Vol. XXX - Febbraio
Rivista di
Diritto Tributario
FONDATORI: Gaspare Falsitta e Augusto Fantozzi
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Rivista bimestrale
www.rivistadirittotributario.it
Vol. XXX - Febbraio 2020
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DIREZIONE SCIENTIFICA Loredana Carpentieri - Angelo Contrino - Guglielmo Maisto - Franco Paparella Gaetano Ragucci - Roberto Schiavolin
2020
In evidenza: • La Cassazione porta alla Corte costituzionale la questione della rilevanza dei collegamenti
negoziali ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro Andrea Fedele • Interpretativa di secondo livello e incostituzionalità della disciplina di risulta?
Giuliano Tabet • La sorte della ritenuta d’acconto sugli interessi attivi bancari nella liquidazione coatta
amministrativa Franco Paparella • Il ventaglio dei regimi fiscali per attrarre soggetti ad “alta capacità” intellettuale, lavorativa,
sportiva e… contributiva: pianificazione successoria e compatibilità con le regole europee Pietro Mastellone • Dazi doganali e Iva all’importazione: presupposti impositivi distinti secondo la Corte di
giustizia europea Sara Armella
ISSN 1121-4074
Periodico bimestrale - Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in a.p. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, Aut. MBPA/CN/PI/0007/2016
Rivista di Diritto Tributario
COMPONENTI ONORARI: Francesco D’Ayala Valva - Andrea Fedele - Piera Filippi Salvatore La Rosa - Francesco Moschetti - Pasquale Russo
Pacini
Indici DOTTRINA
Sara Armella
Dazi doganali e Iva all’importazione: presupposti impositivi distinti secondo la Corte di giustizia europea (nota a Corte Giustizia UE, sentenza 10 luglio 2019, causa C-26/18)............................................................................................................ IV, 10 Andrea Fedele
La Cassazione porta alla Corte costituzionale la questione della rilevanza dei collegamenti negoziali ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro (nota a Cass., Sez. V, 2 luglio 2019 - 23 settembre 2019, n. 23549).................................... II, 14 Alex Ingrassia
Drawing hands: la (ir)rilevanza penale delle condotte elusive e i ‘nuovi’ confini dei delitti di dichiarazione infedele, indebita compensazione e sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte............................................................................... III, 1 Pietro Mastellone
Il ventaglio dei regimi fiscali per attrarre soggetti ad “alta capacità” intellettuale, lavorativa, sportiva e… contributiva: pianificazione successoria e compatibilità con le regole europee..................................................................................................
I, 1
Franco Paparella
La sorte della ritenuta d’acconto sugli interessi attivi bancari nella liquidazione coatta amministrativa (nota a Cass.., Sez. V, 15 gennaio 2019 - 7 marzo 2019, n. 6630)............................................................................................................................ II, 40 Giuliano Tabet
Interpretativa di secondo livello e incostituzionalità della disciplina di risulta? (nota a Cass., Sez. V, 2 luglio 2019 - 23 settembre 2019, n. 23549)........................ II, 30 Paola Vella
Procedure concorsuali e processo tributario..............................................................
I, 61
Stefano Zagà
La disciplina impositiva del mandato senza rappresentanza ad alienare beni immobili: note a margine di una recente pronuncia della Corte di cassazione (nota a Cass., Sez. V, 19 dicembre 2018 - 30 aprile 2019, n. 11401)................................... II, 59 Rubrica di diritto penale tributario
a cura di Ivo Caraccioli............................................................................................... III, 1
II
indici
Rubrica di diritto penale europeo
a cura di Piera Filippi..................................................................................................
IV, 1
Tutti i lavori presenti nel fascicolo sono stati sottoposti a revisione esterna nel rispetto dei criteri stabiliti dall’ANVUR.
INDICE ANALITICO
IMPOSTE INDIRETTE Imposta di registro – art. 20 – rilevanza del collegamento e degli elementi extratestuali – questione di legittimità costituzionale (Cass., Sez. V, 2 luglio 2019 - 23 settembre 2019, n. 23549, con note di Andrea Fedele e Giuliano Tabet)................
II, 1
Imposta sulle successioni e donazioni - Mandato senza rappresentanza ad alienare beni immobili –iInapplicabilità – Strumentalità e neutralità del trasferimento del bene dal mandante al mandatario (Cass., Sez. V., 19 dicembre 2018 - 30 aprile 2019, n. 11401, con nota di Stefano Zagà)................................................................ II, 55
IMPOSTE SUI REDDITI Procedure concorsuali – Liquidazione coatta amministrativa – Imposta sul Reddito delle Persone Giuridiche (IRPEG) – Redditi di impresa – Durata del periodo di imposta – Determinazione del reddito (Cass., Sez. V, 15 gennaio 2019 - 7 marzo 2019, n. 6630, con nota di Franco Paparella)................................................. II, 37
IMPOSTA SUL VALORE AGGIUNTO Obbligazione doganale – Iva all’importazione – Differente fatto generatore – Differente luogo di insorgenza dell’obbligazione – Introduzione irregolare nel territorio doganale europeo – Ingresso del bene nel circuito commerciale (Corte Giustizia UE, sentenza 10 luglio 2019, causa C-26/18, con nota di Sara Armella).
IV, 1
INDICE CRONOLOGICO Corte Giustizia UE 10 luglio 2019, causa C-26/18...................................................................................
IV, 1
indici
III
***
Cass. Civ., Sez. V 15 gennaio 2019 - 7 marzo 2019, n. 6630................................................................. II, 37 Cass., Sez. V 2 luglio 2019 - 23 settembre 2019, n. 23549 ..........................................................
II, 1
Cassazione, Sez. V Trib. 19 dicembre 2018 - 30 aprile 2019, n. 11401............................................................ II, 55
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Elenco dei revisori esterni Alberto Alessandri - Fabrizio Amatucci - Massimo Basilavecchia - Andrea Carinci - Alfonso Celotto - Giuseppe Cipolla - Silvia Cipollina - Andrea Colli Vignarelli - Giandomenico Comporti - Roberto Cordeiro Guerra - Adriano Di Pietro - Marco De Cristofaro Lorenzo Del Federico - Eugenio Della Valle - Valerio Ficari - Gianfranco Gaffuri - Franco Gallo - Emilio Giardina - Alessandro Giovannini - Manlio Ingrosso - Maurizio Logozzo - Massimo Luciani - Francesco Macario - Jacques Malherbe - Enrico Marello - Gianni Marongiu - Giuseppe Melis - Salvatore Muleo - Mario Nussi - Andrea Parlato - Leonardo Perrone - Franco Picciaredda - Cesare Pinelli - Francesco Pistolesi - Pasquale Pistone - Franco Randazzo - Claudio Sacchetto - Guido Salanitro - Livia Salvini - Salvatore Sammartino - Dario Stevanato - Maria Teresa Soler Roch - Thomas Tassani - Giuseppe Tinelli - Gianluigi Tosato - Loris Tosi - Antonio Uricchio
Dottrina
Il ventaglio dei regimi fiscali per attrarre soggetti ad “alta capacità” intellettuale, lavorativa, sportiva e… contributiva: pianificazione successoria e compatibilità con le regole europee Sommario: 1. Considerazioni introduttive di ordine sistematico. – 2. L’appeal fiscale
dell’Italia come meta per trasferire la propria residenza. – 3. Le ragioni per trasferirsi in Italia e i percorsi alternativi contemplati dal diritto dell’immigrazione. – 3.1. Il soggiorno per lavoro. – 3.1.1. La c.d. procedura “accelerata” per i visti investitori introdotta dalla Legge di Bilancio 2017. – 3.2. Il soggiorno per residenza elettiva. – 3.2.1. In particolare. Le conseguenze tributarie della residenza elettiva. – 4. Le misure fiscali per attrarre dall’estero il “capitale umano”. – 4.1. Gli incentivi fiscali per favorire il rientro in Italia di docenti e ricercatori residenti all’estero. – 4.2. Il (vecchio) regime fiscale dei c.d. lavoratori controesodati e per favorire il c.d. rientro dei cervelli. – 4.3. Il regime fiscale dei c.d. lavoratori impatriati. – 4.3.1. Il restyling del regime ad opera del Decreto crescita e la sua apertura all’immigrazione degli “sportivi professionisti”. – 4.4. Il regime fiscale dei c.d. neo-residenti e la sua “musa” inglese dei resident non-domiciled. – 4.4.1. Un esempio pratico di c.d. neoresidente che si trasferisce in Italia. – 4.5. Il regime fiscale per i titolari di redditi pensionistici di fonte estera. – 5. La percezione “paradisiaca” dell’Italia sotto il profilo dei tributi sulle successioni e donazioni. – 6. Alcuni spunti, in chiave di pianificazione successoria, per i c.d. neo-residenti. – 6.1. Segue. La cessione delle c.d. partecipazioni qualificate nel primo quinquennio successivo al trasferimento di residenza. – 7. Conclusione.
Al preciso scopo di riportare in patria i “cervelli” fuggiti all’estero, una decina di anni fa l’Italia introduceva specifiche regole che garantiscono significative riduzioni degli obblighi impositivi. Via via, anche prendendo spunto dalle esperienze straniere, il legislatore ha però elaborato ulteriori regimi fiscali opzionali, i quali mirano ad attrarre persone fisiche con particolari caratteristiche intellettuali, lavorative, sportive e, più in generale, reddituali (il c.d. capitale umano). Con il presente studio si cerca di cogliere la ratio di questo nuovo trend legislativo, le sue ricadute applicative ed il relativo coordinamento con il diritto dell’immigrazione, enucleando le armonie (ma anche i possibili attriti) con le regole stabilite a livello UE e con il principio di capacità contributiva, nonché osservando le possibili implicazioni in termini di pianificazioni successoria.
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Parte prima
With the specific purpose of bringing home the emigrated “brains”, a decade ago Italy introduced specific rules that guarantee significant reductions in tax obligations. However, also taking inspiration from foreign tax rules, the legislator has developed further optional tax regimes aimed at attracting individuals with specific intellectual, working, sports and, more generally, “income-generating” characteristics (so-called human capital). With this study we try to identify the rationale of this new legislative trend, its practical enforcement and the coordination with immigration rules, highlighting the harmonies (but also the possible frictions) with the regulations established at EU level and with the ability-to-pay principle, as well as observing the possible implications in terms of inheritance tax planning.
1. Considerazioni introduttive di ordine sistematico. – Il contesto fiscale internazionale ha subìto profondi cambiamenti negli ultimi decenni. All’inizio degli anni ’80, la fase post-coloniale portò alla nascita e rapida diffusione dei paradisi fiscali: principalmente “micro-Stati” che hanno fatto della fiscalità di vantaggio il loro punto di forza per attrarre investimenti stranieri, ulteriormente ingolositi da un solido segreto bancario pressoché impenetrabile agli occhi delle amministrazioni finanziarie straniere e di altre autorità di controllo (1). I paradisi fiscali e i vari regimi ring-fencing via via introdotti sono proliferati in modo ancor più significativo con lo sviluppo della globalizzazione
(1) V. Tanzi, Globalization, technological developments, and the work of fiscal termites, in Brooklyn Journal of International Law, 2001, 1261 ss., il quale identifica varie c.d. termiti fiscali in grado di erodere il gettito dei paesi ad “alta fiscalità”, tra le quali spiccano gli offshore financial centres ed i paradisi fiscali. A tale riguardo, l’autore rileva che, «on closer inspection, one can begin to visualize the work of “fiscal termites” busily gnawing at the foundations of the tax systems. Whether the work of these termites eventually will bring serious damage to the fiscal houses remains to be seen. It is possible that while the impact of globalization will constitute a challenge to present tax administrations, it may provide opportunities to use new technology and knowledge to raise tax revenue in innovative ways to continue to be able to finance the current high levels of public spending. It is conceivable that, as in the past, new taxes will be invented and used to extract more revenue from taxpayers. […] The fourth fiscal termite is the growing importance of offshore financial centers (OFCs) and tax havens as conduits for financial investments. The growth of these OFCs has been stimulated by the flow of digital information that now allows money and knowledge to be moved easily and cheaply in real time, and by the existing regulatory arrangements of specific countries. Estimates of these deposits exceed US$ 5 trillion. It is unlikely that many of those who earn incomes on these deposits report them to their national tax authorities. The U.N. report indicates the proliferation of particular legal entities, such as international business corporations and offshore trusts, routinely used for money-laundering and for tax evasion. These entities provide an impenetrable veil around particular transactions» (ibidem, 1263 e 1271).
Dottrina
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economica, caratterizzata dall’estrema mobilità dei flussi di capitali (2), imponendo all’Unione Europea e all’OCSE di tracciare la (sottile) linea di demarcazione tra concorrenza fiscale lecita e dannosa. Ma mentre l’UE, come vedremo meglio avanti, si è concentrata su misure fiscali domestiche che attraggono capitali stranieri e danneggiano le casse erariali degli altri Stati membri, l’OCSE ha cercato di delineare, più in generale, le caratteristiche di fondo dei paradisi fiscali (3) e definire ciò che solitamente identifica un c.d. regime fiscale preferenziale “dannoso”: (a) tassazione con aliquota molto bassa o inesistente sul reddito prodotto; (b) applicabilità “selettiva” solo ad una cerchia ristretta di contribuenti, per lo più residenti di altri paesi che decidono di trasferirsi; (c) funzionamento non trasparente del regime; (d) assenza di effettivo scambio di informazioni con autorità fiscali straniere. Malgrado ciò, i tentativi di controllare (o, se non altro, contenere) una globalizzazione “selvaggia” non hanno inizialmente sortito i risultati desiderati, principalmente perché l’OCSE risulta un’organizzazione internazionale con le armi spuntate (4). A seguito degli attacchi dell’11 settembre, il mondo ha toccato con mano il “lato oscuro” della globalizzazione (5), rendendosi repentinamente conto
(2) Sul punto, si veda UN Office for Drug Control and Crime Prevention, Financial havens, banking secrecy and money laundering, New York, 1998, 33, ove si prende atto che «money in the form of symbols on computer screens makes it possible to move funds almost anywhere in the world with speed and ease. Not surprisingly, an increasing proportion of the world’s money moves around through electronic rather than cash transactions». (3) I quali rilevano al ricorrere di quattro elementi: imposizione sul reddito nulla o con aliquota meramente simbolica, assenza di un effettivo scambio di informazioni con altre autorità fiscali, mancanza di trasparenza e assenza di “attività sostanziali” svolte all’interno della propria giurisdizione (elemento che rappresenta un campanello di allarme delle c.d. letter box companies). Secondo OECD, Harmful tax competition. An emerging global issue, Paris, 1998, 22, i paradisi fiscali «provide a location for holding passive investments (“money boxes”); they provide a location where “paper” profits can be booked; and they enable the affairs of taxpayers, particularly their bank accounts, to be effectively shielded from scrutiny by tax authorities of other countries». (4) S. Jogarajan-M. Stewart, Harmful tax competition: defeat or victory?, in Australian Tax Forum, 2007, 4, rilevano che i «powerful developed States selected to the OECD, an organisation with no coercive powers, to host the harmful tax competition project and discusses the institutional approach of the OECD, which utilized rhetoric premised on global economic norms in an attempt to persuade the tax havens to comply, rather than economic coercion or even military force». (5) Il conio di questa efficace espressione si deve a R. Thakur-J. Heine (a cura di), The dark side of globalization, Tokyo-New York-Paris, 2011.
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Parte prima
che i paradisi fiscali erano ormai diventati il principale veicolo per finanziare le attività terroristiche: per questo motivo, la comunità internazionale elaborava una nuova strategia globale antiriciclaggio che ha ampliato in modo significativo il suo campo di applicazione, mettendo sotto controllo non solo l’origine del denaro, ma considerando anche il suo potenziale scopo di finanziare il terrorismo (c.d. riciclaggio “inverso”) (6). La crisi finanziaria globale del 2008 rappresenta il punto di svolta, il Big bang della fiscalità internazionale, perché ha visto il meeting del G20 di Londra (2 aprile 2009) enucleare specifiche linee guida (7) e affidare all’OCSE il delicato compito di verificare in che misura i paesi aderivano formalmente e sostanzialmente ai nuovi standard. Da tale momento, mentre i paradisi fiscali si affrettavano per uscire rapidamente dalle black e grey lists stilate dall’OCSE per marchiare le “giurisdizioni non collaborative”, i paesi “ad alta fiscalità” recuperavano fiducia nella riscossione delle imposte gravanti su fonti di reddito estero (specialmente nell’ambito UE) (8); questa transizione dalla concorrenza alla cooperazione fiscale si è accompagnata dal varo di temporanei programmi nazionali di voluntary disclosure, spesso sbandierati come ultima chance per poter dichiarare i redditi offshore senza gravi conseguenze sanzionatorie (9).
