è tenuto a seguire per conseguire lo scopo. In questo modo però si potrebbe permettere al potere giudiziario di disfarsi, in linea potenziale, di qualsivoglia elemento normativo che attiene alla punibilità o al processo, purché esso sia ritenuto di ostacolo alla repressione del reato. Questa conclusione eccede il limite proprio della funzione giurisdizionale nello Stato di diritto quanto meno nella tradizione continentale, e non pare conforme al principio di legalità enunciato dall’art. 49 della Carta di Nizza. Se si ritiene che l’art. 325 del TFUE ha un simile significato resta allora da verificarne la coerenza con l’art. 49 della Carta di Nizza, che ha lo stesso valore dei Trattati (art. 6, paragrafo 1, del TUE), sotto il profilo della carente determinatezza della norma europea, quando interferisce con i diritti degli imputati in un processo penale. 10. In conclusione, se la Corte di giustizia dovesse concordare con questa Corte sul significato dell’art. 325 del TFUE e della sentenza resa in causa Taricco, sarebbero superate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dai giudici rimettenti. 11. In base all’art. 105 del regolamento di procedura della Corte di giustizia del 25 settembre 2012 si richiede che il presente rinvio pregiudiziale sia deciso con procedimento accelerato. Si è allo stato generato un grave stato di incertezza sul significato da attribuire al diritto dell’Unione, incertezza che riguarda processi penali pendenti e che è urgente rimuovere quanto prima. Non può inoltre sfuggire la prioritaria importanza delle questioni di diritto che sono state sollevate e l’utilità che i relativi dubbi vengano eliminati il prima possibile. Visti gli artt. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, e 3 della legge 13 marzo 1958, n. 204, recante «Ratifica ed esecuzione dei seguenti Accordi internazionali firmati a Bruxelles il 17 aprile 1957: a) Protocollo sui privilegi e sulle immunità della Comunità economica europea; b) Protocollo sullo Statuto della Corte di giustizia della Comunità economica europea; c) Protocollo sui privilegi e sulle immunità della Comunità europea dell’energia atomica; d) Protocollo sullo Statuto della Corte di giustizia della Comunità europea dell’energia atomica (stralcio: protocolli Euratom)». Diritto. - P.Q.M. La Corte Costituzionale riuniti i giudizi, 1) dispone di sottoporre alla Corte di giustizia dell’Unione europea, in via pregiudiziale ai sensi e per gli effetti dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, le seguenti questioni di interpretazione dell’art. 325, paragrafi 1 e 2, del medesimo Trattato: se l’art. 325, paragrafi 1 e 2, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea debba essere interpretato nel senso di imporre al giudice penale di non applicare una


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normativa nazionale sulla prescrizione che osta in un numero considerevole di casi alla repressione di gravi frodi in danno degli interessi finanziari dell’Unione, ovvero che prevede termini di prescrizione più brevi per frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione di quelli previsti per le frodi lesive degli interessi finanziari dello Stato, anche quando tale omessa applicazione sia priva di una base legale sufficientemente determinata; se l’art. 325, paragrafi 1 e 2, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea debba essere interpretato nel senso di imporre al giudice penale di non applicare una normativa nazionale sulla prescrizione che osta in un numero considerevole di casi alla repressione di gravi frodi in danno degli interessi finanziari dell’Unione, ovvero che prevede termini di prescrizione più brevi per frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione di quelli previsti per le frodi lesive degli interessi finanziari dello Stato, anche quando nell’ordinamento dello Stato membro la prescrizione è parte del diritto penale sostanziale e soggetta al principio di legalità; se la sentenza della Grande Sezione della Corte di giustizia dell’Unione europea 8 settembre 2015 in causa C-105/14, Taricco, debba essere interpretata nel senso di imporre al giudice penale di non applicare una normativa nazionale sulla prescrizione che osta in un numero considerevole di casi alla repressione di gravi frodi in danno degli interessi finanziari dell’Unione europea, ovvero che prevede termini di prescrizione più brevi per frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea di quelli previsti per le frodi lesive degli interessi finanziari dello Stato, anche quando tale omessa applicazione sia in contrasto con i principi supremi dell’ordine costituzionale dello Stato membro o con i diritti inalienabili della persona riconosciuti dalla Costituzione dello Stato membro; 2) chiede che le questioni pregiudiziali siano decise con procedimento accelerato; 3) sospende il presente giudizio sino alla definizione delle suddette questioni pregiudiziali; 4) ordina l’immediata trasmissione di copia della presente ordinanza, unitamente agli atti del giudizio, alla cancelleria della Corte di giustizia dell’Unione europea. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 novembre 2016. (Omissis)

I limiti costituzionali al dovere di ottemperanza alle sentenze interpretative della Corte di giustizia. L’articolo si occupa della legittimità della ratifica con legge ordinaria dei trattati UE che comportino modifiche dell’ordinamento costituzionale. Tale questione è stata riproposta con urgenza dall’ordinanza n. 24/2017 con la quale la Corte costituzionale ha formulato alla Corte di Giustizia UE un quesito circa i limiti di applicazione delle sentenze interpretative da questa rese in sede di rinvio pregiudiziale.


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The essay is about the constitutionality of ordinary laws that ratify EU Treaties changing the constitutional order. Such issue has been highlighted again by the Constitutional Court with its ordinance 24/2017, as it requested the Court of Justice of the EU to give a preliminary ruling on a question concerning the limits of application of ECJ interpretative decisions.

1. Era prevedibile e, ancor più, auspicabile che la sentenza resa dalla Corte di Giustizia UE nel caso Taricco (causa C-105/2014) determinasse la reazione dei Giudici italiani e che questi invocassero il presidio della Corte costituzionale sui principi supremi del nostro ordinamento (1). Tale sentenza presenta infatti diversi profili di anomalia. In primo luogo, a causa del tenore delle questioni sottoposte alla Corte lussemburghese: ben lungi dal proporre, con appropriata formulazione, domande di interpretazione del diritto europeo, esse erano volte a sollecitare ai Giudici del Lussemburgo uno scrutinio diretto di legittimità eurounitaria di disposizioni del codice penale, che non spetta loro, rientrando nella competenza propria della Corte costituzionale. Dandovi ingresso, anziché dichiararle inammissibili, la Corte di Giustizia ha usurpato le attribuzioni di un organo costituzionale interno, emettendo una pronuncia che, conseguentemente, non ha i tratti tipici della sentenza interpretativa ed ha addossato ai Giudici nazionali un munus estraneo alla disciplina costituzionale della funzione giurisdizionale e con essa contrastante. Per un verso, viene accertata l’idoneità del combinato disposto degli artt. 160, ult. co., e 161 c.p. “a pregiudicare gli obblighi imposti agli Stati membri dall’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE” non già in astratto e in generale, bensì “nell’ipotesi in cui detta normativa nazionale impedisca di infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea, o in cui preveda, per i casi di frode che ledono gli interessi finanziari dello Stato membro interessato, termini di prescrizione più lunghi di quelli previsti per i casi di frode

(1) Resta così ulteriormente comprovato in concreto il rilievo di M. Luciani, Il brusco risveglio. I controlimiti e la fine mancata della storia costituzionale, in Rivista AIC, n. 2/2016, 5, secondo cui, di contro a certo ingiustificato ottimismo circa l’inarrestabilità del processo storico di integrazione europea (ingiustificato anche in quanto assume che tale processo sia di per sé benefico), «i controlimiti non solo hanno una compiuta sostanza normativa e politica, ma sono stati utilizzati e potrebbero esserlo nuovamente e con ancor maggiore efficacia se sol lo si volesse».


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che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea”: una declaratoria di illegittimità comunitaria in eventum, con riferimento a “circostanze che spetta al giudice nazionale verificare”. Per altro verso e in viziata conseguenza della anomala statuizione pseudoaccertativa, viene fatto carico ai Giudici di effettuare valutazioni che non soltanto esulano del tutto dal dovere di applicazione della legge, ma implicano una “posizione” nell’ordinamento (col correlativo strumentario istruttorio) ben diversa da quella propria degli uffici giudiziari ai sensi degli artt. 101 ss. Cost. A ben vedere, infatti, la Corte di Giustizia demanda loro di disapplicare gli artt. 160, ult. co., e 161 c.p. quando ritengano, sulla base di una valutazione di carattere politico e non già di grado esecutivo-applicativo, che tali disposizioni urtino contro l’interesse finanziario dell’Unione Europea: ciò che è particolarmente evidente avuto riguardo alla prima delle ipotesi prospettate nel dispositivo, ossia l’impedimento alla inflizione di “sanzioni effettive e dissuasive”, che è clausola generica, incapace ex se di definizione e di carattere essenzialmente suggestivo, tale quindi da fare appello alla individuale e soggettiva sensibilità di chi giudica (recte: decide). Non si tratta, pertanto, di una valutazione omogenea a quella che il Giudice compie all’esito della istruttoria processuale (e dunque del contraddittorio tra le parti), in doverosa conformità alle sue risultanze, al fine di verificare il ricorrere delle condizioni di applicazione delle disposizioni conferenti al caso sottoposto al suo giudizio, bensì di una decisione che egli assume per perseguire un obiettivo esterno rispetto al perimetro normativo e in forza della quale potrà sostituire la regola stabilita dal legislatore con quella che riterrà conforme a tale obiettivo (2): diversamente dall’ipotesi tipica della disappli-

(2) Si rileva, in proposito, con particolare e critica evidenza – per l’incidenza sulle garanzie essenziali della persona – quella opposizione tra «produzione normativa dell’apparato, soprattutto legislativo» e «attività di un altro apparato, quello giurisdizionale, di per sé ancor più separato dalla società di quanto non possa essere l’altro», acutamente rilevata da A. Predieri, Le fonti del diritto nella costituzione spagnola del 1978, in E. Garcia de Enterria A. Predieri, La Costituzione spagnola del 1978, Milano, 1982, 223, nt. 99, che rende non solo realisticamente poco praticabile, ma, soprattutto, contrario ai principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale la pretesa formazione giudiziale di regole generali, per una sorta di impropria e, in Italia, inammissibile attribuzione di funzioni nomopoietiche all’autorità giudiziaria, la quale non è dotata né di legittimazione rappresentativa, né degli strumenti necessari a compiere il censimento delle esigenze che dovrebbero essere soddisfatte dalla normativa ad essa delegata e la indispensabile valutazione dei modi di farvi fronte.


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cazione per contrasto con il diritto eurounitario, nella fattispecie che qui interessa non v’è alcuna disposizione del c.d. diritto europeo derivato che, con pari o comparabile tassatività e determinatezza, succeda a quelle del codice penale. Un siffatto costrutto appare ancor più singolare quando si osservi che, nell’intesserlo, la Corte di Giustizia ha mostrato di ignorare o di tenere in nessun conto gli istituti fondamentali di uno Stato membro e soprattutto la riserva di “identità costituzionale” alla quale fa opportuno riferimento la Corte costituzionale nell’ordinanza che si annota. 2. Ben a ragione, dunque, la Corte costituzionale ha sollecitato se non un ripensamento, certo un chiarimento di somma importanza sulla concezione che la Corte di Giustizia abbia intorno al rapporto tra le norme e i principi costituzionali degli Stati membri e le disposizioni dei Trattati europei. A quanto è dato comprendere, l’ordinanza in esame, ancorché in forma di interpello, ha già prefigurato il suo orientamento. Sembra infatti di poter ragionevolmente prevedere che, se la Corte di Giustizia dovesse confermare la propria decisione, negando che l’interpretazione da essa proposta trovi limite nelle disposizioni della nostra Costituzione e nei principi che esse esprimono e che pertanto i giudici nazionali debbano seguirla a dispetto delle une e degli altri, addirittura con una disapplicazione casuistica delle norme penali in questione, sarà allora inevitabile pervenire ad una pronuncia di incostituzionalità. Ove la Corte costituzionale accogliesse le questioni di legittimità prospettate dai giudici remittenti con riferimento ai principi supremi dell’ordine co-

Pare peraltro opportuno avvertire che anche le cennate difficoltà pratiche vengono spesso obliterate nella impostazione degli autori che ravvisano nella giurisprudenza il luogo di coltura e di formazione di quei principi che, costituendo un prius rispetto alle norme, dovrebbero fungere da strumento di emendamento delle (predicate) insufficienze di queste (erroneamente qualificate, in sede dottrinale, come lacune dell’ordinamento), allo scopo di sovvenire alle esigenze dei componenti della collettività, per come percepite dal giudice, e non già e non necessariamente di quelle delle parti del giudizio, negando, dunque, rilievo al principio, che ha invece carattere fondativo del nostro ordinamento, della necessaria derivazione di ogni norma di giudizio (statale e quindi destinata alla forza di cosa giudicata) da atti alla cui formazione la collettività abbia potuto partecipare (almeno) secondo le forme della rappresentanza politica (art. 101, co. 2, Cost., che, secondo l’acuta ricostruzione di S. Fois, voce Legalità (principio di), in Enc. dir., XXIII, Milano, 1973, 659 ss., ora anche in Id., La crisi della legalità. Raccolta di scritti, Milano, 2010, 437 ss., dà fondamento positivo al principio di legalità).


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stituzionale italiano e al rispetto dei diritti inalienabili della persona “espressi dagli artt. 3, 11, 24, 25, secondo comma, 27, terzo comma, e 101, secondo comma, della Costituzione, con particolare riguardo al principio di legalità in materia penale”, affermerebbe il principio secondo cui sarebbe illegittima la legge di autorizzazione alla ratifica di un trattato internazionale che contenesse norme le quali, per espresso disposto o per interpretazione vincolante datane dagli organi competenti, violassero dettati o principi costituzionali: e ciò anche quando si ritenesse che il trattato ratificato abbia i contenuti e risponda alle finalità di cui all’art. 11 Cost. Nella specie, in presenza di un trattato eurounitario, del quale finora, secondo la stessa costante giurisprudenza della Corte costituzionale, si è ritenuto che la copertura ex art. 11 Cost. fosse sufficiente a giustificare le profonde deroghe al sistema costituzionale delle fonti e alla organizzazione statale di apparato – come esemplarmente dimostra la competenza esercitata dalla Corte di Giustizia – il Giudice delle leggi dovrebbe rimeditare il problema e avviarlo a diversa soluzione, attraverso lo scrutinio delle forme e dei limiti di esercizio del potere di cui all’art. 11 Cost., ove occorra sollevando dinnanzi a sé questione di legittimità costituzionale della legge di ratifica del trattato in questione per violazione dell’art. 138 Cost. 3. Com’è ben noto, è invalsa in proposito una sorta di consuetudine interpretativa (3) in forza della quale le limitazioni di sovranità di cui all’art. 11 Cost. possono disporsi, a norma dell’art. 80 Cost., con autorizzazione alla ratifica di trattati internazionali e connessi ordini di esecuzione che abbiano forma di legge ordinaria, alla quale, tuttavia, non spetta alcuna addizione di efficacia, se non quella di fungere da parametro del giudizio di costituzionalità riguardante leggi ordinarie o atti aventi tale forza che si assumano in contrasto col trattato ratificato. Sennonché l’art. 80 Cost., quando fa riferimento alla legge di ratifica senz’altra specificazione circa il rango (a differenza di quanto avviene per esempio con l’art. 77, co. 1, Cost, che esplicitamente qualifica la legge ivi contemplata come ordinaria), lascia aperta la questione circa la natura dello strumento legislativo, se ordinario o costituzionale, a seconda della materia che ne forma oggetto.

(3) Cfr., al riguardo, l’ampia e documentatissima indagine di G. Itzcovich, Teorie e ideologie del diritto comunitario, Torino, 2006, spec. 173 ss.


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Se ne desume che, quando il trattato da ratificare contenga norme che incidano in senso modificativo, derogatorio o limitativo sulle disposizioni costituzionali, la legge di autorizzazione alla ratifica non può che essere adottata secondo le procedure di cui all’art. 138 Cost., salvo che quelle modifiche, quelle deroghe o quei limiti non infrangano il divieto di cui all’art. 139 Cost. o gli altri limiti impliciti alla revisione costituzionale. La questione non è nuova e aveva, anzi, suscitato ampio dibattito, segnatamente in sede parlamentare, al tempo della ratifica del Trattato CECA e, poi, di quello di Roma (4), i cui effetti costituiscono del resto a tutt’oggi la matrice dei problemi che, nell’ormai lungo “cammino comunitario”, si sono manifestati, a causa, per quanto qui più interessa, proprio delle gravi alterazioni della struttura costituzionale in cui tali effetti si sono risolti. Ma è stata troppo rapidamente archiviata (5), benché si potesse o, piuttosto, dovesse riproporre in occasione di ogni successiva modifica del Trattato del 1957 (6). Benché non possano nutrirsi dubbi – e sia anzi ampiamente riconosciuto – che già nel 1957 la ratifica e la esecuzione del Trattato istitutivo della CEE avessero comportato modifiche alla struttura costituzionale, in sue parti essenziali (forma di governo, sistema delle fonti, tutela dei diritti, organizzazione e attribuzioni del potere giudiziario), tuttavia, per concorde indirizzo delle maggioranze di governo e, soprattutto, della Corte costituzionale, e con l’avallo della dottrina maggioritaria, si ritenne sin da subito sufficiente invocare l’art. 11 Cost. per legittimare la tesi secondo cui sia la ratifica, sia l’ordine di esecuzione, sia l’adattamento dell’ordinamento nazionale a tale trattato potessero farsi con legge ordinaria, salvi i limiti dei principi supremi della Costituzione e dei diritti inalienabili della persona umana. E ciò sull’assunto che l’art. 11 Cost. funga proprio da autorizzazione costituzionale alla ratifica e alla esecuzione di trattati che comportino limitazioni di

(4) Cfr. S. Bartole, Interpretazioni e trasformazioni della Costituzione repubblicana, Bologna, 2004, 276 ss., con ampi riferimenti ai rispettivi lavori parlamentari. (5) Cfr. le osservazioni di A. Guazzarotti, Crisi dell’euro e conflitto sociale, Milano, 2016, 131 s. e nt. 1. (6) Val la pena di rammentare le precise indicazioni che Paolo Barile dava agli organi costituzionali in relazione al Trattato di Maastricht, definito, a giusto titolo, di importanza capitale e che, per il suo impatto sulla Costituzione, avrebbe dovuto essere oggetto di un ordine di esecuzione in forma di legge di revisione costituzionale: P. Barile, La Costituzione dopo Maastricht, ne La Repubblica del 13 settembre 1992.


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sovranità, diverse da quelle che ordinariamente conseguono alla stipulazione di un trattato internazionale (7). È da credere che abbiano in tal senso agito piuttosto considerazioni di opportunità politica, che non l’esatta deduzione di precetti estraibili dalla suddetta disposizione costituzionale, la quale, anche a non voler accedere alla nota opinione di Giorgio Balladore Pallieri (8), secondo cui essa sarebbe una mera direttiva di politica estera (9), per la sua formulazione e per una ineludibile esigenza logica, deve essere interpretata nei limiti del mandato conferito all’Assemblea Costituente, nonché nell’unitario contesto dell’atto normativo del quale fa parte (10). La sovranità passibile di limitazione è, infatti, quella che, ex art. 1 Cost.,

(7) Il punto è di particolare importanza, poiché proprio sul discrimine di tale distinzione è stata condotta una parte significativa della polemica sul rapporto tra gli artt. 11 e 138 Cost., essendosi sostenuto, da quanti patrocinavano l’opinione che fosse sufficiente una legge ordinaria, che, ove la stipulazione di trattati comportanti limitazioni di sovranità avesse richiesto le forme di cui all’art. 138 Cost., l’art. 11 sarebbe risultato ridondante. Di contro a tale tesi, pare possa ancora validamente opporsi: a) che, se si prescinde dall’art. 11, la disciplina costituzionale del treaty making power è limitata ai soli aspetti procedurali; b) che l’obiettivo della pace e della giustizia tra le Nazioni, è proprio di ogni accordo internazionale – come finisce per riconoscere anche chi sostiene la tesi della “specialità” dell’art. 11 Cost. – sia in quanto regoli consensualmente oggetti che, diversamente, potrebbero dare luogo a divergenze potenzialmente suscettibili di essere risolte con mezzi contenziosi, sia, più ampiamente, in quanto costituisca legami di cooperazione con altri Stati; c) che, soprattutto, la stipulazione di un trattato non comporta limitazione, bensì esercizio della sovranità, così come la conclusione di un negozio giuridico è espressione e non limitazione della capacità negoziale (cfr. Corte permanente di giustizia internazionale, sent. 17 agosto 1923, Wimbledon, Series A, n. 1, 25). (8) G. Balladore Pallieri, Competenza della Corte costituzionale riguardo al diritto delle Comunità europee, in Dir. int., 1966, 255 ss. e 262 ss. (9) Impregiudicato poi il valore da attribuire alla direttiva in parola, per quanto attiene, in particolare, all’an e al quomodo della sua collocazione nel sistema delle fonti. E in proposito pare condivisibile il richiamo alle ormai risalenti, consolidate ricostruzioni che hanno esattamente individuato specifici caratteri di precettività anche nelle norme c.d. programmatiche: F. Sorrentino, Corte costituzionale e Corte di giustizia delle Comunità europee, Milano, 1970, 90 s. (10) Rilevava, molti anni or sono, G. Treves, Le droit des États membres et le droit des Communautés européennes, in Miscellanea W.J. Ganshof van der Meersch, II, BruxellesParis, 1972, 515 (richiamato da G. Itzcovich, op. cit., 293, nt. 77) come, da parte di certa dottrina, «Ci si limita a valorizzare gli argomenti a favore di una tesi, quella della prevalenza del diritto comunitario, sollecitando abusivamente l’interpretazione delle costituzioni dei paesi membri. Gli entusiasmi d’un tempo non possono che essere fonte di confusione metodologica». Il rilievo conserva attualità.


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appartiene al popolo (11), la cui prima ed essenziale manifestazione è ovviamente la Carta del 1948, a sua volta frutto della scelta istituzionale e costituente del 1946. Qualora dunque l’art. 11 Cost. si interpretasse come norma attributiva del potere di autorizzare con legge ordinaria la ratifica di trattati che comportino modificazioni costituzionali, lo si porrebbe in rapporto di contraddizione con la sovranità popolare, per come positivamente configurata dalla Costituzione: in deroga a quanto dispone l’art. 138 – e peraltro in assenza, come puntualmente rilevava Carlo Esposito, di anche una sola parola «che suffraghi la tesi» (12) – la revisione della legge fondamentale non necessiterebbe, in tali ipotesi, della procedura c.d. aggravata e dell’eventuale referendum costituzionale, essendo sufficiente una scelta compiuta da una maggioranza parlamentare semplice, che ritenga sussistenti gli estremi teleologici della pace e della giustizia tra le Nazioni, i quali, considerati soprattutto da tale punto di vista, appaiono davvero genericamente definiti: scelta così sottratta sia al controllo referendario di cui all’art. 138 Cost., sia a quello di cui all’art. 75 Cost. Se dal piano dell’analisi strettamente normativa si passa ai profili organizzativi, si coglie agevolmente che la deroga in parola corrisponde ad una speciale competenza parlamentare (13), abilitata alla sostituzione dell’ordinamento costituzionale interno con “elementi” di derivazione internazionale: nel che, a ben vedere, consiste quella natura permanente delle

(11) Lo rileva, con la consueta finezza di analisi, M. Luciani, Il brusco risveglio, cit., 7, il quale precisa peraltro che l’attribuzione all’Italia e, dunque alla Repubblica, del potere di acconsentire alle limitazioni di sovranità di cui all’art. 11 Cost. e non al popolo «lo si deve semplicemente al fatto che questo non ha soggettività internazionale». Quanto a tale ultima considerazione, corrispondente alla vigente dottrina del diritto internazionale, può forse soggiungersi, senza poter ovviamente affrontare qui la complessa questione, che la predicata carenza di soggettività del popolo: a) connota a maggior ragione quella statale come personalità strumentale; b) trova preciso e doveroso contrappeso nella necessità di far luogo alle limitazioni modificative della Costituzione esclusivamente nelle forme e con i limiti di cui agli artt. 138 e 139 Cost. (12) C. Esposito, Costituzione, legge di revisione della Costituzione e «altre» leggi costituzionali, in Raccolta di scritti in onore di Arturo Carlo Jemolo, III, Milano, 1963, 189 ss., ora in Id., Diritto costituzionale vivente, Milano, 1992, 370, nt. 24. (13) Cfr. C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, II, 9° ed., Padova, 1976, 1500, nel prendere posizione a favore della tesi criticata nel testo, con grande lucidità qualifica la legge di autorizzazione alla ratifica dei trattati (allora) comunitari come «un atto di volontà del parlamento, abilitato, entro certi limiti, che saranno appresso considerati, a sostituirsi all’organo di revisione per effetto dell’art. 11».


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limitazioni ex art. 11 Cost. alle quali faceva acutamente riferimento Carlo Esposito (14). Ne discende un effetto di “flessibilizzazione” della Costituzione (15), che incide in senso gravemente privativo del diritto della collettività di darsi un assetto giuridico conforme alla propria volontà, di contro – come si è detto – al principio di sovranità popolare e del suo presidio di garanzia di cui all’art. 138 Cost. Effetto che non può essere né attutito, né tantomeno eliso dalle analogie di principio tra ordinamento italiano e ordinamento europeo che vengono usualmente evocate a dimostrazione del sostanziale rispetto di quei principi che dovrebbero rappresentare i c.d. controlimiti alle limitazioni di cui all’art. 11 Cost. E non soltanto perché di tali controlimiti si danno definizioni per linee molto generali (16), ma anzitutto perché la deroga che si pretende di ricavare dall’art. 11 Cost. si traduce in una rinunzia alla indipendenza nazionale, ossia a quel “fattore primordiale” che, secondo Charles Eisenmann, rappresenta il presupposto dal quale dipende la effettiva capacità di darsi una costituzione (17). In funzione della c.d. integrazione europea – da tempo sempre più simile ad una sorta di “lega egemonica”, che concretizza un rischio paventato all’alba del suo avvio da Emilio Betti e da Rolando Quadri (18) – si è fatto luogo non già a limitazioni della sovranità, men che meno di carattere negoziale, bensì a vere e proprie cessioni di funzioni sovrane (19) alle istituzioni eu-

(14) C. Esposito, op. cit., 371, nt. 24, in fine. (15) Ancorché in un diverso ordine di idee, cfr. G. Chiarelli, Elasticità della Costituzione, in Studi di diritto costituzionale in memoria di Luigi Rossi, Milano, 1952, 43 ss., ora anche in Id., Scritti di diritto pubblico, Milano, 1977, 327 ss., il quale, come segnala G. Itzcovich, Teorie e ideologie, cit., 193, «già nel 1952 individuò proprio nell’art. 11 Cost. l’elemento più importante su cui basare la propria teoria del carattere necessariamente «elastico» della nuova Costituzione». (16) Cfr., ad es. e per tutti, C. Mortati, Istituzioni, cit., 1501 ss. (17) V. C. Eisenmann, Le projet de Traité sur la Communauté européenne de défense et la Consitution française, in Écrits de théoire du droit, de droit constitutionnel et d’idées politiques, textes réunis par Charles Leben, Paris, 2002, 496. (18) E. Betti, Possibilità e limiti di un diritto di convivenza europea, in Foro it., 1953, IV, 177 ss.; R. Quadri, Convegno di studi sulla politica sociale della Comunità economica europea (1959), in Id., Scritti giuridici, III, Milano, 1988, 17 s., opportunamente richiamati da G. Itzcovich, Teorie e ideologie del diritto comunitario, Torino, 2006, rispettivamente 269 ss. e 352 ss. (19) A tale cessione corrisponde perfettamente l’orientamento giurisprudenziale della Corte di Giustizia, risalente nel tempo e sostanzialmente assertivo della originarietà dell’ordine giuridico comunitario – di contro, tra l’altro, all’art. 222 del Trattato di Roma (ora


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ropee, senza diritto di recesso unilaterale (20), con conseguente sostituzione di plessi organizzativi costituzionali, profonda alterazione delle forme (e dei limiti) di esercizio della sovranità popolare di cui all’art. 1 Cost. e detrimento, in primo luogo, delle situazioni giuridiche soggettive di carattere politico delle quali sono titolari i cittadini italiani, così violando anche i limiti di cui all’art. 139 Cost., la cui rilevanza è stata paradossalmente obliterata dal rango ordinario della legge di autorizzazione alla ratifica del Trattato di Roma e, poi, degli altri accordi che a questo sono succeduti (21). Il richiamo alle forme di cui all’art. 138 Cost., non presuppone, dunque, una concezione illimitata della sovranità nazionale: risponde, viceversa, alla elementare esigenza logico-giuridica di preservazione della identità strutturale e funzionale dell’ordinamento, che, ai sensi della vigente Costituzione, non può essere rimessa alle scelte di una qualsiasi maggioranza parlamentare (che allora godrebbe, essa sì, di una “sovranità” illimitata), senza con ciò sconfinare nella eversione del disegno costituente e, quindi, della volontà popolare alla quale esso corrisponde. È d’altra parte significativo tra gli argomenti addotti, già molti anni or sono, per definire la questione delle procedure di ratifica dei trattati comunitari, si annoveri il richiamo alla “forza normativa del fatto”, sub specie di vera e propria consuetudine costituzionale o di consuetudine interpreta-

art. 325 TFUE), che sottrae alle istituzioni europee il regime giuridico delle appropriazioni - secondo cui “Il richiamo a norme o nozioni di diritto nazionale nel valutare la legittimità di atti emananti dalle istituzioni della Comunità menomerebbe l’unità e l’efficacia del diritto comunitario. La validità di detti atti può essere stabilita unicamente alla luce del diritto comunitario. Il diritto nato dal trattato, che ha una fonte autonoma, per sua natura non può infatti trovare un limite in qualsivoglia norma di diritto nazionale senza perdere il proprio carattere comunitario e senza che sia posto in discussione il fondamento giuridico della stessa Comunità. Di conseguenza, il fatto che siano menomati vuoi i diritti fondamentali sanciti dalla costituzione di uno Stato membro, vuoi i principi di una costituzione nazionale, non può sminuire la validità di un atto della Comunità né la sua efficacia nel territorio dello stesso Stato” (Corte di Giustizia CEE, sent. 17 dicembre 1970, in causa 11-70, Internationale Handelsgesellschaft). (20) Cfr. F. Sorrentino, Corte costituzionale, cit., 106. (21) ...nonostante debba ritenersi persino ovvio che se «la stessa Costituzione stabilisce limiti alla propria rivedibilità, quei medesimi limiti devono valere nei confronti della c.d. “apertura internazionalista” della Repubblica»: così M. Luciani, Il brusco risveglio, cit., 7, il quale richiama adesivamente, quanto al profilo qui considerato, Corte cost., sent. n. 328/2014 (che può leggersi in Giur. cost., 2014, 3853 ss., con note di B. Conforti, C. Pinelli, M. Branca, R. Caponi e F. Rimoli).