(6) Per un approfondimento, S.D. Cassella, Reverse money laundering, in Journal of Money Laundering Control, 2003, 92 ss. (7) T. Rosembuj, Tax avoidance and tax evasion in the financial crisis, in L. Salvini-G. Melis (a cura di), Financial crisis and single market, Roma, 2012, 26, identifica i capisaldi di questa fase storica come «regulation against irregularities, transparency against opacity, integrity against corruption. The G20 reacted against market abuses, financial abuses and also against tax evasion and money laundering and the traffic of capital». (8) In Commissione Europea, Fiscalità e sviluppo. Cooperazione con i paesi in via di sviluppo per la promozione delle buone pratiche di gestione in materia tributaria, COM(2010)163 def., Bruxelles, 21 aprile 2010, 6, si evidenzia che l’Unione Europea ricercava «presso tutti i paesi, in particolare presso i paesi partner, un consenso sui principi di base in materia di cooperazione per una buona gestione in ambito fiscale (trasparenza del sistema fiscale, scambio di informazioni e concorrenza fiscale leale) che gli Stati membri hanno già conseguito. In tal modo si contribuirebbe a migliorare la capacità degli Stati membri dell’Unione e dei paesi partner di affrontare l’evasione e l’elusione fiscali, fondandosi su iniziative internazionali complementari». (9) Secondo il documento OECD, Offshore voluntary disclosure. Comparative analysis, guidance and policy advice, Paris, 2010, 11, «offshore voluntary compliance programmes offer the opportunity to maximize the benefits of improvements in transparency and exchange of information for tax purposes, to increase short-term tax revenues and improve medium-term tax compliance. To succeed, they need to tread a fine line between encouraging non-compliant
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Il contesto odierno esprime la fine del ventennio della globalizzazione come originariamente intesa, soprattutto grazie alle elezioni di Trump, alla Brexit (ora, sebbene soggetta a plurimi rinvii, ancor più verosimile alla luce delle esplicite affermazioni del primo ministro Boris Johnson) ed al proliferare dei movimenti populisti in Europa; tutti fattori espressivi di una forte avversione (se non esasperazione) nei confronti del multilateralismo e di un desiderio di tornare verso approcci bilaterali e politiche fiscali protezionistiche (10). Il nuovo ecosistema globale ha così spinto molti paesi europei, tra cui l’Italia, a introdurre regimi impositivi volti ad attrarre investimenti esteri, sportivi professionisti stranieri, pensionati non residenti e, in generale, persone fisiche “ad alta capacità contributiva” (high-net worth individuals, HNWIs): assistiamo, non solo in Italia (11), ad una nuova ondata di concorrenza fiscale “lecita” nel segno della tassazione forfetaria (12). Proprio a questo proposito, occorre fare alcune considerazioni in merito al potenziale impatto di tali nuove norme fiscali con le regole dell’Unione Europea, ivi compresa la c.d. soft law UE. Ci si deve, pertanto, chiedere se queste possano far emergere dei profili di contrasto con il divieto di trattamenti discriminatori, con la disciplina degli aiuti di Stato e con l’impegno assunto dagli Stati membri di non introdurre misure espressive della concorrenza fiscale “dannosa”.
taxpayers to permanently improve their compliance (a balancing act in itself) and retaining the support and compliance of the vast majority of taxpayers who are already compliant. To do this, they need to form part of wider voluntary compliance and enforcement strategies. They also need to be consistent with relevant rules in the non-tax are a such as anti-money laundering rule». In dottrina, v. J. Malherbe (a cura di), Tax amnesties, Alphen aan den Rijn, 2011. (10) In una recente intervista, Giulio Tremonti ha affermato che «è la fine di un’epoca. La fine dell’utopia della globalizzazione. E, seppur in modo soft, questa data ha una portata storica simile alla caduta del comunismo. […] Quella che sta crollando è un’utopia. L’utopia della globalizzazione. Un’utopia che era stata costruita sulla base di due formule chiare e interconnesse: “politically correct” e “responsibility to protect”. È durata vent’anni esatti. Lanciata nel gennaio del 1996 col secondo mandato alla Casa Bianca di Bill Clinton, immaginata come l’anno zero dell’umanità, articolata come progetto di creazione dell’uomo nuovo e di un mondo nuovo». Così, T. Labate, Tremonti: ‘Trump fa la storia. Finita l’utopia della globalizzazione’, in Corriere della Sera, 15 gennaio 2017. (11) Per una panoramica dei nuovi regimi fiscali attrattivi in Europa, v. E. Sansen-G. Verachtert, Emigratie en fiscus. Met bespreking von de belasingregimes van bet Verenigd Koninkrijk, Portugal, Zwitserland, Malta, Cyprus en Italië, Mechelen, 2017. (12) Così, J. Tron, Régimes fiscaux en Europe: le forfait à toutes les sauces!, in Le Temps, 7 febbraio 2017.
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Parte prima
Come noto, ai sensi dell’art. 26 TFUE, «il mercato interno comporta uno spazio senza frontiere interne», nel quale devono sempre essere garantite «la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali». Pertanto, gli Stati membri, per poter rispettare la piena operatività delle libertà fondamentali, non possono attuare misure che si traducono in una discriminazione fondata sulla nazionalità (art. 18 TFUE). Si pensi, per esempio, al regime fiscale italiano dei neo-residenti ex art. 24-bis TUIR, che, come vedremo più dettagliatamente infra § 4.4, offre una temporanea tassazione forfetaria sugli asset esteri del contribuente che si trasferisce nel territorio dello Stato. Orbene, posto che sicuramente un regime di tal genere non penalizza in alcun modo né i cittadini di altri Stati membri (discriminazione “diretta”) né i residenti di altri Stati membri (discriminazione “indiretta”), anzi favorendo la mobilità europea di queste categorie di soggetti, ci si potrebbe chiedere se la discriminazione possa sussistere a danno dei residenti italiani (reverse discrimination). In altre parole, potrebbe un contribuente residente “ordinario” in Italia ex art. 2 TUIR sostenere di essere discriminato (perché sottoposto a tassazione ordinaria con aliquote IRPEF progressive) rispetto ad un contribuente neoresidente che, invece, sulla “fetta” di ricchezza estera – la quale solitamente rappresenta la maggior parte della capacità contributiva – è ammesso, fino ad un periodo massimo di 15 anni, a pagare un’imposta sostitutiva annua di € 100.000 (oltre a € 25.000 per ogni familiare al seguito)? Ci pare che a tale quesito si debba rispondere in senso negativo per una serie di motivi. In primo luogo, difficilmente le due categorie di residenti potrebbero essere considerate comparabili, posto che i neo-residenti, oltre a non avere un legame radicato con il territorio italiano paragonabile a quello che hanno i residenti “ordinari”, esplicitano sin dall’origine di potersi permettere quantomeno di versare annualmente € 100.000. Questo aspetto li rende obiettivamente non paragonabili all’intera platea dei contribuenti residenti soggetti ad IRPEF progressiva, poiché esprimono una elevata capacità contributiva, con ciò facendo venire meno uno step fondamentale del ragionamento giuridico solitamente effettuato dalla Corte di Giustizia UE nelle proprie decisioni (13).
(13) Se le due fattispecie non sono comparabili, allora un loro trattamento fiscale differenziato non potrà costituire una discriminazione. Al contrario, se le due situazioni – pur
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A tale profilo, deve altresì aggiungersi il fatto che l’effettività delle informazioni reddituali fornite e la veridicità dello status di non residente, nei nove degli ultimi dieci anni, del soggetto che esercita l’opzione siano oggetto di scrupolosa verifica da parte dell’Amministrazione finanziaria (ex ante in caso di interpello preventivo oppure ex post in caso di esercizio dell’opzione in dichiarazione), con ciò tendenzialmente scongiurando ogni forma di abuso. Tentando, dunque, di scorgere una ratio normativa in chiave europea, la misura mira chiaramente ad incentivare e favorire l’esercizio della libera circolazione delle persone, la quale è prevista dal c.d. diritto europeo “primario” e, pertanto, è egregiamente in grado di operare come “contrappeso” alla temporanea deroga alle regole di tassazione ordinariamente applicabili. Allo stesso tempo, il regime di cui all’art. 24-bis TUIR risulta, altresì, in linea con la libera circolazione dei capitali, non creando alcuna discriminazione legata alla selezione delle fonti di reddito estere dei non residenti che possono accedere al regime (14). La finalità di attrarre capitale umano è anche legata a ragioni di interesse fiscale dello Stato, posto che dall’applicazione della disciplina inevitabilmente derivano degli «effetti positivi per il bilancio dello Stato» (15), configurando una circostanza fattuale che, nell’ipotesi detto regime fosse considerato in contrasto con le libertà fondamentali, ben potrebbe essere spesa come valida giustificazione dall’Italia.
divergendo dalla loro formale classificazione attribuita dalla legislazione nazionale – fossero comparabili, allora dovrebbero ricevere il medesimo trattamento fiscale. Sul punto, v. per tutte CGUE, 14 febbraio 1995, causa C-279/93 Schumacker, in Racc. I-225. (14) Al riguardo, è opportuno ricordare che nel 2007, la Commissione Europea avviava una procedura di infrazione a carico dell’Irlanda perché il relativo regime dei nondoms (sostanzialmente identico a quello inglese) escludeva dalla remittance basis taxation i redditi di fonte inglese, che quindi erano sottoposti al principio di tassazione globale. In virtù di una “reciproca discriminazione”, all’epoca il regime inglese dei non-doms, in modo speculare, escludeva anch’esso dalla remittance basis taxation i redditi di fonte irlandese. La Commissione, quindi, rilevava che «the United Kingdom rules are similar to the Irish, but exclude income sourced in Ireland. The United Kingdom is asked to reply within two months. A letter of formal notice is the first step of the infringement procedure of Article 226 of the EC Treaty» (così, Commissione Europea, Press release IP/07/445, Bruxelles, 30 marzo 2007). Dopo tale messa in mora, sia l’Irlanda – v. Finance Bill 2008 del 31 gennaio 2008 – sia il Regno Unito – HRMC, IR20 – Residents and non-residents liability to tax in the United Kingdom, March 2009, § 5.11 – hanno eliminato i rispettivi elementi discriminatori. (15) Così, Disegno di legge n. 4127 presentato il 29 ottobre 2016, Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2017 e bilancio pluriennale per il triennio 2017-2019, Capo III (Misure di attrazione per gli investimenti), 235.
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Da ultimo, il fatto che l’operatività sia temporalmente limitata ad un massimo di quindici anni dovrebbe rendere la sua natura derogatoria compatibile con il principio di proporzionalità. Impostata la questione in questi termini, emerge che il diritto europeo non può interpretarsi nel senso di vietare alle persone fisiche di stabilire la propria residenza fiscale in un altro Stato membro, anche in considerazione della minore tassazione ivi prevista, a condizione che il trasferimento sia reale ed in grado di radicare un legame effettivo tra il soggetto e la comunità. Risolto positivamente il primo interrogativo, è necessario verificare se detti regimi fiscali possano in qualche modo rappresentare un aiuto di Stato incompatibile con il diritto UE. La disciplina degli aiuti di Stato contiene le fondamentali regole sulla concorrenza che ha come destinatari non i soggetti privati ma, appunto, gli Stati membri e le relative suddivisioni amministrative. Si tratta di regole che, anch’esse, fanno parte del c.d. diritto europeo “primario”, in quanto contenute negli artt. 107 ss. TFUE, i quali considerano incompatibili gli aiuti di Stato – che ben possono consistere in agevolazioni fiscali (16) – che presentano i quattro requisiti di cui all’art. 107, comma 1, TFUE (già art. 87 TrCE): i. presenza di una “impresa”; ii. erogazione di fondi pubblici; iii. natura selettiva della misura ed iv. effetto distorsivo della concorrenza. Circa il primo requisito, sebbene il concetto di “impresa” sia stato soggetto a sempre maggiori dilatazioni interpretative tanto dalla Commissione quanto dalla Corte di Giustizia UE (17) (talvolta, difficilmente comprensibili (18)),
(16) Sull’impatto della disciplina sugli aiuti di Stato sul settore tributario, v. ex pluribus F. Fichera, Gli aiuti fiscali nell’ordinamento comunitario, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1998, I, 84 ss.; F. Gallo, L’inosservanza delle norme comunitarie sugli aiuti di Stato e sue conseguenze sull’ordinamento fiscale interno, in Rass. trib., 2003, 2282 ss.; G. Fransoni, Profili fiscali della disciplina comunitaria degli aiuti di Stato, Pisa, 2007; L. Salvini (a cura di), Aiuti di Stato in materia fiscale, Padova, 2007; F. Amatucci, Il ruolo del giudice nazionale in materia di aiuti fiscali, in Rass. trib., 2008, 1282 ss.; L. del Federico, I principi di equivalenza ed effettività nelle procedure di recupero degli aiuti di Stato fiscali, in M. Ingrosso-G. Tesauro (a cura di), Agevolazioni fiscali e aiuti di Stato, Napoli, 2009, 353 ss. (17) V. per tutti CGUE, sez. VI, 23 aprile 1991, causa C-41/90 Höfner e Elser c. Macrotron GmbH, par. 21, in Racc. I-1979, secondo cui «la nozione di impresa abbraccia qualsiasi entità che esercita un’attività economica, a prescindere dallo status giuridico di detta entità e dalle sue modalità di finanziamento». (18) Basti pensare che in alcune occasioni gli Stati membri hanno dovuto argomentare che determinate misure di sostegno finanziario a musei nazionali, considerati “imprese” dalla Commissione Europea, non potevano costituire un aiuto di Stato perché così si arriverebbe a
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non vi è dubbio che al suo interno non si possa ricomprendere la persona fisica non residente che si trasferisce in Italia stimolata – in tutto o in parte – da una fiscalità allettante. Non sussistendo il primo requisito, la verifica degli altri non risulta necessaria, sebbene a prima vista anche il quarto non parrebbe configurabile. Da ultimo, e proprio per le medesime ragioni poc’anzi illustrate, è possibile escludere agevolmente una potenziale lesione dei regimi in questione con le misure europee di contrasto alla concorrenza fiscale “dannosa”, concetto che prende in esame quelle misure fiscali nazionali che determinano una fuga di contribuenti verso lo Stato che le ha introdotte, con correlato pregiudizio per le ragioni fiscali dello Stato di emigrazione (19).
identificare la cultura come un “bene di consumo”. In tal senso, v. Commissione Europea, Aiuto di Stato n. 530/99 – Spagna – Restauro del monastero di Santa Maria de Retuerta, Bruxelles, 27 ottobre 1999; Commissione Europea, Aiuto di Stato n. 136/A/02 – Francia – Misure concernenti l’Ecomusée d’Alsace, Bruxelles, 21 gennaio 2003; Commissione Europea, Aiuto di Stato n. 630/2003 – Italia – Musei di interesse locale – Regione autonoma della Sardegna, C(2004)317fin, Bruxelles, 18 febbraio 2004. In dottrina, T. Scharf-I. Orssich Slavetich, The application of State aid rules to culture and sports, in M. Sanchez Rydelski (a cura di), The EC State aid regime, London, 2006, 515, osservano che «with the exception of large and internationally renowned cultural activities, citizens normally do not cross borders with their principal aim to “consume culture”. Many cultural activities are local in nature. This is especially the case where the measure concerns, for instance, the renovation of a monument that forms part of local or regional cultural heritage and which might not have enough drawing power to attract visitors from outside the Member State in question to visit it. Therefore a certain number of local projects could be argued not to have an impact on intra-Community trade». (19) In tal modo, veniva per la prima volta distinta la concorrenza “leale” da quella “dannosa” (o “sleale”). Secondo V. Tanzi, Globalizzazione e sistemi fiscali, Arezzo 2002, 34-35, «nell’ambiente attuale molti governi si sentono fortemente vincolati o almeno influenzati nella loro azione dalle scelte di altri governi, e le ricadute oltrefrontiera prodotte dalla tassazione sono diventate molto frequenti e rilevanti. Questo ha aperto la possibilità per alcuni paesi di trarre vantaggio da questa nuova situazione attirando verso di sé una quota maggiore della base imponibile mondiale, ed esportando così un po’ del loro carico fiscale». Sul punto, R. Cordeiro Guerra, Introduzione, in Id. (a cura di), Diritto tributario internazionale. Istituzioni, 2a ed., Padova, 2016, 15, rileva poi che «definendo e combattendo le forme di concorrenza fiscale illecita, si compie, implicitamente ma inequivocabilmente, una scelta precisa: quella di abbandonare l’idea di un’azione legislativa europea tendente ad armonizzare il livello di tassazione vigente in ciascun Stato, e legittimare, per contro, la concorrenza fiscale. In accordo al principio di sussidiarietà, il quantum dell’imposizione viene, dunque, lasciato alla sovranità di ciascuno Stato membro, nella consapevolezza che sarà l’irreversibile processo di concorrenza innescatosi in ambito fiscale a determinare le scelte di ciascun ordinamento al riguardo. Questo punto d’approdo, maturato in un ambito regionale (quello dell’Unione Europea) dove la contiguità dei partners rende più facile l’elaborazione di una linea comune all’interno del “club”, appare fortemente indicativo dello scenario nel quale sono destinati a
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Parte prima
Considerato che a livello UE, la potestà legislativa nel settore delle imposte sul reddito spetta principalmente agli Stati membri (con qualche rara eccezione, subordinata all’unanimità decisionale, concretizzatasi nelle Direttive “madre-figlia”, “fusioni”, “interessi e royalties”, etc.), il fenomeno è stato affrontato attraverso un documento di natura politica (20), frutto della c.d. soft law europea in materia tributaria (21): il Codice di condotta in materia di tassazione delle imprese (22). Il Codice si focalizza sulla nozione di “misura fiscale dannosa”, la quale sussiste al ricorrere di due presupposti: i. idoneità a condizionare l’ubicazione di attività imprenditoriali, dal momento che la misura (che può avere fonte legislativa, ma anche regolamentare o di prassi amministrativa) si considera “dannosa” se ha una sensibile incidenza sulla localizzazione delle attività economiche, ivi comprese le operazioni infragruppo; ii. carattere pregiudizievole, il quale sussiste in presenza di un livello di imposizione effettivo nettamente inferiore («compresa l’imposizione di entità zero») rispetto a quello generalmente applicato nello Stato membro interessato, con la precisazione che tale effetto può derivare non solo dall’aliquota, ma anche dalla base imponibile o da «altri elementi pertinenti» (23).
muoversi i sistemi fiscali nei prossimi anni. Concorrenza e collaborazione si saldano, infatti, nell’idea del mercato fiscale regolato, introducendo, anche rispetto a uno degli ultimi baluardi della sovranità statale (i.e. la potestà impositiva), quel processo di standardizzazione e perdita di autonomia che è il portato tipico della globalizzazione». (20) B.J.M. Terra-P.J. Wattel, European tax law, Deventer, 2008, 198, ritengono che si tratterebbe di un vero e proprio gentlemen’s agreement. (21) Così, H. Gribnau, The Code of conduct for business taxation: an evaluation of an EU soft-law instrument, in D. Weber (a cura di), Traditional and alternative routes to European tax integration, Amsterdam, 2010, 67 ss. (22) Consiglio dell’Unione Europea, Risoluzione su un Codice di condotta in materia di tassazione delle imprese, in Gazz. Uff. CE, n. C 2 del 6 gennaio 1998, 2 ss. (23) L’individuazione del carattere pregiudizievole della misura deve, inoltre, tenere conto dei seguenti ulteriori elementi, indicati al comma 3 del paragrafo B: 1) se le agevolazioni sono accordate esclusivamente a soggetti non residenti o in riferimento a operazioni effettuate con soggetti non residenti; 2) se le agevolazioni sono totalmente isolate dall’economia interna, in maniera tale da non incidere sulla base imponibile nazionale e sul relativo gettito fiscale; 3) se le agevolazioni sono accordate anche in mancanza di un’effettiva attività economica e di una sostanziale presenza economica nello Stato membro che le concede; 4) se le regole di determinazione del reddito relativamente alle attività infragruppo divergono dai principi generalmente accettati a livello internazionale, con particolare riferimento alle norme approvate dall’OCSE; 5) se le misure fiscali peccano di trasparenza, con riferimento alle modalità di applicazione delle norme e delle pratiche amministrative.
Dottrina
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Emerge, quindi, che l’impianto europeo di regole a presidio della concorrenza fiscale “lecita” sia chiaramente limitato alla censura di misure che attraggano illegittimamente attività imprenditoriali, dovendo già questo bastare ad escludere alla radice l’applicazione del Codice ai regimi che attraggono HNWIs non residenti, quale quello britannico dei non-doms (24) o quello previsto dall’art. 24-bis TUIR. Eppure, nel marzo 2017 venivano rivolte due interrogazioni del Parlamento Europeo volte a chiedere se la nuova disciplina italiana sia una forma di concorrenza fiscale “dannosa” (25), alle quali però la Commissione Europea ha condivisibilmente risposto in senso negativo (26).
(24) In tal senso, v. P. Mastellone, Il trattamento impositivo dei “residenti non domiciliati” nel Regno Unito e la sua legittimità nel panorama internazionale, in Dir. prat. trib. int., 2009, 1428, ove si rileva che «il regime tributario dei non-doms, sebbene a primo acchito sembri costituire una di quelle misure che gli Stati membri si sono impegnati (politicamente) a smantellare, non può essere formalmente censurato alla luce del Codice di condotta, in quanto lo stesso mira a regolare il fenomeno delle misure fiscali dannose unicamente in relazione alla tassazione delle imprese, indicando esplicitamente come obiettivo quelle misure agevolative che si rivolgono ad “attività imprenditoriali”. In altre parole, dal momento che il regime […] si rivolge ai contribuenti persone fisiche, non potrebbe ricadere nel campo applicativo del Codice di condotta, sebbene la sua ratio consista proprio nell’identificazione ed eliminazione dei regimi preferenziali». (25) Parlamento europeo, Interrogazione con richiesta di risposta scritta n. E-001841/2017 del 20 marzo 2017, 1120619.IT, PE 601.460; Parlamento europeo, Interrogazione con richiesta di risposta scritta n. E-001843/2017 del 20 marzo 2017, 1120621.EN, PE 601.462. (26) P. Moscovici, Risposta congiunta a nome della Commissione alle interrogazioni scritte E-001841/17 e E-001843/17, 15 giugno 2017, nella quale viene chiarito che «il Codice riguarda le misure di tassazione delle imprese che incidono sull’ubicazione delle attività imprenditoriali nel territorio dell’UE. La misura nazionale cui si fa riferimento sembra riguardare l’imposizione delle persone fisiche che non parrebbe rientrare nell’ambito di applicazione del Codice. Tuttavia, una possibile inclusione di tali misure nell’ambito di applicazione del Codice è stata discussa in un gruppo di lavoro del Consiglio in linea con le conclusioni del Consiglio “Economia e finanza” del 7 dicembre 2010 (documento 17380/10 FISC 149). Il gruppo di lavoro ha ritenuto che la tassazione del reddito delle persone fisiche non rientra, di norma, nell’ambito di applicazione del Codice ma che taluni aspetti di tale tassazione possono essere presi in considerazione se la loro interazione con altre misure fiscali produce effetti negativi per la tassazione delle imprese. Il regime nazionale cui è fatto riferimento nell’interrogazione sembra non produrre detti effetti e non rientrerebbe dunque nell’ambito di applicazione del Codice. La Commissione ha proposto riforme del Codice al fine di modernizzarlo e renderlo più efficace, ottenendo finora alcuni risultati utili. Tuttavia, ad oggi non è stato raggiunto un accordo riguardo all’estensione dell’ambito di applicazione del Codice oltre il settore della tassazione delle imprese. In considerazione dei notevoli progressi conseguiti negli ultimi anni sulla base delle iniziative della Commissione in materia di scambio di informazioni fiscali, non vi è un rischio evidente di elusione fiscale dovuto alla misura in questione. Inoltre, tenendo conto del fatto che gli Stati membri sono liberi di fissare le aliquote d’imposta nazionali, è rispettato il principio di leale cooperazione».
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2. L’appeal fiscale dell’Italia come meta per trasferire la propria residenza. – Prima di entrare nel merito della tematica, è però necessario porsi (e cercare di rispondere a) alcuni quesiti fondamentali. Occorre, innanzitutto, chiedersi come l’Italia venga vista dai soggetti stranieri che intendono trasferire la residenza per cambiare la propria vita. Sotto questo profilo, l’Italia come ipotetica meta è, senza dubbio, in pole position per varie ragioni. In primis, perché è un paese che, per le sue caratteristiche di penisola lunga e stretta che si inserisce nel cuore del Mediterraneo, è stato abitato da un numero pressoché incalcolabile di civiltà, i cui passaggi – più o meno lunghi – sono testimoniati dall’immenso patrimonio storico e artistico dislocato in tutto il territorio. Non a caso, l’Italia detiene tutt’oggi il primato incontrastato di maggior numero di siti patrimonio dell’umanità riconosciuti dall’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura (UNESCO), composto da ben 55 siti (senza contare le candidature per le quali è ancora pendente il procedimento di valutazione) (27). Per le medesime ragioni geografiche, l’Italia è in grado di offrire una vastissima gamma di paesaggi del tutto diversi tra loro: dalle ambite piste da sci delle Dolomiti, alle acque cristalline delle proprie isole, ai filari delle vigne del Chianti, ai paesaggi vulcanici intorno all’Etna, ai parchi nazionali dell’Abruzzo, sino agli sconfinati uliveti che caratterizzano il Salento. Grazie a questa grande varietà di scenari, l’Italia detiene il primato europeo della biodiversità, con 55.600 diverse specie animali corrispondenti a circa 1/3 di tutte quelle europee (28). A questo si aggiunge il forte richiamo delle città d’arte (29), con particolare riguardo a Roma, Venezia e Firenze, le quali sono predisposte sotto molteplici punti di vista ad accogliere turisti da tutto il mondo, offrendo itinerari culturali ed enogastronomici molto richiesti, tant’è che la riforma (in-
(27) L’elenco aggiornato dei siti italiani inseriti nella World Heritage List è accessibile su http://whc.unesco.org/en/statesparties/IT. (28) Così, P. Sebastiani, Se non la usi la perdi! Ecco perché dobbiamo sostenere la biodiversità agricola, in Biodiversity International, 22 maggio 2017. (29) In dottrina, v. L. Tosi, La fiscalità delle città d’arte. Il caso del comune di Venezia, Padova, 2009; G. Beretta, L’imposta di soggiorno. Amnesie legislative, dubbi interpretativi e prospettive di riforma nell’era della sharing economy, in Dir. prat. trib., 2017, I, 2450 ss.; L. Mercati, L’imposta di soggiorno: i gestori delle strutture ricettive come agenti contabili ‘di fatto’, in Giorn. dir. amm., 2017, 256 ss.; V. Tenore, Sulla pacifica giurisdizione contabile sul mancato versamento dell’imposta di soggiorno da parte degli albergatori, in Riv. trim. dir. trib., 2018, 476 ss.; L. Conti-E. Gennari-F. Quintiliani-R. Rassu-E. Sceresini, L’imposta di soggiorno nei Comuni italiani, in Questioni di Economia e Finanza, n. 453, ottobre 2018.
Dottrina
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completa) del federalismo fiscale ha permesso loro di sviluppare una propria potestà impositiva (30). Ma queste particolari città non si limitano ad ospitare i turisti “di passaggio”, essendo in grado di permettere un inserimento stabile e duraturo degli stranieri: basti pensare che solo a Firenze si trovano ben 43 succursali di università statunitensi (tra cui New York University, Stanford University e Harvard University) e il centro di eccellenza per studi post-lauream dell’European University Institute. È, quindi, possibile affrontare il secondo, ben più problematico, quesito: gli stranieri percepiscono l’Italia come una meta “fiscalmente allettante”? Questo è stato, per molti anni il vero punto dolente, perché il Belpaese non godeva di buona nomea sotto il profilo impositivo e sotto quello della facilità di intraprendere attività imprenditoriali. Secondo le analisi, comparative annualmente pubblicate dalla Banca Mondiale, l’Italia era solita comparire tra le posizioni più basse della classifica (31), determinata alla luce di vari criteri, quali il numero di adempimenti necessari per avviare un business, la facilità nel mandarlo avanti, l’effettività della tutela giurisdizionale in caso di contenzioso con clienti e fornitori, nonché la pressione fiscale complessiva ed i correlati compliance costs da sostenere per risultare ligi ai numerosi obblighi formali e sostanziali previsti dall’ordinamento tributario. Se il quadro che veniva percepito dagli osservatori internazionali non era dei più invitanti, deve tuttavia prendersi atto che l’Italia negli ultimi anni ha adottato una serie di misure fiscali tese a permettere una maggiore facilità di fare business, migliorando complessivamente il sistema agli occhi degli investitori. Tra queste misure, si ricordano la nuova normativa sulle c.d. start-up
(30) Da ultimo, v. L. Salvini, Lo stato di attuazione del federalismo fiscale, in AA.VV., Il diritto del bilancio e il sindacato sugli atti di natura finanziaria, Milano, 2019, 311 ss. Per un inquadramento generale della potestà impositiva dei comuni nell’ambito del federalismo fiscale, v. G. Bizioli, L’autonomia finanziaria e tributaria regionale, Torino, 2012; Id., (voce) Federalismo fiscale, in Dig. Disc. Priv. – Sez. Comm., Agg. IV, Torino, 2012, 360 ss. Sull’analisi del fenomeno in chiave internazionale e comparata, v. poi C. Sacchetto-G. Bizioli (a cura di), Tax aspects of fiscal federalism. A comparative analysis, Amsterdam, 2011; P. Mastellone, Fiscal federalism: a response of contemporary European democratic nations to the global economic crisis, in European Taxation, 2012, 335 ss. (31) Nel 2015, per esempio, tra tutti gli Stati appartenenti all’Unione Europea e all’EFTA, l’Italia si collocava penultima (prima della Francia) con una pressione fiscale complessiva – tra profit taxes, labour taxes e other taxes – pari al 65,4% (così, World Bank Group-PWC, Paying taxes 2015, 144). La stessa analisi riferita al 2014 vedeva, invece, l’Italia ultima in classifica, con una pressione fiscale complessiva pari al 65,8% (così, World Bank Group-PWC, Paying taxes 2014, 157).
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“innovative” (32), la quale prevede agevolazioni per la stessa impresa, per i lavoratori e per gli investitori (33), le agevolazioni fiscali per l’ammortamento dei beni strumentali introdotte dal piano c.d. Industria 4.0 (34) e l’abbassamento dell’aliquota IRES dal 27,5% al 24% (35). Tutte queste iniziative hanno, insieme ad altri fattori macroeconomici e monetari, contribuito a far risalire l’Italia nel ranking mondiale, balzando al 51° posto (su 190 Stati) sotto il profilo generale “ease of doing business” (36). A questi tasselli, sebbene parzialmente ridimensionati dal primo governo Conte, si aggiungono i regimi fiscali attrattivi per stranieri e non residenti in grado di arricchire l’Italia sotto il punto di vista lavorativo, intellettuale ed economico: questi ultimi, non solo non sono stati toccati nell’ultima legislatura, ma sono stati valorizzati. 3. Le ragioni per trasferirsi in Italia e i percorsi alternativi contemplati dal diritto dell’immigrazione. – Nel momento in cui un soggetto intende trasferirsi in Italia, deve innanzitutto fare i conti con gli adempimenti previsti dal diritto dell’immigrazione, i quali devono sempre essere assolti a prescindere dall’eventuale regime impositivo opzionale che il neo-residente decide di sfruttare. I cittadini stranieri che si trasferiscono in Italia per motivi di turismo o di affari (i.e. diversi da motivi di “necessità” di giustizia penale, asilo politico o ragioni umanitarie), per un periodo non superiore a tre mesi, possono chiedere
(32) Per un approfondimento, v. P. Mastellone, Italy’s Start-up Law of 2012, in T. Kulnigg-J. Kisser (a cura di), Current trends in start-ups and crowdfundins, Paris, 2018, 70 ss. (33) D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito in Legge 17 dicembre 2012, n. 221. Secondo il Ministero dello Sviluppo Economico, a fine 2017, le c.d. start-up “innovative” erano 8.391, coinvolgevano più di 45.000 persone, e fatturavano circa € 760 milioni. Così, Ministero dello Sviluppo Economico-Unioncamere-Infocamere, Cruscotto di indicatori statistici – Dati nazionali. Report con dati strutturali. Startup innovative. 4° trimestre 2017, 2 gennaio 2018. La stessa analisi, basata su dati aggiornati al 1° luglio 2019, indica una netta crescita del settore, il quale adesso è composto da 10.426 c.d. start-up “innovative”. (34) V. art. 1, commi da 8 a 13, Legge 11 dicembre 2016, n. 232; Circolare 30 marzo 2017, n. 4/E. Dalla presentazione dei primi risultati di tale iniziativa, effettuata il 19 settembre 2017 a Montecitorio, è emerso un positivo riscontro dal mondo imprenditoriale, testimoniato dal fatto che gli ordinativi dei beni strumentali nei primi sei mesi del 2017 avevano registrato un incremento del 9%. (35) Art. 77 TUIR, così come modificato dall’art. 1, comma 61, Legge 28 dicembre 2015, n. 208 (Legge di Stabilità 2016). (36) World Bank Group, Doing Business 2019, Washington D.C., 2019, 5.