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tiva (22): col che resta vanificato il principio della rigidità costituzionale, giustamente fatto consistere in primo luogo nella scrittura della costituzione (23), il cui primo ed essenziale riflesso sta nel divieto di disporre delle norme costituzionali in forme diverse da quelle stabilite nella stessa legge fondamentale. Nello stesso tempo, la mutazione indotta nell’art. 11 Cost., di contro al suo stesso dettato, per farne una “norma sulla produzione” (24), in ciò simile all’art. 24 del Grundgesetz tedesco – ove però è ben individuata la legge ordinaria in funzione di strumento per il trasferimento di diritti sovrani ad istituzioni internazionali – appare come il frutto della volontà di offrire ex post una giustificazione razionale ad una forzatura del sistema costituzionale. Ciò risulta particolarmente evidente ove si consideri che, nei primi anni successivi all’entrata in vigore della Costituzione, molti insigni giuristi dubitarono della capacità precettiva e della stessa giuridicità delle proposizioni contenute nell’art. 11 Cost. (25) e che la stessa disposizione, assolutamente immutata, divenne, su impulso della giurisprudenza della Corte costituzionale (26), tanto precisa e determinata da permettere, come si è visto, la cessione di quote di sovranità in favore di una “entità” non statuale e, soprattutto, non organizzata secondo i principi democratici di cui all’art. 1 Cost. Questo atteggiamento un po’ corrivo verso l’art. 11 Cost. quale strumento di compartecipazione alla costruzione dell’ordinamento europeo poteva forse trovare una ragione di “politica costituzionale” nel perseguimento dell’obiettivo di assecondare il compimento della integrazione comunitaria in forma statuale. Ma nella situazione attuale (27), in cui sembra ormai se non fallito, certamente rinviato indeterminatamente il progetto di unificazione in forma fe-

(22) V., anche per riferimenti, F. Sorrentino, op. cit., 94 s. (23) Il riferimento, ovviamente, è allo studio di A. Pace, La causa della rigidità costituzionale, Padova, 1995. (24) V. G. Itzcovich, op. cit., 195. (25) V. G. Itzcovich, op. cit., 188 ss. e ivi dettagliatissimi riferimenti. (26) A far data, com’è ben noto, dalla sentenza n. 14/1964 (in Giur. cost., 1964, 129 ss., con note di M. Bon Valsassina e L. Paladin). (27) Osserva giustamente M. Luciani, Il brusco risveglio, cit., 6, che «Solo il più inguaribile degli euro-ottimisti potrebbe non avvedersi che siamo di fronte ad una costruzione sbilenca».


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deralista (28), quella precaria, strumentale giustificazione perde consistenza e perfino senso. Viene meno, in altri termini, la presupposizione che avrebbe dato luogo alla consuetudine interpretativa alla quale sopra si è fatto cenno, o, secondo altro punto prospettico, a quella convenzione costituzionale, con effetti disapplicativi dell’art. 138 Cost., instaurata dal convergere delle condotte, commissive ed omissive, degli organi di indirizzo politico e della Corte costituzionale. Quando tale obiettivo dovesse ripresentarsi con carattere di attualità e ci si trovasse di fronte, una volta che ne fossero maturati effettivamente i presupposti, alla condivisa necessità di creare uno Stato federale o una federazione di Stati, non basterà il solo ricorso all’art. 138 Cost. – che serve solo allo scopo di rivedere la Costituzione, quando essa permanga come tavola fondativa di uno Stato indipendente – ma dovranno farsi i conti con l’art. 139 Cost., che dalle procedure revisionali esclude la forma repubblicana e a maggior ragione la persistenza stessa dello Stato. L’art. 138 Cost., infatti, copre e legittima – ciò che finora non è stato – le limitazioni di sovranità finalizzate al completamento del processo integrativo delle comunità statali europee in uno Stato unitario, purché democraticamente strutturato secondo i principi irrinunciabili dell’art. 1 Cost. (le forme ed i limiti di esercizio della sovranità popolare a livello nazionale devono cioè trovare corrispondenza nella più larga scala dell’ordine giuridico eurounitario). Ma non consente lo scioglimento o la liquidazione dello Stato né la sua fusione per incorporazione in un soggetto preesistente o per confluenza in altro soggetto costituendo, ostandovi l’art. 139 Cost. e prima ancora lo stesso principio di identità, di indipendenza nazionale e di continuità dello Stato. A questo fine, sarebbe necessario, come si accennava, l’instaurazione di un processo costituente, come del resto venne intuito nel 1989, quando, proprio a fronte della accelerazione quantitativa e qualitativa degli elementi di integrazione comunitaria, che sembrano prossimi a sfociare in una unificazione politica strutturata in forme statuali, si fece luogo, in Italia, ad un

(28) V., per un ampio quadro ricostruttivo e critico, S. Mangiameli, Il sistema europeo: dal diritto internazionale al diritto costituzionale e ritorno?, in Dir. soc., 2016, 59 ss.; Id., Sovranità costituzionale degli Stati membri e vincoli europei. Il difficile percorso per l’integrazione politica, in Governance europea tra Lisbona e Fiscal Compact. Gli effetti dell’integrazione economica e politica europea sull’ordinamento nazionale, a cura di A. Iacoviello, Milano, 2016, 321 ss.


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referendum extra ordinem, da taluno definito, in sede di approvazione della legge costituzionale di indizione, quale consultazione istituzionale analoga a quella del 1946: il quesito referendario chiamava infatti gli Italiani a pronunciarsi sul conferimento di un mandato costituente al Parlamento europeo (29).

Mario Esposito

(29) Non pare condivisibile la caustica definizione del referendum del 1989 come «risibile», utilizzata invece da G. Itzcovich, op. cit., 198, nt. 110: ancorché criticabile quanto al merito tecnico del quesito, si trattava, infatti, di un tentativo di ricondurre le scelte fondamentali già compiute in sede comunitaria, dal 1957 sino al 1986, anno, com’è ben noto, dell’Atto Unico, e quelle che si era in procinto di fare (il Trattato di Maastricht sarebbe stato stipulato e ratificato pochissimi anni dopo), nell’alveo del principio di sovranità popolare, sulla scorta dell’autorevolissima tesi di Carlo Esposito (Commento all’art. 1, in La Costituzione italiana. Saggi, Padova, 1954, 7), secondo cui, in considerazione del principio democratico di cui all’art. 1 Cost., l’art. 139 Cost. «non dovrebbe significare che non possa essere modificata la forma repubblicana di governo, ma che, instaurata con un referendum, possa esserlo solo con referendum eccezionale disposto con una legge speciale»: ciò che si tentò di fare, essendosi di fronte a mutamenti alterativi della forma istituzionale e, quindi, contrastanti con il limite di cui all’art. 139 Cost., indicendo il suddetto referendum con un legge costituzionale speciale, quasi provvedimentale, come pure fu criticamente prospettato in sede di dibattito parlamentare.



Corte Cass., sez. trib., 4 novembre 2016 - 12 settembre 2016, n. 22429; Pres. Tirelli; Rel. Tricomi Imposta sul valore aggiunto – Rapporti di coassicurazione – Operazioni di assicurazione – Natura giuridica delle prestazioni – Prestazioni unitarie, indipendenti o accessorie - Art. 10, comma 1, n. 2 e art. 12 del DPR n. 633/1972 – Regime di esenzione – Inquadramento delle fattispecie Il regime di esenzione previsto dall’art. 10, comma 1, n. 2 del D.P.R. n. 633 del 1972, per le “operazioni di assicurazione”, da interpretare restrittivamente in quanto derogatorio al regime ordinario di imponibilità, si estende alla pluralità di prestazioni idonee ad integrare il servizio assicurativo sotto il profilo economico, per cui occorre individuare gli elementi caratteristici dell’operazione di cui trattasi per stabilire, se il soggetto passivo fornisca all’assicurato, considerato come consumatore medio, attraverso la pluralità di attività poste in essere, più prestazioni principali distinte o un’unica prestazione, sempre che il prestatore di servizi si sia impegnato esso stesso nei confronti dell’assicurato, a garantire a quest’ultimo la copertura di un rischio e sia vincolato all’assicurato da un rapporto contrattuale. Spetta al giudice della controversia accertare, alla luce di tali elementi, se l’operazione controversa debba considerarsi, ai fini Iva, unitariamente come “operazione di assicurazione” ovvero come costituita da prestazioni indipendenti, ovvero se ricorrano prestazioni accessorie. Tale principio trova applicazione quando il contratto assicurativo sia stato concluso in coassicurazione con più soggetti obbligati pro-quota, alla copertura del rischio dell’assicurato e uno dei coassicuratori sia stato delegato dagli altri alla gestione ed all’esecuzione del rapporto assicurativo.

(Omissis) Svolgimento del processo. 1. Con la sentenza n. 11/01/2010, depositata il 22.02.2010 e non notificata, la CTR della Liguria, confermava la sentenza di primo grado che aveva accolto il ricorso proposto dalla società UMS Immobiliare Genova SPA (di seguito UMS), operante nel settore assicurativo del ramo danni, in parte gestiti in coassicurazione attraverso il frazionamento del rischio tra più imprese assicuratrici (art. 1191 c.c.), avverso l’avviso di accertamento n. (omissis) per IVA relativa all’anno di imposta 2003. 2. L’accertamento aveva riguardato proprio i rapporti in coassicurazione. La società contribuente, coassicuratrice, con la cd. “clausola di delega” era stata autorizzata


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a effettuare attività nell’interesse comune delle altre società coassicuratrici, attività consistenti, tra l’altro, nella stipula del contratto, nella riscossione del premio e nella determinazione ed eventuale liquidazione del danno, in ragione delle quali venivano riaddebitati pro quota alle altre coassicuratrici, sia i costi sostenuti dalla delegataria, relativi alle attività propedeutiche al rapporto di assicurazione, sia quelli per la gestione interna del contratto, in dipendenza del mandato ricevuto. Nel caso di specie la società contribuente aveva sostenuto spese esterne (spese per professionisti, periti, legali, liquidatori, etc.), spese interne (costi del personale, ammortamenti, spese telefoniche, postali, cancelleria, etc.) e la quota parte dell’indennizzo spettante all’assicurato ed aveva riaddebitato pro quota alle coassicuratrici le spese esterne e le spese interne. L’Ufficio aveva contestato la mancata applicazione dell’IVA sugli addebiti, sia delle “spese esterne”, sia delle “spese interne”, affermando che questi costi – quantificati nei cd. “diritti di liquidazione” – venivano conseguiti dalla delegataria a titolo di compenso per la autonoma attività svolta nell’interesse delle altre coassicuratrici e, quindi, dovevano essere assoggettate ad IVA. Tale contestazione era fondata anche sulla considerazione che il rapporto tra le assicuratrici era costituito da un “mandato senza rappresentanza”. Con il conseguente avviso di accertamento erano stati, pertanto, accertati maggiori ricavi ed una maggiore IVA sulla scorta delle seguenti contestazioni: omessa fatturazione di corrispettivi relativi a “spese esterne” per Euro 3.200.177,29; omessa fatturazione di corrispettivi relativi a “diritti di liquidazione” per Euro 521.851,03. 3. Nel respingere l’appello, la CTR affermava che, contrariamente a quanto sostenuto dall’Ufficio, il rapporto tra l’impresa delegataria e l’impresa coassicuratrice si configurava come un “mandato con rappresentanza”, sia per effetto dell’indicazione del nome delle altre imprese coassicuratrici nel contratto di coassicurazione, che prevedeva la ripartizione del rischio e teneva luogo della spendita del nome, sia perché l’attività svolta dalla delegataria per conto altrui si configurava come rappresentanza diretta; evidenziava quindi che i corrispettivi percepiti per le prestazioni rese in qualità di delegataria non dovevano essere assoggettate ad IVA, in quanto esenti ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 10, comma 1, n. 2), relativo al complesso delle operazioni di assicurazione, ed osservava che una differente opzione avrebbe comportato una illegittima doppia imposizione; sosteneva che si ravvisava nelle attività svolte un unicum con il contratto di assicurazione, quali prestazioni accessorie dello stesso, agendo la delegataria in virtù di un mandato con rappresentanza, e non già come una prestazione resa da mandatario senza rappresentanza e rientrante – secondo la prospettazione dell’Ufficio – nel campo di applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 3, comma 3, ultima parte. 4. La Agenzia delle entrate ricorre su due motivi, ai quali replica la contribuente con controricorso, corredato da memoria ex art. 378 c.p.c. Considerato in diritto. 1.1. È necessario premettere che i fatti di causa, come riconosciuto dalle parti, sono pacifici. Le posizioni divergono in diritto.


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1.2. I fatti. La società assicuratrice UMS ha sostenuto spese “esterne” per l’acquisizione di consulenze tecniche, assistenza legale ed altri servizi professionali connessi alla liquidazione dei sinistri dalla stessa assicurati in regime di coassicurazione con altre compagnie; le prestazioni sono state fatturate dai professionisti incaricati, con addebito dell’IVA, al nome della sola UMS, che ha ribaltato i costi sulle altre compagnie assicuratrici in proporzione alla percentuale del rischio complessivo da ciascuna di esse assunta a proprio carico. La UMS inoltre ha utilizzato le proprie strutture interne di personale e mezzi per gestire le polizze in coassicurazione ed i relativi sinistri: in particolare per acquisire l’assicurato, per riscuotere premi, per corrispondere l’indennizzo (v. ricorso fol. 31), e ciò ha fatto sostenendo spese non solo nel proprio interesse, ma anche delle coassicuratrici, sempre basandosi sulla clausola di delega del contratto di coassicurazione. L’adibizione delle proprie strutture alla gestione del contratto nell’interesse anche delle coassicuratrici, è stato addebitato dalla UMS a queste, in occasione della liquidazione di ciascun sinistro, nella forma dei cd. diritti di liquidazione, vale a dire degli importi calcolati in percentuale dell’indennizzo complessivo, conformemente ad apposite tabelle pubblicate dall’associazione di categoria ANIA. 1.3. Le posizioni delle parti sul piano del diritto. Secondo l’Ufficio le prestazioni di esecuzione della clausola di delega, tanto “esterne”, quanto “interne”, sono da considerare come prestazioni di un mandatario senza rappresentanza, che ha agito in nome proprio, ma per conto anche delle altre coassicuratrici nel gestire il contratto e la liquidazione dei sinistri; ne consegue che il compenso corrisposto dalle coassicuratrici per queste prestazioni (cd. riaddebito) va assoggettato ad IVA, ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 3, comma 3. Secondo la società queste prestazioni si inseriscono a pieno titolo nell’esecuzione del contratto principale di assicurazione, dal quale non sono oggettivamente scindibili, ed i relativi compensi rientrano nell’esenzione delle operazioni di assicurazione prevista dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 10, comma 1, n. 2. 2.1. Con il primo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 1911 c.c. e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 3, commi 1 e 3, art. 10, comma 1, n. 2, art. 12, art. 15, comma 1, n. 3, art. 19, comma 5, art. 36 bis (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3). 2.2. La doglianza è rivolta avverso i seguenti quattro punti della sentenza impugnata, sostanzialmente trattati dalla ricorrente come autonome rationes decidendi: a) la società contribuente ha agito, in virtù della clausola di delega, in regime di mandato con rappresentanza; b) le prestazioni rese dalla delegata rientrano nel novero delle “operazioni di assicurazione” esentate D.P.R. n. 633 del 1972, ex art. 10, comma 1, n. 2; c) il ribaltamento dei costi sulle deleganti pro quota, qualora venisse assoggettato ad IVA, comporterebbe una illegittima doppia imposizione; d) le operazioni svolte in qualità di delegata sono accessorie D.P.R. n. 633 del 1972, ex art. 12 rispetto alle operazioni principali di assicurazione e, quindi, anch’esse esenti. 2.3.1. Quanto alla affermazione contenuta in sentenza secondo la quale la coassicuratrice che agisce in virtù della clausola di delega, opera sempre in regime di man-


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dato con rappresentanza delle imprese delegatarie (a), la Agenzia ritiene che consegua ad una falsa applicazione dell’art. 1191 c.c. e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 15, comma 1, n. 3. La Agenzia sostiene che la clausola di delega comporta la rappresentanza in nome e per conto degli altri assicuratori solo nei confronti dell’assicurato e che la CTR ha applicato falsamente le norme laddove ha ritenuto che l’inserimento della clausola di delega comportasse necessariamente che l’impresa delegata avesse operato come mandatario con rappresentanza in tutte le distinte relazioni negoziali che si radunano sotto il nome della coassicurazione e, quindi, non solo nelle relazioni con l’assicurato, ma anche nelle varie attività strumentali alla determinazione dell’indennizzo, come quelle volte ad ottenere da terzi professionisti servizi di tipo tecnico o per le prestazioni che avevano dato luogo alle spese interne compensate con i “diritti di liquidazione”. 2.3.2. Di seguito la Agenzia denuncia la violazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 10, comma 1, n. 2, nella parte in cui esenta da IVA “le operazioni di assicurazione”, sostenendo che la CTR ha errato nel ritenere che vi sarebbe unicità tra le attività negoziali e materiali generatrici delle spese, tanto interne che esterne, e l’oggetto tipico del contratto di assicurazione (b), da individuare, invece nel solo servizio di copertura del rischio fornito dall’impresa all’assicurato. A parere della ricorrente, trattandosi di norma di stretta interpretazione, nella nozione di “operazioni di assicurazione” si debbono includere soltanto le prestazioni tipiche del contratto di assicurazione, vale a direi il servizio di copertura dei rischi fornito all’assicurato, mentre le prestazioni in questione vanno considerate estranee a quest’ambito ben circoscritto, attenendo a prestazioni tecniche ed amministrative collaterali alla liquidazione dell’indennizzo. 2.3.3. Quanto al rischio di incorrere in una doppia imposizione (c), in ragione della possibile difficoltà a portare in detrazione l’IVA, l’Agenzia fa osservare che tale eventualità sarebbe da ascrivere ad una scelta operativa della contribuente e che le difficoltà ad operare la detrazione non possono assurgere a causa di non imponibilità, in violazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 36 bis e art. 19, comma 5. 2.3.4. In merito al quarto punto (d) la Agenzia sostiene che le operazioni come quelle in esame non possono essere considerate accessorie alle operazioni di assicurazione, poiché – a suo dire – “le prestazioni in questione, tanto “esterne” quanto “interne” non costituivano un mezzo perseguito dall’assicurato per fruire nelle migliori condizioni del servizio principale offerto dal prestatore (...) al contrario rilevavano esclusivamente nei rapporti tra l’assicuratore delegato e gli altri coassicuratori, mentre erano del tutto indifferenti, e forse anche ignorate, dall’assicurato” (fol. 43 del ricorso). L’Agenzia prospetta la autonomia del rapporto di prestazione di servizi in esame e la imponibilità dello stesso ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 3, commi 1 e art. 3. 3.1. Con il secondo motivo si denuncia la omessa o insufficiente motivazione su punti di fatto decisivi per il giudizio (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) per la parte in cui la sentenza ha stabilito che le prestazioni rese dalla UMS costituivano un unicum rispetto alle prestazioni principali di assicurazione, senza considerare come invece


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rimarcato dall’Ufficio – che la spendita del nome delle coassicuratrici avveniva solo nei confronti degli assicurati, ai fini della stipula del contratto, mentre non risultava alcuna spendita del nome delle coassicuratrici nei confronti dei terzi incaricati delle prestazioni esterne, né nella fatturazione delle loro prestazioni fatta a nome della sola UMS. 4.1. Le principali norme richiamate sono le seguenti: L’art. 1911 c.c. detta “Qualora la medesima assicurazione o l’assicurazione di rischi relativi alle stesse cose sia ripartita tra più assicuratori per quote determinate, ciascun assicuratore è tenuto al pagamento dell’indennità assicurata soltanto in proporzione della rispettiva quota, anche se unico è il contratto sottoscritto da tutti gli assicuratori”. Il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 3, commi 1 e 3, stabilisce “1. Costituiscono prestazioni di servizi le prestazioni verso corrispettivo dipendenti da contratti d’opera, appalto, trasporto, mandato, spedizione, agenzia, mediazione, deposito e in genere da obbligazioni di fare, di non fare e di permettere quale ne sia la fonte. (...) 3. (...) Le prestazioni di servizi rese o ricevute dai mandatari senza rappresentanza sono considerate prestazioni di servizi anche nei rapporti tra il mandante e il mandatario.”. Il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 10, comma 1, n. 2, stabilisce “Sono esenti dall’imposta: (...) 2) le operazioni di assicurazione, di riassicurazione e di vitalizio; (...) 9) le prestazioni di mandato, mediazione e intermediazione relative alle operazioni di cui ai numeri da 1) a 7), nonché quelle relative all’oro e alle valute estere, compresi i depositi anche in conto corrente, effettuate in relazione ad operazioni poste in essere dalla Banca d’Italia e dall’Ufficio italiano dei cambi, ai sensi dell’articolo 4, quinto comma, del presente decreto;”. Il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 12 prevede “Il trasporto, la posa in opera, l’imballaggio, il confezionamento, la fornitura di recipienti o contenitori e le altre cessioni o prestazioni accessorie ad una cessione di beni o ad una prestazione di servizi, effettuati direttamente dal cedente o prestatore ovvero per suo conto e a sue spese, non sono soggetti autonomamente all’imposta nei rapporti fra le parti dell’operazione principale. 2. Se la cessione o prestazione principale è soggetta all’imposta, i corrispettivi delle cessioni o prestazioni accessorie imponibili concorrono a formarne la base imponibile.”. Il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 15, comma 1, n. 3, prevede “Non concorrono a formare la base imponibile: (...) 3) le somme dovute a titolo di rimborso delle anticipazioni fatte in nome e per conto della controparte, purché regolarmente documentate;”. Il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19, comma 5, prevede “5. Ai contribuenti che esercitano sia attività che danno luogo ad operazioni che conferiscono il diritto alla detrazione sia attività che danno luogo ad operazioni esenti ai sensi dell’art. 10, il diritto alla detrazione dell’imposta spetta in misura proporzionale alla prima categoria di operazioni e il relativo ammontare è determinato applicando la percentuale di detrazione di cui all’art. 19-bis. Nel corso dell’anno la detrazione provvisoriamente operata con l’applicazione della percentuale di detrazione dell’anno precedente, salvo conguaglio alla fine dell’anno. I soggetti che iniziano l’attività operano la detrazione in base ad una percentuale di detrazione determinata presuntivamente, salvo conguaglio alla fine dell’anno.”. Il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 36 bis prevede “Il contribuente che ne


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abbia data preventiva comunicazione all’ufficio è dispensato dagli obblighi di fatturazione e di registrazione relativamente alle operazioni esenti da imposta ai sensi dell’art. 10, tranne quelle indicate ai numeri 11), 18) e 19) dello stesso articolo, fermi restando l’obbligo di fatturazione e registrazione delle altre operazioni eventualmente effettuate, l’obbligo di registrazione degli acquisti e gli altri obblighi stabiliti dal presente decreto, ivi compreso l’obbligo di rilasciare la fattura quando sia richiesta dal cliente. 2. Nell’ipotesi di cui al precedente comma il contribuente non è ammesso a detrarre dall’imposta eventualmente dovuta quella relativa agli acquisti e alle importazioni e deve presentare la dichiarazione annuale, compilando l’elenco dei fornitori, ancorché non abbia effettuato operazioni imponibili. 3. La comunicazione di avvalersi della dispensa dagli adempimenti relativi alle operazioni esenti deve essere fatta nella dichiarazione annuale relativa all’anno precedente o nella dichiarazione di inizio dell’attività ed ha effetto fino a quando non sia revocata e in ogni caso per almeno un triennio. La revoca deve essere comunicata all’ufficio nella dichiarazione annuale ed ha effetto dall’anno in corso.”. 4.2.1. Tanto premesso, il primo motivo va respinto perché infondato, oltre che inammissibile nei termini di seguito precisati. 4.2.2. La doglianza è inammissibile, quanto al primo, al terzo ed al quarto profilo (v. 2.3.1., 2.3.3. e 2.3.4.), perché non coglie nel segno ed estrapola dei passaggi della sentenza di appello che costituiscono snodi argomentativi privi di autonoma rilevanza motivazionale. 4.2.3. Invero la CTR, nel ricostruire la clausola di delega come un mandato con rappresentanza diretta, volutamente non ha valutato separatamente le singole operazioni messe in atto per l’espletamento della delega, ma si è soffermata sul complesso dell’attività svolta dalla delegataria per conto delle deleganti ed ha ritenuto, in ragione di ciò, che tutte le operazioni relative alla gestione ed all’esecuzione del rapporto assicurativo rientrassero nella nozione di “operazioni di assicurazione”. 4.2.4. Ciò è evidenziato proprio dal successivo passaggio argomentativo – ove è collocata la vera ratio decidendi –: la CTR, infatti, dopo avere qualificato le prestazioni rese in qualità di delegata per la gestione e la esecuzione del rapporto assicurativo come “operazioni di assicurazione”, ha affermato che i compensi percepiti per le stesse non devono essere assoggettati ad IVA in quanto esenti ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 10, comma 1, n. 2. 4.2.5. Tale ricostruzione trova diretta conferma nella circostanza che, contrariamente a quanto sostenuto dall’Agenzia, la sentenza impugnata non invoca a fondamento della decisione il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 15, comma 1, n. 3, ma solo il cit. art. 10, riservando alla questione del mandato con rappresentanza la funzione di argomento a sostegno, privo di autonoma rilevanza, così come ne è privo l’argomento ad adiuvandum relativo al rischio di pervenire ad una ingiusta doppia tassazione, inferente la possibile violazione del principio di neutralità fiscale, censurato con il terzo profilo (v.2.3.3.). 4.2.6. Anche il quarto profilo della doglianza confonde con una autonoma ratio un ulteriore argomento svolto dalla CTR a conforto di quanto statuito nel passaggio