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di soggiornare per svolgere attività lavorativa (soggiorno per lavoro) oppure radicare la propria residenza elettiva (soggiorno per residenza elettiva). 3.1. Il soggiorno per lavoro. – Nel primo caso, lo straniero extracomunitario (i.e. non residente in altro Stato membro UE) può ottenere il permesso di soggiorno se dimostra di venire in Italia per svolgere un’attività di lavoro autonomo o dipendente (37), sebbene talvolta non sia realmente interessato a farla, con l’obiettivo di iscriversi nell’Anagrafe della popolazione residente, cosa che gli consente di richiedere la cittadinanza italiana dopo un periodo di dieci anni di residenza legale continuativa (38). Dal punto di vista impositivo, in questo caso lo straniero è tenuto a dichiarare in Italia non solo i redditi prodotti sul territorio nazionale, ma anche quelli di fonte estera. La prassi applicativa mostra chiaramente che nella maggioranza dei casi, gli stranieri interessati a trasferire la propria residenza in Italia, per scelta o per investimento, preferiscono mirare all’ottenimento di un permesso di soggiorno per lavoro piuttosto che per residenza elettiva (anche ricorrendo a contratti di lavoro simulati), al solo scopo di accumulare anni per poter richiedere la cittadinanza italiana. In queste ipotesi patologiche, i cittadini stranieri che chiedono la residenza per motivi di lavoro tendenzialmente non dichiarano neppure i redditi prodotti nel loro paese di origine, confidando sulle difficoltà
(37) Artt. 5, 5-bis, 21, 22 e 26, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (Testo Unico sull’Immigrazione, TUI). (38) L’art. 9, Legge 5 febbraio 1992, n. 91, prevede che la cittadinanza italiana può essere concessa: a) allo straniero del quale il padre o la madre o uno degli ascendenti in linea retta di secondo grado sono stati cittadini per nascita, o che è nato nel territorio della Repubblica e, in entrambi i casi, vi risiede legalmente da almeno tre anni; b) allo straniero maggiorenne adottato da cittadino italiano che risiede legalmente nel territorio della Repubblica da almeno cinque anni successivamente alla adozione; c) allo straniero che ha prestato servizio, anche all’estero, per almeno cinque anni alle dipendenze dello Stato; d) al cittadino di uno Stato membro UE se risiede legalmente da almeno quattro anni nel territorio della Repubblica; e) all’apolide che risiede legalmente da almeno cinque anni nel territorio della Repubblica; f) allo straniero (i.e. extracomunitario) che risiede legalmente da almeno dieci anni nel territorio della Repubblica. Tuttavia, se una (o più) di queste ipotesi sono integrate, la cittadinanza non è automaticamente conferita dal Ministero dell’Interno, il quale dispone di una insindacabile discrezionalità nel valutare se il richiedente meriti di essere accolto nella comunità italiana, come sottolineato in più occasioni dalla giurisprudenza amministrativa: v. ex pluribus Cons. Stato, sez. I, 4 maggio 1966, n. 914; Cons. Stato, sez. VI, 9 giugno 2006, n. 3456; Cons. Stato, sez. VI, 3 ottobre 2007, n. 5103; Cons. Stato, sez. VI, 20 maggio 2011, n. 3006; Cons. Stato, sez. III, 11 marzo 2016, n. 1874; Cons. Stato, sez. III, 25 agosto 2016, n. 3696; Cons. Stato, sez. III, 6 settembre 2016, n. 3819; Cons. Stato, sez. III, 26 ottobre 2016, n. 4498; Cons. Stato, sez. III, 5 maggio 2017, n. 2082, tutte in www.giustizia-amministrativa.it.
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o non immediatezza di un eventuale accertamento fiscale (indipendentemente dai vari strumenti di cooperazione fiscale attivabili con lo Stato di origine). 3.1.1. La c.d. procedura “accelerata” per i visti investitori introdotta dalla Legge di Bilancio 2017. – Poiché l’immigrazione in Italia per la maggior parte dei cittadini di Stati non membri dell’Unione Europea è limitata da rigorose quote quantitative stabilite annualmente attraverso i “Decreti flussi” (39), la Legge 11 dicembre 2016, n. 232 (Legge di Bilancio 2017) ha disposto una deroga per determinati investitori stranieri che dispongono di risorse finanziarie significative idonee a risiedere in Italia per più di tre mesi. Il nuovo art. 26-bis, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (Testo Unico sull’Immigrazione, TUI) – così come inserito dall’art. 1, comma 148, Legge di Bilancio 2017, e parzialmente modificato dall’art. 8, comma 14, D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 90 – disciplina la c.d. procedura “accelerata” per il rilascio dei visti: i visti speciali di ingresso (i.e. i visti investitori) e i permessi di soggiorno potranno essere rilasciati per periodi di due anni rinnovabili e, in determinate circostanze, per ulteriori periodi di tre anni, ai cittadini di Paesi terzi – indipendentemente dalle quote quantitative annuali previste dai “Decreti flussi” – che intendono effettuare importanti investimenti significativi in Italia (40).
(39) Da ultimo, con il Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 12 marzo 2019 (Programmazione transitoria dei flussi d’ingresso dei lavoratori non comunitari nel territorio dello Stato per l’anno 2019), è stata fissata a 30.850 unità la quota di ingresso dei lavoratori extra-UE ammessi a trasferirsi in Italia, di cui: a) 12.850 per lavoro subordinato non stagionale, autonomo e conversioni (i.e. in favore di stranieri che abbiano completato programmi di formazione e istruzione nei Paesi di origine, di lavoratori di origine italiana residenti in Argentina, Uruguay, Venezuela e Brasile, e di stranieri per lavoro autonomo; conversioni dei permessi di soggiorno già detenuti ad altro titolo in permessi di soggiorno per lavoro subordinato e per lavoro autonomo); b) 18.000 per lavoro subordinato stagionale nei settori agricolo e turistico-alberghiero (i.e. in favore di stranieri per lavoro subordinato stagionale di Albania, Algeria, Bosnia-Herzegovina, Repubblica di Corea, Costa d’Avorio, Egitto, El Salvador, Etiopia, Ex Repubblica Jugoslava di Macedonia, Filippine, Gambia, Ghana, Giappone, India, Kosovo, Mali, Marocco, Mauritius, Moldova, Montenegro, Niger, Nigeria, Senegal, Serbia, Sri Lanka, Sudan, Tunisia, Ucraina). (40) Più precisamente: a) investimento di almeno € 2.000.000 in titoli di Stato, che venga mantenuto per almeno due anni; b) investimento di almeno € 1.000.000 nel capitale di una società costituita e operante in Italia, che venga mantenuto per almeno due anni; c) investimento di almeno € 500.000 nel capitale di una società italiana qualificabile come c.d. start-up “innovativa”; d) donazione a carattere filantropico di almeno € 1.000.000 a sostegno di un progetto di pubblico interesse nei settori della cultura, istruzione, gestione dell’immigrazione, ricerca scientifica, recupero di beni culturali e paesaggistici.
Dottrina
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Questa facilitazione offre, insomma, la possibilità ai cittadini di Paesi terzi di risiedere in Italia, con la possibilità di maturare gli anni idonei per poi presentare domanda per la cittadinanza italiana, senza essere tenuti a svolgere un’attività lavorativa. Dal punto di vista fiscale, questo tipo di immigrati “eccellenti” ben potrebbe optare per il regime opzionale di cui all’art. 24-bis TUIR per i neo-residenti, di cui infra § 4.4. 3.2. Il soggiorno per residenza elettiva. – Nel caso della residenza elettiva, al contrario, il richiedente sceglie l’Italia come luogo di svago e si impegna a non lavorarvi, dimostrando di poter fare affidamento su risorse finanziarie sufficienti derivanti da attività o beni nel paese di origine (la cui prova deve essere fornita agli uffici di polizia). In particolare, sono quattro le ipotesi in cui può essere richiesto il permesso di soggiorno per residenza elettiva. Il caso del cittadino straniero extracomunitario che, dimostrando il possesso di redditi elevati e sufficienti a permettere il proprio mantenimento (ed, eventualmente, anche quello dei familiari che si trasferiscono) per oltre un anno, nonché la disponibilità di un alloggio adeguato, disponibilità finanziarie e la copertura di un’assicurazione sanitaria in grado di far fronte ad eventuali spese mediche (41).
(41) Come chiarito dal Decreto Interministeriale 11 maggio 2011, n. 850, § 13, «il visto per residenza elettiva consente l’ingresso in Italia, ai fini del soggiorno, allo straniero che intenda stabilirsi nel nostro Paese e sia in grado di mantenersi autonomamente, senza esercitare alcuna attività lavorativa. A tal fine, lo straniero dovrà fornire adeguate e documentate garanzie circa la disponibilità di un’abitazione da eleggere a residenza, e di ampie risorse economiche autonome, stabili e regolari, di cui si possa ragionevolmente supporre la continuità nel futuro. Tali risorse, comunque non inferiori al triplo dell’importo annuo previsto dalla tabella A allegata alla direttiva del Ministro dell’Interno del 1° marzo 2000, recante definizione dei mezzi di sussistenza per l’ingresso ed il soggiorno degli stranieri nel territorio dello Stato, dovranno provenire dalla titolarità di cospicue rendite (pensioni, vitalizi), dal possesso di proprietà immobiliari, dalla titolarità di stabili attività economico-commerciali o da altre fonti diverse dal lavoro subordinato. Anche al coniuge convivente, ai figli minori ed ai figli maggiorenni conviventi ed a carico, potrà essere rilasciato analogo visto, a condizione che le suddette capacità finanziarie siano giudicate adeguate anche per quest’ultimi». Quindi, stante il richiamo agli importi della Direttiva del Ministro dell’Interno 1° marzo 2000, Tabella A allegata (Tabella per la determinazione dei mezzi di sussistenza richiesti per l’ingresso nel territorio nazionale per turismo) almeno triplicati, il richiedente deve dimostrare che le proprie risorse finanziarie non risultano inferiori a: a) € 808,80 (quota fissa complessiva) per viaggio in Italia da 1 a 5 giorni; b) € 134,79 (quota a persona giornaliera) per viaggio in Italia da 6 a 10 giorni; c) € 154,92 (quota fissa complessiva) e € 110,01 (quota giornaliera a persona) per viaggio in Italia da 11 a 20 giorni; d) € 619,74 (quota fissa complessiva) e € 83,67 (quota giornaliera a persona) per viaggio in Italia superiore a 20 giorni. Per la disciplina europea sui visti, v. Regolamento
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Parte prima
Quello del cittadino straniero extracomunitario in possesso di un permesso di soggiorno per lavoro (autonomo o subordinato), il quale, dimostrando la percezione di un trattamento pensionistico in Italia e la contestuale cessazione di detta attività lavorativa, ne chieda la conversione in un permesso di soggiorno per residenza elettiva (42). L’ipotesi del cittadino straniero extracomunitario qualificato come “altro familiare” di un cittadino di altro Stato membro UE già trasferitosi in Italia con permesso di soggiorno per residenza elettiva (43). Infine, i casi concernenti cittadini dello Stato della Città del Vaticano che percepiscono redditi di fonte vaticana (44).
(UE) n. 977/2011 della Commissione del 3 ottobre 2011 che modifica il Regolamento (CE) n. 810/2009 del Parlamento europeo e del Consiglio che istituisce un codice comunitario dei visti (codice dei visti). (42) L’art. 14, comma 1, lett. d), D.P.R. 31 agosto 1999, n. 394, stabilisce che «il permesso di soggiorno rilasciato per lavoro subordinato, autonomo e per motivi di famiglia può essere convertito in permesso di soggiorno per residenza elettiva di cui all’articolo 11, comma 1, lettera c-quater)». (43) Ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. b), D.Lgs. 6 febbraio 2007, n. 30, che dà attuazione alla Direttiva n. 2004/38/CE, per “familiare” si intende «1) il coniuge; 2) il partner che abbia contratto con il cittadino dell’Unione un’unione registrata sulla base della legislazione di uno Stato membro, qualora la legislazione dello Stato membro ospitante equipari l’unione registrata al matrimonio e nel rispetto delle condizioni previste dalla pertinente legislazione dello Stato membro ospitante; 3) i discendenti diretti di età inferiore a 21 anni o a carico e quelli del coniuge o partner di cui alla lettera b); 4) gli ascendenti diretti a carico e quelli del coniuge o partner di cui alla lettera b)». Sul punto, v. anche la Circolare del Ministro dell’Interno 18 luglio 2007, prot. n. 200704165/15100/14865. (44) La Circolare del Ministro dell’Interno 24 maggio 2005, prot. n. 400/C/2005/ IV/607/P/5.2 ha, infatti, ritenuto «possibile il rilascio della carta di soggiorno in favore dello straniero titolare di un permesso di soggiorno per motivi religiosi, purché il richiedente sia in possesso dei requisiti previsti dall’articolo 9 del D.Lvo. 286/98, modificato dalla L. 189/2002, in materia di reddito, alloggio, assenza di precedenti di polizia e della regolare presenza in Italia. Tra coloro che possono fruire di tale beneficio sono da ricomprendere anche i sacerdoti della chiesa cattolica, le cui remunerazioni sono considerate “redditi assimilati a quelli da lavoro dipendente” (testo unico imposte reddito D.P.R. 917/86). Di contro, poiché il reddito richiesto per il rilascio della carta di soggiorno deve essere un reddito percepito o dichiarato in Italia, si fa presente che non potrà essere rilasciato tale titolo agli stranieri, religiosi o laici, che svolgono la propria attività lavorativa alle dipendenze di enti e organizzazioni del Vaticano. A costoro, conformemente a quanto stabilito dalla Circolare n. 14 del Ministero Affari Esteri in materia di visti, potrà comunque essere concesso un permesso di soggiorno per residenza elettiva».