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motivazionale centrale, secondo il quale le prestazioni rese in qualità di delegata per la gestione e l’esecuzione del rapporto assicurativo sono “operazioni di assicurazione” e sono, perciò, esenti. 4.2.7. Invero, la CTR, lungi da ricorrere all’applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 12, che disciplina la applicazione dell’IVA alle prestazioni accessorie, come sostenuto nella censura dalla ricorrente, valorizza – questa volta sul piano civilistico ed a valenza interpretativa – il rapporto di accessorietà tra le prestazioni di cui si tratta ed il “contratto di assicurazione”, ribadendo però nuovamente che tutte le prestazioni sul piano fiscale costituiscono un unicum identificato nella più ampia nozione di “operazione di assicurazione”, alla stregua di un criterio interpretativo che, come meglio di seguito illustrato, appare conforme al dettato della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (v. sub 4.4.1. e ss). 4.3. Dichiarata l’inammissibilità della censura svolta nei profili primo, terzo e quarto, è necessario procedere all’esame del secondo profilo, che risulta infondato. In materia sono dirimenti le pronunce della CGUE culminate nelle statuizioni della recente sentenza emessa in data 17.03.2016 nella causa C-40/15 (Aspiro SA). 4.4.1. Innanzi tutto si deve ricordare che – come chiarito dalla CGUE anche nella sentenza citata dalla ricorrente, emessa in data 25.02.1999, C-349/96 (Card Protection Plan Ltd) – le esenzioni previste dall’art. 13 della Sesta direttiva costituiscono nozioni autonome del diritto comunitario, che mirano ad evitare divergenze nell’applicazione da uno Stato membro all’altro del sistema dell’IVA (punto 15) e pertanto vanno ricostruite alla luce del sistema comunitario: ne discende che la disciplina civilistica ex art. 1911 c.c. in tema di coassicurazione, invocata dalla ricorrente col primo profilo di doglianza (2.2.1.), non può prevalere o condizionare la nozione comunitaria di “operazioni di assicurazione” ai fini fiscali. 4.4.2. Va altresì rammentato che, sul fronte della pluralità delle attività e delle spese esterne ed interne svolte dalla delegata, sempre la citata sentenza C349/96 (punti 29 e ss.), indica i giusti criteri per decidere, ai fini dell’IVA, se un’operazione. composta da più elementi debba essere considerata come una prestazione unica o come due o più prestazioni autonome, che devono essere valutate separatamente e, quindi, in questa seconda ipotesi, se tra le stesse ricorra un rapporto di accessorietà o meno. 4.4.3. Invero la questione relativa alla portata di un’operazione riveste una particolare importanza, sotto il profilo dell’IVA, tanto per individuare il luogo delle prestazioni di servizi, quanto per l’applicazione dell’aliquota d’imposta o, come nella fattispecie, delle disposizioni relative all’esenzione contenute nella sesta direttiva e del DPR IVA. 4.4.4. La CGUE, sul punto, ha rimarcato la duplice circostanza che, da un lato, dall’art. 2, n. 1, della sesta direttiva, discende che ciascuna prestazione di servizio dev’essere considerata di regola come autonoma e indipendente e che, dall’altro, la prestazione costituita da un unico servizio sotto il profilo economico non dev’essere artificialmente divisa in più parti per non alterare la funzionalità del sistema dell’IVA, per cui occorre individuare gli elementi caratteristici dell’operazione di cui trattasi


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per stabilire, in concreto, se il soggetto passivo fornisca al consumatore, considerato come consumatore medio, più prestazioni principali distinte o un’unica prestazione. Sul piano interpretativo ha, quindi, sottolineato che si configura una prestazione unica, in particolare, nel caso in cui uno o più elementi confluiscono nella prestazione principale, mentre una prestazione dev’essere considerata accessoria ad una prestazione principale quando essa non costituisce per la clientela un fine a sé stante, bensì il mezzo per fruire nelle migliori condizioni del servizio principale offerto dal prestatore, di guisa che anche la fatturazione di un unico prezzo non potrebbe escludere la autonomia delle prestazioni (punto 30). Ed ha concluso che spetta al giudice della controversia accertare, alla luce di questi elementi d’interpretazione, se l’operazione controversa debba essere considerata ai fini dell’IVA, come un’unica prestazione, ovvero come costituita da prestazioni indipendenti, vale a dire una prestazione assicurativa esente da imposta e una prestazione imponibile che integra un diverso servizio sotto il profilo economico, o se una di dette due prestazioni sia la prestazione principale della quale l’altra è accessoria, di modo che a questa si applica la stessa disciplina tributaria della prestazione principale. 4.4.5. Questi principi sono stati di recente confermati dalla CGUE nella sentenza emessa in data 16.04.2015 nella causa C-42/14 (Wojskowa Agencja Mieszkaniowa w Warszawie) (punti 31 e 32), anche se in campo non assicurativo, ove è ribadito, che per giurisprudenza costante della Corte, in taluni casi, più prestazioni formalmente distinte, che potrebbero essere fornite separatamente e dar così luogo, separatamente, a imposizione o a esenzione, devono essere considerate come un’unica operazione quando non sono indipendenti: “Si tratta di un’operazione unica, in particolare, quando due o più elementi o atti forniti dal soggetto passivo sono strettamente connessi a tal punto da formare, oggettivamente, una sola prestazione economica indissociabile, la cui scomposizione avrebbe carattere artificioso. Ciò accade anche nel caso in cui una o più prestazioni costituiscano una prestazione principale, mentre la o le altre prestazioni costituiscono una o più prestazioni accessorie cui si applica la stessa disciplina tributaria della prestazione principale. In particolare, una prestazione dev’essere considerata accessoria e non principale quando non costituisce per la clientela un fine a sé stante, bensì il mezzo per fruire al meglio del servizio principale offerto dal prestatore”. È stato quindi rimarcato che, al fine di stabilire se le prestazioni fornite costituiscano più prestazioni indipendenti o una prestazione unica, occorre individuare gli elementi caratteristici dell’operazione di cui trattasi. 4.4.6. Orbene, la CTR nel pervenire alle sue conclusioni, ha sostanzialmente seguito i criteri interpretativi indicati dalla CGUE – salvo a verificarne la sufficienza motivazionale alla luce della seconda censura volti a considerare non solo il contenuto delle singole prestazioni, ma la loro idoneità ad integrare un unico servizio sotto il profilo economico, ed ha ricondotto nell’ambito delle “operazioni di assicurazione” tutte le prestazioni ed attività considerandole relative alla gestione ed all’esecuzione del rapporto assicurativo, anche se poste in essere con terzi ed in nome proprio, e le


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ha riconnesse all’esercizio della clausola di delega, qualificandole sul piano fiscale come un unicum. 4.5.1. La decisione impugnata risulta immune da vizi sul piano del diritto anche alla luce della più recente sentenza della CGEU, emessa in data 17.03.2016 nella causa C-40/15 (Aspiro SA), in tema di “ esenzione in materia di assicurazioni, nozioni di operazioni di “assicurazione” e di “prestazioni di servizi relative a dette operazioni, effettuate dai mediatori e dagli intermediari di assicurazione” – servizi di liquidazione dei sinistri forniti in nome e per conto di un assicuratore”, che ha ribadito alcuni principi già affermati, principalmente nel solco della sentenza emessa in data 03.03.2005 nella causa C-472/03 (Arthur Andersen), e che ha illustrato con maggiore dovizia gli elementi in concreto necessari a qualificare delle prestazioni come “operazioni di assicurazione” ovvero come “prestazioni accessorie di operazioni di assicurazione”, elementi che appaiono di rilievo per la soluzione della controversia in esame. 4.5.2. Il caso esaminato dalla CGUE, significativamente diverso da quello oggetto del presente giudizio, ha visto coinvolta la società Aspiro che, senza essere impresa assicuratrice, né mediatore né intermediario di assicurazione, e senza essere responsabile nei confronti degli assicurati, effettuava l’insieme dei servizi relativi alla liquidazione dei sinistri in nome e per conto di un’impresa assicuratrice (sulla base di un mandato con rappresentanza) e riceveva un corrispettivo forfettario, in funzione dello specifico tipo di sinistro. La Corte unionale, chiamata a stabilire se tale attività ricadesse nell’esenzione prevista dall’art. 135, par. 1, lett. a) della direttiva Iva per le “operazioni di assicurazione e di riassicurazione, comprese le prestazioni di servizi relative a dette operazioni, effettuate dai mediatori e dagli intermediari di assicurazione” è pervenuta alla conclusione che detta norma deve essere interpretata “nel senso che servizi di liquidazione di sinistri, come quelli di cui al procedimento principale, forniti da un terzo in nome e per conto di un’impresa di assicurazione, non rientrano nell’esenzione prevista da tale disposizione”. 4.5.3. La disposizione esaminata trova corrispondenza nel diritto interno al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 10, comma 1, n. 2, che stabilisce “Sono esenti dall’imposta: (...) 2) le operazioni di assicurazione, di riassicurazione e di vitalizio; (...) 9) le prestazioni di mandato, mediazione e intermediazione relative alle operazioni di cui ai numeri da 1) a 7), (...)”. 4.5.4. Nello sviluppare il suo articolato percorso logico giuridico, la CGUE innanzi tutto ha riaffermato che le esenzioni dall’IVA vanno interpretate restrittivamente poiché derogano al principio generale secondo il quale l’IVA è riscossa per ogni prestazione di servizi effettuata a titolo oneroso da un soggetto passivo (v. sentenza BG2 Leasing, C-224/11, EU:C:2013:15, punto 56) (punto 20, 26). 4.5.5. È passata quindi a meglio definire le nozioni di “operazioni di assicurazione” e di “prestazioni di servizi relative a dette operazioni, effettuate dai mediatori e dagli intermediari di assicurazione”, che costituiscono il perimetro entro il quale trova applicazione l’esenzione, nei termini che è opportuno di seguito riepilogare, anche se


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nel caso in esame la questione controversa riguarda esclusivamente la riconducibilità delle attività oggetto di contestazione nelle operazioni di assicurazione: A) “Operazioni di assicurazione”. - le “operazioni di assicurazione” implicano, per loro natura, che esista un rapporto contrattuale tra il prestatore del servizio di assicurazione e il soggetto i cui rischi sono coperti dall’assicurazione, ossia l’assicurato (v. sentenza Taksatorringen, C-8/01, punti 40 e 41). (punti 22/23), anche se il novero può essere esteso anche alla copertura assicurativa fornita da un soggetto passivo che non sia direttamente assicuratore, ma che, nell’ambito di un’assicurazione collettiva, procuri ai suoi clienti siffatta copertura avvalendosi delle prestazioni di un assicuratore che si assume l’onere del rischio assicurato; - la liquidazione dei sinistri benché costituisca una componente essenziale dell’operazione di assicurazione non può configurare un’operazione di assicurazione ai sensi della direttiva IVA, nel caso in cui il prestatore di servizi non si è impegnato esso stesso nei confronti dell’assicurato a garantire a quest’ultimo la copertura di un rischio e non è in alcun modo vincolato all’assicurato da un rapporto contrattuale (punto 24/25); - l’esenzione IVA è riservata solo alle operazioni assicurative propriamente dette, senza che possa essere invocata una analogia con la disciplina in tema di servizi finanziari (punto 29, 30); - il principio di neutralità fiscale non consente di ampliare l’ambito di applicazione di un’esenzione in assenza di una disposizione non inequivoca, poiché non è una regola di diritto primario che può incidere sulla validità di un’esenzione, ma un principio di interpretazione che deve essere applicato unitamente al principio di interpretazione restrittiva delle esenzioni (v., in tal senso, sentenza Deutsche Bank, C-44/11, EU:C:2012:484, punto 45) (punto 31). B) “Prestazioni di servizi relative a dette operazioni, effettuate dai mediatori e dagli intermediari di assicurazione”. - in proposito la Corte scinde la definizione e osserva che le “prestazioni di servizi relative a operazioni di assicurazione”, costituiscono una nozione sufficientemente ampia da ricomprendere diverse prestazioni che concorrono alla realizzazione di operazioni di assicurazione e, segnatamente, anche la liquidazione di sinistri, la quale costituisce una delle parti essenziali di tali operazioni. - quanto al requisito che le prestazioni in questione debbano essere “effettuate dai mediatori e dagli intermediari di assicurazione”, la CGUE sottolinea la necessità di esaminare in concreto il contenuto dell’attività di cui trattasi, per determinare se la stessa rientri o meno nell’ambito di applicazione dell’esenzione, a prescindere dal possesso o meno della qualifica formale di mediatore o di intermediario di assicurazione (punto 35). - le condizioni in concreto richieste sono due (punto 37): 1) “il prestatore dev’essere in rapporto con l’assicuratore e con l’assicurato (sentenza Taksatorringen, C-8/01,


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punto 44). Tale rapporto può essere unicamente indiretto, se il prestatore è un subappaltatore del mediatore o dell’intermediario”; 2) “la sua attività deve ricomprendere aspetti essenziali della funzione di intermediario di assicurazione, come ricercare i potenziali clienti e metterli in relazione con l’assicuratore”. 4.5.6. Applicando tali principi ed indici rivelatori, la CGUE giunge alla conclusione che un prestatore come l’Aspiro soddisfa la prima di tali condizioni, perché intrattiene rapporti diretti con l’impresa di assicurazione, giacché esercita la propria attività in nome e per conto di quest’ultima, e rapporti indiretti con l’assicurato, nell’ambito dell’esame e della gestione dei sinistri; non soddisfa invece la seconda di dette condizioni, relativa alle prestazioni effettuate dai mediatori e dagli intermediari di assicurazione o dai loro subappaltatori, poiché queste ultime devono essere connesse alla natura stessa del mestiere di mediatore o di intermediario di assicurazione, il quale consiste nella ricerca di clienti e nel mettere questi ultimi in relazione con l’assicuratore, in vista della conclusione di contratti di assicurazione (v., in particolare, le sentenze richiamate al punto 37: Taksatorringen, C-8/01, punto 45; Arthur Andersen, C-472/03, punto 36, e J.C.M. Beheer, C-124/07, punto 18), di guisa che una siffatta attività non rientra tra le prestazioni “effettuate dai mediatori e dagli intermediari di assicurazione”, ai sensi dell’art. 135, paragrafo 1, lett. a), della direttiva IVA, poiché non è in alcun modo connessa al fatto di ricercare potenziali clienti e metterli in relazione con l’assicuratore in vista della conclusione di contratti di assicurazione. 4.5.7. Tale approdo costituisce la coerente evoluzione di quanto già affermato nella sentenza emessa in data 03.03.2005 in causa C-472/03, Arthur Andersen, ove era stato escluso che le attività di back offices, consistenti “nel trattare domande di assicurazione, valutare i rischi da assicurare, valutare la necessità di un accertamento medico, decidere l’accettazione del rischio qualora un siffatto esame non si renda necessario, procedere all’emissione, alla gestione e alla cessazione delle polizze assicurative nonché a modifiche tariffarie e contrattuali, incassare i premi, gestire i sinistri, fissare e pagare le commissioni degli intermediari di assicurazione e assicurare il seguito dei contatti con questi ultimi, trattare aspetti relativi alla riassicurazione e fornire informazioni ai contraenti come pure agli intermediari di assicurazione nonché ad altri soggetti interessati come le autorità tributarie.” (punto 33), svolte dalla società ACMC in base ad un contratto di collaborazione con la società assicuratrice UL, potessero costituire operazioni di assicurazione perché, pur contribuendo al contenuto essenziale delle attività di una impresa di assicurazioni, non costituivano operazioni di assicurazione in quanto la ACMC non intratteneva alcun rapporto contrattuale con gli assicurati, poiché i contratti di assicurazione venivano sottoscritti a nome della UL (punti 33, 34). 4.5.8. In sintesi, quindi, alla luce della giurisprudenza comunitaria richiamata, si deve affermare – sul piano oggettivo – che un’operazione è unica sul piano fiscale quando due o più elementi o atti forniti dal soggetto passivo sono strettamente connessi a tal punto da formare una sola prestazione economica indissociabile la cui


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scomposizione avrebbe carattere artificioso, e ciò anche quando la pluralità degli atti necessari a completare la prestazione possa coinvolgere anche soggetti estranei al rapporto contrattuale; per le “operazioni di assicurazione” è, inoltre, necessario – sul piano soggettivo – che vi sia un rapporto contrattuale tra il prestatore del servizio di assicurazione e il soggetto i cui rischi sono coperti dall’assicurazione, ossia l’assicurato. Invero, in via esemplificativa – sul piano oggettivo – come riconosciuto dalla stessa CGUE, la liquidazione dei sinistri costituisce una componente essenziale dell’operazione di assicurazione, così come le attività di back office contribuiscono al contenuto essenziale delle attività di una impresa di assicurazioni, ma non possono tuttavia configurare un’ “operazione di assicurazione” esente ai sensi della direttiva IVA nel caso in cui – sul piano soggettivo – il prestatore di servizi non si è impegnato esso stesso nei confronti dell’assicurato a garantire a quest’ultimo la copertura di un rischio e non è in alcun modo vincolato all’assicurato da un rapporto contrattuale (C40/15, punto 24/25). 4.5.9. Ne consegue la non decisività delle questioni introdotte in merito alla ricorrenza di prestazioni eseguite in ragione di un mandato con rappresentanza (stipula del contratto assicurativo, etc.) ovvero di prestazioni eseguite senza la spedita del nome (incarichi a terzi professionisti per la attività connesse alla liquidazione di sinistri) in quanto non si riverberano sul tema della unicità della prestazione sul piano economico e funzionale, come elaborato dalla CGUE, e come sostanzialmente applicato dalla Commissione territoriale, né sul quello del rapporto contrattuale con l’assicurato. 4.6.1. Nel caso in esame si deve osservare che – come già chiarito (v. sub 4.2.6. e 4.2.7.) – la fattispecie concreta di cui si discute è stata ricondotta dalla CTR alle “operazioni di assicurazione” e, quindi, la correttezza dell’applicazione normativa dell’esenzione va vagliata alla luce dei pertinenti parametri come ricostruiti dalla CGUE, che possono essere trasfusi nel seguente principio di diritto: “In tema di IVA, il regime di esenzione previsto dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 10, comma 1, n. 2, per le “operazioni di assicurazione”, da interpretare restrittivamente in quanto derogatorio al regime ordinario di imponibilità, si estende – in considerazione di quanto stabilito dalla Corte di giustizia, tra le altre, con le sentenze emesse nelle cause C-349/96, C-472/03 e C-40/15 – alla pluralità di prestazioni idonee ad integrare il servizio assicurativo sotto il profilo economico, per cui occorre individuare gli elementi caratteristici dell’operazione di cui trattasi per stabilire, se il soggetto passivo fornisca all’assicurato, considerato come consumatore medio, attraverso la pluralità di attività poste in essere, più prestazioni principali distinte o un’unica prestazione, sempre che il prestatore di servizi si sia impegnato esso stesso nei confronti dell’assicurato a garantire a quest’ultimo la copertura di un rischio e sia vincolato all’assicurato da un rapporto contrattuale. Spetta al giudice della controversia accertare, alla luce di questi elementi d’interpretazione, se l’operazione controversa debba essere considerata ai


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fini dell’IVA, unitariamente come “operazione di assicurazione”, ovvero come costituita da prestazioni indipendenti, ovvero se ricorrano prestazioni accessorie. Tale principio si applica anche quando il contratto assicurativo sia stato concluso in coassicurazione con una pluralità dei soggetti obbligati pro quota alla copertura del rischio dell’assicurato e uno dei coassicuratori sia stato delegato dagli altri alla gestione ed all’esecuzione del rapporto assicurativo. La regolamentazione dei rapporti interni tra coassicuratori, mediante la cd. clausola di delega, e le concrete modalità di esecuzione dei compiti delegati, con o senza la spendita del nome dei coassicuratori, non ha, infatti, incidenza sulla nozione di “operazione di assicurazione”, così come definita sul piano fiscale dalla normativa comunitaria e dalla elaborazione giurisprudenziale della CGEU, che risulta radicata su due specifici elementi: la idoneità delle diverse prestazioni o attività ad integrare il servizio assicurativo sotto il profilo economico; l’esistenza di un vincolo contrattuale tra il prestatore del servizio e l’assicurato, che ricorre nel rapporto con il coassicuratore.”. 4.6.2. La decisione impugnata, nella quale è stata valorizzata l’unicità della funzione economica che accomuna le diverse attività e la esistenza del rapporto contrattuale tra la coassicuratrice e l’assicurato, appare pertanto immune dai vizi denunciati con il primo motivo sul piano del diritto. 5.1. Il secondo motivo è fondato e va accolto per quanto di ragione, considerata anche la rilevabilità ex officio delle questioni che involgono l’applicazione del diritto UE al fine di evitare possibili contrasti fra diritto interno e diritto sovranazionale (Cass. nn.13065/2006, 16130/2007; Cass. SSUU n. 26984/2006). 5.2. Ricorda la Corte che la motivazione omessa o insufficiente è configurabile soltanto qualora dal ragionamento del giudice di merito, come risultante dalla sentenza impugnata, emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione, ovvero quando sia evincibile l’obiettiva carenza, nel complesso della medesima sentenza, del procedimento logico che lo ha indotto, sulla base degli elementi acquisiti, al suo convincimento (cfr. Cass. SU n. 24148/2013). 5.3. Nel caso in esame, esclusa la decisività della questione del mandato con o senza rappresentanza per le ragioni già illustrate (v. sub 4.5.8 - 4.5.9.), la doglianza appare fondata, alla luce delle sentenze della CGUE in campo assicurativo prima esaminate, per la parte in cui la CTR ha mancato di illustrare con adeguata puntualità e completezza gli elementi di fatto ed il percorso logico/giuridico seguito per ricondurre tutte le attività in discussione ad unitarietà economica e per valutare la idoneità delle stesse ad integrare delle componenti essenziali dell’operazione di assicurazione, attesa la estrema sinteticità della motivazione che avrebbe meglio dovuto illustrare tali elementi, posto che l’esistenza del rapporto contrattuale tra coassicuratrice ed assicurato è indiscussa. 5.4. Il secondo motivo va accolto in questi termini e la causa, non potendo essere decisa nel merito, va rinviata alla CTR della Liguria, in altra composizione, che, dovrà provvedere ad una compiuta motivazione tenendo conto degli elementi di fatto


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e di diritto forniti in giudizio dall’Agenzia delle Entrate a sostegno della supposta non essenzialità delle differenti attività, e dalla società contribuente a sostegno della unicità economica dell’operazione di assicurazione, attenendosi al principio di diritto esposto sub 4.6.1. 6.1. In conclusione il ricorso va accolto sul secondo motivo nei termini di cui sopra, infondato il primo; la sentenza impugnata va cassata e la causa va rinviata alla CTR della Liguria in altra composizione per l’applicazione del principio di diritto illustrato nell’esame degli elementi sottoposti alla sua valutazione dalle partì, oltre che per la statuizione sulle spese del giudizio di legittimità. P.Q.M. La Corte Suprema di cassazione: - accoglie il ricorso sul secondo motivo, infondato il primo; - cassa l’impugnata sentenza e rinvia alla CTR della Liguria in altra composizione per il riesame alla luce dei principi espressi e la statuizione anche sulle spese del giudizio di legittimità. [Omissis]

La Corte di Cassazione illustra finalmente i criteri per la determinazione del regime applicabile alle operazioni di coassicurazione nell’imposta sul valore aggiunto. Sommario: 1. Premessa. – 2. Le questioni sottese alla pronuncia. – 3. I profili civilistici

del contratto di assicurazione. – 4. Le commissioni di delega e il loro inquadramento tributario. – 5. I profili giuridici sottesi alla pronuncia della Suprema Corte e la sua interpretazione. – 6. l regime di esenzione di cui all’art. 10, comma 1, n. 2) del D.p.r. n. 633/72. – 7. Il regime di esenzione di cui all’art. 10, comma 1, n. 9), del D.p.r. n. 633/72. – 8. Il regime di esenzione Iva collegato alle prestazioni accessorie di cui all’art. 12, comma 1 del D.p.r. n. 633/72.

La Suprema Corte affrontando l’importante tema del trattamento da riservare, ai fini Iva, ai rapporti di coassicurazione, di cui all’art. 1911 c.c. ha statuito il principio di diritto per cui il regime di esenzione Iva previsto dall’art. 10, comma 1, n. 2 del D.p.r. n. 633/72 (d’ora in poi decreto Iva) per le operazioni di assicurazione, da interpretarsi restrittivamente in quanto derogatorio al regime ordinario di imponibilità, si estende, conformemente a quanto stabilito dalla Corte di giustizia, alla pluralità di prestazioni idonee a integrare il servizio assicurativo sotto il profilo economico. Occorre, dunque, individuare gli elementi caratteristici dell’operazione di cui trattasi per stabilire se il soggetto passivo fornisca all’assicurato, considerato come consumatore medio, attraverso la pluralità di attività poste in essere, più prestazioni principali distinte o un’unica prestazione, sempre che il prestatore di servizi si sia impegnato esso stesso nei confronti dell’assicurato a garantire a quest’ultimo la copertura di un rischio e sia vincolato all’assicurato da un rapporto contrattuale.


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The Italian Supreme Court, in this judgment, examined the VAT regime in insurance contracts entered between insurance companies. The Supreme Court ruled a principle of law under which the tax exemption provided by art. 10, comma, 1, n. 2 of D.p.r. n. 633/72 must be strictly interpreted as it derogates from the ordinary taxation regime. According to the ECJ case law, the mentioned tax exemption extends to the plurality of services suitable to integrate the insurance service economically. In order to determine whether the tax payer provides the insured person with more distinct main service provisions or only one provision of service (considering all the operations carried out), it is necessary to identify the characteristic features of the transaction at issue. This, on condition that: the service provider has committed itself towards the insured person to guarantee him the cover of a risk; the service provider is bound to the insured person by an agreement relationship.

1. Premessa. – La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 22429 depositata il 4 novembre 2016, ha affrontato, finalmente, il dibattuto tema del trattamento tributario da riservare, nel sistema dell’imposta sul valore aggiunto, ai rapporti di coassicurazione regolati nell’ordinamento italiano dall’art. 1911 c.c. Ciò con particolare riferimento all’attività prestata in tale ambito dalla compagnia c.d. delegataria cui le altre imprese assicurative partecipanti al contratto concluso in coassicurazione delegano una serie di aspetti relativi alla gestione e all’esecuzione del rapporto assicurativo. In questi casi il mandato conferito alla delegataria è in rem propriam poiché la stessa ha un interesse diretto all’attuazione del relativo oggetto assumendo su di sé una parte del rischio assicurativo. Occorre subito premettere che, pur condividendo le ragioni formali (carenza motivazionale del percorso logico-giuridico nella sentenza di appello) per le quali la Corte ha cassato con rinvio non si condividono pienamente alcuni passaggi della sentenza: in particolare il riferimento alla irrilevanza della configurazione come mandato con o senza rappresentanza del rapporto di coassicurazione. Rimane, comunque, il pregio di aver ribadito la centralità e la prevalenza del diritto europeo su quello nazionale, nel caso in esame, per l’interpretazione del concetto di assicurazione e di rapporti di assicurazione. Il caso de quo si riferisce a una società assicuratrice del ramo danni, coassicuratrice, che con la cd. “clausola di delega” era stata autorizzata a effettuare alcune attività nell’interesse comune delle altre società coassicuratrici; attività consistenti, tra l’altro, nella stipula del contratto, nella riscossione del premio e nella determinazione ed eventuale liquidazione del danno, in ragione delle quali venivano riaddebitati pro quota alle altre coassicuratrici sia i costi sostenuti dalla delegataria, relativi alle attività propedeutiche al rapporto di assicurazione, sia quelli per la gestione interna del contratto in dipendenza del


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mandato ricevuto. Come si evince dalla sentenza in commento la società aveva sostenuto spese esterne (spese per professionisti, periti, legali, liquidatori, etc.), spese interne (costi del personale, ammortamenti, spese telefoniche, postali, cancelleria, etc.) e la quota parte dell’indennizzo spettante all’assicurato e aveva riaddebitato pro quota alle coassicuratrici le spese esterne e le spese interne. 2. Le questioni sottese alla pronuncia. – L’Agenzia delle Entrate aveva contestato l’autonomia/indipendenza delle attività poste in essere dalla compagnia delegataria (nell’interesse delle altre coassicuratrici), con conseguente assoggettamento ad Iva delle commissioni di delega introitate e dei riaddebiti sia delle “spese esterne”, sia delle “spese interne”, affermando che questi costi – quantificati nei cd. “diritti di liquidazione” – venivano conseguiti dalla delegataria a titolo di compenso per la autonoma attività svolta nell’interesse delle altre coassicuratrici. Tale contestazione era fondata anche sulla considerazione che le prestazioni rese non erano un unicum rispetto a quelle inerenti al contratto d’assicurazione e che il rapporto tra le assicuratrici era costituito da un “mandato senza rappresentanza” a cui si dovrebbe applicare l’art. 3, comma 3, ultima parte del decreto Iva che prevede che “Le prestazioni di servizi rese o ricevute dai mandatari senza rappresentanza sono considerate prestazioni di servizi anche nei rapporti tra il mandante e il mandatario”. Con la conseguenza, secondo l’interpretazione dell’Agenzia, che non sono esenti da Iva i compensi derivanti dall’attività resa dal singolo coassicuratore in forza della predetta clausola di delega. L’Agenzia, inoltre, ricordando la natura di norma di stretta interpretazione della disposizione della Direttiva Iva n. 2006/112/CE in tema di esenzioni, aveva ritenuto che nella nozione di “operazioni di assicurazione” rientrassero esclusivamente le prestazioni tipiche del contratto di assicurazione (ovvero il servizio di copertura dei rischi fornito all’assicurato), laddove le prestazioni svolte dalla compagnia delegataria sarebbero da ritenere escluse da tale circoscritto ambito, concretizzandosi in prestazioni di natura amministrativa, tecniche e collaterali alla liquidazione dell’indennizzo. A fronte delle contestazioni mosse dall’Amministrazione Finanziaria, la società ricorrente evidenziava nel ricorso di merito che alle prestazioni in questione andava, invece, applicato il regime di esenzione Iva previsto dall’art. 10, comma 1, n. 2) del relativo decreto per le operazioni di assicurazione, di riassicurazione e di vitalizio. L’applicazione di questo regime sarebbe stato