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Siffatta modalità di soggiorno legale nel nostro paese non permette, tuttavia, di calcolare il periodo trascorso in Italia utile ai fini della maturazione della residenza di lunga data per poi chiedere la cittadinanza (45). 3.2.1. In particolare. Le conseguenze tributarie della residenza elettiva. – La residenza elettiva ottenuta dallo straniero immigrato non implica una residenza fiscalmente rilevante così come formulata ex art. 2 TUIR, proprio perché l’impegno a non svolgere alcuna attività lavorativa fa sì che non sia generata capacità contributiva in Italia. L’ordinamento italiano è, come noto, imperniato sull’obbligo di concorso alle spese pubbliche di cui all’art. 53 Cost., il quale – con particolare riguardo ai criteri di collegamento – può essere ragionevolmente letto come norma che si rivolge a “tutti i soggetti che hanno con la Repubblica Italiana un rapporto personale” (derivante dalla residenza fiscale, appunto) “o reale” (derivante dalla fonte produttiva del proprio reddito) (46). La residenza costituisce, dunque, il criterio di collegamento soggettivo prescelto per la determinazione della responsabilità tributaria globale e l’art. 2 TUIR prevede che una persona fisica risulti residente ai fini delle imposte sul reddito se, per la maggior parte del periodo di imposta, ha alternativamente (47) i. il proprio nominativo iscritto nell’anagrafe della popolazione
(45) Art. 11, comma 1, lett. c-quater), D.P.R. 31 agosto 1999, n. 394. (46) A tale riguardo, è bene ricordare che autorevole dottrina ritiene che i destinatari del precetto di cui all’art. 53 Cost. sarebbero «coloro, sia cittadini che stranieri o apolidi, i quali, per il fatto di essere domiciliati in Italia o di essere titolari di attività o di beni esistenti nel territorio nazionale, sono tenuti in generale all’osservanza dei doveri di solidarietà economica». Così, G.C. Croxatto, La imposizione delle imprese con attività internazionale, Padova, 1965, 33. A tale ricostruzione si contrappone quella di G. Fransoni, La territorialità nel diritto tributario, ed. provv., Roma, 2003, 223, il quale – prendendo le mosse dalla collocazione dello stesso art. 53 nel Titolo IV della Carta fondamentale dedicata ai “Rapporti politici” – inquadra l’obbligo contributivo nell’alveo dei doveri inderogabili di solidarietà politica poiché «se […] il criterio distintivo fra i diversi tipi di solidarietà è costituito dall’interesse – o, come anche si è detto, dal “bene” – alla cui realizzazione è diretta l’azione comune, allora non vi è motivo per ritenere che tale fine vada individuato nel benessere e nel progresso economico della collettività e, quindi, inquadrare il dovere tributario fra le espressioni di solidarietà economica». (47) Dal tenore letterale della norma si desume chiaramente che il criterio di collegamento temporale debba coesistere con almeno uno dei tre criteri di collegamento soggettivi. In questo senso, v. Comando Generale della Guardia di Finanza, Manuale operativo in materia di contrasto all’evasione e alle frodi fiscali, vol. III, parte V, Principali metodologie di controllo, Circolare n. 1/2018, 346, secondo cui «lo status di residente ai fini delle imposte sui redditi è, dunque, collegato alla contestuale esistenza di due elementi: – il primo, di natura
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residente, ii. la sede principale dei propri affari ed interessi, cioè il domicilio civilistico (art. 43, comma 1, c.c.), oppure iii. la propria dimora abituale, cioè la residenza civilistica (art. 43, comma 2, c.c.) (48). Tralasciando, ai fini della nostra analisi, il requisito formale dell’iscrizione anagrafica (49), i due criteri sostanziali del domicilio e della residenza sono oggetto di un c.d. rinvio intraistituzionale (50) al settore del diritto civile (51).
sostanziale/formale, alternativamente costituito dall’iscrizione all’anagrafe della popolazione residente, ovvero dal domicilio o dalla residenza; – l’altro, di natura temporale, individuato nella sussistenza del presupposto su indicato per la “maggior parte del periodo d’imposta” e, cioè, per almeno 183 giorni nell’anno solare». Contra Cass. civ., sez. trib., 19 maggio 2010, n. 12259, in Fisconline, ove si afferma che «l’art. 2, comma 2, cit. T.U.I.R., utilizza il criterio della prevalenza dei giorni di presenza sul territorio italiano come criterio alternativo al domicilio e alla residenza e correttamente la CTR ha utilizzato solo il criterio del domicilio. […]». (48) In dottrina si rinvia, senza pretesa di esaustività, a G. Marino, La residenza nel diritto tributario, Padova, 1999; G. Melis, Trasferimento della residenza fiscale e imposizione sui redditi, Milano, 2009; P. Mastellone, La residenza, in C. Sacchetto (a cura di), Princìpi di diritto tributario europeo e internazionale, Torino, 2011, 105 ss.; R. Cordeiro Guerra, Le fattispecie con elementi di estraneità, in Id. (a cura di), Diritto tributario internazionale. Istituzioni, 2a ed., Padova, 2016, 44 ss. (49) Requisito che la giurisprudenza è tradizionalmente propensa a considerare alla stregua di una presunzione assoluta di residenza fiscale in Italia. Così, ex pluribus, v. Cass. civ., sez. I, 6 febbraio 1998, n. 1215, in GT - Riv. giur. trib., 1998, 626 ss., con nota di M. Calcagno, Il requisito formale dell’iscrizione anagrafica consente di configurare la residenza in Italia, ivi, 628 ss.; Cass. civ., sez. trib., 20 aprile 2006, n. 9319, in Fisconline; Cass. civ., sez. trib., 15 giugno 2010, n. 14434, in Fisconline; Cass. civ., sez. trib., 16 gennaio 2015, n. 677, in Fisconline; Cass. civ., sez. trib., 28 ottobre 2015, n. 21970, in De Jure. Da ultimo, v. Cass. civ., sez. VI-T, (ord.) 25 giugno 2018, n. 16634, in De Jure, ove la Suprema Corte ha ribadito che «le persone iscritte nelle anagrafi della popolazione residente si considerano, in applicazione del criterio formale dettato dall’art. 2, D.P.R. 917/1986, in ogni caso residenti, e pertanto soggetti passivi d’imposta, in Italia; con la conseguenza che, ai fini predetti, essendo l’iscrizione indicata preclusiva di ogni ulteriore accertamento, il trasferimento della residenza all’estero non rileva fino a quando non risulti la cancellazione dall’anagrafe di un Comune italiano». Questo è, a nostro avviso, un orientamento criticabile non solo perché subordina alla sussistenza di un requisito meramente formale (e, magari, frutto di una dimenticanza dell’ex residente che si è trasferito all’estero) la tassazione sull’utile mondiale, ma altresì perché non tiene conto delle convenzioni bilaterali vigenti, che, in caso di doppia residenza, privilegiano lo Stato con cui il contribuente ha legami più solidi (e, quindi, sostanziali). In senso analogo, v. anche P. Arginelli - G. Cuzzolaro, “Vecchie ruggini” e mancate occasioni nell’ordinanza della Cassazione n. 16634/2018 sulla presunzione di residenza fiscale degli iscritti nelle Anagrafi della popolazione residente, in Riv. dir. trib. – Suppl. online, 9 agosto 2018. (50) In questi chiari termini, v. G. Melis, Trasferimento della residenza fiscale e imposizione sui redditi, Milano, 2009, 125. (51) Evidenzia M.C. Fregni, Obbligazione tributaria e codice civile, Torino, 1998, 7 ss. che le ipotesi in cui le norme tributarie rinviano al codice civile sarebbero tutte riconducibili
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A nostro avviso, è una scelta che ha creato (e continua a creare) non pochi problemi interpretativi, «sia perché le nozioni civilistiche richiamate danno vita a molte incertezze pratiche, sia perché esse rispondono a rationes diverse da quelle che stanno alla base della norma fiscale» (52). Circa il domicilio – definito all’art. 43, comma 1, c.c., come «luogo in cui essa ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi» – da tempo la giurisprudenza ritiene che si tratti di un concetto che «prescinde dal fatto della dimora o della presenza della persona in un dato luogo, in quanto esso, pur riposando su un elemento di fatto, costituito dall’avere la persona stabilito in un luogo la sede principale dei suoi affari ed interessi, consiste in una relazione tra la persona e detto luogo, essenzialmente ed anche soltanto giuridica, caratterizzata dalla volontà della persona di stabilire in quel luogo la sede generale delle sue relazioni e dei suoi interessi» (53). Il domicilio veniva solitamente considerato una res juris, perché si configura con l’intenzione di costituire e mantenere in un determinato luogo il centro principale delle proprie relazioni familiari, sociali ed economiche (c.d. elemento soggettivo), rimanendo irrilevante la presenza fisica (c.d. elemento oggettivo). L’art. 43, comma 2, c.c., individuando, invece, la residenza nel «luogo in cui la persona ha la dimora abituale», si riteneva implicasse la dimostrazione della simultanea sussistenza del luogo di stabile presenza fisica e dell’intenzione di risiedere in tale luogo (54). Questo induceva giurisprudenza e dot-
ad una delle seguenti categorie: a) rinvio espresso per mezzo del quale la disciplina civilistica è utilizzata per “disegnare” la disciplina di una fattispecie tributaria; b) rinvio finalizzato all’ampliamento dell’ambito applicativo della norma tributaria; c) rinvio per quanto riguarda la disciplina generale, rimanendo la disciplina speciale regolata da norme tributarie; d) applicazione omnicomprensiva delle norme civilistiche oggetto di rinvio; e) rinvio a termini e istituti civilistici, ai quali però è attribuita una particolare “colorazione” in ambito tributario. (52) In questi termini, M.C. Fregni, La residenza fiscale delle persone fisiche, in Giur. it., 2009, 2567, nota 32. (53) Così, Cass. civ., sez. I, 29 dicembre 1960, n. 3322, in Giust. civ., 1961, I, 212 ss. Nello stesso senso, Cass. civ., sez. I, 21 marzo 1968, n. 884, in Giust. civ., 1968, I, 553 ss. La dottrina risalente definiva il domicilio «un’astrazione intellettuale creata dalla legge, una finzione di diritto, basata però sulla tendenza naturale dell’uomo di stabilirsi in modo permanente e durevole in quel luogo dove gli affetti di famiglia ed i suoi interessi lo tengono avvinto, e dal quale non suole allontanarsi se non vi sia spinto da gravi ed impellenti ragioni e con l’animo di farvi ritorno». Così, G. Orlandi, (voce) Domicilio, residenza e dimora, in Dig. It., vol. IX, parte III, Torino, 1927, 660-661. (54) La Suprema Corte ha chiarito che «la residenza di una persona è determinata dalla sua abituale e volontaria dimora in un determinato luogo, cioè dall’elemento obiettivo della
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trina a concludere che la residenza civilistica fosse una res facti, perché non può prescindere dall’elemento oggettivo dato dall’insistere su un determinato luogo, rendendo l’elemento soggettivo dell’intenzionalità implicitamente dimostrato (55). Questo approccio oggi è ormai considerato anacronistico perché «la concezione moderna di domicilio e residenza ha portato al superamento della distinzione tra fenomeno giuridico e situazione di fatto, data la compresenza in entrambi gli istituti di elementi soggettivi e oggettivi. Oltre alla dichiarazione di voler costituire il domicilio e di fissare la residenza, occorre la realizzazione obiettiva degli elementi di fatto, rappresentati dalla esistenza di un centro di affari e interessi e dalla stabilità della dimora» (56). Ora, tornando alla residenza elettiva, alla domanda se questa sia in grado di integrare la residenza fiscale ex art. 2 TUIR, la risposta è senz’altro di segno negativo. Il presupposto fattuale che spinge uno straniero a richiedere il permesso di soggiorno per residenza elettiva è, infatti, quello di radicare in Italia una dimora c.d. semplice, da distinguersi da quella c.d. abituale, che integra la residenza civilistica (e, di riflesso, anche quella fiscale). È di tutta evidenza che tale tipo di permesso di soggiorno risulti subordinato alla dimostrazione, da parte dell’istante, di avere una capacità patrimoniale tale da poter vivere in modo autonomo e non gravare sullo Stato italiano né sul suo sistema sanitario: quindi, non implica la volontà di fissare il proprio “centro di affari ed interessi”.
permanenza in tale luogo e dall’elemento soggettivo dell’intenzione di abitarvi stabilmente, rivelata dalle consuetudini di vita e dallo svolgimento delle normali relazioni sociali […], mentre il domicilio individua il luogo in cui la persona ha stabilito il centro principale dei propri affari e interessi, sicché riguarda la generalità dei rapporti del soggetto – non solo economici, ma anche morali, sociali e familiari – e va desunto alla stregua di tutti quegli elementi di fatto che, direttamente o indirettamente, denuncino la presenza in un certo luogo di tale complesso di rapporti ed il carattere principale che esso ha nella vita delle persone […]». Così, Cass. civ., sez. un., 18 agosto 1990, n. 8427, in Riv. dir. int. priv. proc., 1991, 782 ss. In questo senso, v. anche Circolare 2 dicembre 1997, n. 304/E-I-2-705. (55) Dal punto di vista probatorio, la giurisprudenza considera che l’elemento soggettivo emerga dalle consuetudini di vita e dallo svolgimento delle normali relazioni sociali del soggetto: quindi, nella pratica, la dimostrazione dell’elemento soggettivo è compenetrata nella dimostrazione dell’elemento oggettivo. In questo senso, Cass. civ., sez. I, 5 febbraio 1985, n. 791, in Rep. Foro it., 1985, (voce) Competenza civile, 1420, n. 1); Cass. civ., sez. I, 14 marzo 1986, n. 1738, in Rep. Foro it., 1986, (voce) Domicilio, 2460, n. 1). (56) Così, V. Corriero, Art. 43 c.c., in G. Perlingieri (a cura di), Codice civile annotato con la dottrina e la giurisprudenza, vol. I, 3a ed., Napoli, 2010, 433.
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Lo straniero che ottiene lo status di residente elettivo non dovrà, pertanto, pagare le imposte sui redditi ovunque prodotti né adempiere agli obblighi previsti in materia di monitoraggio fiscale, dovendosi limitare a dichiarare gli eventuali redditi prodotti sul territorio nazionale. La riconferma di questa conclusione, nella remota ipotesi in cui un Ufficio delle Entrate decidesse di considerare fiscalmente residente in Italia il residente elettivo, la troviamo nelle c.d. tie-breaker rules previste dalle numerose convenzioni bilaterali in vigore, le quali – come già accennato prima – mirano a identificare la residenza rilevante ai fini convenzionali nello Stato contraente ove il soggetto ha un legame sostanziale ed effettivo: in tale evenienza, è chiaro che prevarrebbe la residenza straniera rispetto a quella elettiva italiana. 4. Le misure fiscali per attrarre dall’estero il “capitale umano”. – Le patologie che il legislatore sta cercando di arginare sono, appunto, quelle della fuga dei cervelli (italiani) e della scarsa immigrazione di talenti (stranieri o italiani emigrati); entrambe facce della stessa medaglia, sebbene la prima sia più penalizzante per l’Italia, la quale vede i frutti degli investimenti fatti nel proprio sistema di istruzione “regalati” ad altri paesi. I dati relativi al brain drain sono, infatti, alquanto allarmanti: solo nel corso del 2017 hanno abbandonato l’Italia circa 117.000 persone (solo in parte compensate da 40.000 che sono poi tornate) e, mentre nel 2004 i laureati emigrati erano il 10%, il dato nel 2017 è triplicato (57). Addirittura, nel 2018 il fenomeno ha coinvolto circa 120.000 persone e, «considerando anche coloro che sono rientrati dall’estero, il saldo migratorio netto di cittadini italiani cumulato negli ultimi dieci anni è stato negativo per circa 492.000 unità. Le uscite hanno coinvolto i giovani e i laureati in modo ancora più significativo rispetto agli anni precedenti la Grande Recessione: tra i primi la percentuale è passata dallo 0,1 nel 2007 a circa lo 0,5 nel 2017 […], tra i secondi dallo 0,2 allo 0,4» (58). Naturalmente, la causa dell’emigrazione di laureati non può attribuirsi unicamente al carico impositivo su impresa e lavoro, ma, più in generale, alle maggiori occasioni lavorative (e stipendiali) che vi sono all’estero. Per cercare di intervenire in modo concreto, negli ultimi anni l’Italia ha così approvato
(57) Così, Tortuga, Italia che resti, Italia che vai. E non torni, in Lavoce.info, 31 maggio 2019. (58) Così, Banca d’Italia, Relazione annuale. Anno 2018, Roma, 31 maggio 2019, 110.
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dei regimi fiscali “di nicchia” per attrarre nel proprio territorio persone fisiche – italiani emigrati o stranieri che possono valorizzare la comunità – con caratteristiche in grado di arricchire il Paese sotto vari profili. 4.1. Gli incentivi fiscali per favorire il rientro in Italia di docenti e ricercatori residenti all’estero. – Il primo significativo intervento derogatorio al regime impositivo ordinario per favorire il rientro di determinati contribuenti è, senz’altro, quello riservato a docenti e ricercatori residenti all’estero, attuato dall’art. 44, D.L. 31 maggio 2010, n. 78. La disciplina, operativa a partire dal periodo d’imposta 2011, prevedeva, infatti, l’esclusione dalla base imponibile IRPEF del 90% degli emolumenti percepiti da docenti e ricercatori a titolo di lavoro dipendente o autonomo e la contestuale non concorrenza alla formazione del valore della produzione netta ai fini IRAP, nell’anno di trasferimento in Italia e nei due successivi. Le condizioni essenziali per potere beneficiare di tale regime erano il «possesso di titolo di studio universitario o equiparato», la “non occasionale” residenza estera, l’aver svolto «documentata attività di ricerca o docenza all’estero presso centri di ricerca pubblici o privati o università per almeno due anni continuativi» e, infine, l’inizio dell’attività di ricerca o docenza in Italia entro i cinque successivi anni dall’entrata in vigore. L’art. 1, comma 14, Legge 23 dicembre 2014, n. 190 (Legge di stabilità 2015) ha prolungato l’operatività del regime fino al terzo anno successivo al trasferimento di residenza ed ha esteso la possibilità di esercitare l’opzione fino a tutto il 2017, ma quest’ultima limitazione veniva eliminata dalla Legge di bilancio 2017 (59), rendendo la disciplina, di fatto, permanente. Da ultimo, il D.L. 30 aprile 2019, n. 34 (Decreto crescita), così come modificato dalla Legge 28 giugno 2019, n. 58, ha esteso l’operatività dell’opzione, a partire dal 2020, da tre a cinque anni successivi a quello del trasferimento di residenza, a patto che la residenza italiana permanga. Tale periodo diventa, tuttavia, di: i. sette anni, in presenza di un figlio minorenne a carico, anche in affido preadottivo, oppure nel caso in cui venga acquistato un immobile residenziale in Italia; ii. dieci anni, qualora i figli minorenni siano almeno due; iii. dodici anni, qualora i figli minorenni siano almeno tre.