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giustificato dal fatto che le prestazioni rese, non scindibili rispetto al contratto principale di assicurazione, erano da considerarsi a esso accessorie e ugualmente esenti anche ai sensi dell’art. 12, comma 1 in base al quale: “[…] le altre cessioni o prestazioni accessorie ad una cessione di beni o ad una prestazione di servizi, effettuati direttamente dal cedente o prestatore ovvero per suo conto e a sue spese, non sono soggetti autonomamente all’imposta nei rapporti fra le parti dell’operazione principale”. La compagnia assicurativa delegataria aveva impugnato l’avviso di accertamento contestando integralmente le contestazioni dell’Agenzia sul presupposto che le attività svolte in tale veste costituissero un vero e proprio unicum con il contratto di assicurazione cui accedevano come elemento integrante ed essenziale. Inoltre, l’attività della delegataria era inquadrabile nell’ambito non del mandato senza rappresentanza (come sostenuto dall’Agenzia), bensì in quello del mandato con rappresentanza dal momento che sotto il profilo formale l’indicazione della denominazione delle altre compagnie coassicuratrici avveniva all’interno del contratto di coassicurazione (al fine della ripartizione tra di esse del rischio) e teneva luogo della spendita del nome. Secondo la compagnia, in ogni caso, le prestazioni da essa svolte in veste di delegataria concretizzavano in tutto e per tutto l’esecuzione del contratto di assicurazione dal quale non sono oggettivamente scindibili. Ragione per cui i relativi riaddebiti e compensi sono da ritenere esenti da Iva, analogamente a quanto avviene per quelli relativi alle operazioni di assicurazione, ai sensi dell’art. 10, comma 1, n. 2), del D.p.r. n. 633/72. Le ragioni addotte dalla società ricorrente sono state avallate dalla Commissione tributaria provinciale e successivamente anche dalla Commissione tributaria regionale della Liguria che, con la sentenza n. 11/01/2010, depositata il 22 febbraio 2010, confermava la sentenza di primo grado che accoglieva il ricorso della società di assicurazione. Secondo la Commissione Regionale, il rapporto tra l’impresa delegataria e l’impresa coassicuratrice si configurava come un “mandato con rappresentanza”, sia per effetto dell’indicazione del nome delle altre imprese coassicuratrici nel contratto di coassicurazione, che prevedeva la ripartizione del rischio e teneva luogo della spendita del nome, sia perché l’attività svolta dalla delegataria per conto altrui si configurava come rappresentanza diretta. Pertanto, i corrispettivi percepiti per le prestazioni rese in qualità di delegataria non dovevano essere assoggettati a Iva, in quanto esenti ai sensi dell’art. 10, comma 1, n. 2) del decreto Iva, siccome relative al complesso delle operazioni di assicurazione. Osservava, altresì, la CT di 2° grado che una


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differente opzione avrebbe comportato una illegittima doppia imposizione. In sostanza si ravvisava nelle attività svolte un unicum con il contratto di assicurazione, quali prestazioni accessorie dello stesso, agendo la delegataria in virtù di un mandato con rappresentanza, e non già come una prestazione resa da mandatario senza rappresentanza e rientrante – secondo la prospettazione dell’Agenzia delle Entrate – nel campo di applicazione dell’art. 3, comma 3, ultima parte del decreto Iva. Inoltre, le operazioni svolte in qualità di delegata sono accessorie ex art. 12 del decreto Iva rispetto alle operazioni principali di assicurazione e, quindi, anch’esse esenti. L’Amministrazione Finanziaria ha proposto ricorso per Cassazione censurando la sentenza della CT di 2° grado sulla scorta di due motivi. Con il primo motivo – suddiviso in quattro punti – ha denunciato la violazione e falsa applicazione dell’art. 1911 c.c. e del decreto Iva, art. 3, commi 1 e 3, art. 10, comma 1, n. 2, art. 12, art. 15, comma 1, n. 3, art. 19, comma 5, art. 36-bis (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3). L’Agenzia delle Entrate censura la sentenza nella parte in cui ha ritenuto che - a) la società contribuente ha agito, in virtù della clausola di delega, in regime di mandato con rappresentanza; b) le prestazioni rese dalla delegata rientrano nel novero delle “operazioni di assicurazione” esentate ex art. 10, comma 1, n. 2 del decreto Iva; c) il ribaltamento dei costi sulle deleganti pro quota, qualora venisse assoggettato ad Iva, comporterebbe una illegittima doppia imposizione; d) le operazioni svolte in qualità di delegataria sono accessorie ex art. 12 del decreto Iva rispetto alle operazioni principali di assicurazione e, quindi, anch’esse esenti. Tale motivo è stato dichiarato inammissibile in ordine al primo, terzo e quarto profilo e infondato in relazione al secondo profilo in quanto il ricorso non coglie nel segno ed estrapola dei passaggi della sentenza di appello che costituiscono snodi argomentativi privi di autonoma rilevanza motivazionale. Con il secondo motivo di ricorso l’Agenzia ha denunciato la omessa o insufficiente motivazione su punti di fatto decisivi per il giudizio (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) per la parte in cui la sentenza ha stabilito che le prestazioni rese dalla società costituivano un unicum rispetto alle prestazioni principali di assicurazione. La CT di 2° grado, infatti, avrebbe omesso di considerare – come invece rimarcato dall’Ufficio – che la spendita del nome delle coassicuratrici avveniva solo nei confronti degli assicurati, ai fini della stipula del contratto, mentre non risultava alcuna spendita del nome delle coassicuratrici nei confronti dei terzi incaricati delle prestazioni esterne, né nella fatturazione delle loro prestazioni fatta a nome della sola società ricorrente.


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Ritiene la Suprema Corte che questo motivo sia fondato per la parte in cui la CT di 2° grado ha mancato di illustrare con adeguata puntualità e completezza gli elementi di fatto ed il percorso logico/giuridico seguito per ricondurre tutte le attività in discussione ad unitarietà economica e per valutare la idoneità delle stesse ad integrare delle componenti essenziali dell’operazione di assicurazione, attesa la estrema sinteticità della motivazione che avrebbe meglio dovuto illustrare tali elementi, posto che l’esistenza del rapporto contrattuale tra coassicuratrice ed assicurato è indiscussa. Ricostruendo la vicenda in esame sotto il profilo dei motivi di diritto si evincono i principi e le argomentazioni di riferimento che la Corte indica dovranno essere considerati nel giudizio di rinvio nonché le questioni che dovranno essere riesaminate alla luce di questi principi. In ragione di ciò si ritiene utile e doverosa una breve trattazione dei profili civilistici del contratto di assicurazione e delle commissioni di delega. 3. I profili civilistici del contratto di assicurazione. – Il contratto di coassicurazione è uno strumento giuridico la cui funzione principale è quella di consentire la ripartizione fra più società di assicurazione di rischi di particolare entità, garantendo in questo modo a ciascuno dei partecipanti al contratto la limitazione della propria esposizione in caso di realizzazione dell’evento assicurato (1). Il rapporto di coassicurazione è disciplinato dall’art. 1911 c.c. il quale prevede che “Qualora la medesima assicurazione o l’assicurazione di rischi relativi alle stesse cose sia ripartita tra più assicuratori per quote determinate, ciascun assicuratore è tenuto al pagamento dell’indennità assicurata soltanto in proporzione della rispettiva quota, anche se unico è il contratto sottoscritto da tutti gli assicuratori”. Secondo la definizione codicistica, dunque, le imprese di assicurazione assumono un’obbligazione propria ed autonoma nei confronti dell’assicurato (senza alcun vincolo di solidarietà), con ciò venendosi a creare una pluralità di separati e distinti rapporti di assicurazione tra l’assicurato e le imprese assicuratrici a fronte di un unico rischio oggetto di copertura.

(1) Senza pretesa di esaustività si rinvia a: A. Donati, voce Coassicurazione, in Enc. dir., 1960, 218; V. Salandra, Assicurazione, in Commentario al codice civile, diretto da Scialoja e Branca, Libro IV, Delle obbligazioni, artt. 1861-1932, Bologna, 1948, sub art. 1911, 296; E. Steidl, Il contratto di assicurazione, Milano, 1990, 109; P.E. Cassandro, Le gestioni assicuratrici, Torino, 1975, 85.


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Il negozio in esame si perfeziona ove lo stesso rischio sia assicurato, con le medesime modalità e per un eguale periodo di tempo, da una pluralità di assicuratori che, in accordo fra loro, si ripartiscono il premio e la relativa quota di indennità. Il contratto fra assicurato e coassicuratori, dunque, è unitario caratterizzandosi, però, per una composita partecipazione di assicuratori che prestano una garanzia frazionatamente in relazione alla misura concordata di partecipazione al rischio. L’art. 1 del D.Lgs. n. 209/05 (rubricato “Codice delle assicurazioni private”, in breve anche CAP), definisce l’attività assicurativa come “L’assunzione e la gestione dei rischi effettuata da un’impresa di assicurazione” (2). Al fine di consentire una più efficiente gestione del contratto di coassicurazione (evitando la reiterazione di adempimenti conseguenti al frazionamento del rapporto assicurativo in più rapporti assicurativi separati), le imprese di assicurazione partecipanti attribuiscono normalmente all’impresa contattata dall’assicurato l’incarico di concludere tale contratto e di gestirne l’esecuzione, mediante l’inserimento di una clausola denominata “clausola di delega”. La clausola di delega comporta il conferimento all’impresa incaricata (definita “coassicuratrice delegataria”) della gestione del rapporto assicurativo in senso lato (3). In buona sostanza attraverso la cosiddetta clausola di delega le compagnie coassicuratrici affidano ad una di loro, che assume in tal caso la qualifica di delegataria, alcuni compiti di gestione del contratto, quali tra gli altri, quello di procedere alla esazione del premio, quello di ricevere dall’assicurato le comunicazioni inerenti il contratto e quello di gestire il sinistro. È di tutta evidenza che l’ampiezza di tali compiti risulta dalla clausola di delega che, accettata dall’assicurato, assume la figura di vero e proprio mandato (4) che può essere

(2) Disposizioni in materia di coassicurazione sono presenti anche nel Reg. n. 13/2008 dell’ISVAP (ora IVASS Istituto per la Vigilanza sulle Assicurazioni, ente dotato di personalità giuridica di diritto pubblico che opera per garantire la stabilità del mercato assicurativo e la tutela del consumatore). (3) Così G. Volpe Putzolu, Commentario breve al diritto delle assicurazioni, CEDAM, 2013, 507 e ss. (4) E. Steidl, op. cit., 111.


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con (5) o senza rappresentanza (6). In via preliminare è opportuno rammentare che la stessa Corte di Cassazione ha da tempo messo in luce che, sotto un profilo squisitamente civilistico, la pattuizione della clausola di delega nell’ambito di un contratto di assicurazione non vale in alcun modo a modificarne la natura e gli effetti. La clausola in parola, a ben vedere, non dà luogo alla creazione di un’obbligazione solidale, in quanto ha (esclusivamente) “La funzione di conferire ad uno degli assicuratori l’incarico di gestire il contratto e di compiere gli atti relativi allo svolgimento del rapporto assicurativo, ma non elimina, nemmeno nel caso di mala gestio del coassicuratore delegato, la caratteristica essenziale della coassicurazione, ossia l’assunzione pro quota dell’obbligo di pagare l’indennità al verificarsi dell’evento previsto” (7). La Corte ha, altresì, concluso che la stessa debba essere inquadrata nell’ambito della figura del mandato sancendo che “La sottoscrizione della polizza da parte di uno soltanto degli assicuratori, che dichiari di assumere con altri pro quota l’obbligazione di pagamento dell’indennità, può derivare dal fatto che tutti i coassicuratori affidino ad uno solo di essi il potere di stipulare il contratto anche in nome e per conto degli altri, mediante attribuzione al sottoscrittore di un potere di rappresentanza in virtù di cd. Clausola di delega o di guida (generalmente inquadrata nello schema del mandato con rappresentanza), la quale può, nella prassi, comprendere pure l’incarico di gestire la polizza, con delega a compiere, altresì, una serie di altri atti successivi, quali la riscossione e la ricezione di comunicazioni dell’assicurato, il rilascio di dichiarazioni e quietanze, nonché, eventualmente, il pagamento dello stesso indennizzo” (8).

(5) Senza pretesa di esaustività, in dottrina, si rinvia a: G. Minervini, Il mandato, la commissione, la spedizione, in Trattato di diritto civile italiano, diretto da F. Vassalli, vol. VII, Torino 1957; E. Tilocca, Il problema del mandato, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1969, I, p. 872 e ss.; G. Mirabelli, “Dei singoli contratti”, in Commentario del codice civile, libro IV, tomo III, 3a ed., Torino, 1991, 559 e ss.; in giurisprudenza si veda per tutte, Cass. Civ., n. 1158/62. (6) Sulla struttura della rappresentanza si vedano: P. Sraffa, Del mandato commerciale e della commissione, in Commentario al codice di commercio, vol. IV, Milano, 1993, 2 e ss.; A. Luminoso, “Mandato, commissione, spedizione”, in Trattato di diritto civile e commerciale diretto da A. Cicu e F. Messineo, vol. XXXII, Milano, 1984, 35 e ss. dove l’autore evidenzia non solo un’autonomia funzionale della rappresentanza ma anche un’autonomia strutturale dell’atto di conferimento della legittimazione rappresentativa. (7) Cfr. Cass. Civ., n. 9891/94. (8) Cass. Civ., nn. 1712/00, 4799/01 e 13661/13.


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In particolare, il mandato conferito dalle coassicuratrici deleganti alla coassicuratrice delegataria è configurabile quale mandato con rappresentanza avente ad oggetto la gestione del rapporto assicurativo in senso lato. Così la Suprema Corte (9) ha chiarito che “La coassicurazione, che può trovare la sua fonte anche in un unico contratto dell’assicurato con i coassicuratori, può essere stipulata anche da uno solo degli assicuratori in nome e per conto degli altri, oltre che in proprio, se da questi investito di un potere di rappresentanza, a norma degli artt. 1387 ss. c.c. (cd. clausola di delega o di guida) perché, in questa ultima ipotesi, l’assicurato prende conoscenza ed accerta la ripartizione del rischio tra i coassicuratori mediante la firma del contratto ove è contenuta la spendita del nome dei coassicuratori rappresentati”, precisando ulteriormente che assume rilevo “La spendita, non necessariamente espressa ma inequivocabilmente desumibile dal contratto, del loro nome da parte della compagnia firmataria del contratto” e che “costituisce inequivocabilmente manifestazione della spendita del nome degli altri assicuratori da parte della compagnia firmataria l’indicazione nel contratto delle quote di rischio assicurate da ciascuno degli assicuratori”. In ambito europeo la Direttiva Iva (n. 2006/112/CE) non definisce la nozione di operazioni di assicurazione. La giurisprudenza della Corte di Giustizia ritiene, però, che un’operazione di assicurazione, come generalmente si riconosce, è caratterizzata dal fatto che l’assicuratore si impegna, dietro versamento di un premio, a procurare all’assicurato, in caso di realizzazione del rischio coperto, la prestazione convenuta all’atto della stipula del contratto (10); che non è indispensabile che la prestazione che l’assicuratore si è impegnato a fornire consista nel versamento di una somma di denaro, in quanto tale prestazione può essere costituita (come previsto dalle direttive comunitarie in materia assicurativa) anche da attività di assistenza (11); che un’operazione di assicurazione implica in ogni caso, per sua natura, che esista un rapporto contrattuale tra il prestatore del servizio di assicurazione ed il soggetto i cui rischi sono coperti dall’assicurazione, ossia l’assicurato (12).

(9) Cass. Civ., n. 14590/05. (10) C.G.U.E., C-349/96, Card Protection Plan Ltd (CPP) v. Commissioners of Customs & Excise del 25/02/1999, punto 16; C-8/01, Assurandør-Societetet, che agisce per conto della Taksatorringen v. Skatteministeriet del 20/11/03, punto 34. (11) C.G.U.E., C-13/06, Commission of the European Communities v. Hellenic Republic del 07/12/2006, punto 11. (12) C.G.U.E., C-240/99, Skandia del 8 marzo 2001, punto 40.


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Occorre insomma che l’attività svolta dall’impresa di assicurazione sia costituita da operazioni di assicurazione in senso stretto, ossia effettuate da una società che si trovi in rapporto giuridico con il cliente finale. 4. Le commissioni di delega e il loro inquadramento tributario. – Per tale attività le compagnie assicuratrici riconoscono all’impresa delegataria, a titolo di corrispettivo, delle “commissioni di delega” in esenzione Iva (13) contrapponendosi alla diversa posizione dell’Agenzia delle Entrate favorevole all’imponibilità delle stesse. Sia la disciplina Iva europea che quella domestica di cui al D.p.r. n. 633/72, non individuano espressamente il trattamento Iva applicabile alle menzionate commissioni di delega. Sicché, il trattamento Iva deve essere valutato in relazione alle disposizioni che disciplinano le prestazioni di assicurazione lato sensu, nonché in relazione ai chiarimenti resi dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea e anche dalla prassi dell’Agenzia delle Entrate. Benché detti chiarimenti riguardino fattispecie diverse dalla mera coassicurazione è, tuttavia, possibile estrapolarne alcuni principi comuni applicabili anche al rapporto di coassicurazione. In tale contesto, è possibile in astratto considerare, alternativamente o congiuntamente, le attività rese dalla coassicuratrice delegataria quali: • imponibili ai sensi dell’art. 3 del D.p.r. n. 633/72 in quanto prestazioni di servizi generiche o comunque indipendenti (cioè una prestazione assicurativa esente da imposta e una prestazione imponibile che integra un diverso servizio sotto il profilo economico); • esenti ai sensi dell’art. 10, primo comma, n. 2) del D.p.r. n. 633/72 in quanto ricomprese nell’alveo delle “operazioni di assicurazione, di riassicurazione e di vitalizio; • esenti ai sensi del successivo punto 9) del medesimo art. 10, ovvero

(13) Per un approfondito esame del fenomeno in rassegna si rinvia, ex multis, a: G. Rovaggi, Esenti da IVA i compensi da attività di coassicurazione in forza della clausola di delega? Il commento, in Corr. Trib., 2015, n. 8, 612; P. Massimo, Le commissioni di delega nelle operazioni di coassicurazione ed il loro trattamento ai fini IVA: un problema ancora irrisolto, in GT - Riv. giur. trib., 2015, n. 10, 792; F. Alimandi, G. Ascoli, Il contratto di coassicurazione ai fini IVA tra regime di esenzione e regime di imponibilità, in Il fisco, 2014, n. 34, 3342; D. Leprato, M. Parpiglia, I profili IVA del contratto di (co)assicurazione, in Il fisco, 2009, n. 25, 4075; N. Raggi, L’intermediazione assicurativa nella giurisprudenza della corte di giustizia, in Dir. prat. trib., 2007, n. 6, I, 1077; M. Procopio, Rapporti tra coassicuratori ed imposta sul valore aggiunto, in Rass. Trib., 2004, n. 3, 1035 e ss.


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quali “prestazioni di mandato, mediazione e intermediazione” relative alle attività di cui al punto 2); • esenti ai sensi dell’art. 12 del D.p.r. n. 633/72 in quanto “accessorie” alle operazioni assicurative. Il citato articolo dispone l’applicazione, per le prestazioni accessorie, del medesimo regime previsto per l’operazione principale cui le medesime afferiscono. Occorre tenere presente, dal lato della prassi amministrativa, che l’Agenzia delle Entrate ha espressamente precisato che in ogni caso diverso dal rimborso di spese risultanti da documenti intestati al committente “Il rimborso assume natura di vero e proprio corrispettivo di prestazioni effettuate nei confronti del committente” e, come tale è soggetto all’imposta (14). L’importanza della sentenza in commento è data dalla circostanza di essere il primo pronunciamento della Suprema Corte su tale tema. Infatti, sino a questo momento esisteva ed esiste un contrasto interpretativo nella giurisprudenza di merito caratterizzata da due distinti orientamenti. Un primo (15), maggioritario, ritiene che tali corrispettivi siano esenti in quanto la coassicurazione troverebbe la propria fonte normativa in un unico contratto stipulato dall’assicurato con tutti gli assicuratori, i quali possono, a loro volta, intervenire direttamente e personalmente alla stipula, ovvero affidare ad uno di essi il potere di concluderlo in nome e per conto degli altri, attraverso l’attribuzione di un potere rappresentativo che, attese le modalità con cui concretamente opera, è sicuramente da ricondurre nel mandato con rappresentanza, a sua volta esente Iva ai sensi del n. 9), dell’art. 10 del D.P.R. n. 633/72. Inoltre, i servizi di front office effettuati dalla compagnia delegataria sono da ricondurre nell’alveo dell’unico contratto assicurativo sottoscritto con l’assicurato e non costituiscono un’autonoma prestazione effettuata da una compagnia di assicurazione nei confronti delle altre.

(14) Risoluzione n. 102/E del 17 giugno 1996. (15) Comm. trib. reg. Piemonte, sez. XXIV del 08/05/2014, n. 626; Comm. trib. reg. del Lazio, sez. I del 14/01/2014, n. 80; Comm. trib. reg. della Liguria, sez. V del 16/04/2013, n. 8; Comm. trib. prov. di Milano, sez. XLVI del 25/03/2014, n. 2966; Comm. trib. prov. di Firenze, sez. I del 21/02/2012, n. 22; Comm. trib. prov. di Milano, sez. XL del 26/09/2011, n. 231; Comm. trib. reg. Liguria, sez. III del 27/10/2009, n. 11; Comm. trib. reg. Lombardia, sez. XXX del 12/04/2010, n. 77; Comm. trib. reg. Veneto, sez. XXI del 14/06/2010, n. 83; Comm. trib. reg. Piemonte, sez. II del 10/11/2010, n. 45; Comm. trib. prov. di Genova, sez. XII del 15/04/2010, n. 112.


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Per la Suprema Corte la contemplatio domini (ossia la spendita del nome del rappresentato) nell’ambito della fattispecie rappresentativa non è da ritenere essenziale, dovendosi piuttosto considerare necessaria l’esternazione del potere rappresentativo che può peraltro avvenire anche senza l’espressa dichiarazione di spendita del nome del rappresentato, purché vi sia un comportamento del rappresentante ovvero un contesto in cui questi opera che, per univocità concludenza, sia idoneo a portare a conoscenza dell’altro contraente la circostanza che il rappresentante agisce per un soggetto diverso, nella cui sfera giuridica gli effetti dell’attività sono destinati a prodursi direttamente (16). La Commissione tributaria regionale del Lazio (17), ad esempio, ha ritenuto che “L’applicazione dell’esenzione deve essere subordinata, non tanto e non solo alla presenza di un rapporto di mandato intercorrente tra i coassicuratori, quanto alla funzione ed al servizio reso dal delegatario. Infatti, non è sufficiente che l’attività svota per conto dell’impresa di assicurazione abbia ad oggetto una prestazione assicurativa nell’ambito di un rapporto assicurativo, ma è necessario che essa costituisca una fase imprescindibile del rapporto stesso da ricondursi, come tale, a prestazione dovuta da ogni assicuratore. Occorre, in buona sostanza, che l’assicuratore delegatario svolga anche nell’interesse degli altri coassicuratori una fase fondamentale del rapporto assicurativo”. Con una recente pronuncia (18) la Commissione tributaria regionale di Trento ha statuito che “La natura del contratto di coassicurazione non si discosta da quello di assicurazione. L’impresa delegataria, infatti, pur agendo anche in rem propriam, comunque opera in base a un mandato con rappresentanza, al fine di gestire una fase fondamentale del rapporto assicurativo e, in particolare, la liquidazione del sinistro. Ne deriva che, essendo le prestazioni fornite dalla delegataria necessarie e indispensabili per l’attività assicurativa, legittimamente la prestazione della delegataria, remunerata dalle coassicuratrici, va sottoposta al medesimo regime di esenzione IVA di cui all’art. 10, comma 1, n. 2), del D.P.R. n. 633/1972, previsto per il servizio assicurativo”. Sempre secondo la CT di 2° grado, poiché il rapporto fra mandante a mandataria, si fonda su un mandato con rappresentanza, l’applicazione dell’esenzione

(16) (17) (18)

Cass., civ., SS.UU., n. 22234/09. Sent. n. 80/2014. Comm. trib. reg. Trento, Sez. I del 11/01/2016, n. 10.


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deve intendersi concessa anche attraverso il richiamo al n. 9) dell’art. 10 del decreto Iva che, come sopra ricordato, estende l’esonero anche alle prestazioni di mandato, mediazione ed intermediazione relative alle operazioni di assicurazione, riassicurazione e di vitalizio. Come si può notare, in base a questa ricostruzione giurisprudenziale opererebbero contestualmente le esenzioni di cui ai nn. 2) e 10) del comma 1 dell’art. 10 del decreto Iva. Per quanto concerne, invece, l’esenzione fondata sul rilievo dell’accessorietà della prestazione eseguita si rinvia di seguito al relativo paragrafo. Un secondo orientamento, minoritario, ritiene invece che i corrispettivi in oggetto siano imponibili in quanto l’attività di coassicurazione esercitata dalla delegataria, sebbene sia avvinta da nesso teleologico a quella di assicurazione, è ontologicamente distinta da quella d’assicurazione che intercorre direttamente fra assicurazione e assicurato (19). Nonostante il contratto di assicurazione e la correlata attività di coassicurazione siano accomunati a risarcire l’assicurato, entro i limiti convenuti, del danno ad esso prodotto, ad esempio da un sinistro ex art. 1832 c.c., tali due contratti sarebbero caratterizzati da una distinta causa negoziale. Ciò troverebbe conferma nel fatto che la convenzione di delega costituisce un rapporto le cui parti sono le imprese deleganti, da una parte, e l’impresa delegataria dall’altra, avente ad oggetto la gestione e l’esecuzione del differente e distinto contratto stipulato con l’assicurato dai diversi coassicuratori per l’accertamento e la liquidazione del sinistro. Per la Suprema Corte nel contratto di coassicurazione sussistono più separati rapporti assicurativi, ciascuno generato da un distinto contratto, e ciascun assicuratore è titolare delle sole posizioni soggettive, sostanziali e processuali, relative al proprio rapporto. E in tale ambito, dunque, possono realizzarsi una pluralità di contratti di assicurazione stipulati fra gli assicurati ei diversi coassicuratori, i quali sottoscrivono una

(19) Comm. trib. reg. Lazio, sez. XXXVIII del 08/07/2013, n. 269; Comm. trib. reg. Liguria, Sez. II del 30/04/2013, n. 16. A favore dell’imponibilità Iva si segnala anche la sentenza della Comm. trib. reg. Lombardia, Sezione XXXIV del 02/06/2013, n. 163 secondo cui “Dalla normativa di settore, nazionale e comunitaria, come interpretata dalla giurisprudenza nazionale e comunitaria, si deve dedurre che la prestazione eseguita in base alla convenzione di delega non costituisce attività assicurativa in senso stretto in quanto non consegue al rapporto costituito tra assicuratore ed assicurato”. In senso pressoché conforme le sentenze della Comm. trib. reg. Lombardia, Sez. XX del 14/11/2013 n. 191 e Sezione XLV del 22/05/2014, n. 2737.


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convenzione di delega che ha ad oggetto un’attività diversa dalla operazione di assicurazione (20). I compensi liquidati concernono i rapporti tra mandante e mandatario a compenso di prestazioni di servizi svolte, senza la spendita del nome delle deleganti, dalla mandataria nell’interesse delle mandanti per evitare una duplicazione delle attività gestorie, funzionali ed accessorie al rapporto principale tra assicuratore e assicurato. La clausola di delega, così intesa, conferisce alla delegataria soltanto il potere di gestire stragiudizialmente la polizza per tutte le coassicuratrici per consentire lo svolgimento unitario del distinto rapporto assicurativo. 5. I profili giuridici sottesi alla pronuncia della Suprema Corte e la sua interpretazione. – Tenendo presenti i diversi inquadramenti tributari possibili occorre dire che la Commissione tributaria regionale, nell’impugnata sentenza, ritiene che le operazioni di assicurazione e accessorie costituiscano un unicum con la prestazione principale e, quindi, si applichi l’art. 10 comma 1, n. 2 del decreto Iva laddove sono indicati come esenti le operazioni di assicurazione, riassicurazione e vitalizio. Le ragioni si rinvengono nell’inquadramento civilistico del mandato con rappresentanza con la spendita del nome e dell’operazione descritta. La CT di 2° grado considera, comunque, in via secondaria anche l’ipotesi che le prestazioni accessorie non costituiscano un unicum con quella principale ma possano essere esenti in virtù del disposto di cui all’art. 12, comma 1 del decreto iva. Per la Corte “[…] occorre individuare gli elementi caratteristici dell’operazione di cui trattasi per stabilire, se il soggetto passivo fornisca all’assicurato, considerato come consumatore medio, attraverso la pluralità di attività poste in essere, più prestazioni principali distinte o un’unica prestazione, sempre che il prestatore di servizi si sia impegnato esso stesso nei confronti dell’assicurato a garantire a quest’ultimo la copertura di un rischio e sia vincolato all’assicurato da un rapporto contrattuale” (21). La chiave di soluzione per la Corte è ricavabile dai principi elaborati dalla giurisprudenza della C.G.U.E. (22), in particolare nella recente sentenza

(20) Cass. Civ., SS.UU., n. 5119/02. (21) Punto 4.6.1. della sentenza. (22) C.G.U.E., C-349/96, Card Protection Plan Ltd (CPP) v. Commissioners of Customs & Excise del 25/02/1999; C-472/03, Staatssecretaris van Financiën v. Arthur Andersen & Co. Accountants c.s. del 03/05/2005 e C-40/15, Minister Finansów v. Aspiro SA del 17/03/2016.