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Art. 1, comma 149, Legge 11 dicembre 2016, n. 232.
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La durata del beneficio, a seconda della situazione soggettiva del contribuente, varia quindi da sei a tredici anni complessivi (i.e. compreso quello in cui avviene il trasferimento). Con il più recente intervento, il legislatore risolve il paradossale scenario che si era venuto a creare a partire dall’entrata in vigore della normativa, consistente nel fatto che l’Amministrazione finanziaria aveva emesso centinaia di avvisi di accertamento nei confronti di docenti e ricercatori che, precedentemente al trasferimento di residenza, non avevano provveduto ad iscriversi all’AIRE (60). È stato, infatti, chiarito dall’art. 44, comma 3-quater, del citato Decreto, che tali contribuenti “smemorati” che si trasferiscono in Italia dal 2020 sono comunque ammessi a beneficiare del regime, purché la precedente residenza estera fosse determinabile ai sensi di una vigente convenzione contro le doppie imposizioni (i.e. residenza rilevante ai fini convenzionali). Nell’ipotesi, poi, di atti impositivi, eventualmente oggetto di contenzioso tributario, emessi nei confronti di ricercatori non iscritti all’AIRE rientrati entro il 31 dicembre 2019, vengono garantiti i benefici del regime nella versione vigente ratione temporis, restando tuttavia preclusa l’istanza di rimborso per le imposte eventualmente versate in modo spontaneo. 4.2. Il (vecchio) regime fiscale dei c.d. lavoratori contro-esodati e per favorire il c.d. rientro dei cervelli. – Un’altra importante iniziativa in tal senso è senz’altro contenuta nella Legge 30 dicembre 2010, n. 238, con la quale il legislatore ha voluto incentivare il rientro in Italia di laureati, cittadini UE, che hanno svolto all’estero attività di lavoro dipendente, autonomo o d’impresa
(60) L’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero (AIRE) è stata istituita con Legge 27 ottobre 1988, n. 470, e contiene i dati dei cittadini italiani che hanno comunicato di risiedere all’estero per un periodo superiore a 12 mesi. L’iscrizione a tale registro è gratuita ed è effettuata a seguito di dichiarazione resa dall’interessato all’Ufficio consolare competente per territorio entro 90 giorni dal trasferimento della residenza e comporta la contestuale cancellazione dall’Anagrafe della Popolazione Residente (APR) del Comune di provenienza. La richiesta di inserimento del proprio nominativo nell’AIRE è un diritto-dovere del cittadino e costituisce il presupposto per usufruire di una serie di servizi forniti dalle Rappresentanze consolari all’estero, nonché per l’esercizio di importanti diritti, quali: i. la possibilità di votare per elezioni politiche e referendum per corrispondenza nel Paese di residenza, e per l’elezione dei rappresentanti italiani al Parlamento Europeo nei seggi istituiti dalla rete diplomatico-consolare negli Stati membri UE; ii. la possibilità di ottenere il rilascio o rinnovo di documenti di identità e di viaggio, nonché certificazioni; iii. la possibilità di rinnovare la patente di guida (solo in Paesi extra-UE).
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(c.d. lavoratori contro-esodati) o di studenti che hanno conseguito all’estero un titolo accademico o di specializzazione post-lauream (c.d. cervelli). La disciplina era applicabile al ricorrere dei seguenti presupposti: i. aver risieduto per almeno ventiquattro mesi in Italia prima dell’espatrio; ii. essere laureati e aver svolto attività di lavoro dipendente, autonomo o di impresa all’estero per almeno ventiquattro mesi (oppure aver studiato all’estero per lo stesso periodo e aver conseguito un titolo accademico); iii. trasferire la residenza anagrafica in Italia entro 3 mesi dall’assunzione o dall’avvio dell’attività; iv. svolgere in Italia attività di lavoro dipendente, autonomo o d’impresa. Coloro che integravano tali requisiti beneficiavano della riduzione al 20% (per le donne) o al 30% (per gli uomini) del reddito imponibile realizzato in Italia a titolo di lavoro dipendente, autonomo o di impresa. Per poter accedere a detto regime, il richiedente era tenuto a «produrre apposita richiesta scritta al datore di lavoro entro tre mesi dalla data di assunzione», la quale doveva essere debitamente sottoscritta dal lavoratore ex D.P.R. del 28 dicembre 2000, n. 445, e contenere una serie ben precisa di informazioni (61). Questa disciplina, che permetteva un significativo abbattimento della base imponibile, ha avuto un discreto successo ed i relativi benefici, originariamente riconosciuti come spettanti fino al 31 dicembre 2015, sono stati prorogati fino al 31 dicembre 2017 e non più rinnovati, perché nel frattempo erano stati introdotti ulteriori regimi fiscali opzionali con analoghe finalità e, in parte, so-
(61) Il Provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate 29 luglio 2011, prot. n. 97156, specificava che in detta dichiarazione il lavoratore doveva indicare: i. le proprie generalità (nome, cognome e data di nascita); ii. lo Stato membro UE di cittadinanza; iii. il codice fiscale; iv. l’attuale residenza in Italia risultante dal certificato di residenza ovvero dalla domanda di iscrizione nell’Anagrafe della popolazione residente in Italia, nonché il domicilio, se diverso dalla residenza; v. la data di prima assunzione in Italia, ovvero quella di avvio dell’attività di impresa o di lavoro autonomo in Italia, del rientro, nonché la dichiarazione di aver trasferito in Italia la residenza e il domicilio entro tre mesi dalla prima assunzione ovvero dall’avvio dell’attività; vi. la dichiarazione di possedere, alla data del 20 gennaio 2009, i requisiti previsti dal comma 1 dell’art. 1 del D.M. 3 giugno 2011 e di non rientrare nei casi di esclusione di cui al successivo comma 3, ovvero i requisiti previsti dal comma 2 del medesimo art. 1; vii. la dichiarazione di non beneficiare contemporaneamente degli incentivi previsti dall’art. 17, D.L. 29 novembre 2008, n. 185, convertito, con modificazioni, dalla Legge 28 gennaio 2009, n. 2, e successive modificazioni e integrazioni; viii. la dichiarazione di non beneficiare del credito d’imposta previsto dall’art. 1, commi da 271 a 279, Legge 27 dicembre 2006, n. 296, e successive modificazioni e integrazioni; ix. l’impegno a comunicare tempestivamente l’avvenuta iscrizione nell’Anagrafe della popolazione residente, nonché ogni variazione della residenza o del domicilio rilevante per l’applicazione del beneficio da parte del datore di lavoro.
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vrapponibili. Degno di nota è, infine, il recente orientamento della giurisprudenza di merito che – cogliendo la voluntas legis di favorire il successo delle varie discipline di attrazione del “capitale umano” e, al contempo, scongiurare interpretazioni eccessivamente restrittive da parte del fisco – ha confermato che l’agevolazione è applicabile anche al contribuente che, prima del trasferimento in Italia, avesse un contratto di lavoro dipendente con una società afferente al medesimo gruppo del nuovo datore (62). 4.3. Il regime fiscale dei c.d. lavoratori impatriati. – L’art. 16, D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 147 (63), ha introdotto un nuovo regime fiscale attrattivo per lavoratori residenti all’estero, non necessariamente volto a favorire il rientro dei “cervelli” italiani fuggiti in altri Paesi, ma, più in generale, ad attrarre i lavoratori stranieri a prescindere dalla loro cittadinanza italiana e dall’aver risieduto in Italia (c.d. lavoratori impatriati). Originariamente la disciplina si rivolgeva alle seguenti categorie di contribuenti: 1) lavoratori dipendenti con funzioni direttive (i.e. manager) o con elevata qualificazione e specializzazione (64) ex art. 16, comma 1, i quali:
(62) Così, Comm. trib. prov. Milano, sez. I, 25 luglio 2019, n. 3395, in Fisconline, secondo cui «l’intento è certamente quello di riattrarre in Italia quel “capitale umano” dirottato all’estero, anche in virtù di regimi fiscali più convenienti. Un particolare contributo alla disciplina in esame è giunto dall’art. 16 del D.Lgs. n. 147 del 2015 che, a far data dal periodo d’imposta 2016, aveva introdotto nella normativa italiana un regime speciale per i cosiddetti lavoratori “impatriati”. Lo spirito della norma prefiggeva l’obiettivo di attrarre nel nostro Paese una vasta platea di potenziali soggetti (anche stranieri). In tal senso, la norma puntava a rendere la realtà Italia particolarmente allettante per dirigenti, dipendenti stranieri altamente specializzati e qualificati distaccati da multinazionali presso imprese residenti o società legate da un rapporto di controllo localizzate sul territorio italiano. La normativa in esame è stata più volte oggetto di modifica da parte del nostro legislatore, tanto che è stato esteso il regime agevolato anche ai lavoratori autonomi, rimodulando nel contempo nella misura del 50% la percentuale di esenzione del reddito imponibile […]. Il legislatore non ha posto paletti o meno circa l’aspetto di collegamento (ex art. 2359 c.c.) fra le società datrici di lavoro. Perché trovi pieno soddisfacimento la legge, occorre che le stesse società siano autonome, come di fatto lo erano quelle prese qui in esame. Ogni società era dotata del suo codice fiscale e di una propria iscrizione presso i pubblici registri, etc. Nel caso in esame, per il rientro in Italia vi è stata una nuova assunzione e non la prosecuzione del rapporto precedente». (63) Per una completa panoramica delle varie novità introdotte da tale novella, v. A. Vicini Ronchetti (a cura di), Fiscalità della internazionalizzazione delle imprese. Studi sul D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 147, Torino, 2018. (64) L’art. 1, comma 1, lett. d), D.M. 26 maggio 2016 (Disposizioni di attuazione del regime speciale per lavoratori impatriati, di cui all’articolo 16 del decreto legislativo 14
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– non sono stati residenti in Italia nei cinque periodi di imposta precedenti al trasferimento; – si impegnano a permanere in Italia per almeno due anni; – svolgono la propria attività presso un’impresa residente nel territorio dello Stato in forza di un rapporto di lavoro instaurato con questa o con società controllante o controllata, direttamente o indirettamente, da tale impresa residente; e – prestano l’attività lavorativa «prevalentemente» nel territorio italiano (65); 2) cittadini di altri Stati membri UE che integrano i requisiti previsti dalla Legge 30 dicembre 2010, n. 238, come previsto dall’art. 16, comma 2, e cioè: – laureati che hanno svolto all’estero attività di lavoro dipendente o autonomo (e, cioè, i lavoratori contro-esodati); oppure – studenti che hanno conseguito all’estero un titolo accademico o di specializzazione post-lauream, che abbiano “trascorso” gli ultimi ventiquattro mesi fuori dall’Italia. Al ricorrere di questi requisiti, dal periodo di imposta in cui è avvenuto il trasferimento della residenza in Italia e per i quattro periodi successivi, veniva garantita una concorrenza alla formazione del reddito complessivo del 70% del reddito di lavoro dipendente prodotto in Italia per l’anno d’imposta 2016. Per rendere il regime ancor più allettante per i datori di lavoro residenti, a partire dal periodo d’imposta 2017, la Legge di Bilancio 2017 ha abbassato al 50% del reddito prodotto in Italia la quota imponibile, ha esteso il campo di applicazione soggettiva anche ai titolari di reddito di lavoro autonomo (66) e, inoltre, ha reso fruibile l’agevolazione anche ai cittadini di Stati extra-UE con i quali risulti in vigore con l’Italia una convenzione per evitare le doppie imposizioni o un accordo sullo scambio di informazioni fiscali (meglio noti come Tax Information Exchange Agreement, TIEA) (67).
settembre 2015, n. 147), specifica, infatti, che debba trattarsi di lavoratori che «svolgono funzioni direttive e/o sono in possesso dei requisiti di elevata qualificazione o specializzazione come definiti dai decreti legislativi 28 giugno 2012, n. 108, e 6 novembre 2007, n. 206». (65) Al riguardo, il D.M. 26 maggio 2016, all’art. 1, comma 1, lett. c), precisa che l’attività lavorativa debba essere «prestata nel territorio italiano per un periodo superiore a 183 giorni nell’arco di ciascun periodo d’imposta». (66) Per i quali ovviamente, come chiarito dal comma 1-bis, non opera la condizione dell’assunzione da impresa residente né quella relativa al ruolo direttivo o al possesso di requisiti di elevata qualificazione o specializzazione. (67) Art. 16, comma 2, secondo periodo.
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Il legislatore – non è chiaro se in modo consapevole o meno – ha previsto una diversità significativa tra la categoria dei lavoratori impatriati, da una parte, e quelle dei lavoratori contro-esodati e dei “cervelli” emigrati a cui la prima disciplina fa espresso richiamo, dall’altra. Solo per la prima categoria, infatti, viene puntualmente richiesto che il contribuente non sia stato residente in Italia ex art. 2 TUIR nei cinque anni precedenti al trasferimento, mentre per le altre due categorie la disciplina si limita a richiedere che il contribuente abbia svolto continuativamente un’attività (di lavoro, d’impresa o di studio, conseguendo un diploma di laurea o una specializzazione post lauream) fuori dall’Italia «negli ultimi ventiquattro mesi». Quindi, tali ultime due categorie di contribuenti potevano optare per il regime anche se formalmente risultavano residenti in Italia ex art. 2 TUIR nel quinquennio antecedente all’esercizio dell’opzione. Tale infelice formulazione ha portato l’Amministrazione finanziaria a sposare un’interpretazione “riequilibratrice” in base alla quale «per fruire del beneficio fiscale ai sensi del citato articolo 16, comma 2, il soggetto, per i due periodi di imposta antecedenti a quello in cui si rende applicabile l’agevolazione, non deve essere stato iscritto nelle liste anagrafiche della popolazione residente e non deve avere avuto nel territorio dello Stato il centro principale dei propri affari e interessi, né la dimora abituale» (68). Secondo il fisco, quindi, non potrebbe beneficiare dell’agevolazione un lavoratore ex residente italiano che fosse rimasto – per dimenticanza o per ignoranza – iscritto nell’Anagrafe della popolazione residente, nonostante avesse radicato per almeno ventiquattro mesi all’estero la residenza e/o il domicilio civilistico, facendo leva sulla già richiamata (e discutibile) giurisprudenza di legittimità. D’altra parte, sempre secondo la tesi erariale, un contribuente che si fosse diligentemente iscritto all’AIRE al momento dell’emigrazione dall’Italia, dopo almeno ventiquattro mesi di attività svolta all’estero, non sarebbe automaticamente considerato “non residente” in Italia, riservandosi l’Amministra-
(68) Così, Risoluzione 6 luglio 2018, n. 51/E. Tale orientamento trova recente conferma in: Risposte agli interpelli n. 133 e 136 del 27 dicembre 2018; Risposte agli interpelli n. 32 e n. 36 del 12 febbraio 2019. Con riferimento, più in generale, ai regimi agevolativi dei lavoratori impatriati, dei neo-residenti e dei lavoratori contro-esodati, già in Circolare 23 maggio 2017, n. 17/E, 8, l’Agenzia aveva evidenziato che «tenuto conto della rilevanza del solo dato dell’iscrizione nell’anagrafe della popolazione residente, il soggetto che non si è mai cancellato da tale registro non può essere ammesso alle agevolazioni in esame».
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zione finanziaria di verificare se, in concreto, questi abbia mantenuto in Italia il proprio domicilio o residenza civilistici (69). Il rischio di questa prassi amministrativa, che riflette l’istituzionale forma mentis indagatrice del fisco, è di scoraggiare o rendere più difficoltoso l’accesso ad un regime che, al contrario, il legislatore vuole fortemente incentivare. 4.3.1. Il restyling del regime ad opera del Decreto crescita e la sua apertura all’immigrazione degli “sportivi professionisti”. – Al fine di accrescere il successo della disciplina, il Decreto crescita ha provveduto ad amplificare ulteriormente il regime fiscale degli impatriati, introducendo – con alcuni correttivi operati in sede di conversione dalla Legge 28 giugno 2019, n. 58, in vigore dal 30 giugno 2019 – alcune significative novità, che lo rendono di grande interesse per gli sportivi professionisti non residenti. Innanzitutto, la platea dei destinatari viene estesa, oltre ai lavoratori dipendenti ed a quelli autonomi, anche ai titolari di redditi c.d. assimilati a quelli di lavoro dipendente e, soprattutto, ai titolari di reddito d’impresa «che avviano un’attività d’impresa in Italia, a partire dal periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2019» (70). In secondo luogo, il quantum di base imponibile di reddito prodotto in Italia oggetto di tassazione viene abbassato dal 50% al 30%. I lavoratori impatriati di cui al comma 1 ammessi a tale regime devono, inoltre, semplicemente dimostrare la propria “non residenza” in Italia nei due anni precedenti al trasferimento, in luogo dei cinque previsti nelle versioni antecedenti della norma. Ancora, viene prevista un’eccezionale estensione del periodo di applicazione dell’agevolazione ad altri cinque periodi d’imposta (però con detassazione pari al 50% del reddito prodotto) per i lavoratori che hanno «almeno un
(69) Così, v. anche Cass. civ., sez. trib., 15 giugno 2010, n. 14434, in Fisconline, secondo cui «l’iscrizione del cittadino nell’anagrafe dei residenti all’estero non è elemento determinante per escludere la residenza fiscale in Italia, allorché il soggetto abbia nel territorio dello Stato il proprio domicilio, inteso come sede principale degli affari ed interessi economici, nonché delle proprie relazioni personali». Tale orientamento era, d’altronde, già stato abbracciato nella Circolare 2 dicembre 1997, n. 304/E-I-2-705, laddove si chiariva che «la cancellazione dall’anagrafe della popolazione residente e l’iscrizione nell’anagrafe degli italiani residenti all’estero (A.I.R.E.) non costituisce elemento determinante per escludere il domicilio o la residenza nello Stato, ben potendo questi ultimi essere desunti con ogni mezzo di prova anche in contrasto con le risultanze dei registri anagrafici». (70) Art. 16, comma 1-bis, D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 147.
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figlio minorenne o a carico, anche in affido preadottivo» o qualora diventino proprietari (o comproprietari con il coniuge, con il convivente, o se i figli diventino proprietari) di «almeno un’unità immobiliare di tipo residenziale in Italia, successivamente al trasferimento in Italia o nei dodici mesi precedenti al trasferimento» (comma 3-bis). Se però il lavoratore che si trasferisce ha almeno tre figli minorenni o a carico, anche in affido preadottivo, l’estensione temporale di ulteriori cinque anni rispetto al periodo ordinario implica una tassazione del solo 10% del reddito prodotto (71). Ulteriore novità è quella sancita al nuovo comma 5-bis, il quale prevede che la base imponibile fiscalmente rilevante è pari al 10% del reddito prodotto sul territorio nazionale (in luogo dell’ordinario 30%) per i contribuenti che si trasferiscono in Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sardegna o Sicilia (72). Il Decreto crescita è, altresì, intervenuto con il comma 5-ter a precisare che i cittadini italiani non iscritti all’AIRE e che rientrano in Italia dal 1° gennaio 2020 in avanti, possono diventare impatriati se dimostrano di essere stati residenti (nei due anni antecedenti al trasferimento) in uno Stato con cui l’Italia abbia siglato una convenzione contro la doppia imposizione. Si cerca, quindi, di mitigare la dimenticanza (o ignoranza) dell’italiano emigrato e che poi vuole rientrare come impatriato, a patto che l’Agenzia delle Entrate sia in grado di dialogare con le autorità tributarie dello Stato di ex residenza, al fine di verificarne l’effettività. Lo stesso comma, analogamente a quanto fatto per il rientro di docenti e ricercatori, chiarisce che per i periodi d’imposta per cui sono stati emessi atti impositivi, eventualmente oggetto di contenzioso tributario, agli impatriati che non si erano iscritti all’AIRE e rientrati entro il 31 dicembre 2019 spettano i benefici del regime così come da versione antecedente al Decreto crescita: tuttavia, nell’ipotesi in cui le imposte richieste in
(71) Così, comma 3-bis, ultimo periodo. All’atto pratico, quindi, per quest’ultima categoria di lavoratori il vantaggio è fortissimo, perché nel periodo d’imposta del trasferimento e nei quattro successivi il reddito prodotto in Italia è imponibile nella misura del 30%, mentre per i periodi d’imposta dal quinto al nono incluso successivo al trasferimento il reddito prodotto in Italia sarà imponibile nella misura del 10%. (72) Dalla combinazione delle varie ipotesi contemplate dalla vigente versione dell’art. 16, quindi, lo scenario più vantaggioso in assoluto è quello spettante al lavoratore che, oltre a trasferirsi in una delle regioni sopraindicate, integra altresì i requisiti di cui all’ultimo periodo del comma 3-bis. Questi si vedrà tassato in Italia, nell’anno del trasferimento e nei nove anni successivi, nella misura del 10%.
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fase di accertamento siano state spontaneamente versate, il contribuente non potrà fare istanza di rimborso. In fase di conversione del Decreto crescita, ed è qui l’aspetto di decisivo interesse, il legislatore ha inteso estendere la platea dei destinatari del regime ad un settore strategico per l’Italia, quello dello sport professionistico. Così, il comma 5-quater prevede che possano considerarsi lavoratori impatriati anche gli sportivi professionisti che abbiano instaurato con una società sportiva italiana un rapporto in base alla Legge 23 marzo 1981, n. 91. Forse per il fatto che gli sportivi professionisti non hanno solitamente un livello di istruzione universitaria né un’alta specializzazione o qualificazione comparabili a quelli dei soggetti per cui originariamente la disciplina è stata creata (in quanto, invece che attrarre “cervelli”, con questa disposizione si mira piuttosto ad attrarre “gambe” e “braccia”), la norma prevede alcune mitigazioni rispetto alla piena operatività dell’agevolazione. La base imponibile dei redditi degli sportivi impatriati è, infatti, ridotta al 50%, non trova applicazione lo sconto del 90% per gli sportivi professionisti che stabiliscono la propria residenza nelle regioni meridionali di cui al comma 5-bis (per ovvie ragioni legate all’alterazione della concorrenza nazionale, che vedrebbe avvantaggiate economicamente le squadre del sud all’interno dei rispettivi campionati) né quello riservato ai contribuenti con almeno tre figli minorenni o a carico, anche in affido preadottivo, di cui al comma 3-bis, ultimo periodo. Da ultimo, gli sportivi professionisti che beneficiano del regime degli impatriati sono tenuti a versare una sorta di “contributo di solidarietà” pari allo 0,5% della propria base imponibile, il quale è destinato al «potenziamento dei settori giovanili» (comma 5-quinquies). Ma cerchiamo meglio di capire il perimetro di applicazione soggettivo e oggettivo di questa novità normativa. In primo luogo, il richiamo al concetto di “sportivi professionisti” di cui alla Legge 23 marzo 1981, n. 91, non deve essere riduttivamente interpretato come riguardante i soli atleti, ma coinvolge una platea ben più vasta. L’art. 2 di tale disciplina, infatti, chiarisce che devono considerarsi tali «gli atleti, gli allenatori, i direttori tecnico-sportivi ed i preparatori atletici, che esercitano l’attività sportiva a titolo oneroso con carattere di continuità nell’ambito delle discipline regolamentate dal CONI e che conseguono la qualificazione dalle federazioni sportive nazionali, secondo le norme emanate dalle federazioni stesse, con l’osservanza delle direttive stabilite dal CONI per la distinzione dell’attività dilettantistica da quella professionistica».
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Sul piano soggettivo, quindi sono ricompresi in tale concetto tutte le persone che ruotano attorno al mondo dello sport professionistico, le quali esercitano la propria attività a titolo oneroso ed in modo continuativo. Sul piano oggettivo, ed è forse questo il profilo da mettere ancor più in risalto, sono ammessi a beneficiare del regime “depotenziato” dei lavoratori impatriati tutti gli “sportivi professionisti” che svolgono la propria attività in una delle «discipline regolamentate dal CONI» (73) e «che conseguono la qualificazione dalle federazioni sportive nazionali». Quest’ultimo inciso mira, essenzialmente, a restringerne l’operatività agli sportivi afferenti a quelle federazioni sportive nazionali affiliate al CONI che, al proprio interno, si sono potute dotare di un settore professionistico e, cioè, le seguenti quattro (74): Federazione Ciclistica Italiana (FCI), Federazione Italiana Golf (FIG), Federazione Italiana Giuoco Calcio (FIGC) (75) e Federazione Italiana Pallacanestro (FIP). Si tratta, però, di una classificazione a dir poco paradossale posto che alcuni campioni che praticano (o hanno praticato) determinati sport a livelli altissimi, non possono considerarsi giuridicamente degli “sportivi professionisti”. Per intendersi, non lo erano Pietro Mennea nell’atletica leggera, Adriano Pa-
(73) E qui, si potrebbe prima facie pensare, sbagliando, che siano incluse tutte le 384 discipline individuate dal Consiglio Nazionale del CONI con la Deliberazione n. 1568 del 14 febbraio 2017, la quale annovera una vastissima gamma di discipline che, oltre a quelle “classiche” (e.g. calcio a undici, golf, atletica leggera, pallacanestro, pallavolo, pugilato, rugby a quindici, tennis, paracadutismo, equitazione, etc.), spaziano dal dressage, al sumo, al jiujitsu, al sambo, fino al paddle, all’hydrospeed, ai vari tipi di pesca o ai numerosi stili di danze accademiche (e.g. modern dance, pas de deux, Graham, etc.), coreografiche (e.g. Charleshon, belly dance, disco dance, etc.), internazionali (e.g. tango, boogie woogie, merengue, etc.), nazionali (e.g. marzuka, foxtrot, polka, etc.), regionali e street dance (e.g. hip hop, funk, break dance, etc.). (74) Consiglio Nazionale del CONI, Deliberazione 19 dicembre 2013, n. 1502, che ha escluso la Federazione Pugilistica Italiana (FPI) da tale elenco. In passato, anche la Federazione Motociclistica Italiana (FMI) contemplava al proprio interno un settore professionistico, ma la Deliberazione 7 giugno 2011, n. 1435, ne ha sancito l’esclusione. (75) A tale riguardo, occorre ricordare che «il rapporto tra società e atleti è oggetto di una specifica previsione secondo cui “La prestazione a titolo oneroso dell’atleta costituisce oggetto di contratto di lavoro subordinato regolato dalle norme contenute nella presente legge” (art. 3, comma 1), senza ulteriori precisazioni in merito al trattamento tributario. Ciò comporta che la remunerazione dell’atleta costituisce reddito di lavoro dipendente, così come previsto dall’art. 49 del TUIR, da determinare in base alle ordinarie regole previste nell’articolo 51 del TUIR». Così, Circolare 20 dicembre 2013, n. 37/E, 3.
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natta nel tennis, Alberto Tomba nello sci né, oggi, lo sono Federica Pellegrini nel nuoto e nemmeno Valentino Rossi nel motociclismo (76). Ma se, sotto il profilo dell’ordinamento sportivo e giuslavoristico (77), questa classificazione è fortemente criticabile e per lo più figlia dell’assenza di sponsor (e di diritti televisivi) in grado di finanziare adeguatamente un determinato sport in ambito nazionale, sotto quello del regime fiscale degli impatriati” rappresenta un vantaggio. È di tutta evidenza che, pur auspicandosi un chiarimento legislativo (o, quantomeno, un’indicazione di prassi da parte dell’Amministrazione finanziaria), tutti gli sportivi che non possono considerarsi “professionisti” per la Legge 23 marzo 1981, n. 91, devono considerarsi, per sottrazione, “sportivi dilettanti” (o, in alcune ipotesi, sportivi c.d. professionisti “di fatto” (78) e, in quanti tali, ammessi alla disciplina “ordinaria”
(76) O meglio, Valentino Rossi poteva considerarsi sicuramente “sportivo professionista” dal 1996 al 1999, quando faceva parte della scuderia Aprilia, affiliato alla FMI. Oggi, correndo per un team nipponico (i.e. Yamaha) e, comunque, non essendo più la FMI considerata dal CONI una federazione nazionale dotata di un settore professionistico, Valentino Rossi sarà al più considerato un professionista in base al diritto giapponese. (77) A tale riguardo, A. De Silvestri, Il lavoro nello sport dilettantistico, in GiustiziaSportiva.it, 2006, 15, rileva che «una tale disciplina, che consegna al gradimento delle singole federazioni – persone giuridiche private la scelta se dotarsi o meno di un settore professionistico […] non sembra affatto in linea con l’imperativa tutela offerta dalla Costituzione ai rapporti di lavoro». (78) Così, G. Liotta-L. Santoro, Lezioni di diritto sportivo, 4a ed., Milano, 2018, 85 ss., ove si evidenzia che il fenomeno del “semi-professionismo” o “professionismo di fatto” è frutto dell’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, ed è noto in Europa come shamateur o scheinamateur. Il sistema, così concepito, determina un’irragionevole disparità di trattamento tra gli “sportivi professionisti” e gli “sportivi professionisti di fatto” (i.e. coloro che, seppur formalmente qualificati come “dilettanti” dalla federazione di appartenenza, svolgono in realtà un’attività sostanzialmente professionistica), i quali non godono delle medesime tutele economiche e soggiacciono al c.d. vincolo sportivo, cioè il diritto esclusivo della società sportiva dilettantistica di “disporre” delle loro prestazioni agonistiche ed il potere di veto sul loro eventuale trasferimento. Com’è noto, tale vincolo è stato abolito per il professionismo ad opera dell’art. 16, Legge 23 marzo 1981, n. 91, il cui comma 1 stabilisce che «le limitazioni alla libertà contrattuale dell’atleta professionista, individuate come “vincolo sportivo” nel vigente ordinamento sportivo, saranno gradualmente eliminate entro cinque anni dalla data di entrata in vigore della presente legge, secondo modalità e parametri stabiliti dalle federazioni sportive nazionali e approvati dal CONI, in relazione all’età degli atleti, alla durata ed al contenuto patrimoniale del rapporto con le società». L’unica, rilevante, deroga è rappresentata dal settore del calcio dilettantistico, ove – con Comunicato Ufficiale FIGC 14 maggio 2002, n. 34/A e successive modifiche – si è deciso di sopprimere l’istituto del c.d. vincolo sportivo a partire dal 25° anno di età del calciatore, termine di decadenza ex lege del tesseramento pluriennale, fatta salva la maggior durata del rapporto derivante da accordi economici pluriennali ex artt. 94-ter e 94-quinquies delle Norme Organizzative Interne (NOIF) della FIGC.
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con esclusione del reddito imponibile pari al 70% o al 90% in presenza dei requisiti familiari o geografici visti prima (senza, peraltro, dover versare il contributo dello 0,5% della propria base imponibile). Per esemplificare, se la scuderia Ferrari volesse contrattualizzare un nuovo pilota di Formula 1 non residente che integra i requisiti richiesti dal regime fiscale in questione, le imposte sul reddito da questi dovute saranno pari al 30% di quanto percepito. A riconferma di quanto si sostiene, ad oggi la nozione di “sportivo dilettante” non trova alcuna definizione normativa e, anzi, il nuovo Statuto del CONI, modificato dal Consiglio Nazionale il 26 ottobre 2018 con Deliberazione n. 1615 ed approvato con DPCM il 21 dicembre 2018, all’art. 6, comma 4, parla di «criteri per la distinzione dell’attività sportiva dilettantistica o comunque non professionistica da quella professionistica» (lett. d)) e di «atleti non professionisti» (lett. i)). De jure condendo, il tanto agognato ravvicinamento delle tutele dei dilettanti a quelle di cui godono i professionisti si inizia a scorgere all’orizzonte. In tal senso, è utile sottolineare che la recente Delega al Governo in materia di ordinamento sportivo, professioni sportive e di semplificazione, pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 16 agosto 2019, con il preciso scopo di «garantire l’osservanza dei princìpi di parità di trattamento e di non discriminazione nel lavoro sportivo, sia nel settore dilettantistico sia nel settore professionistico, e di assicurare la stabilità e la sostenibilità del sistema dello sport», intende istituire la figura del c.d. lavoratore sportivo, «senza alcuna distinzione di genere, indipendentemente dalla natura dilettantistica o professionistica dell’attività sportiva svolta, e definizione della relativa disciplina in materia assicurativa, previdenziale e fiscale e delle regole di gestione del relativo fondo di previdenza» (79). 4.4. Il regime fiscale dei c.d. neo-residenti e la sua “musa” inglese dei resident non-domiciled. – Il regime impositivo di attrazione di contribuenti stranieri senza dubbio più significativo in termini di appeal fiscale – ed alquanto rivoluzionario da una prospettiva italiana – è quello riservato ai neoresidenti (80), ovvero coloro che intendono trasferire la propria residenza in
(79) Art. 5, comma 1, lett. c), Legge 8 agosto 2019, n. 86. (80) In letteratura, v. E. Della Valle-M. Strafile, La nuova imposta sostitutiva sui redditi di fonte estera, in Fisco, 2016, 4346 ss.; A. Tomassini-A. Martinelli, Il regime italiano dei ‘neo domiciliati’, in Corr. trib., 2016, 3533 ss.; G. Ascoli-M. Pellecchia, Il nuovo regime impositivo per le persone fisiche che trasferiscono la residenza fiscale in Italia, in Fisco, 2017, 507 ss.