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C-40/15 Aspiro SA (successiva rispetto alla pronuncia della CT di 2° grado del 2010) che essendo inserita nel solco interpretativo di un altro precedente relativo alla causa C-472/03 (23) – quest’ultima già considerata nelle motivazioni della sentenza impugnata della Commissione tributaria regionale – avrebbe il pregio di illustrare con ancora maggior dovizia gli elementi in concreto necessari a qualificare delle prestazioni come “operazioni di assicurazione” rilevanti ai fini della causa de qua. Statuisce, infatti, la Corte di Giustizia che le operazioni di assicurazione implicano, per loro natura, che esista un rapporto contrattuale tra il prestatore del servizio di assicurazione e il soggetto i cui rischi sono coperti dall’assicurazione, ossia l’assicurato (24). Ma questo presupposto può essere esteso anche alla copertura assicurativa fornita da un soggetto passivo che non sia direttamente assicuratore, ma che, nell’ambito di un’assicurazione collettiva, procuri ai suoi clienti siffatta copertura avvalendosi delle prestazioni di un assicuratore che si assume l’onere del rischio assicurato. Un’operazione è unica sul piano fiscale quando due o più elementi o atti forniti dal soggetto passivo sono strettamente connessi a tal punto da formare una sola prestazione economica indissociabile la cui scomposizione avrebbe carattere artificioso, e ciò anche quando la pluralità degli atti necessari a completare la prestazione possa coinvolgere anche soggetti estranei al rapporto contrattuale. Vi sono, dunque, un presupposto soggettivo e uno oggettivo come appena delineati. Secondo la Corte di Giustizia, in buona sostanza vi possono essere attività che costituiscono una componente essenziale dell’attività di assicurazione ma non possono tuttavia configurare un’”operazione di assicurazione” esente ai sensi della direttiva Iva nel caso in cui – sul piano soggettivo – il prestatore di servizi non si è impegnato esso stesso nei confronti dell’assicurato a garantire a quest’ultimo la copertura di un rischio e non è in alcun modo vincolato all’assicurato da un rapporto contrattuale (25). Per questa ragione, la Cassazione non appare esporsi sul caso in esame ritenendo che spetti al giudice di merito della controversia accertare, alla luce

(23) C.G.U.E., C-472/03, Staatssecretaris van Financiën v. Arthur Andersen & Co. Accountants cs. del 03/03/2005. (24) Sul punto anche C.G.U.E., C-8/01, Assurandør-Societetet, che agisce per conto della Taksatorringen v. Skatteministeriet del 20/11/03, punti 40 e 41. (25) C.G.U.E., C-40/15, punti 24 e 25.


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di questi elementi d’interpretazione, se l’operazione controversa debba essere considerata ai fini dell’Iva, unitariamente come “operazione di assicurazione” ovvero come costituita da prestazioni indipendenti ovvero se ricorrano prestazioni accessorie (26). Insomma, il regime di esenzione Iva per le operazioni di assicurazione non si estenderebbe automaticamente alle altre prestazioni collegate. Non potendo giudicare nel merito la Suprema Corte ha rinviato ad altra sezione della Commissione tributaria regionale della Liguria che dovrà provvedere ad una compiuta motivazione tenendo conto degli elementi di fatto e di diritto forniti in giudizio dall’Agenzia delle Entrate a sostegno della supposta non essenzialità delle differenti attività e dalla società contribuente a sostegno della unicità economica dell’operazione di assicurazione, in conformità al principio di diritto statuito nella sentenza di legittimità. Per la Corte occorre, infine, escludere radicalmente la questione di natura prettamente civilistica se l’operazione posta in essere si concretizzi in un mandato con o senza rappresentanza poiché in base ai su indicati principi elaborati dalla Corte di Giustizia che debbono prevalere sulla nozione e natura delle prestazioni di servizi assicurativi e accessorie, la questione non sia decisiva in quanto non si riverbera sul tema della unicità della prestazione sul piano economico e funzionale né su quello del rapporto contrattuale con l’assicurato. Infatti, secondo la Corte di Giustizia (27) le esenzioni previste dall’art. 13 della Sesta direttiva costituiscono nozioni autonome del diritto dell’Unione europea che mirano a evitare divergenze nell’applicazione da uno Stato membro all’altro del sistema dell’Iva; pertanto, la disciplina civilistica ex art. 1911 c.c. in tema di coassicurazione, invocata dalla ricorrente col primo profilo di doglianza, non può prevalere o condizionare la nozione europea di “operazioni di assicurazione” ai fini fiscali. Si ricava, così, da questa pronuncia il marcato rilievo della prevalenza dei principi elaborati dalla Corte del Lussemburgo rispetto a quelli dell’ordinamento interno che potrebbero condurre a divergenze applicative delle norme europee sull’Iva e si mette l’accento sulla recente pronuncia della Corte di Giustizia di cui alla

(26) Sotto il profilo della distinzione tra prestazione unitarie e prestazioni accessorie si veda anche M. Logozzo, Le prestazioni accessorie seguono il regime IVA dell’operazione principale: il caso delle slot machine, in GT - Rivista di giurisprudenza tributaria, 2010, n. 6, 528-533; M. Pierro, La reprografia: cessione di beni o prestazione di servizi?, in Corriere tributario, 2010, n. 12, 929-934; (27) C.G.U.E., C-349/96.


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C-40/15 che ulteriormente precisa i connotati delle operazioni di assicurazione secondo la Direttiva Iva. Ad avviso di chi scrive l’asserita irrilevanza della configurabilità di un mandato con o senza rappresentanza non è totalmente condivisibile. Potrebbe essere dirimente individuare se l’operazione posta in essere si concretizzi in un mandato con o senza rappresentanza in quanto le prestazioni derivanti da un contratto di mandato senza rappresentanza sono imponibili ai sensi dell’art. 3, comma 3, ultima parte del decreto Iva che stabilisce che “Le prestazioni di servizi rese o ricevute dai mandatari senza rappresentanza sono considerate prestazioni di servizi anche nei rapporti tra il mandante e il mandatario” (questa considerazione la si riprenderà anche, e più argomentatamente, nel successivo paragrafo n. 7). È però di tutta evidenza che questa disposizione deve essere letta alla luce del concetto di operazione di assicurazione in ambito europeo in termini puramente sostanzialistici per evitare che conduca ad effetti distorsivi nella direzione dell’imponibilità od esenzione – entrambe non previste dalla norma europea – fondata esclusivamente sulla qualificazione civilistica senza considerare l’attività e la modalità con cui la si è concretamente svolta: la cui conseguenza sarebbe necessariamente l’incompatibilità con la direttiva Iva. Il giudice di rinvio sarà dunque costretto ad argomentare maggiormente sulla natura di queste operazioni sotto il profilo della unitarietà o meno. Lo dovrà fare, però, vincolato dai principi europei già esistenti e ribaditi dalla Suprema Corte che, forse, nei giudizi di merito antecedenti sono stati sorvolati o frettolosamente applicati senza una logica e argomentata motivazione dando eccessivo rilievo alle conseguenze fiscali derivanti dall’inquadramento sotto il profilo civilistico interno dell’operazione effettuata. 6. Il regime di esenzione di cui all’art. 10, comma 1, n. 2) del D.p.r. n. 633/72. – L’art. 10, comma 1, n. 2, del Decreto Iva, esenta dal tributo “Le operazioni di assicurazione, di riassicurazione e di vitalizio”. Dalla formulazione utilizzata dal legislatore tributario si evince chiaramente come l’esenzione dal tributo sulla cifra d’affari si realizzi qualora l’operazione abbia per effetto una fattispecie prevista dall’art. 1882 c.c., secondo cui, è utile rimarcarlo, “L’assicurazione è il contratto col quale l’assicuratore, verso pagamento di un premio si obbliga a rivalere l’assicurato, entro i limiti convenuti, del danno ad esso prodotto da un sinistro, ovvero a pagare un capitale o una rendita al verificarsi di un evento attinente alla vita umana”. Vale la pena di rammentare, in proposito, che l’esenzione disposta per le operazioni di assicurazione, di


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riassicurazione e vitalizio ha tratto origine dalla circostanza che le operazioni stesse sono già soggette all’imposta speciale sulle assicurazioni private di cui alla L. n. 1216/61 (28). Ebbene, il corrispettivo delle prestazioni di servizi rese dalla delegataria non è certamente soggetto a tale ultima imposta. La Corte di Giustizia, in termini generali, ha chiarito che: • l’esenzione in esame deve essere applicata avuto riguardo al carattere oggettivo dell’attività esercitata, con la conseguenza che non è sufficiente essere una società di assicurazione per porre in essere operazioni esenti, in quanto le stesse devono essere di volta in volta singolarmente valutate; • l’esenzione, diversamente da quanto previsto per le attività bancarie, si applica solamente quando la società assicurativa intrattiene un rapporto diretto con il cliente finale (29); sicché non sono agevolabili le operazioni effettuate da una società assicuratrice consistenti nella gestione dell’attività di un’altra società di assicurazione del gruppo. Oltre a rimarcare la necessaria applicabilità restrittiva del regime di esenzione, la Corte di Giustizia segnala, quale principale discrimen per il suo utilizzo, l’esistenza di un rapporto diretto dell’assicuratore con l’assicurato, circostanza questa che rappresenterebbe uno spartiacque tra le operazioni tipicamente assicurative, e dunque agevolabili, da quelle ausiliare ed ancillari che tuttavia non hanno questo requisito. Nel contratto di coassicurazione il ruolo rivestito dalla coassicuratrice delegataria nella gestione del rapporto con l’assicurato è preminente e diretto (ovvero esso non si esplica per il tramite dell’intervento di soggetti diversi). Ed invero, normalmente anche per esigenze di semplificazione tutti i rapporti con l’assicurato sono intrattenuti dalla coassicuratrice delegataria, la quale oltre a gestire tutte le comunicazioni si fa normalmente carico della maggiore quota del rischio assicurato. La valutazione del regime in funzione del citato requisito sembrerebbe, dunque, consentire l’applicabilità dell’esenzione alla fattispecie in esame.

(28) L’esenzione in argomento, espressamente prevista dall’art. 5, comma 1, lettera b) della legge delega del 9 ottobre 1971, n. 825, fu aggiunta al testo predisposto dal Governo dalla Camera dei Deputati nel presupposto che le operazioni stesse scontavano già l’imposta sulle assicurazioni. Al Senato fu osservato che il mantenimento in vigore della L. n. 1216/61 “[...] trae origine dall’esigenza di armonizzare l’imposizione del settore assicurativo italiano con l’imposizione previsto per lo stesso settore assicurativo negli altri Stati membri della Comunità economica europea appunto realizzata a mezzo di un’imposta speciale”. (29) C.G.U.E., C-240/99, Skandia del 8 marzo 2001, pt. 34 e 35.


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Inoltre, un’interpretazione strettamente restrittiva dell’ambito di applicazione dell’art. 10, comma 1, n. 2) tale da escluderne l’applicabilità alla fattispecie in esame si porrebbe peraltro in contrasto con i più recenti orientamenti della Corte di Giustizia in settori diversi da quello assicurativo ma in cui l’esenzione Iva presenta caratteristiche analoghe. In altra occasione (30) la medesima Corte, a commento del regime di esenzione Iva relativo alla gestione di fondi comuni di investimento, ha ritenuto che rientrassero nell’ambito dell’esenzione anche prestazioni effettuate da un gestore esterno riguardanti gli elementi specifici ed essenziali dell’operazione esente, indipendentemente dal fatto che il beneficiario del servizio fosse il gestore del fondo e non il cliente finale. Peraltro, la suddetta interpretazione è stata ufficialmente accolta dall’Associazione Nazionale fra le Imprese Assicuratrici. In particolare, con circolare del 6 aprile 2005, alla quale ha fatto seguito la Comunicazione del 3 agosto 2007, l’Ania ha confermato l’applicabilità ai diritti di liquidazione del regime di esenzione disposto dal menzionato art. 10, primo comma, n. 2). In particolare nella circolare si legge: “La coassicurazione di per sé altro non è che una particolare configurazione del contratto assicurativo che viene adattato all’esigenza, da un lato, di ripartire efficientemente il rischio assicurato e, dall’altro, di semplificare i rapporti fra l’assicurato e le compagnie assicuratrici …. omissis … Riguardo al problema, evidenziato in premessa, di individuare il trattamento fiscale ai fini Iva delle somme spettanti alla delegataria, riteniamo che le stesse rientrino nell’ambito applicativo delle operazioni esenti ai sensi dell’ art. 10 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 ed in particolare del n. 2) del primo comma, in quanto trattasi di compensi determinati in base alla regolamentazione contrattuale che disciplina la coassicurazione quindi anche se corrisposti solo nel caso di accadimento del sinistro relativi al complesso delle operazioni che caratterizzano il rapporto di assicurazione come definito dal codice civile e, più in particolare, strumentali alle diverse fasi di gestione ed esecuzione del contratto di assicurazione”. 7. Il regime di esenzione di cui all’art. 10, comma 1, n. 9), del D.p.r. n. 633/72. – Il regime di esenzione Iva delle commissioni di delega in esame sarebbe sostenibile anche con riferimento alla specifica norma di esenzione

(30) C.G.U.E., C-169/04, Abbey National pic e Inscape Investment Fund v. Commissioners of Customs & Excise del 4 Maggio 2006.


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prevista per le operazioni di mandato, mediazione ed intermediazione relative ad assicurazioni. In particolare, l’art. 10, comma 1, n. 9), del D.p.r. n. 633/72 dispone che “Sono esenti dall’imposta … le prestazioni di mandato, mediazione e intermediazione relative alle operazioni di cui ai nn. da 1) a 7)”. Questa soluzione, tuttavia, non sembra essere quella sposata dalla giurisprudenza maggioritaria di merito e la motivazione è data dal fatto che, ancorché il riferimento al mandato indicato nella legislazione Iva sia nella specie conferente, attesa la riconducibilità della fattispecie al mandato con rappresentanza, sembra tuttavia che l’intervento della coassicuratrice delegataria sia qualificabile quale intervento nella gestione del rapporto assicurativo in senso lato, piuttosto che nello svolgimento di attività tipiche dell’intermediario. Ulteriori complessità derivano inoltre dalla circostanza che la Direttiva Iva, non menziona il mandato e fa riferimento esclusivo alle operazioni di “mediazione e di intermediazione”. Dispone, infatti, l’art. 135, par. 1, lett. a): “Gli Stati membri esentano le operazioni seguenti: a) le operazioni di assicurazione e di riassicurazione, comprese le prestazioni di servizi relative a dette operazioni, effettuate dai mediatori e dagli intermediari di assicurazione”. Per la Suprema Corte questa disposizione trova corrispondenza nel diritto interno nel D.p.r. n. 633/72 all’art. art. 10, comma 1, n. 2 che stabilisce: “Sono esenti dall’imposta: (...) 2) le operazioni di assicurazione, di riassicurazione e di vitalizio; (...) 9) le prestazioni di mandato, mediazione e intermediazione relative alle operazioni di cui ai numeri da 1) a 7), (...)”. Ma è bene ricordare nuovamente che per la Cassazione non è decisiva la questione se l’attività svolta dalla delegataria avvenga con mandato con o senza rappresentanza. Ciò in ragione del fatto che occorre avere – a prescindere – una visione unitaria sotto il profilo economico e funzionale del concetto di operazione di assicurazione per la quale l’esecuzione della delegataria come mandataria o meno non si riverbera sulla valutazione di unicità della prestazione. Questo passaggio – e si cerca di riprendere quanto già anticipato nel paragrafo n. 5 – è in parte condivisibile e in parte no. Lo è nella parte in cui sposa la visione esclusivamente unitaria della prestazione a prescindere dalle modalità di esecuzione dove secondo l’interpretazione della Corte di Giustizia “Le prestazioni di servizi relative a operazioni di assicurazione”, costituiscono una nozione sufficientemente ampia da ricomprendere diverse prestazioni che concorrono alla realizzazione di operazioni di assicurazione e, segnatamente, anche la liquidazione di sinistri, la quale costituisce una delle parti essenziali di tali operazioni”.


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Quanto al requisito che le prestazioni in questione debbano essere “effettuate dai mediatori e dagli intermediari di assicurazione”, la CGUE sottolinea la necessità di esaminare in concreto il contenuto dell’attività di cui trattasi, per determinare se la stessa rientri o meno nell’ambito di applicazione dell’esenzione, a prescindere dal possesso o meno della qualifica formale di mediatore o di intermediario di assicurazione (31). Le condizioni in concreto richieste sono due: il prestatore dev’essere in rapporto sia con l’assicuratore che con l’assicurato. Dunque, benché la norma preveda l’esecuzione da parte di [mandatari], mediatori e intermediari, la loro qualifica formale è irrilevante. Viene sicuramente valorizzata l’attività in concreto esercitata. Un approccio, dunque, puramente sostanzialistico. Alla luce di questa impostazione logicamente il mandato perde di per sé ogni rilevanza giuridica autonoma sotto il profilo formale. Non è condivisibile il ragionamento della Suprema Corte, invece, ad avviso di chi scrive, per due ragioni. La prima perché la norma interna prevede anche il mandato rispetto alla disciplina europea e, diversamente da quanto afferma la Suprema Corte, le due discipline – europea e italiana - almeno sotto questo profilo, non sono speculari. O si considera la disposizione italiana, in quella parte, tamquam non esset poiché non prevista dalla Direttiva e incompatibile con essa se divergente sotto il profilo dell’individuazione dell’operazione o perché estesa come fattispecie esente oppure una qualche rilevanza occorrerà attribuirgliela. La seconda perché anche a non voler riconoscere valenza normativa al mandato – non essendo previsto dalla Direttiva nemmeno come possibilità in capo ad ogni Stato membro di adottarla – non si può certo escludere una sua valenza argomentativa piuttosto forte. Se non dirimente, può essere sicuramente di aiuto valutare se una prestazione della delegataria sia stata svolta con mandato con o senza rappresentanza proprio per vagliare quella accessorietà, legame o comunque secondarietà di una prestazione che, però, così, diviene necessariamente, funzionalmente, economicamente e inscindibilmente collegata alla prestazione principale. In quest’ottica, indubbiamente, il confine è sfumato, atteso che l’ampiezza dei poteri concessi alla coassicuratrice delegataria fa sì che essa si faccia carico di attività che normalmente sono svolte, ad esempio, dal mediatore, come quella di mettere in contatto più persone o comunque quella dell’intermediario, ovvero di interposizione nella circolazione di beni e servizi.

(31) C.G.U.E., C-8/01, punto 35.


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Diversamente, spiragli per una possibile inversione di tendenza rispetto all’imponibilità Iva delle commissioni percepite dalla società delegataria potrebbero rinvenirsi nella posizione assunta dalla nostra Amministrazione finanziaria rispetto alla nozione di intermediazione: non costituisce una figura negoziale specifica e può, pertanto, riferirsi a tutte le ipotesi contrattuali che comportano, comunque, una interposizione nella circolazione dei beni e dei servizi (32). 8. Il regime di esenzione Iva collegato alle prestazioni accessorie di cui all’art. 12, comma 1 del D.p.r. n. 633/72. – Come già anticipato si potrebbe considerare la prestazione della mandataria o delegataria come prestazione accessoria – non direttamente in sé un unicum con quella principale – e ritenerla esente in virtù del disposto di cui all’art. 12, comma 1 del decreto Iva che stabilisce: “Il trasporto, la posa in opera, l’imballaggio, il confezionamento, la fornitura di recipienti o contenitori e le altre cessioni o prestazioni accessorie ad una cessione di beni o ad una prestazione di servizi, effettuati direttamente dal cedente o prestatore ovvero per suo conto e a sue spese, non sono soggetti autonomamente all’imposta nei rapporti fra le parti dell’operazione principale”. È opinione di chi scrive che proprio questo sarebbe il campo elettivo di più agile applicazione del regime di esenzione della prestazione della delegataria collegata a quella principale (33). La Suprema Corte nella sentenza in commento evidenzia di conoscere bene i principi e la giurisprudenza europea in ordine a questo regime. Pur essendo vincolata da una sentenza impugnata che nel merito ha ritenuto esclusivamente che la prestazione principale e quella della delegataria costituissero un unicum ricadente sotto la previsione del n. 2), comma 1 dell’art. 10 del D.p.r. n. 633/72, ha inserito nel principio di diritto a cui attenersi nel giudizio

(32) Cfr. Risoluzione n. 77/E del 16 luglio 1998, a supporto della tesi della configurabilità del regime di esenzione nell’ipotesi di mandato. La risoluzione richiamata precisa che poiché “L’intermediazione non costituisce una figura negoziale specifica, essa può essere riferita a tutte le ipotesi contrattuali che comportano comunque una interposizione nella circolazione di beni e servizi”. (33) Nel senso di assoluta impossibilità di applicare questa esenzione, pur se argomentata con riferimento alla sola norma italiana: M. Procopio, Le commissioni di delega nelle operazioni di coassicurazione ed il loro trattamento ai fini iva: un problema ancora irrisolto, in GT – Riv. giur. trib., 2015, n. 10, 792 e ss.


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di rinvio anche l’ipotesi che si possa trattare di prestazioni accessorie invitando la CT di 2° grado della Liguria, in diversa composizione, a motivare più approfonditamente in ordine al corretto inquadramento della fattispecie: “Spetta al giudice della controversia accertare, alla luce di questi elementi d’interpretazione, se l’operazione controversa debba essere considerata ai fini dell’IVA, unitariamente come “operazione di assicurazione”, ovvero come costituita da prestazioni indipendenti, ovvero se ricorrano prestazioni accessorie”. E questo passaggio è fondamentale perché, ad avviso di chi scrive, ricondurre le operazioni in oggetto sotto il profilo dell’unicum non è l’unica strada che occorre seguire (anche se indubbiamente la giurisprudenza di merito si è spaccata intorno alla ricorrenza o meno di questa unitarietà, senza considerare l’accessorietà). Quella dell’accessorietà, così come definita anche dalla Corte di Giustizia, risulta apparentemente molto più agevole. Sul versante della prassi amministrativa l’Agenzia delle Entrate ritiene che “Perché si delinei un rapporto di accessorietà tra due prestazioni non è sufficiente che la prima assicuri una generica utilità all’attività, considerata nel suo insieme, posta in essere dal prestatore che realizza a valle l’operazione (o le operazioni) principale/i. Occorre, piuttosto, che la prestazione accessoria formi un tutt’uno con l’operazione principale e non solo che questa sia resa possibile o più agevole in funzione dell’effettuazione della prestazione accessoria” (34). Asserisce, inoltre, che “Occorre in particolare che le prestazioni accessorie siano effettuate proprio per il fatto che esiste una prestazione principale, in combinazione con la quale possono portare ad un determinato risultato perseguito. Conclusivamente sono accessorie solo le operazioni poste in essere dal medesimo soggetto in necessaria connessione con l’operazione principale alla quale, quindi, accedono e che hanno, di norma, la funzione di integrare, completare o rendere possibile la detta prestazione o cessione principale” (35). La sussistenza del rapporto di accessorietà, quindi, richiede da un lato, la convergenza di tutte le prestazioni nella direzione della realizzazione di un unico obiettivo e, dall’altro, un nesso di dipendenza funzionale delle prestazioni accessorie rispetto alla prestazione principale. In ambito europeo troviamo un riferimento alle prestazioni accessorie nella Direttiva Iva n. 2006/112/CE all’art. 78, par. 1, lett. b) il quale prevede che i

(34) (35)

Risoluzione n. 230/E del 15 luglio 2002. Risoluzione n. 6 del 11 febbraio 1998 dell’ex Dipartimento delle Entrate.


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corrispettivi relativi alle operazioni accessorie Iva, anche se addebitati separatamente dal prezzo, non assumono autonoma rilevanza ai fini dell’applicazione del tributo e seguono l’operazione principale (36): “Nella base imponibile devono essere compresi gli elementi seguenti: b) le spese accessorie, quali le spese di commissione, di imballaggio, di trasporto e di assicurazione addebitate dal fornitore all’acquirente o al destinatario della prestazione”. Come si desume dal raffronto della norma nazionale con quella europea, quest’ultima non richiede, a differenza della prima, che le operazioni accessorie siano effettuate direttamente dal cedente o prestatore ovvero per suo conto e a sue spese, in quanto risulta sufficiente (per la norma europea) che le stesse siano chieste dal fornitore all’acquirente o al destinatario della prestazione indipendentemente dal soggetto che materialmente le pone in essere. In altri termini, la sussistenza del rapporto di accessorietà non può prescindere dall’esistenza, in concreto, di una dipendenza funzionale delle due prestazioni; il che significa che una prestazione deve essere considerata accessoria ad una prestazione principale quando essa non costituisce per la clientela un fine a sé stante, bensì il mezzo per fruire nelle migliori condizioni del servizio principale offerto dal prestatore. La Corte di Giustizia, sul punto, ha avuto modo di precisare che “Una prestazione dev’essere considerata accessoria ad una prestazione principale quando non costituisce per la clientela un fine a sé stante, bensì il mezzo per fruire nelle migliori condizioni del servizio principale offerto dal prestatore” (37). Ha, altresì, statuito che un’operazione articolata deve valutarsi unitariamente, ai fini Iva, quando “due o più elementi o atti forniti dal soggetto passivo al cliente sono così strettamente connessi da formare, oggettivamente, una sola prestazione economica, la cui scomposizione avrebbe carattere artificiale” (38). La stessa Corte, rinviando a quanto già statuito in precedenza (39), ha inoltre osservato che quando l’operazione è costituita da un unicum

(36) M. Logozzo, La qualificazione unitaria dell’operazione ai fini IVA, in GT – Riv. Giur. Trib., 2006, n. 3, 210 e ss. (37) C.G.U.E., C-380/99, Bertelsmann AG v. Finanzamt Wiedenbrück del 03/07/2001, C-349/96, cit. e C-76/99, Commission of the European Communities v. French Republic del 11/01/2001. (38) C.G.U.E., C-88/09, Graphic Procédé v. Ministère du budget, des comptes publics et de la fonction publique del 11/02/2010. (39) C.G.U.E., C-231/94, Faaborg-Gelting Linien A/S v. Finanzamt Flensburg del


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sotto il profilo economico questa non deve essere artificiosamente divisa in più operazioni e ciò proprio per non alterare il corretto funzionamento del sistema Iva e non falsare la concorrenza. Infatti la qualificazione secondo i criteri europei di un’operazione come unica, e non come un insieme di più attività diversamente classificabili ai fini della loro imposizione, limita la possibilità da parte del soggetto passivo d’imposta di scegliere il regime impositivo a lui più favorevole, regime la cui identificazione dipende, come noto, dal tipo di attività (cessione di beni o prestazione di sevizi) che il prestatore decide di realizzare (40). Ma questa, a ben vedere, è un’ineccepibile interpretazione di carattere quasi “antielusivo” che nel caso di specie, dei rapporti di coassicurazione, probabilmente mal si presta ad essere calata quale punto di riferimento per la soluzione della questione. Ora, la strada dell’accessorietà che qui si cerca di indicare come maggiormente agile da seguire, occorre considerarla, naturalmente, orientandola alla luce dei principi europei. Significa, che l’accessorietà della prestazione non può avere una posizione giuridicamente autonoma sotto il profilo fiscale. La struttura del negozio giuridico che la sorregge diventa irrilevante e non decisiva a fronte dell’unicità economico-funzionale dell’operazione nel suo complesso, cioè latamente intesa, inclusiva naturalmente di ogni prestazione accessoria che da sola non abbia un significato giuridico, economico, funzionale e autonomo slegato dall’operazione principale. Considerando che in ambito normativo europeo non è prevista una definizione di prestazione principale e nemmeno un criterio per distinguerla da quella accessoria, la soluzione potrebbe trovarsi non tanto nella comparazione economica delle due operazioni, che, peraltro, può costituire un valido strumento di indagine, quanto piuttosto nel risultato dell’operazione, valutato nel suo complesso, che le parti intendono raggiungere (41). Sicché, appare chiaro che, al di là dell’incidenza del prezzo, l’accessorietà è data dalla posizione subordinata dell’operazione accessoria rispetto a quella principale. In sintesi, sono da considerare accessorie solo le prestazioni poste in essere in necessaria connessione con l’operazione principale che hanno la funzio-

02/05/1996. (40) Sul punto, M. Pierro, op. cit., 931. (41) cfr. R. Lupi, Diritto Tributario, Parte Speciale, Milano, III ed., 370.


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ne di integrare, completare o rendere possibile l’operazione principale (42). Proprio la mancanza di autonomia delle operazioni accessorie determina il medesimo trattamento tributario di quelle principali riportandole tutte a un unicum. Una interpretazione differente che accomunasse tutto solo sotto l’egida dell’unicum della prestazione a nulla rilevando le singole operazioni poste in essere, se non per un risultato finale, finirebbe con lo svalutare il senso della previsione italiana – ovvero quello di considerare l’autonomia giuridica di una previsione di carattere generale che deve essere applicata – rendendolo inutile e inapplicabile. Questa interpretazione che si è cercato di sostenere tenta di valorizzare maggiormente le caratteristiche proprie delle singole operazioni proprio alla luce dei principi della giurisprudenza europea, attribuendo loro un significato non proprio ma funzionale. Conclusivamente, si può asserire l’indubbio pregio della pronuncia della Suprema Corte di Cassazione per aver chiarito i principi ai quali occorre attenersi per individuare il regime correttamente applicabile ai rapporti di coassicurazione nell’imposta sul valore aggiunto. È evidente, però, come tale valutazione spetti ai giudici di merito laddove occorre tenere sempre in considerazione il caso concreto per verificare, alla luce di un rigore sostanzialistico, se le singole prestazioni poste in essere – anche in termini di accessorietà – possono giungere ad essere valutate sotto un profilo economico-funzionale come un unicum in ossequio ai principi elaborati dalla giurisprudenza europea. Lo si ribadisce, la via dell’accessorietà della prestazione, così come intesa fino a questo momento, sembrerebbe quella maggiormente idonea a sostenere argomentatamente un regime di esenzione complessivo per tutte le operazioni.

Luca Sabbi

(42) Così anche M. Logozzo, Le prestazioni accessorie seguono il regime Iva dell’operazione principale: il caso delle slot machine, in GT – Riv. Giur. Trib., 2010, n. 6, 528 e ss.



Rubrica di diritto penale tributario a cura di Ivo Caraccioli

Corte App. Milano, sez. III, 21 gennaio 2016 - 6 settembre 2016, n. 440; Pres. Orsini, Est. Gamacchio. Reati tributari – Omessa dichiarazione – Art. 5, D.Lgs. n. 74/2000 – Gruppi di società – Luogo di residenza fiscale della società controllata – Esterovestizione – Società non costituente struttura di puro artificio – Rilevanza penale – Esclusione La dimostrazione dell’esterovestizione funzionale alla violazione dell’articolo 5 Decreto Legislativo 74/2000 deve passare per l’ineffettività della gestione estera. Non costituisce illecito penale l’acquisizione da parte di un gruppo della titolarità di marchi in precedenza di proprietà di persone fisiche, accompagnata dalla scelta, sulla scorta del diritto di stabilimento, di insediare in Lussemburgo la società che quei marchi ha acquisito e che ha poi concretamente ed effettivamente esercitato la attività statutaria, valendosi di personale proprio e della collaborazione di società lussemburghesi di servizio per l’attività contabile ed amministrativa.

Motivi della decisione (Omissis). A seguito della progressiva erosione oggettiva e soggettiva della imputazione (il Gup di Milano aveva dichiarato l’insussistenza della originaria imputazione di truffa e della contestazione elevata ai sensi dell’articolo 4 Decreto Legislativo 74/2000 nei confronti di DOLCE Domenico e GABBANA, il Tribunale di Milano aveva reiterato tale ultima valutazione assolvendo entrambi gli imputati per insussistenza del fatto, ed aveva altresì mandato assolta A. N. per difetto dell’elemento soggettivo, la Corte territoriale e la Corte Suprema avevano dichiarato l’estinzione di alcuni addebiti per intervenuta prescrizione con riferimento, rispettivamente all’evasione IVA 2004 e all’evasione IRES 2004 per tutti gli imputati quanto al giudizio di appello, e quanto all’evasione IVA 2005 con riferimento a DOLCE Alfonso quanto al giudizio di cassazione, la Corte Suprema altresì aveva assolto per insussistenza del fatto tutti i correi di DOLCE Alfonso nell’addebito di cui all’articolo 5 Decreto Legislativo 74/2000, eliminando tutte le statuizioni civili) oggetto del presente giudizio di rinvio residua una sola imputazione (violazione articolo 5 Decreto Legislativo 74/2000 per omessa dichiarazione ai fini IRES) ascritta al solo DOLCE Alfonso amministratore di GADO S.a.r.l.


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La Corte di cassazione ha dettato con molta chiarezza il principio di diritto sulla base del quale doveva essere condotta verifica delle prove da parte del Giudice del rinvio: appartenendo al fatto ed essendo essenziale l’accertamento in ordine allo svolgimento effettivo e alla consistenza non artificiosa dell’insediamento estero (foglio 55 della sentenza di annullamento) il mandato riguardava esclusivamente l’accertamento circa il fatto se GADO S.a.r.l. operasse realmente in conformità esclusivamente al suo oggetto sociale (ibidem, foglio 93). Ai fini di una corretta conduzione di tale accertamento – ammoniva la Corte Suprema in ciò ulteriormente vincolando il Giudice del rinvio, che, non seguendo tale indicazione, avrebbe ripetuto i vizi di motivazione rilevati in sede di giudizio rescindente: sul punto, espressamente Cassazione penale, sezione IV, 14 ottobre 2013, estensore Chiliberti – di nessuna utilità poteva essere il fatto che il personale dipendente da GADO S.a.r.1. continuasse ad avere rapporti con dirigenti o consulenti storici del gruppo nel quale la controllata estera era inserita: infatti erano risultate chiare la erroneità e la contraddittorietà della motivazione che non aveva tenuto conto che le mail in primo luogo riguardavano soprattutto l’anno 2004, non riguardavano affatto l’attività del legale rappresentante DOLCE Alfonso del quale non si affermava la etero direzione quale amministratore interposto, ed erano invece giustificate “alla luce del complesso intreccio organizzativo e funzionale che intercorre tra una controllata e la sua controllante capogruppo, che fisiologicamente si risolve in un rapporto fra uffici e personale dell’una e dell’altra (altro tema del tutto trascurato)” (foglio 93 della sentenza di annullamento). Viceversa, non potevano essere estranee all’accertamento del Giudice del rinvio le “robuste ragioni extra fiscali ispiratrici della riorganizzazione del gruppo Dolce & Gabbana” la cui sussistenza era “incontestata”, eppure assolutamente ignorate dal Tribunale e dalla sentenza annullata della Corte territoriale. Vittime e prigionieri di una endiadi che presiedeva l’intera impostazione accusatoria – apparente localizzazione della controllata in Lussemburgo, e gestione di fatto della medesima in Milano – i Giudici di merito avevano condotto un ragionamento la cui coerenza intrinseca era stata scardinata, ed aveva ignorato o contraddittoriamente risolto, i veri temi di fatto che la causa presentava: “la realtà dell’insediamento lussemburghese, l’effettività dell’attività ivi svolta, le ragioni stesse della scelta del Lussemburgo quale sede della nuova società” (sentenza di annullamento, foglio 92). Eppure DOLCE aveva articolato ampiamente un tema difensivo al riguardo nell’atto di appello, sollecitando la Corte ad ascoltare i testi mai sentiti perché revocati dal Tribunale, tanto che i Supremi Giudici demandavano a questa Corte di valutare – alla luce del riesame dell’intero compendio probatorio da condurre in ossequio ai principi di diritto ampiamente enunciati nella sentenza di annullamento – la necessità dell’ulteriore “approfondimento istruttorio sollecitato da DOLCE Alfonso” (ibidem).


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Deve osservare innanzi tutto la Corte come le ragioni extra fiscali della riorganizzazione del gruppo Dolce & Gabbana, nell’ ambito della quale va inserita la vicenda di GADO S.a.r.l. erano state convenientemente apprezzate dal Giudice per le Indagini Preliminari di Milano nella sentenza primo aprile 2011, citata: “la struttura societaria ... presentava tuttavia una significativa peculiarità, che si traduceva sostanzialmente in un elemento di debolezza costituito dal fatto che la proprietà dei marchi era esterna al gruppo e faceva capo ai due stilisti personalmente, i quali come persone fisiche possedevano i marchi in comunione tra loro al 50%. Sul punto può essere utile dare la parola ad una persona informata sui fatti ed ascoltata in sede di indagini difensive dalla difesa P.: si tratta di R. A., al tempo dei fatti dipendente dello studio associato di professionisti che ha poi lasciato nel 2007. All’interno dello studio associato, la professionista faceva parte del gruppo che sotto la responsabilità del dottor P. forniva consulenze in materia di acquisizione e riorganizzazione societaria, transfer pricing e contenzioso tributario. La teste ricorda che nella primavera del 2003 il direttore generale del gruppo Dolce & Gabbana, l’odierna imputata C. R. comunicava allo studio associato la decisione maturata all’interno del gruppo di procedere ad una ristrutturazione aziendale con cessione dei marchi ad una società del gruppo finalizzata essenzialmente a ricollocare i marchi all’interno del gruppo stesso e a ridefinire la partecipazione azionaria della famiglia DOLCE. Fu in quella occasione che il direttore generale riferì che la situazione di contitolarità dei marchi era giudicata un elemento di debolezza dal sistema bancario, che temeva le ripercussioni legate agli eventuali dissidi che sarebbero potuti insorgere tra i due stilisti. Inoltre, il gruppo mirava ad ampliare la propria posizione soprattutto sul mercato estero. Quanto alla decisione di costituire in Lussemburgo una società che avrebbe acquistato i marchi ed il cui capitale sarebbe stato interamente detenuto da un’altra società neo costituita, la Dolce & Gabbana Luxembourg S.a.r.l., a sua volta ovviamente controllata dalla holding italiana, era dettata da due ragioni: la prima risiede nella volontà di collocare i marchi su un mercato finanziario appetibile, in vista dell’eventuale quotazione in borsa di obbligazioni o azioni del gruppo; la seconda risponde all’obiettivo dell’ottimizzazione del posizionamento fiscale ... anche alla luce del principio comunitario della libertà di stabilimento per le imprese che trasferiscono la loro attività in uno Stato CE. La stessa motivazione è confermata e precisata dalla stessa imputata C. R., sentita in data 17/12/2008 dal suo stesso difensore, Avv. D., al quale ha dichiarato, tra l’altro, che la situazione di contitolarità al 50% sia dei marchi, sia delle azioni della holding, aveva destato preoccupazioni sempre crescenti: con il crescere delle dimensioni del gruppo, che oggi conta più di 3500 persone, cresceva anche la preoccupazione che un assetto azionario di tale genere potesse determinare, nel caso fossero insorti dei contrasti tra i due proprietari (come è notorio che effettivamente accadde, ndr Gup) una situazione di blocco nell’assumere le decisioni, con inevitabili ricadute nella gestione operativa della società. Per


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quanto riguardava, invece, i marchi, a questa preoccupazione si aggiungeva il fatto che il sistema economico/bancario (fornitori, licenziatari, banche) non vedevano di buon occhio che l’asset più importante su cui si sviluppava l’intera attività fosse al di fuori dell’azienda, nell’assoluta disponibilità di persone fisiche, tra l’altro anche legate sentimentalmente. Inoltre l’attività di Dolce & Gabbana S.r.l. a quel tempo si limitava alla parte stilistico creativa e alla promozione – commercializzazione dei prodotti. L’attività di produzione era invece affidata ad alcuni licenziatari, il più importante dei quali la DOLCE Saverio S.r.l., licenziataria esclusiva dei capi di abbigliamento ed accessori di prima linea, il più alto livello di qualità. Tale società era di proprietà dei genitori e dei fratelli del signor Domenico DOLCE, oltre che dello stesso. Il signor Stefano GABBANA, invece, non deteneva alcuna quota di tale società. Molteplici erano gli aspetti operativi, gestionali, finanziari che conducevano a ritenere opportuna una concentrazione tra le realtà creative, comunicazioni e commerciali (Dolce & Gabbana) e quelle produttive - distributive (Dolce Saverio). Riservandosi valutazioni dettagliate nel prosieguo, si deve osservare sin d’ora che tali dichiarazioni, pur provenendo da un’imputata e dall’interno del gruppo (ma in modo conforme alle dichiarazioni di A. che è persona informata sui fatti) riferiscono dati obiettivi e sono dotate di una verosimiglianza e di una comprensibilità abbastanza elementari, sotto il profilo imprenditoriale che le rende particolarmente attendibili, soprattutto in considerazione della totale assenza di elementi che le possano confutare come tali. È appena il caso di ricordare che anche l’imputato M. ha reso dichiarazioni del tutto conformi in sede di indagini difensive. Di conseguenza, in data 4 marzo 2004 venivano costituite le società lussemburghesi Dolce Gabbana Luxembourg S.a.r.l. e GADO S.a.r.l., interamente partecipata dalla prima. Nello stesso mese, Domenico DOLCE e Stefano GABBANA cedevano la titolarità dei loro marchi alla società GADO S.a.r.l. per il corrispettivo pattuito di 360 milioni di euro. Come si sa, il prezzo di cessione dei marchi veniva stabilito dal gruppo sulla base di una valutazione commissionata alla nota società di consulenza Price Waterhouse Coopera, che stimava il valore dei marchi cedendi intorno a 355 milioni di euro. Con nuovi contratti i marchi venivano poi concessi in licenza dalla nuova proprietaria licenziante GADO S.a.r.l. in via esclusiva alla Dolce & Gabbana S.r.l. con la previsione del pagamento di royalties da determinarsi percentualmente sul fatturato nella misura compresa tra il 3 e 1’8%, secondo le linee di prodotto. In questo modo, le royalties venivano percepite non più dagli artisti personalmente, ma dalla società lussemburghese GADO S.a.r.l., che secondo il diritto fiscale di quel Paese aveva stipulato un accordo di negoziazione del livello impositivo (c.d. ruling) grazie al quale la misura delle imposte sui redditi veniva stabilita in modo individuale e fisso nella misura del 4% circa, con un vistoso vantaggio fiscale. La società lussemburghese veniva infine domiciliata presso una società specializzata in consulenza e domiciliazione denominata Alter Domus ed in Lussemburgo veniva trasferita M. G. B., la dipendente del gruppo che già si occupava dei marchi quando


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questi erano posseduti personalmente dai due stilisti” (sentenza primo aprile 2011 Gup di Milano, fogli 6/8). Su tale ultimo aspetto della ricostruzione effettuata dal Gup presso il Tribunale di Milano, nella quale il ruolo di GADO S.a.r.l. si inseriva armoniosamente (giusta rilievi poi ripresi anche dalla sentenza di annullamento) in un processo più vasto ed organico del quale venivano illustrate le ragioni, ritenute perfettamente credibili, la Corte tornerà. A questo punto della disamina, invece, preme sottolineare come, in dibattimento e nel contraddittorio delle parti, R. A.’ – la cui credibilità come persona informata sui fatti veniva sottolineata dal Gup di Milano con la sottolineatura della circostanza per cui al momento in cui rendeva dichiarazioni in sede di indagini difensive non era più una collaboratrice dello studio associato nel quale lavorava nel gruppo coordinato dall’imputato P. all’epoca dei fatti per cui è causa – rendeva dichiarazioni del tutto conformi a quelle rese in indagini difensive. Si vuol riferire la Corte alla deposizione resa al Tribunale di Milano all’udienza del 3 maggio 2013 (cfr. fogli 4/32 della relativa trascrizione). Nell’occasione, la testimone, sia nel corso dell’esame della difesa P., che l’aveva indotta, sia nel corso del serrato controesame del pubblico ministero, sostenuto senza difficoltà, ribadiva integralmente la originaria ricostruzione dei fatti. E dunque ricordava per il Tribunale R. A.: che a P. il gruppo Dolce & Gabbana aveva rappresentato la necessità del trasferimento dei marchi dalle persone fisiche dei due stilisti al gruppo, sia per evitare la paralisi in caso di dissidi fra i due proprietari sia per conferire più solidità al gruppo che era percepito come più debole senza la titolarità dei marchi stessi, anche in caso in cui si fosse deciso per la quotazione in borsa, ipotesi che all’epoca era al vaglio (ibidem, fogli 6/7); che nell’ambito di tale ristrutturazione doveva essere rivisto l’assetto societario, con particolare riferimento alla posizione della famiglia DOLCE (ibidem, foglio 7); che il progetto prevedeva il trasferimento dei marchi ad una società estera, che avrebbe svolto le attività strettamente legate alla titolarità dei marchi, e quindi relative “alla registrazione dei marchi, al rinnovo, a tutte le attività di difesa dei marchi” (ibidem, foglio 8); che in seguito ad una ricerca erano stati selezionati Paesi europei di standing finanziario elevato, quali Olanda e Lussemburgo, e che poi la scelta era caduta sul Lussemburgo, la cui legislazione prevedeva la possibilità che ci fossero accordi con la amministrazione fiscale locale “per una tassazione agevolata dei ricavi derivanti dall’utilizzo dei marchi” (ibidem, foglio 10); che la struttura della società lussemburghese era stata implementata con l’attività della dottoressa B. e che dal punto di vista amministrativo e contabile il gruppo Dolce & Gabbana si era rivolto, su suggerimento della Price Waterhouse Coopers, ad una società lussemburghese specializzata in questo tipo di servizi, l’Alter Domus (fogli 12 e seguente). Anche l’imputata R. C. confermava le dichiarazioni rese in sede di indagini


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difensive, ricordando le richieste di partners od eventuali futuri investitori, nonché, in via generalizzata, dei banchieri, affinché si ponesse mano alla razionalizzazione del gruppo: “me lo ha detto C., che era anche persona che abbiamo citato come teste, me lo disse M., me lo disse Deutsche Bank, me lo dissero tutti, P.I, cioè tutte le banche con cui noi avevamo a che fare quando si parlava di potere accedere ad un credito che non fosse ordinario, ma che fosse importante per dare possibilità all’azienda di svilupparsi e competere con lo scenario competitivo che c’era in quegli anni, dove le altre aziende erano molto più importanti, molto più forti di noi; ci dicevano: signori, noi saremmo anche disponibili, ma quando guardiamo il vostro bilancio vediamo nei costi royalties passive, che cosa sono? Eh, sono le royalties che noi paghiamo ai proprietari dei marchi. Ma perché i marchi non sono vostri? No, non sono nostri. Questo, signora, è un problema” (trascrizione udienza 19 aprile 2013, foglio 41). Del tutto conformi alla ricostruzione di A. anche le dichiarazioni degli imputati M. e P. Va da sé che, a fronte di un contesto probatorio di tal fatta, non risulta in alcun modo condivisibile la (immotivata) valutazione del primo Giudice secondo cui “rimane molto sfuggente ... la reale esigenza (anche solo concorrente al risparmio fiscale) sottesa alla scelta del Lussemburgo come sede effettiva della società titolare dei marchi” (sentenza Tribunale di Milano, foglio 17). Eppure, era lo stesso Tribunale ad aver riconosciuto (a foglio 9) che il progetto proposto dal P. corrispondeva “esattamente alla struttura societaria” poi concretizzatasi, ed in effetti, per corrispondere alle reali e concrete esigenze che gli erano state prospettate, il professionista, nella nota esplicativa del 21 gennaio 2004 (versata in allegato 4 alla memoria ex articolo 121 del codice di rito depositata all’udienza del 14 giugno 2013), aveva individuato le seguenti operazioni da realizzare in vista del perseguimento del progetto di ristrutturazione del gruppo la cui necessità gli era stata rappresentata dal gruppo dirigente ed in particolare dal direttore generale R.: costituzione di una società holding di diritto lussemburghese, costituzione di una società di diritto lussemburghese destinata ad acquisire la titolarità dei marchi, negoziazione di un ruling con l’autorità fiscale lussemburghese finalizzato a disciplinare preventivamente il regime di tassazione applicabile alla società detentrice dei marchi, cessione attraverso atto di vendita dei marchi dagli stilisti alla società di diritto lussemburghese di nuova costituzione, conferimento alla holding del 100% della Dolce & Gabbana S.r.l. La stessa accusa aveva dato atto nelle requisitorie finali del giudizio di primo grado che effettivamente lo scopo perseguito dal gruppo era quello di “inserire il marchio all’interno di una società del gruppo” (trascrizione udienza 29 maggio 2013, foglio 50). Tuttavia, come ha adeguatamente rilevato la Corte di cassazione nella sentenza di annullamento, la dimostrazione dell’esterovestizione funzionale alla violazione


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dell’articolo 5 Decreto Legislativo 74/2000 doveva passare per l’ineffettività della gestione estera mentre la censura rivolta dalla sentenza impugnata nei confronti degli imputati era che la decisione del gruppo di insediare GADO in Lussemburgo era ispirata esclusivamente dal fine di raggiungere un considerevole risparmio fiscale: dava atto il Tribunale di Milano che era incontestabile il diritto di stabilimento in Lussemburgo (foglio 28), ma dopo avere assunto che “la esterovestizione di GADO risulta pacificamente provata trattandosi di società allocata in Lussemburgo al solo fine di consentire la sottrazione di una ingente porzione di reddito imponibile – appunto le royalties prodotte in Italia dalle licenziatarie e sub licenziatarie – trasferendole in Lussemburgo dove le stesse venivano tassate applicando l’aliquota del 4%” (foglio 17). Quanto a quest’ultimo dato, è stato lo stesso procuratore generale a rilevarne all’odierna udienza il carattere fuorviante, richiamando le conclusioni del perito di parte (cfr. al riguardo la consulenza D. e l’esame del consulente all’udienza del 17 aprile 2013, con particolare riferimento, rispetto al tema che ne occupa, ai fogli 113 e seguenti della relativa trascrizione). Tuttavia, non deve la Corte abbandonare il sentiero argomentativo tracciato con il massimo rigore dalla sentenza rescindente. Per l’atto costitutivo di GADO S.a.r.l. è necessario rinviare all’allegato 38 del processo verbale di contestazione 5 settembre 2007: acquisire partecipazioni e titolarità di marchi, curare l’amministrazione di marchi e concederli in licenza. Dal punto di vista della gestione del marchio la ristrutturazione alla quale la dirigenza del gruppo si è determinata per corrispondere alle esigenze rappresentatele che costituiscono quelle robuste ragioni extra fiscali sulle quali ha diffusamente argomentato la sentenza rescindente nulla ha modificato rispetto alla situazione previgente, ove le attività di commercializzazione e sviluppo del marchio erano destinate alla licenziataria Dolce & Gabbana Srl, mentre le prerogative legate alla titolarità dei marchi erano di competenza delle persone fisiche di DOLCE Domenico e GABBANA Stefano che avevano affidato la attività di tutela dei marchi stessi ad un ufficio del quale nell’ultimo periodo era per l’appunto titolare quella dottoressa BERGOMI (cfr. deposizione teste F. foglio 6 e seguente della trascrizione dell’udienza del 17 aprile 2013) che avrebbe poi svolto le stesse funzioni in GADO S.a.r.l. nel primo periodo di attività di quest’ultima. Anche dopo la ristrutturazione Dolce & Gabbana S.r.l. proseguiva nella attività di licenziataria. È nello stesso processo verbale di contestazione del 24 settembre 2009 la attestazione secondo la quale “nel contratto di licenza stipulato tra GADO S.a.r.l. e la Dolce & Gabbana S.r.l. è previsto che la licenziataria ponga in essere l’attività promozionale e pubblicitaria e comunque quella utile ad incrementare la commercializzazione e gestione – realizzazione dei marchi, attività che svolgeva anche quando i marchi erano di proprietà delle persone fisiche”.


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La scissione – vero oggetto della riorganizzazione – tra persone fisiche degli stilisti e proprietà dei marchi aveva come naturale conseguenza quella per la quale le royalties che prima della ristrutturazione erano corrisposte, come ha spiegato R. al Tribunale da Dolce & Gabbana alle persone fisiche di DOLCE Domenico e Gabbana Stefano successivamente alla istituzione di GADO S.a.r.l. erano viceversa corrisposte a quest’ultima. Del tutto errata risulta dunque la conclusione assunta dal tribunale a foglio 29 della sentenza secondo la quale era “in pratica cambiato il rapporto tra i soggetti titolari di marchi (Domenico Dolce e Stefano Gabbana prima e GADO Sarl in seguito) e la società licenziataria (Dolce e Gabbana srl). La testimone B. aveva a sua volta invero confermato al primo Giudice (foglio 242 della trascrizione dell’udienza 6 febbraio 2013) che “l’attività di valorizzazione dei prodotti, commercializzazione, promozione, valorizzazione, pubblicità, sviluppo era di esclusiva competenza della licenziataria”. Si è già dato ampio conto delle severe critiche riservate dalla sentenza di annullamento con riferimento alla attività della stessa B. e della B. in favore di GADO S.a.r.l. Orbene, al riguardo le dichiarazioni delle due testimoni, che, come molte delle difese hanno rilevato nei motivi di appello avverso la sentenza del Tribunale di Milano, erano ricomprese nella lista del pubblico ministero, risultano decisive per assolvere al compito che la Corte Suprema ha esplicitamente assegnato a questa Corte quale giudice del rinvio. È bene ricordare, in primo luogo, che nella prima fase della attività di GADO S.a.r.l. distaccata presso la medesima era proprio la BERGOMI che aveva svolto la medesima attività quando proprietari dei marchi erano le persone fisiche di DOLCE Domenico e GABBANA Stefano. Il dato non può non risultare assolutamente significativo per la risoluzione della questione di fatto che ne occupa. Dunque la stessa persona che si occupava per DOLCE (Domenico) e per GABBANA della tutela dei marchi svolgeva gli stessi compiti per GADO S.a.r.l. Naturalmente, tenuto conto delle competenze della B., la medesima venne affiancata, per le diverse attività di amministrazione e contabilità da una società specializzata, la Alter Domus che come risulta dalla richiamata deposizione della credibile teste A. era stata segnalata al gruppo di professionisti coordinati da P. e da PRICE WATERHOUSE COOPERS LUXEMBOURG tra le società lussemburghese del settore. Risulta francamente incomprensibile come da questo elemento di fatto, e cioè dall’affidamento ad una società lussemburghese di funzioni amministrative la sentenza impugnata abbia tratto elementi per la tesi della esterovestizione quando l’incarico ad una società del luogo ove era stata insediata GADO S.a.r.l. deve far


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propendere, semmai gli si voglia attribuire qualche valenza probatoria, per la non fittizietà dell’insediamento medesimo. Impegnatasi a dire il vero B. ha poi riferito al Tribunale che la tutela del marchio era stata gestita da lei personalmente in Lussemburgo e con autonomia, essendo una attività di tipo tecnico (cfr. fogli 221- 224 della trascrizione dell’udienza 6 febbraio 2013): l’assunto veniva più volte ribadito dalla testimone (cfr. ibidem, foglio 148: “avevo assolutamente autonomia da questo punto di vista”). L’autonomia della B. era confermata dal teste F., il quale ha dichiarato di avere rapporti con riferimento alla tutela dei marchi “solo con lei” (foglio 11 della trascrizione dell’udienza del 17 aprile 2013) e la collaboratrice del F., A. P.I ricordava la autonomia di spesa di B.: “aveva certamente una autonomia di spesa perché a livello appunto di interventi comunque tempestivi le istruzioni presupponevano affrontare determinate spese” (ibidem, foglio 39; ai fogli 45 - 47 della stessa trascrizione sono registrate le dichiarazioni della teste che ha riferito come i rapporti dello studio, per tutto il tempo nel quale B. si era occupata dell’ufficio marchi, anche dopo la costituzione di GADO erano stati intrattenuti esclusivamente con la stessa). La deposizione F. – professionista esperto di marchi consulente del gruppo – non consente le conclusioni assunte dal Tribunale a foglio 30 che attribuiva proprio allo studio Guzzi e Ravizza di essere il vero nucleo pensante dell’attività anticontraffazione. A prescindere dalle inequivoche affermazioni del testimone (che così identificava i termini del rapporto con B.; “il consulente, ne sono ben conscio, dà un consiglio, quindi propone al cliente determinate strategie, facendo vedere rischi e costi, dopodiché la decisione non può che essere presa dal cliente e avevo pronta risposta decisionale”) non motivava in alcun modo il primo Giudice rispetto ad eventuali cambiamenti del rapporto tra responsabile della tutela dei marchi e consulente prima e dopo il progetto di ristrutturazione. Al riguardo, invero, il teste era stato nel corso della sua deposizione (consacrata ai fogli 4/34 della trascrizione dell’udienza 17 aprile 2013) del tutto preciso, avendo evidenziato come nell’ambito della consulenza resa dallo studio Guzzi e Ravizza con il gruppo Dolce & Gabbana la sua collaborazione per la tutela dei marchi era iniziata negli anni 1995 - 1996 con la dottoressa B. per poi continuare per l’appunto con la dottoressa B., la competenza della quale aveva consentito di continuare con professionalità la collaborazione (espressamente, ibidem, foglio 11). È in questo contesto che si colloca la riferita affermazione del testimone secondo la quale si “interfacciava” con B. prima (ibidem, foglio 12) e dopo (ibidem, foglio 13) la costituzione di GADO S.a.r.l, continuità di competenze che, tenuto conto di quanto si è riferito circa la attività complessiva di B. suona per la assoluta capacità decisionale della stessa anche quando lavorava per GADO nella fase iniziale dell’insediamento lussemburghese.


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Anche F. ricordava l’autonomia di spesa di B., a foglio 14 della trascrizione dell’udienza da ultimo citata. All’esito dell’attività di insediamento e di start - up di GADO S.a.r.l. B. era rientrata in Italia ed era stata rimpiazzata da B., la quale era a sua volta (così come B. e B. prima di lei) una esperta del settore marchi: così di sé la testimone al Tribunale (a foglio 43 della trascrizione dell’udienza 6 marzo 2013): “sono laureata in giurisprudenza, dopodiché ho iniziato a fare il tirocinio, ho iniziato presso uno studio di avvocati, poi ho lavorato per la Iacobacci, che è uno studio di consulenza per la proprietà intellettuale, poi ho lavorato sempre per la gestione dei marchi, anticontraffazione per la società Richmond lnternational Limited a Londra, ho lavorato come gestione dei licenziatari per la Robe di Kappa, per la Gado Sarl che fa parte del Gruppo Dolce & Gabbana, ho lavorato attualmente per la Nestlè. Tutto il mio percorso professionale l’ho praticamente svolto occupandomi di gestione di marchi, di diritti di proprietà intellettuale”. L’avvicendamento tra B. e B. è stato gestito in prima persona dal responsabile delle Risorse Umane del gruppo V., coadiuvato dalla sua collaboratrice M. Sollecitato dalla stessa B., che era solo distaccata, V. aveva affidato ad una società lussemburghese del settore, la ROLANDS, l’attività di selezione, per poi incontrare i selezionati. Alla fine la scelta era caduta sulla B., assunta direttamente da GADO S.a.r.l. La trafila era stata rievocata per il Tribunale da S. V. ai fogli 10 e seguenti della trascrizione dell’udienza del 20 febbraio 2013. Ha spiegato convenientemente il teste la necessità di una assunzione diretta da parte di GADO: “la prima era una start up, quindi avevamo bisogno di capire qual era la reale dimensione dell’attività, e la seconda considerazione è che avevamo una persona rispetto alla quale sapevamo già che poteva occuparsi con cognizione di quello avrebbe dovuto fare... inizialmente abbiamo mandato una persona che sapevamo potesse garantire questa attività di avviamento. Per definizione, è previsto dalla legge, il distacco è temporaneo, per cui una volta risolta questa temporaneità e a questo punto essendo GADO ed essendo quegli uffici in Lussemburgo una attività oramai strutturata ed organizzata, abbiamo assunto e inserito una persona direttamente in GADO” (ibidem, fogli 26 e seguente). Precisava il teste che vi era stato un periodo quadrimestrale di affiancamento della B. alla B.. Il teste V. aveva espressamente fatto riferimento, per la trafila che aveva condotto alla assunzione di B., ad una sollecitazione di B., la quale, a sua volta, nella deposizione del 6 febbraio 2013, aveva ricordato di avere acconsentito al distacco ma di aver preferito, al termine della start up, di rientrare in Italia, nonostante le fosse stato proposto di rimanere in Lussemburgo: “ho deciso di rientrare in Italia e quindi in quella occasione è stata assunta una persona, tra l’altro in merito alla cui selezione anche io ho partecipato, ed è stata assunta direttamente da GADO” (trascrizione udienza 6 febbraio 2013, foglio 218).


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Dal canto suo, P. avrebbe poi riferito, all’udienza del 17 aprile 2013, che nulla era cambiato in quanto la B. “svolgeva esattamente le stesse competenze della dottoressa B.” (foglio 4 della relativa trascrizione). Ora, il buon governo delle regole di valutazione della prova impedisce nel modo più assoluto che la vicenda dell’avvicendamento tra B. e B. possa essere letto nel senso della fittizietà ed artificiosità del (legittimo) insediamento lussemburghese di GADO S.a.r.l. Non resta che ricordare le dichiarazioni della B. che ha dichiarato (fogli 19 e 39 della trascrizione dell’udienza del 6 marzo 2013) di avere agito in piena autonomia in base alle strategie del gruppo nella gestione ordinaria dei marchi: ‘‘gestione ordinaria vuol dire, non so, si doveva depositare un marchio, rinnovare un marchio”, oppure ‘‘decidere se fare opposizione contro una parte terza o difendersi contro l’attacco di una parte terza” (ibidem, foglio 39). Le censure delle difese – ivi compresa quella di DOLCE Alfonso (cfr, fogli 49 – 56 della memoria depositata a questa Corte ed oralmente illustrata all’odierna udienza) – rispetto alla valutazione del primo Giudice rispetto alla diversità tra il primo ed il secondo anno della attività di GADO, avendo il Tribunale posto sullo stesso piano ‘‘due annualità con caratteristiche differenti” (foglio 53 della memoria citata) colgono, davvero, nel segno. Valendosi di una persona che si era già occupata della tutela dei marchi prima della costituzione, e poi di persona assunta in loco, GADO S.a.r.l. ha dunque convenientemente esercitato la attività statutaria. La risposta al tema di indagine affidato dalla Suprema Corte riviene da una valutazione delle convergenti dichiarazioni dei testi di accusa e di difesa, professionisti di primo piano sulla veridicità delle dichiarazioni dei quali non è dato rinvenire alcun elemento agli atti del giudizio. Per farsi carico di esigenze lungamente e diffusamente rappresentate (emerse agli atti, donde l’inutilità degli approfondimenti istruttori negati dai Giudici di merito) il gruppo DOLCE & GABBANA ha acquisito dalle persone fisiche di Domenico DOLCE e Stefano GABBANA la titolarità dei marchi, scegliendo legittimamente sulla scorta del diritto di stabilimento di insediare in Lussemburgo (anche, ma non solo, come ha spiegato la teste, credibile ed assolutamente indifferente – come già evidenziato oramai molti anni or sono dal GUP di Milano – per ragioni fiscali) la società che quei marchi aveva acquisito, che ha poi concretamente ed effettivamente esercitato la attività statutaria valendosi di personale proprio e della collaborazione di società lussemburghesi di servizio per l’attività contabile ed amministrativa. Alfonso DOLCE va dunque assolto dalla residua imputazione ascrittagli perché il fatto non sussiste. P.Q.M. Visto l’articolo 627 cpp decidendo in sede di rinvio


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dalla Suprema Corte di cassazione 24.10.2014 in riforma della sentenza del Tribunale di Milano 19.6.2013 assolve l’appellante Dolce Alfonso dal reato ascrittogli perché il fatto non sussiste, ferme le statuizioni della Corte di Appello di Milano 30.4.2014 non soggette ad annullamento.

Tra esterovestizione ed attività di direzione e coordinamento della capogruppo: la Corte d’Appello di Milano scrive l’epilogo della vicenda “Dolce & Gabbana”. Sommario: 1. Rilievi introduttivi: il fatto. – 2. L’iter processuale fino alla sentenza della Corte d’Appello di Milano. – 3. La rilevanza penale dell’esterovestizione: dalla truffa all’omessa dichiarazione. – 3.1. La rilevanza del “place of effective management”: profili generali. – 3.2. L’art. 73, co. 3, T.U.I.R.: elementi rivelatori del luogo di “effettiva” residenza dell’ente. – 4. “Place of effective management” ed attività di direzione e coordinamento della capogruppo: il quid novi della vicenda “Dolce & Gabbana”. – 5. Place of effective management e direzione unitaria della capogruppo: alla ricerca di una linea interpretativa capace di superare una pericolosa equazione. – 6. Rilievi conclusivi: dalla giurisprudenza una regola di condotta per la gestione dei gruppi multinazionali. Nel porre fine alla complessa vicenda processuale che ha interessato i marchi Dolce & Gabbana, la Corte d’Appello di Milano ha affermato che non costituisce condotta di c.d. “esterovestizione” l’utilizzo di una società avente sede legale in Lussemburgo quando la gestione di tale società subisca l’influsso dell’attività di direzione e coordinamento esercitata dalla capogruppo italiana. Affinché sussista responsabilità penale ai sensi dell’art. 5, D.Lgs. n. 74/2000 occorre che la società estera sia una costruzione di puro artificio. To put an end to the intricate court case that involved the Dolce & Gabbana brands, the Court of Appeal in Milan (Italy) has stated that the operations of a company having its registered office in Luxembourg do not represent a case of “corporate inversion” if the management of this company is affected by the coordination and management activities carried out by the Italian parent company. In order for the corporate criminal liability to exist, pursuant to Article 5 of Legislative Decree No. 74/2000, the foreign company shall have been established as a mere artifice.

1. Rilievi introduttivi: il fatto. – Alla fine, tutti assolti. La pronuncia in commento segna l’epilogo della vicenda che, nell’ultimo lustro, più di ogni altra ha appassionato i cultori del diritto penale tributario. La notorietà degli imputati ma, soprattutto, la delicatezza e, per certi


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versi, l’originalità del tema trattato, in uno con le ondivaghe pronunce che si sono succedute, costituiscono gli ingredienti ideali per fare di questo processo un autentico leading case, probabilmente capace persino di influire sulla recente riforma dell’abuso del diritto. Il fatto, “sostanzialmente non controverso” (1), è ormai noto ma converrà comunque ripercorrerne -pur in estrema sintesi- gli snodi essenziali. Nel marzo del 2004, la proprietà dei marchi riconducibili agli stilisti Dolce e Gabbana “faceva capo ai due stilisti personalmente, i quali come persone fisiche possedevano i marchi in comunione tra loro al 50%” (2), cui seguì la scelta di cedere i marchi ad una società di nuova costituzione e di diritto lussemburghese: la GADO s.a.r.l. Tale società concedette i marchi in licenza ad una sub-holding italiana, a fronte di royalties comprese tra il 3% e l’8%, realizzando così redditi assoggettati ad una tassazione particolarmente favorevole (4%) in Lussemburgo in virtù di un accordo di ruling intervenuto con le autorità tributarie del Granducato. Due i profili di censura individuati dall’accusa. Il primo concerneva il prezzo pagato dalla GADO s.a.r.l. ai due stilisti per acquistare i marchi in questione, ritenuto troppo esiguo: a fronte dei pattuiti 360 milioni di euro, infatti, l’Agenzia delle Entrate stimò in oltre 1.193 milioni di euro il “reale” valore di tali marchi. Di qui l’asserita infedeltà delle dichiarazioni personali presentate dai due stilisti, considerati responsabili di aver occultato al fisco una (rilevante) parte del proprio reddito (quasi 417 milioni di euro a testa). Il secondo profilo di censura, di maggiore interesse e destinato a sopravvivere (almeno in parte) fino alla pronuncia in commento, concerneva la residenza fiscale della GADO s.a.r.l., ritenuta – in realtà – società da sottoporre a tassazione in Italia siccome solo artificiosamente collocata in Lussemburgo. Particolare fu, poi, il tentativo, da parte dell’accusa, di ricondurre tale articolata operazione non tanto alla fattispecie di omessa dichiarazione (art. 5, D.Lgs. n. 74/2000) – di norma chiamata in causa proprio per contrastare fenomeni quale quello ipotizzato – quanto al paradigma della truffa di cui al comma 2 dell’art. 640 c.p.

(1) (2)

Come notò già il giudice di prime cure: Trib. Milano, 29 aprile 2011, 5. Così ancora Trib. Milano, 29 aprile 2011, 6.


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Ma su tale aspetto occorrerà ritornare tra breve. 2. L’iter processuale fino alla sentenza della Corte d’Appello di Milano. – Altrettanto noto è l’iter processuale che ha caratterizzato la vicenda. Con sentenza del 1° aprile (29 aprile) 2011, il Gip del Tribunale di Milano dichiarò il non luogo a procedere, ex art. 425 c.p.p., per tutti gli imputati e per tutti i reati ipotizzati dall’accusa. Tale pronuncia venne ribaltata dalla II Sezione penale della Cassazione, che, con la sentenza 22 novembre 2011 / 28 febbraio 2012, n. 7739 (3), scrisse alcune delle pagine più criticate dalla dottrina penalistica degli ultimi anni (4), inaugurando – di fatto – la stagione della rilevanza penale dell’elusione fiscale (5) e, in particolare, delle riprese a tassazione compiute in applicazione dell’art. 37-bis, D.P.R. n. 600/1973.

(3) Cass., sez. II, 22 novembre 2011 (dep. 28 febbraio 2012), n. 7739, in Dir. prat. trib., 2012, II, 766, ma altresì in Riv. dir. trib., 2012, III, 61, con nota di Caraccioli, “Imposta elusa” e reati tributari “di evasione” nell’impostazione della Cassazione, ivi, 86 ss.; nonché in Riv. it. dir. proc. pen., 2013, 442, con nota di Giacometti, La problematica distinzione tra evasione, elusione fiscale e abuso del diritto, ivi, 451. (4) Oltre ai lavori citati alla nota precedente, cfr. in argomento e, più in generale, sui profili penali dell’elusione fiscale, per tutti, Consulich, La scriminante sfigurata. Il diritto soggettivo come fonte di incriminazione? Il caso dei reati fiscali, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2014, 1; Flick, Abuso del diritto ed elusione fiscale: quale rilevanza penale?, in Giur. comm., 2011, I, 485-486; Flora, Perché l’“elusione fiscale” non può costituire reato (a proposito del “caso Dolce & Gabbana”), in Riv. trim. dir. pen. ec., 2011, 873; Gallo, La nuova frontiera dell’abuso del diritto in materia fiscale, in Rass. trib., 2015, 1315; Lanzi, Aldrovandi, Diritto penale tributario, Padova, 2017, 259 ss.; Lunghini, Elusione e principio di legalità: l’impossibile quadratura del cerchio?, in Riv. dir. trib., 2006, 659 ss.; Mucciarelli, Abuso del diritto, elusione fiscale e fattispecie incriminatrici, in AA.VV., Elusione ed abuso del diritto tributario, Maisto (a cura di), Milano, 2009, 421 ss.; Musco, Ardito, Diritto penale tributario, Bologna, 2016, 181 ss. Sia altresì consentito fare rinvio a Perini, La tipicità inafferrabile, ovvero elusione fiscale, “abuso del diritto” e norme penali, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2012, 731, ove ulteriori riferimenti all’imponente bibliografia che si è occupata del tema. (5) Ma un’apertura verso l’attribuzione di rilevanza penale all’elusione fiscale era già rinvenibile in Cass., sez. III, 18 marzo 2011 (dep. 7 luglio 2011), n. 26723, in Riv. pen., 2012, 1309. Sempre sulla sentenza “Dolce & Gabbana”, cfr. Flora, op. cit., 865 ss.; Veneziani, Commento, in Dir. pen. processo, 2012, 863. Successivamente, nella stessa direzione, cfr. Cass., sez. V, 23 maggio 2013 (dep. 9 settembre 2013), n. 36894, in Riv. dir. trib., 2013, III, 189, con nota di Di Siena, La criminalizzazione dell’elusione fiscale e la dissolvenza della fattispecie criminosa, ivi, 194; si veda altresì la nota a tale sentenza di Fraschetti, Brevi note sulla rilevanza penale dell’elusione fiscale, Cass. pen., 2014, 3411.


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In aderenza ai principi di diritto affermati da tale sentenza, il Tribunale di Milano prima (19 giugno 2013) e la Corte d’Appello meneghina poi (20 giugno 2014) affermarono la rilevanza penale dei fatti in questione, salvo constatare l’intervenuta prescrizione di alcuni frammenti delle condotte censurate. Da rilevare, tuttavia, che la contestata truffa ex art. 640, co. 2, c.p., cedette il passo alla fattispecie di omessa dichiarazione di cui all’art. 5, D.Lgs. n. 74/2000, delitto per il quale furono condannati non solo l’amministratore della GADO s.a.r.l. (Alfonso Dolce), ma anche una serie di professionisti e consulenti, oltre allo stilista Stefano Gabbana, in quanto ritenuti concorrenti nella condotta omissiva dell’amministratore. La sentenza della III Sezione della Cassazione, n. 43809, pronunciata il 24 ottobre 2014 con deposito della motivazione il 30 ottobre 2015 (6), segnò un ulteriore capovolgimento di fronte, all’esito del quale vennero tracciati solidi confini di contenimento al tema dell’esterovestizione, che condussero all’annullamento della sentenza d’appello ed all’assoluzione per insussistenza del fatto di tutti i concorrenti nella fattispecie di omessa dichiarazione, con la sola eccezione dell’amministratore della GADO s.a.r.l. Dunque, a residuare fu una parte soltanto delle contestazioni mosse ex art. 5, D.Lgs. n. 74/2000, essendo per le altre intervenuta la prescrizione: relativamente ai fatti non ancora estinti ed alla sola posizione di Alfonso Dolce, quindi, la Corte di Cassazione investì nuovamente la Corte d’Appello di Milano affinché facesse buon governo dei principi di diritto affermati in materia di esterovestizione e li applicasse alla condotta in concreto tenuta dall’imputato. Si giunge così, finalmente, alla pronuncia in commento che, dopo aver diffusamente descritto il lungo percorso processuale che l’ha preceduta ed aver ricostruito i limiti che presenta il fenomeno dell’esterovestizione all’interno dei gruppi societari, così come enucleati dalla Cassazione, decide di assolvere per insussistenza del fatto anche l’ultimo imputato ancora a giudizio.

(6) Se ne vedano i commenti di Venturato, Omessa dichiarazione. Note in tema di estero-vestizione e concorso eventuale nel reato omissivo proprio, in Giur. it., 2016, 971; Tomassini, Esterovestizione irrilevante penalmente senza la prova della costruzione artificiosa, in Corr. trib., 2015, 4584; Corso, “Ne bis in idem”, elusione fiscale e concorso nel reato secondo la sentenza “Dolce e Gabbana”, in Giur. trib., 2016, 66.


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3. La rilevanza penale dell’esterovestizione: dalla truffa all’omessa dichiarazione. – Questi, in sintesi estrema, i fatti e la lettura che agli stessi è stata data in ben sei gradi di giudizio. Numerosi, ovviamente, sono gli spunti che la vicenda offre, così come molteplici sono le questioni affrontate dalle diverse sentenze citate. In questa sede, tuttavia, ci si soffermerà esclusivamente sugli snodi argomentativi che caratterizzano la pronuncia che qui si commenta, pur non potendo prescindere da talune indicazioni ermeneutiche che la Cassazione ha offerto alla Corte d’Appello e che quest’ultima ha applicato rigorosamente al caso di specie. È così immediato constatare come, al centro del problema, si ponga la questione dell’individuazione del paese di residenza di una società, la GADO s.a.r.l., avente sede legale in Lussemburgo ma sospetta di essere etero-diretta dall’Italia, dal quartier generale della nota maison di moda. Il punto, già chiaro fin dall’avvio della vicenda processuale, non pare tuttavia essere stato sempre rappresentato con il necessario nitore, perlomeno se si presta attenzione alle fattispecie penali alle quali è stato ricondotto. Già si è osservato, infatti, come inizialmente fosse stata prospettata la sussistenza di un’ipotesi di truffa: la condotta particolarmente articolata, la costituzione di società ad hoc e la cessione dei marchi ad un prezzo ritenuto incongruo, devono essere apparsi come elementi di fatto non comprimibili nell’essenziale fattispecie omissiva tipizzata dall’art. 5, D.Lgs. n. 74/2000. Difficile dire se una tale scelta sia stata motivata anche dall’astratta possibilità, grazie alla fattispecie codicistica, di applicare pure la disciplina che governa la responsabilità degli enti, soluzione altrimenti preclusa al cospetto di fattispecie penali tributarie: sta di fatto che la prima delle sentenze ricordate, quella del GIP di Milano del 2011, è stata pronunciata esclusivamente nei confronti di imputati persone fisiche. Gli è che la via della truffa viene rapidamente abbandonata, complice anche lo sbarramento innalzato dalla nota sentenza delle Sezioni Unite penali del 2010 (7), cosicché, il Tribunale di Milano prima (con la sentenza del 2013) e la Corte d’Appello poi (con la pronuncia del 2014) riportano al

(7) Cass., SS.UU., 28 ottobre 2010 (dep. 19 gennaio 2011), n. 1235. In argomento, per tutti, Lanzi, Aldrovandi, op. cit., 299.


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centro della questione il delitto di omessa dichiarazione. L’oggetto del processo, quindi, viene così ricondotto nell’alveo di una “classica” questione di esterovestizione, controvertendosi -sostanzialmenteintorno al ruolo svolto in concreto dalla società lussemburghese divenuta titolare dei marchi ed al luogo di formazione degli impulsi decisionali destinati ad indirizzarne la gestione. Il tema è noto e, in questa sede, basterà rammentare che il fenomeno dell’esterovestizione riguarda la prassi – di certo non estranea all’esperienza giurisprudenziale – di far apparire come contribuenti esteri, in quanto soggetti formalmente residenti all’estero, società che, in realtà, devono essere comunque ritenute assoggettate al sistema fiscale domestico (8). La questione si pone in quanto la residenza delle persone giuridiche, ai fini fiscali, è governata dal co. 3 dell’art. 73 T.U.I.R., il quale dispone che: “ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le società e gli enti che per la maggior parte del periodo d’imposta hanno la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale nel territorio dello Stato”. In sostanza, come è stato osservato in dottrina (9), il legislatore individua tre criteri alternativi di attribuzione della residenza fiscale ad una società, cui viene aggiunto un quarto criterio di natura temporale, in virtù del quale la sussistenza di uno dei tre requisiti dianzi citati deve protrarsi temporalmente per la maggior parte del periodo d’imposta. 3.1. La rilevanza del “place of effective management”: profili generali. – Come osserva la stessa Amministrazione finanziaria (10),

(8) Per tutti, tra i penalisti, Corucci, Il delitto di omessa dichiarazione, in AA.VV., La nuova giustizia penale tributaria, Giarda, Perini, Varraso (a cura di), Padova, 2016, 318; Musco, Ardito, op. cit., 232; Lanzi, Aldrovandi, op. cit., 263 s. e 369 s.; Basso, Viglione, I nuovi reati tributari, Torino, 2017, 215; Putinati, sub Art. 5, in AA.VV., La riforma dei reati tributari, a cura di Nocerino, Putinati, Torino, 2015, 109. (9) In argomento, per tutti, Garbarino, La residenza nel diritto tributario, Padova, 1999, passim, part. 104 ss.; Bagarotto, La residenza delle società nelle imposte dirette alla luce della presunzione di “estero vestizione”, in Riv. dir. trib., 2008, I, 1156 ss.; Corasaniti, De’capitani, La nuova presunzione di residenza fiscale dei soggetti Ires, in Dir. prat. trib., 2007, I, 97; Marino, La residenza, in AA.VV., Diritto tributario internazionale, Uckmar (a cura di), Padova, 2005, 345 ss.; Valente, Manuale di governance fiscale, Milano, 2011, passim, part. 735 ss. Ulteriori riferimenti nelle note successive. (10) Circ. n. 28/E del 4 agosto 2006, § 8.


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“la sede legale si identifica con la sede sociale indicata nell’atto costitutivo o nello statuto e dà evidenza ad un elemento giuridico formale. Diversamente, la localizzazione dell’oggetto principale o l’esistenza della sede dell’amministrazione devono essere valutati in base ad elementi di effettività sostanziale e richiedono – talora – complessi accertamenti di fatto del reale rapporto della società o dell’ente con un determinato territorio, che può non corrispondere con quanto rappresentato nell’atto costitutivo o nello statuto”. Ed infatti, il problema che non di rado si pone nella prassi attiene al verificarsi di uno scollamento tra il paese nel quale viene indicata la sede legale della società/contribuente oggetto di analisi ed il paese nel quale, invece, di fatto operano coloro che gestiscono tale contribuente o nel quale ne viene perseguito l’oggetto principale. La questione, com’è intuibile, è densa di ricadute applicative, atteso che affermare la residenza domestica di un contribuente significa, evidentemente, ritenere che questi sia soggetto alla normativa tributaria italiana e quindi, in primis, alla presentazione in Italia delle dichiarazioni fiscali obbligatorie, redatte in ossequio alla disciplina che, nel nostro Paese, governa la materia impositiva. Di qui le ovvie conseguenze sanzionatorie in tutte quelle situazioni in cui una residenza estera solo apparente sia stata accompagnata, in realtà, da una “effettiva” residenza italiana cui, tuttavia, non abbia fatto seguito l’assolvimento degli obblighi fiscali previsti dalla disciplina domestica. E, tra le conseguenze sanzionatorie, vi sono naturalmente anche le ricadute di ordine penale previste dall’art. 5 D.Lgs. n. 74/2000 (11). La materia appare alquanto delicata per le sue evidenti ricadute sovranazionali: l’individuazione dello Stato titolare del potere impositivo comporta, infatti, quantomeno l’opportunità – se non la necessità – di concordare a livello sovranazionale i criteri di assoggettamento ad imposizione e, in particolare, di individuazione del paese di residenza ai fini fiscali. Quella in esame, peraltro, è una questione alquanto risalente, soprattutto nel mondo anglosassone, in virtù delle esperienze coloniali vissute dal Re-

(11) Per tutti, Valente, Caraccioli, Ancora su residenza ed esterovestizione: ulteriori considerazioni sulle sentenza della Comm. trib. prov. di Belluno, in Riv. dir. trib., 2008, III, 124 ss.; Caraccioli, Applicazioni giurisprudenziali tributarie dell’“esterovestizione”: preliminari considerazioni penalistiche a futura memoria, in Riv. dir. trib., III, 2008, 104 ss. Nella giurisprudenza, cfr. Cass., sez. III, 24 gennaio 2012 (dep. 23 gennaio 2012), n. 7080, CED, 2012.


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gno Unito: basti ricordare, in questa sede, il noto caso De Beers in cui, nel 1906, venne affrontato il problema di individuare lo Stato di effettiva residenza di una società operativamente collocata in Sud Africa ma governata da nove amministratori su dieci residenti nel Regno Unito. La soluzione fu nel senso di collocare la residenza laddove si era riscontrato esservi la “prevalentemente gestionale” della società, ossia nel luogo dal quale partivano gli impulsi decisionali determinanti per il governo della stessa. Non è questa (12), ovviamente, la sede per ripercorrere la giurisprudenza, spesso neppure italiana, dalla quale è scaturita quella che, nondimeno, rappresenta ancora oggi la vera pietra angolare per decidere del luogo di residenza di una società/contribuente: l’individuazione di quello che la terminologia anglosassone qualifica come “place of effective management”. Ed infatti, come si accennava, la questione è stata affrontata anche a livello sovranazionale e, in particolare, in sede OCSE, ove l’art. 4 del Modello OCSE prevede che la sede effettiva dell’amministrazione costituisce il criterio risolutivo (c.d. “tie-break rule”, sempre in ossequio alla terminologia anglosassone che caratterizza la materia) dei conflitti di attribuzione della residenza fiscale tra Stati contraenti (13). Più in particolare, il § 24.1 (14) del Commentario all’art. 4 della Convenzione OCSE attribuisce rilevanza ai seguenti elementi fattuali, ritenuti indicativi del luogo nel quale avviene l’effettivo governo della società: – il luogo ove si svolgono le riunioni del consiglio di amministrazione; – il luogo in cui il C.E.O. usualmente svolge le sue funzioni; – il luogo nel quale si svolge l’amministrazione giornaliera della società (dayto-day management); – il luogo in cui si trova “l’headquarter” della persona giuridica; – la legislazione applicabile alla persona giuridica; – il luogo in cui è tenuta la contabilità.

(12) Ma si veda, sul punto, Moschetti, Origine storica, significato e limiti di utilizzo del place of effective management, quale criterio risolutivo dei casi di doppia residenza delle persone giuridiche, in Dir. prat. trib., I, 2010, 245 ss. Si veda altresì Marino, op. cit., 363. (13) In argomento, si veda Assonime, circ. n. 67 del 31 ottobre 2007, § 2.1. (14) Pubblicato il 18 luglio 2008 con il titolo “The 2008 update to the OECD Model Tax Convention (2008 Model)”: in argomento, cfr. Valente, Convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni, Milano, 2008; Id., Modifiche agli artt. 1-5 del modello e al Commentario, in Fisco, 2008, 32, 5782 ss.


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Si tratta, naturalmente, di una serie esemplificativa e non esaustiva di criteri (15) ma, come nota ancora l’Amministrazione finanziaria, è in questo quadro generale che devono essere inscritti i criteri domestici, previsti dall’art. 73 T.U.I.R., per individuare il luogo di effettiva residenza di un contribuente, tenuto conto che “in sede internazionale, ed in particolare nelle «osservazioni» contenute nel Commentario all’art. 4 del Modello Ocse, l’Amministrazione finanziaria italiana si è – da sempre – preoccupata di salvaguardare i principi di effettività, richiamati nell’ordinamento domestico, ritenendo che la sede della «direzione effettiva» di un ente debba definirsi non soltanto come il luogo di svolgimento della sua prevalente attività direttiva e amministrativa, ma anche come il luogo ove è esercitata l’attività principale”. Dunque, rilevanza del luogo di origine degli impulsi volitivi attraverso i quali si estrinseca il governo dell’ente, ma rilevanza altresì del luogo ove viene esercitata la sua attività principale (16). 3.2. L’art. 73, co. 3, T.U.I.R.: elementi rivelatori del luogo di “effettiva” residenza dell’ente. – Come si è avuto modo di osservare, l’art. 73, co. 3, T.U.I.R. recepisce, accanto al dato formale della sede legale, il doppio criterio sostanzialistico della sede di direzione effettiva dell’impresa e della localizzazione dell’oggetto principale dell’attività, mentre – in sede penale – sono destinate a non dispiegare alcuna efficacia precettiva quelle

(15) Valente, Modifiche agli artt. 1-5 del modello e al Commentario, cit., 5785. (16) Tale precisazione assume particolare rilevanza laddove si tenga presente la peculiare sensibilità che il nostro Paese ha dimostrato proprio con riferimento al ruolo svolto dalla localizzazione dell’oggetto principale dell’attività. Infatti, il § 3 dell’art. 4 del Modello OCSE adotta, come criterio decisivo, il luogo di effettiva direzione dell’impresa ed il § 24 del Commentario, all’art. 4, enfatizza che la determinazione del luogo di direzione effettiva è questione di fatto nella quale occorre far prevalere la sostanza sulla forma. Tuttavia, con riferimento a tale precisazione del Commentario, l’Italia ha dichiarato di non aderire all’interpretazione data nel citato § 24 al concetto di direzione effettiva ritenendo che debba “essere preso in considerazione anche il luogo in cui si svolge la principale attività dell’ente” (si veda l’osservazione posta dall’Italia nel § 25 del Commentario. In argomento, per tutti, Piazza, Guida alla fiscalità internazionale, Milano, 2004, 127 ss., part. 140. Per due particolari casi nei quali, in sede penale, è stata data rilevanza proprio al luogo ove viene esercitata l’attività principale dell’ente, cfr. Cass., sez. III, 30 ottobre 2013 (dep. 17 gennaio 2014), n. 1811 e Cass., sez. III, 27 febbraio 2014 (dep. 18 aprile 2014), n. 17299, ambedue in Riv. dir. trib., 2014, IV, 33 ss., con nota di Garbarini, L’oggetto principale dell’attività quale elemento per determinare la residenza delle persone giuridiche, ivi, 47.


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presunzioni legali relative previste, ad esempio, dal co. 5-bis dell’art. 73 T.U.I.R., la cui valenza rimane confinata alla sfera amministrativa (17). Vero ciò, quindi, per individuare la reale “cittadinanza tributaria” di un contribuente/persona giuridica occorre domandarsi – sulla scorta del già citato § 24.1 del Commentario all’art. 4 della Convenzione OCSE – quali siano gli elementi sintomatici rilevanti per fare luce su quale sia il luogo di effettiva residenza di un ente. A tale riguardo, è bene avvertire che, ovviamente, non vi è un elenco tipico di fatti che, quasi ad assurgere a rango di prove legali, assumano natura dirimente onde applicare la suddetta tie-break rule e, quindi, decidere del luogo di effettiva residenza. Piuttosto, si tratterà di valutare, di volta in volta, ogni singolo caso concreto, al fine di verificare se ed in quale misura la sussistenza o addirittura il concorso di più elementi sintomatici possano consentire di pervenire ad una soluzione del problema che, in ambito penale, dovrà evidentemente confrontarsi con l’ordinario canone probatorio “dell’oltre ogni ragionevole dubbio”. È in questa prospettiva, quindi, che devono essere collocate quelle molteplici verifiche empiriche che la prassi, anche cristallizzata da Circolari

(17) Come esattamente avverte, ad esempio, Caraccioli, Applicazioni giurisprudenziali tributarie dell’“esterovestizione”: preliminari considerazioni penalistiche a futura memoria, in Riv. dir. trib., III, 2008, 104. Sempre riguardo al principio di “prevalenza della sostanza sulla forma” e, quindi, sulla valorizzazione del luogo nel quale l’impresa viene effettivamente diretta ed in cui assume “il rischio commerciale”, vale la pena citare un passo estrapolato dalla Comunicazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento europeo e al Comitato economico e sociale europeo del 10 dicembre 2007, recante “l’applicazione di misure antiabuso nel settore dell’imposizione diretta – all’interno dell’UE e nei confronti dei paesi terzi” (4 e 5): “l’individuazione di una costruzione di puro artificio corrisponde quindi di fatto a un’analisi basata sul criterio della prevalenza della sostanza sulla forma (“substance over form”). L’applicazione delle prove pertinenti nel contesto delle libertà garantite dal trattato CE e delle direttive in materia di imposta sulle società richiede una valutazione dei loro obiettivi e finalità rispetto a quelli che sottendono alle transazioni effettuate dai futuri beneficiari (contribuenti). Nel contesto dell’insediamento di una società emergono inevitabilmente difficoltà nel determinare il livello di presenza economica e di commercialità delle transazioni. Fattori oggettivi per determinare se vi è una sostanza economica adeguata sono, fra l’altro, criteri verificabili come la sede di direzione effettiva e la presenza tangibile della società nonché il rischio commerciale effettivo da essa assunto. Tuttavia, non è per nulla certo come tali criteri si possano applicare, ad esempio, ai servizi finanziari intragruppo e alle società di partecipazione, le cui attività non richiedono generalmente una presenza fisica significativa”.


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ministeriali, ha elaborato per individuare il luogo di direzione effettiva di un ente. In questa ottica, si è già osservato come lo stesso § 24.1 del Commentario all’art. 4 della Convenzione OCSE attribuisca particolare rilevanza, ad esempio, all’individuazione del luogo ove si svolgono le riunioni del consiglio di amministrazione che governa l’ente. Il tema è ripreso anche dalla dottrina (18), la quale fa riferimento al luogo di svolgimento regolare della “attività del consiglio di amministrazione” e delle “assemblee dei soci”. A tale riguardo, deve essere tenuta in debito conto l’effettività delle riunioni consiliari svolte presso la sede legale dell’ente, onde evitare che tali consessi vengano ridotti a simulacri in cui trovano replica decisioni assunte altrove (19). In particolare, altri osservano in modo speculare che non “dovrebbe rilevare il luogo in cui vengono poste in essere le attività di supporto amministrativo, quali la tenuta della contabilità e le altre attività meramente operative” (20). Quindi, la valorizzazione dell’effettività delle riunioni consiliari è funzione del tasso di reale indipendenza riconosciuta agli eventuali professionisti locali investiti della carica di amministratori dell’ente non residente (21).

(18) Ad esempio, per tutti, Valente, Residenza ed esterovestizione. Profili probatori e schema multi-test, in Fisco, 2008, 22, 3977, nonché 3980. (19) Di decisioni che, “molto spesso, al di là del luogo in cui vengono formalizzate, promanano dal socio italiano di riferimento” parla anche Stevanato, Holdings statiche e accertamento della residenza fiscale italiana dell’ente estero, in Corr.trib., 2008, 12, 969. Osserva Bagarotto, op. cit., 1158, che “la sede dell’amministrazione, dunque, si trova tendenzialmente nel luogo in cui si tengono i consigli di amministrazione delle società (a condizione che, come detto, in tale ambito vengano effettivamente assunte le decisioni di direzione e controllo)”. E ancora, Garbarino, Manuale di tassazione internazionale, Milano, 2005, 122, parla di decisioni assunte nel territorio estero che sono “di regola, non già l’espressione della loro volontà e capacità gestionale (degli amministratori residenti all’estero, n.d.s.), bensì la trasposizione della volontà dell’azionista, ad essi comunicata nelle forme più varie”. Si vedano, al riguardo, sotto il profilo commercialistico, le osservazioni in materia di “cogestione diseguale” di Pavone La Rosa, Gruppi finanziari e disciplina generale dei gruppi di società, in Riv. società, 1998, 1568. (20) Garbarino, Manuale di tassazione internazionale, cit., 251; Bagarotto, op. cit., 1158. (21) Osserva Garbarino, La residenza nel diritto tributario, cit., 120-121: “sempre considerando come attività d’impulso dell’amministrazione concreta quella svolta dagli amministratori (anziché quella svolta dai soggetti preposti allo svolgimento dell’attività quotidiana della società), un ulteriore indizio nella determinazione del luogo dove è svolta tale attività potrebbe emergere ponendo in rilievo non tanto la residenza degli amministratori (che si presume essere, quantomeno in maggioranza, già all’estero), quanto la figura professionale


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D’altro canto, come nota ancora Garbarino (22), “nell’espressione sede è implicita la continuità dell’attività volitiva. Non è sufficiente la localizzazione spaziale di un solo atto occasionalmente ivi riferibile, anche se proveniente dalle persone che concretamente amministrano”. Ecco, quindi, che è destinato ad essere irrilevante il singolo atto amministrativo occasionalmente compiuto in un luogo quando gli impulsi volitivi necessari al governo dell’ente provengano con continuità da altro e diverso luogo, da identificarsi – proprio per questo – con la sede dell’effettiva attività amministrativa. Le osservazioni svolte in merito all’effettività delle riunioni consiliari riportano al vero nocciolo della questione, ossia alla ricerca di elementi concreti in grado di disvelare, come recita sempre il § 24.1 del Commentario all’art. 4 della Convenzione OCSE: - il luogo nel quale si svolge l’amministrazione giornaliera della società (dayto-day management); - il luogo in cui si trova “l’headquarter” della persona giuridica. Il tema è ripreso anche da quella dottrina che fa riferimento a situazioni nelle quali “la maggioranza dei membri del consiglio di amministrazione è costituita da persone fisiche residenti in loco”, specificando poi – condivisibilmente – che deve trattarsi di membri “effettivamente coinvolti nella gestione sociale” (23): si torna, così, sempre alla regola del “place of effective management”. Proprio in tale prospettiva, quindi, possono trovare valorizzazione circostanze fattuali quali il luogo di assunzione del personale, ove si tratti di im-

di chi riveste la carica di amministratore. Si fa riferimento a quella prassi, diffusa in special modo nei paradisi fiscali, e in generale in quei Paesi i cui sistemi tributari favoriscono le attività finanziarie e mobiliari, secondo la quale amministratore, anche unico, della società o ente è nominato un professionista locale (avvocato o commercialista), ovvero una di quelle società (cc.dd. trust companies) che si occupano della domiciliazione e della amministrazione di altre società ed enti; tali professionisti o società locali, inoltre, provvedono, per il tramite di propri impiegati a ciò preposti, al compimento di quella attività amministrativa di «secondo grado» necessaria per il quotidiano svolgimento della vita sociale. La peculiarità di tale situazione è nel fatto che le menzionate persone (fisiche o giuridiche) figurano essere contemporaneamente amministratori di una miriade di società ed enti, con riferimento a ciascuna delle quali partecipano concretamente ed effettivamente alla formazione degli atti (rectius, risoluzioni dell’amministratore unico o deliberazioni del consiglio di amministrazione) richiesti per il regolare svolgimento della vita sociale”. (22) Garbarino, La residenza nel diritto tributario, cit., 109. (23) Ancora Valente, Residenza ed esterovestizione. Profili probatori e schema multitest, cit., 3977, nonché 3980. Dello stesso Autore, cfr. altresì Esterovestizione e residenza, Milano, 2008, 147 ss.


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prese non residenti dotate di una significativa operatività. O, ancora, appare meritevole di attenzione il luogo in cui vengono accesi conti bancari, potendo assumere una intuibile valenza indicativa la presenza di conti bancari accesi in filiali di banche diverse da quelle operanti nello Stato di residenza, magari collocate a grande distanza dalla sede legale dell’ente. È alla luce di questi principi generali e di questo strumentario ermeneutico, pertanto, che occorre vagliare i singoli casi concreti onde verificare dove sia effettivamente radicata la “catena di comando” che governa l’attività di una persona giuridica avente sede legale all’estero, ben sapendo che, laddove gli impulsi volitivi che ne determinano la gestione siano provenienti dal territorio italiano, allora quella persona giuridica deve essere comunque assoggettata alla normativa fiscale italiana. In caso contrario, il mancato adempimento ai conseguenti obblighi fiscali e, in primis, a quello di dichiarazione, sarà suscettibile di assumere rilevanza penale proprio ai sensi dell’art. 5 D.Lgs. n. 74/2000. 4. “Place of effective management” ed attività di direzione e coordinamento della capogruppo: il quid novi della vicenda “Dolce & Gabbana”. – In quest’ampia cornice generale si inserisce perfettamente la vicenda processuale in esame e, a ben vedere, tutte le diverse sentenze che ne hanno scandito il percorso convengono sulla solidità dei principi fin qui citati, sul ruolo cardine assolto dal comma 3 dell’art. 73 T.U.I.R. e sull’individuazione del “place of effective management” quale chiave di lettura per una corretta applicazione di tale regola. Basta leggere i §§ da 16.4 a 16.27 della pronuncia della Cassazione del 2014 per trovare piena adesione ad un approccio ricostruttivo ormai consolidatosi nella giurisprudenza e fatto proprio, infine, anche dalla Corte d’Appello di Milano nella sentenza in commento. Tuttavia, la ricerca del luogo dal quale muove la catena di comando al fine di individuare il paese di residenza fiscale rappresenta un approccio metodologico particolarmente calzante ed efficace allorquando sospetta di esterovestizione sia una società capogruppo o, quantomeno, una sub-holding fisiologicamente dedita a coagulare l’attività decisionale dei vertici di governo del gruppo e, quindi, ad orientare l’attività imprenditoriale dell’insieme di società, attraverso direttive, indicazioni, politiche di gestione strategica di flussi finanziari, ecc. Il modello, nondimeno, entra vistosamente in crisi quando ad essere collocata all’estero sia una società controllata da altra società residente che,


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svolgendo la funzione di capogruppo, eserciti in modo del tutto fisiologico un’attività di direzione e coordinamento nei confronti delle altre società del gruppo, tra le quali – ovviamente – vi sono anche quelle collocate all’estero. Come distinguere, in siffatti casi, l’ordinaria attività di direzione e coordinamento da quella penetrante ingerenza capace di far ritenere esterovestita una società controllata collocata all’estero? Se per un verso, infatti, la patologica eterodirezione di una società determina lo spostamento della sua residenza fiscale nel paese dal quale questa viene in concreto governata, sotto altro profilo non vi è dubbio che l’attività di direzione e coordinamento esercitata da una capogruppo rappresenti una modalità di esercizio dell’impresa del tutto ortodossa: non occorrono molte riflessioni, infatti, per comprendere come un conglomerato di imprese non possa certo operare efficacemente se le politiche di gestione di ciascuna unità non sono indirizzate ad obiettivi comuni ed il loro agire non risulta in qualche misura armonizzato. Tutto ciò trova esplicito riconoscimento, a tacer d’altro, nel Capo IX del Titolo V, del Codice Civile, espressamente dedicato proprio alla “Direzione e coordinamento di società”, ma pone una delicata questione di individuazione del confine che separa una canonica gestione di gruppo, irrilevante sotto il profilo (penale) tributario, dalla concreta traslazione dell’attività di governo societario, suscettibile di innescare ricadute di natura penale. Il tema è posto con molta lucidità dalla sentenza della Cassazione del 2014, allorquando rileva (tra l’altro) che “in caso di società con sede legale estera controllata ai sensi dell’art. 2359, co. 1, c.c., non può costituire criterio esclusivo di accertamento della sede della direzione effettiva l’individuazione del luogo dal quale partono gli impulsi gestionali o le direttive amministrative ove esso si identifichi con la sede (legale o amministrativa) della società controllante italiana”. Aggiungendo altresì che “in tal caso è necessario accertare anche che la società controllata estera non sia una costruzione di puro artificio, ma corrisponda ad un’entità reale che svolge effettivamente la propria attività in conformità al proprio atto costitutivo o allo statuto” (§ 16.86). È interessante notare, sul punto, come la Cassazione faccia ricorso ai parametri normativi previsti per tracciare i confini della stabile organizzazione (art. 162 T.U.I.R.) per affermare, in buona sintesi, che laddove tali parametri siano rispettati non potrà sussistere una “costruzione di puro artificio” e, quindi, un fenomeno di esterovestizione. È questa una lettura della Cassa-


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zione che, motivata sul piano della sistematica, ha comunque dato luogo a qualche perplessità nei primi commenti a tale pronuncia (24). Ma, senza voler approfondire una questione che solo in parte trova eco nella decisione in commento, pur essendone l’antecedente logico, vale la pena sottolineare – in ogni caso – il non banale salto di qualità che compie la Cassazione, passando da “società eterodiretta” a “costruzione di puro artificio”, per individuare il tasso di consistenza di una struttura societaria suscettibile di innescare un fenomeno di evasione rilevante penalmente. Ciò, si badi bene, sempre a patto che oggetto di analisi sia una società (non posta al vertice ma) collocata alla periferia del gruppo o, quantomeno, soggetta al controllo di altra società residente, dimodoché possa pienamente esplicarsi quell’attività di direzione e coordinamento che diviene l’unità di misura con cui valutare il grado di penetrazione nella gestione della controllata. 5. Place of effective management e direzione unitaria della capogruppo: alla ricerca di una linea interpretativa capace di superare una pericolosa equazione. – Giungiamo così allo snodo probabilmente più rilevante della sentenza che si annota, punto di arrivo del tortuoso percorso processuale tratteggiato e fedele interprete dei principi di diritto tracciati dalla Cassazione, qui applicati al caso concreto. Per comprenderne appieno la portata, tuttavia, occorre fare un piccolo passo indietro e ritornare alla precedente decisione della Corte d’Appello di Milano, resa nel 2014 e poi annullata dalla Cassazione. In tale pronuncia, infatti, si censurava che “il luogo ove veniva esercitata l’attività principale per la realizzazione degli scopi primari di GADO andava sempre individuato in Italia” (pp. 26 ss. della motivazione). Deponevano verso questa conclusione, ad esempio, il fatto che la sede legale della GADO fosse stata collocata presso “una società che forniva servizi per l’amministrazione di società e di fondi”; che per circa un anno la società lussemburghese non avesse avuto dipendenti; che questa facesse ricorso ad attività di consulenza, avente ad oggetto i marchi, resa da consulenti di Milano, ecc. Di qui la conclusione cui giunse la Corte d’Appello nel 2014: in territorio lussemburghese “le pratiche smaltite erano sostanzialmente di tipo amministrativo e

(24) Si vedano le riflessioni di Dorigo, voce Reati tributari, in Digesto discipline privatistiche, vol. Aggiornamento VIII, Torino, 2017, 394.


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non comportavano scelte d’indirizzo, aspetto che era gestito costantemente dall’Italia” (p. 28). Come si è detto, la Cassazione ha annullato, nel 2014, tale sentenza, valorizzando l’attività di direzione e coordinamento tipicamente esercitata dalla capogruppo e ha investito un’altra Sezione della Corte d’Appello di Milano del compito di valutare, nel caso concreto, se le sovrapposizioni tra scelte decisionali del gruppo ed attività di governo della GADO s.a.r.l. siano state tali da aver svuotato di contenuto la società estera al punto da renderla un mero simulacro o, per usare le parole della Cassazione, una “costruzione di puro artificio”. Nel negare la natura artificiosa della GADO s.a.r.l., la sentenza in esame offre all’interprete un prezioso inventario di elementi che in apparenza potrebbero essere ritenuti sintomatici di eterodirezione, ma che la Corte ritiene del tutto fallaci, valorizzando invece le ragioni extra-fiscali che avrebbero ispirato l’intera riorganizzazione del gruppo, nell’ambito del quale la controllata lussemburghese sarebbe stata solo parte di un più ampio disegno sorretto da robuste ragioni imprenditoriali. Osserva la Corte, ad esempio, come “di nessuna utilità poteva essere il fatto che il personale dipendente da GADO s.a.r.1. continuasse ad avere rapporti con dirigenti o consulenti storici del gruppo nel quale la controllata estera era inserita: infatti erano risultate chiare la erroneità e la contraddittorietà della motivazione che non aveva tenuto conto che le mail in primo luogo riguardavano soprattutto l’anno 2004, non riguardavano affatto l’attività del legale rappresentante DOLCE Alfonso del quale non si affermava la etero direzione quale amministratore interposto, ed erano invece giustificate alla luce del complesso intreccio organizzativo e funzionale che intercorre tra una controllata e la sua controllante capogruppo, che fisiologicamente si risolve in un rapporto fra uffici e personale dell’una e dell’altra”. Quanto al reale obiettivo perseguito dall’operazione, la Corte riprende le osservazioni già svolte dal Gip di Milano nel 2011, rilevando che “le ragioni extra fiscali della riorganizzazione del gruppo Dolce & Gabbana, nell’ambito della quale va inserita la vicenda di GADO s.a.r.l. erano state convenientemente apprezzate dal Giudice per le Indagini Preliminari di Milano nella sentenza primo aprile 2011, citata: la struttura societaria ... presentava tuttavia una significativa peculiarità, che si traduceva sostanzialmente in un elemento di debolezza costituito dal fatto che la proprietà dei marchi era esterna al gruppo e faceva capo ai due stilisti personal-


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mente, i quali come persone fisiche possedevano i marchi in comunione tra loro al 50%”. Dunque, la proprietà personale dei marchi come elemento di diffidenza, da parte del sistema bancario, e di potenziale destabilizzazione del gruppo, in considerazione degli effetti che eventuali dissidi tra i due proprietari avrebbero potuto cagionare, in primis la paralisi della gestione dei marchi stessi. Tutto ciò, evidentemente, non poteva che azzoppare le prospettive di internazionalizzazione del gruppo e, quindi, le chances di ampliarne la posizione sui mercati esteri. In una tale cornice, ben si colloca, pertanto, anche la scelta del Lussemburgo quale “mercato finanziario appetibile”, nonché indubbiamente vantaggioso sotto il profilo fiscale. Né si poteva trascurare l’importanza di ricondurre la proprietà dei marchi all’interno del gruppo stesso, in luogo che alle persone fisiche dei due stilisti, circostanza che avrebbe mantenuto in seno al gruppo le royalties pagate per lo sfruttamento dei marchi e sarebbe stata in grado di incidere significativamente su un futuribile progetto di quotazione. Vero ciò, solo “l’ineffettività della gestione estera”, in aderenza all’insegnamento della pronuncia di annullamento della Cassazione, avrebbe potuto scardinare un tale disegno imprenditoriale, degradandolo ad esterovestizione della controllata lussemburghese. Ed è in tale contesto che la Corte rovescia uno degli argomenti apparentemente più solidi spesi dall’accusa: l’assenza di mutamenti nelle modalità di gestione dei marchi anche a seguito della cessione degli stessi. Osserva infatti la Corte: “è bene ricordare, in primo luogo, che nella prima fase della attività di GADO s.a.r.l. distaccata presso la medesima era proprio la BERGOMI che aveva svolto la medesima attività quando proprietari dei marchi erano le persone fisiche di DOLCE Domenico e GABBANA Stefano. Il dato non può non risultare assolutamente significativo per la risoluzione della questione di fatto che ne occupa. Dunque la stessa persona che si occupava per DOLCE (Domenico) e per GABBANA della tutela dei marchi svolgeva gli stessi compiti per GADO s.a.r.l.”. Ciò induce la Corte a concludere che “valendosi di una persona che si era già occupata della tutela dei marchi prima della costituzione, e poi di persona assunta in loco, GADO s.a.r.l. ha dunque convenientemente esercitato la attività statutaria”.


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6. Rilievi conclusivi: dalla giurisprudenza una regola di condotta per la gestione dei gruppi multinazionali. – Cercando, in sintesi davvero estrema, di tirare le fila di una vicenda così complessa, crediamo che la pronuncia in esame, in uno con la dotta sentenza resa in precedenza dalla Cassazione, consegni ai gruppi multinazionali che ancora mantengono in Italia il proprio “headquarter” un’importante – ed assai ragionevole, ci permettiamo di aggiungere- regola di condotta: se le società collocate all’estero non saranno “costruzioni di puro artificio” ma saranno reali terminali imprenditoriali di una complessiva attività orchestrata dalla capogruppo, allora il giudice penale non avrà ragione di censurare quella che altro non è se non una fisiologica modalità di esercizio dell’impresa. Ciò consente, ad esempio e volendo rimanere nel campo della moda, di decidere a Milano quali modelli di giacche vendere nel negozio di Dubai gestito da una società ivi residente, di valutare da Milano i prezzi da applicare, le modalità di riassortimento del magazzino e financo, riterremmo, le regole di esposizione dei capi in vetrina e di arredamento del punto vendita. Questo non significa privare la società estera della propria autonomia di governo, ma semplicemente gestire in modo coordinato un insieme di società che non possono procedere “in ordine sparso”, vendendo beni non omogenei ai marchi che utilizzano o a prezzi non coerenti o, ancora, presentati alla platea dei consumatori in modo estemporaneo o stravagante. Tutto questo non dà luogo, ad avviso della giurisprudenza più recente, alla costituzione di un contribuente italiano solo fittiziamente collocato all’estero ma, piuttosto, ad una canonica modalità di gestione di un gruppo. Certo, laddove il soggetto estero non avesse la consistenza adeguata per svolgere una tale attività – pur coordinata – ma fosse unicamente un simulacro, l’anta di un armadio in una struttura di domiciliazione di società volta a captare benefici fiscali, allora davvero non si sarebbe al cospetto di una struttura imprenditoriale ma di un mero artificio (25), questo sì suscettibile di dar luogo al delitto di omessa dichiarazione di redditi che non avrebbero nessuna ragione – economica prima che normativa– di essere collocati all’estero. Nell’apprezzare una tale, netta, presa di posizione della giurisprudenza, restano sullo sfondo una considerazione ed un auspicio.

(25) E si vedano, sulla “costruzione artificiosa”, le riflessioni di Tieghi, Nanetti, Dalla “residenza fiscale” alla “libertà di stabilimento”: spunti in tema di “delocalizzazione societaria” ed “estero-vestizione”, in Riv. dir. trib., 2015, V, 103 s.


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La considerazione vede identificare sempre più chiaramente l’esterovestizione con una forma di vera e propria evasione fiscale (26), che nulla ha a che vedere con l’elusione. È questa una constatazione forse non scontata laddove si consideri come, nelle varie pronunce che hanno segnato la vicenda in esame, si sia spesso trattato dell’elusione fiscale e financo, espressamente, dell’art. 37-bis, D.P.R. 600/1973. Piuttosto, l’esterovestizione, comportando la violazione del comma 3 dell’art. 73, T.U.I.R., assume a pieno titolo i connotati dell’evasione fiscale, fuori dalla sfera applicativa dell’attuale disciplina dell’abuso del diritto che, tra l’altro, prevede la possibilità di contestare la sussistenza di tale fattispecie solo “se i vantaggi fiscali non possono essere disconosciuti contestando la violazione di specifiche disposizioni tributarie” (art. 10-bis, co. 12, L. 27 luglio 2000, n. 212) (27). Quanto all’auspicio, questo non può che essere quello di vedere consolidarsi l’orientamento espresso dalla sentenza in commento, capace – per così dire – di discernere il grano dalla crusca con modalità obiettivamente riconoscibili dall’interprete e tali da colpire solamente i casi connotati da effettivo disvalore, in coerenza anche con il pregnante elemento soggettivo previsto dalla fattispecie penale tributaria. È poi evidente che l’applicazione dell’art. 5. D.Lgs. n. 74/2000 a casi di sostanziale inesistenza del soggetto estero schiude le porte a delicate questioni di potenziale inesistenza soggettiva delle operazioni che vedono in tale soggetto una delle controparti di scambi commerciali. Ed allora, non è difficile immaginare, in siffatti contesti, profili di sovrapposizione tra l’area

(26) Analoga conclusione in Dorigo, op. cit., 395. E si vedano altresì i rilievi di Falsitta, Note critiche intorno al concetto di abuso del diritto nella recentissima codificazione, in Riv. dir. trib., I, 2016, 727 e s.; Contrino, La trama dei rapporti tra abuso del diritto, evasione fiscale e lecito risparmio d’imposta, in Dir. prat. trib., 2016, 1415 ss. (27) Sulle ricadute penalistiche della nuova disciplina dell’abuso del diritto, cfr. Fondaroli, Osservazioni in merito alla rilevanza penale dell’elusione fiscale, in Arch. pen., 2017, 131; Gallo, L’abuso del diritto in materia tributaria tra sanzione amministrativa e repressione penale, in Giur. comm., 2017, I, 177; Ingrassia, La rilevanza penale dell’elusione: nuovi capitoli di una “saga (forse non) infinita”, in Le società, 2016, 491. Si vedano, nella giurisprudenza post riforma del 2015, Cass., 1 ottobre 2017 (dep. 7 ottobre 2015), n. 40272, in Cass. pen., 2016, 927, sulla quale Urbani, Elusione fiscale alla luce del nuovo art. 10-bis: qualche margine residuo di rilevanza penale?, in Cass. pen., 2016, 941; Cass., sez. III, 20 novembre 2015 (dep. 5 ottobre 2016), n. 41755, in Dir. prat. trib., 2017, II, 1123, con nota di Di Giacomo, L’eterno ritorno dell’uguale: la Suprema Corte torna a confondere abuso del diritto e simulazione, ivi, 1127.


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applicativa del delitto di omessa dichiarazione e le fattispecie di cui agli artt. 2 ed 8 del medesimo Decreto. Ma questa, come si suol dire, è un’altra storia.

Andrea Perini



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