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Italia, i quali sono ammessi a corrispondere un versamento forfetario a soddisfacimento delle imposte teoricamente dovute per la “porzione” di redditi di fonte estera (che, per tali soggetti, rappresenta solitamente la stragrande maggioranza della propria capacità contributiva) ed ottenere significativi vantaggi anche sul versante dell’imposta sulle successioni e donazioni. Questo è l’ultimo regime rivolto ai c.d. High Net Worth Individuals (HNWIs) ad essere stato introdotto in Europa, il quale si aggiunge a quello britannico dei resident non-domiciled (nonché all’analogo regime irlandese) (81), a quello portoghese dei residentes não habituais (82), agli special tax programs offerti da Malta (83), al regime cipriota per gli inward expatriates, ai vantaggi previsti dalla c.d. Lei Beckham spagnola (84), nonché al regime dei c.d. globalisti che si trasferiscono in Svizzera senza, tuttavia, potervi svolgere alcuna attività lucrativa (85). Proprio per essere il più recente regime ad inserirsi in questo variegato “menù” fiscale europeo, il legislatore italiano ha avuto il privilegio di poter mettere insieme i profili maggiormente vantaggiosi delle esperienze nazionali già esistenti, depurando la disciplina dalle principali criticità grazie ad un attento lavoro di comparazione giuridica (86).
(81) Sul quale, si rinvia a J. Kessler, Taxation of foreign individuals, tomi I e II, 6a ed., 2007; L. Cerioni, New rules for resident/non-domiciled taxpayers in the United Kingdom: reflections in light of tax treaties and EC law, in Bulletin for International Taxation, 2008, 551 ss. (82) Per cui, v. R.P. Borges-P.R. Sousa, O novo regime fiscal dos residentes não habituais, in P. Otero-F. Araújo-J. Taborda da Gama (a cura di), Estudos em Memória do Prof. Doutor J. L. Saldanha Sanches, tomo V, Direito fiscal: garantias, procedimento, infracções, gestão fiscal, internacional e Europeu, Coimbra, 2011, 709 ss. (83) Per un’analisi, si rinvia a S. Cilia, Taxation of resident non-domiciled persons in Malta, in Global Tax Weekly, n. 183, 2016, 33 ss. (84) In dottrina, v. P. Mastellone, La tassazione dei calciatori in Spagna, Germania, Regno Unito ed Italia: un’analisi comparata, in Dir. prat. trib. int., 2016, 133 ss. e, specialmente, 138 ss. (85) Per un approfondimento, v. S. Vorpe, L’imposizione secondo il dispendio tra passato, presente e futuro, in Riv. ticin. dir., 2013, 709 ss.; D. Bader-C. Seiler, The taxation of high-net-worth individuals in Switzerland, in Bulletin for International Taxation, 2015, 251 ss.; F. Baccaglini, Analisi comparata del regime globalista svizzero e neo-residente italiano. Le differenze e le analogie fra i due regimi speciali di tassazione forfettaria per attrarre contribuenti benestanti, in Novità Fiscali, 2018, 444 ss. (86) Sul tema, v. per tutti M. Barassi, La circolazione dei modelli tributari e la comparazione, in C. Sacchetto (a cura di), Princìpi di diritto tributario europeo e internazionale, Torino, 2011, 47 ss.; Id., (voce), Comparazione (dir. trib.), in S. Cassese (diretto da), Dizionario di diritto pubblico, Milano, 2006, 1070 ss.
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L’esperienza che è stata maggiormente analizzata dagli estensori della disciplina, soprattutto per la sua diffusione, risulta senz’altro essere il regime dei resident non-domiciled previsto dal Regno Unito sin dal XVIII secolo, il quale storicamente costituisce un tertium genus tra il metodo di tassazione riservata ai residenti e quello riservato ai non residenti. Tale regime, nato ai tempi dell’Impero britannico, prevede una fiscalità ibrida per i soggetti stranieri che si trasferivano nel Regno Unito, pur mantenendo il proprio domicile of origin in un altro Paese: da una parte, i redditi di fonte inglese venivano sottoposti a tassazione ordinaria (arising basis taxation); dall’altra, quelli di fonte estera subivano la medesima tassazione solo e nella misura in cui venivano trasferiti (rectius rimessi) nel Regno Unito (remittance basis taxation). Quest’ultima componente del “cocktail” fiscale britannico rappresenta l’asse attorno al quale tale disciplina ha riscosso il suo grande successo: infatti, per tutti i redditi di fonte estera non rimessi nel Regno Unito, le autorità fiscali inglesi non solo non pretendevano alcun pagamento, ma addirittura non effettuavano alcun controllo circa la qualità e la quantità di detti redditi (87). Il regime dei resident non-domiciled è iniziato ad entrare in crisi all’inizio degli anni 2000, quando divenne di dominio pubblico che alcuni contribuenti di spicco che beneficiavano di tale regime, già per questo motivo mal visti dalla platea dei contribuenti sottoposti a tassazione ordinaria, avevano addirittura negoziato con il Fisco britannico degli accordi per predeterminare le imposte future per la parte dei redditi esteri (potenzialmente) rimessi nel Regno Unito. In altre parole, emergeva che i non-doms che effettuavano consistenti rimesse nel Regno Unito si accordassero con il fisco per una tassazione forfettaria che prescindesse dall’effettiva ricchezza che sarebbe rientrata nel perimetro della remittance basis taxation. Con questo meccanismo, il fisco inglese si accontentava di ricevere un pagamento forfetario e predeterminato a fronte
(87) Rileva acutamente G. Marino, La fiscalità del lavoro, lo stato dell’arte, in Rass. trib., 2008, 130, che «l’esempio del Regno Unito (che certo non può essere tacciato di fare della concorrenza fiscale il suo punto di forza)» dimostra «come sia possibile utilizzare la leva fiscale per attrarre nel proprio Paese i lavoratori più qualificati, caratterizzati da una forte professionalità e da una spiccata propensione alla mobilità. Oggi non sono solo i capitali a “fuggire” da uno Stato all’altro, a seconda delle convenienze fiscali, ma anche le persone con un livello di istruzione ed una capacità di produzione di reddito più elevate, e la variabile fiscale può costituire uno strumento interessante (anche se ovviamente non l’unico), per tentare di attrarre questi soggetti in Italia».
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delle rimesse di reddito estero nel Regno Unito, senza dover verificare quanto effettivamente veniva trasferito (i.e. se una cifra congrua con il forfait pattuito in anticipo oppure un importo ben più elevato). Il leading case che ha fortemente indignato l’opinione pubblica è certamente Al Fayed (88), il quale metteva in luce gli enormi benefici dei forward tax agreements stipulati dal magnate egiziano proprietario di Harrods, Mohammed Al Fayed (il padre di Dodi), e dalla sua famiglia con l’Inland Revenue (89). All’esito del contenzioso tributario, i giudici inglesi ravvisavano che i funzionari dell’Inland Revenue avevano fatto un esercizio ultra vires dei propri poteri, con la conseguenza che detti accordi dovevano considerarsi nulli (90): traspariva, insomma, un’ingiustizia del sistema fiscale che favoriva eccessivamente un ristretto gruppo di contribuenti facoltosi (91). Messo sotto pressione, nel 2008 il Governo inglese interveniva per cercare di rendere più equo il trattamento dei non-doms, introducendo una flat tax annua di £ 30.000 per tutti i redditi di fonte estera non rimessi nel Regno Unito (remittance basis charge, RBC). Nel 2012 veniva dato un ulteriore giro di vite, stabilendosi che i non-doms “di lunga durata” (i.e. coloro che erano residenti nel Regno Unito da almeno dodici degli ultimi quattordici periodi d’imposta) dovessero corrispondere una RBC più sostanziosa, pari a £ 50.000. Il regime in questione veniva, nonostante tutto, fortemente criticato dagli altri Stati membri dell’Unione Europea, i quali reputavano che si trattasse di
(88) Al Fayed & Others v. Advocate General for Scotland (representing the Inland Revenue Commissioners), in 2002 BTC 428. (89) Nel 1990 questi aveva, infatti, stipulato con il fisco inglese un accordo che prevedeva il pagamento di £ 200.000 annui sulle rimesse effettuate nelle annualità dal 1991 al 1996. Nel 1997 veniva stipulato un altro accordo, valido fino al 2003, che prevedeva il pagamento annuale di £ 240.000 fino al periodo d’imposta 2003 incluso. (90) Veniva statuito che gli agenti del fisco inglese «do not have power to enter into agreements for the payment of money to them by an individual on the basis that that individual could so organize his affairs as not to incur any liability to UK tax. [...] the making of a forward tax agreement is not a proper exercise of the respondents’ duties of care and management. The respondents are constrained by their statutory duties. They are not in a commercial market place operating an extra-statutory system of levying money on the basis that if that money were not paid, there would be a possibility that they could lawfully assess the individual to tax». (91) Emblematica è l’affermazione della Corte inglese secondo cui la stipulazione di detti accordi volti a predeterminare il quantum di imposte dovute dai non-doms per i redditi rimessi in Inghilterra fosse «a clear example of unfairness. In a true sense, the petitioners thereby become a privileged group who are not so much taxed by law as untaxed by concession».
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una forma di c.d. concorrenza fiscale “dannosa”, in grado di ledere i propri interessi fiscali. Di conseguenza, con le modifiche intervenute a partire dal 6 aprile 2017, il Governo inglese ha stabilito tre scaglioni crescenti di RBC parametrati sull’anzianità della residenza inglese dei non-doms, superato l’ultimo dei quali questi decadono dal beneficio e rientrano nel campo di applicazione della fiscalità ordinaria (92): i. £ 30.000 per non-doms residenti nel Regno Unito per almeno sette dei precedenti nove periodi d’imposta; ii. £ 60.000 per non-doms residenti nel Regno Unito per almeno dodici dei precedenti quattordici periodi d’imposta; iii. £ 90.000 per non-doms residenti nel Regno Unito per almeno diciassette dei precedenti venti periodi d’imposta. La disciplina è diventata ancora più severa con l’introduzione della presunzione antielusiva del domicilio nel Regno Unito per i “nativi” (i.e. coloro che hanno il domicile of origin nel Regno Unito) successivamente trasferitesi all’estero, per poi ritornare in patria con l’obiettivo di indossare i panni del non-dom e poter pagare la RBT a fronte di tutta la capacità contributiva localizzata all’estero (93). Negli ultimi anni, sia per l’irrigidimento della normativa sui non-doms sia per le maglie più strette in materia di immigrazione sia, ovviamente, per l’incertezza della Brexit, il numero dei residenti non domiciliati inglesi è crollato vertiginosamente. Il fisco inglese ha, infatti, stimato 78.300 non-doms nel pe-
(92) Diventando, quindi, resident and domiciled nel Regno Unito e venendo sottoposti al worldwide tax principle. (93) Si veda la Section 835BA (Deemed domicile), Chapter 2A, Part 14, Income Tax Act 2007, così come introdotta dal Finance Bill 2017, la quale prevede che: «(1) This section has effect for the purposes of the provisions of the Income Tax Acts or TCGA 1992 which apply this section. (2) An individual not domiciled in the United Kingdom at a time in a tax year (“the relevant tax year”) is to be regarded as domiciled in the United Kingdom at that time if – (a) condition A is met, or (b) condition B is met. (3) Condition A is that – (a) the individual was born in the United Kingdom, (b) the individual’s domicile of origin was in the United Kingdom, and (c) the individual is UK resident for the relevant tax year. (4) Condition B is that the individual has been UK resident for at least 15 of the 20 tax years immediately preceding the relevant tax year. (5) But Condition B is not met if – (a) the individual is not UK resident for the relevant tax year, and (b) there is no tax year beginning after 5 April 2017 and preceding the relevant tax year in which the person was UK resident».
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riodo d’imposta 2017/18, constatando un calo del 13,5% rispetto all’anno precedente, in cui se ne contavano 90.500: il che, in termini quantitativi, significa una perdita di gettito per le casse di Sua Maestà di circa £ 2,5 miliardi (94). L’esperienza britannica, sebbene ultimamente sia in netto declino, è risultata fortemente suggestiva per il legislatore italiano, il quale per la prima volta è uscito dalla rigida dicotomia residente/non residente, per creare una categoria di residenza “attenuata” a cui far conseguire, opzionalmente e quale alternativa al naturale regime di residenza, una tassazione forfetaria dei redditi di fonte estera e limitata nel tempo. Il nuovo art. 24-bis TUIR, introdotto dalla Legge di Bilancio 2017, prevede la possibilità per gli individui residenti all’estero per almeno nove degli ultimi dieci periodi di imposta – a prescindere dalla loro nazionalità, che ben può essere anche italiana – di trasferirsi in Italia corrispondendo: – un’imposta sostitutiva annua pari a € 100.000 (oltre a € 25.000 per ogni familiare “al seguito”) per tutti i redditi di fonte estera, con possibilità di escludere alcuni Stati (c.d. cherry picking); e – imposte calcolate in base alle ordinarie aliquote progressive ex art. 11 TUIR per scaglioni per tutti i redditi di fonte italiana. Siamo al cospetto di una mitigazione temporanea del worldwide tax principle, posto che il neo-residente (e tutti i suoi familiari che si trasferiscono con lui in Italia) può beneficiare di tale disciplina agevolativa per un periodo massimo di quindici anni, con possibilità di revoca anticipata e conseguente passaggio al regime ordinario. Esercitando l’opzione direttamente in dichiarazione dei redditi o a seguito di una (più prudente e consigliabile) procedura di interpello con il team “Contribuenti ad alta capacita contributiva” dell’Agenzia delle Entrate, il contribuente viene altresì esentato dall’imposta sulle successioni e donazioni applicabili su beni che si trovano al di fuori dell’Italia, nonché dall’Imposta sul Valore degli Immobili situati all’Estero (IVIE) e dall’Imposta sul Valore delle Attività Finanziarie detenute all’Estero (IVAFE). Infine, come se non bastasse, questi non è soggetto a tutti gli obblighi dichiarativi discendenti dalla disciplina sul monitoraggio fiscale di cui al D.L. del 28 giugno 1990, n. 167 (95).
(94) HM Revenue & Customs, Statistics on non-domiciled taxpayers in the UK 200708 to 2017-18, 8 agosto 2019. (95) Sul punto, v. da ultimo P. Mastellone, Raddoppio dei termini da Quadro RW tra violazione dei principi nazionali e incompatibilità con il diritto europeo, in Dir. prat. trib., 2018, I, 1469 ss.
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Risulta palese che, oltre all’effetto diretto di un maggior gettito derivante dall’imposta sostitutiva annualmente riscossa dai contribuenti istanti (in relazione alla quale, trattandosi di un regime volontario, il dispendio di risorse da parte dell’Amministrazione finanziaria per il controllo dovrebbe essere prossimo allo zero, così come il tasso di evasione), si aggiunge quello indiretto dei maggiori consumi (i.e. maggiore imposta sul valore aggiunto incassata dallo Stato, maggiori accise riscosse, etc.), nonché di nuovi investimenti mobiliari ed immobiliari. La disciplina sta riscuotendo un indubbio successo, anche mediatico per l’utilizzo da parte di alcune “superstar” del calcio, tant’è che dopo un anno e qualche mese dall’entrata in vigore, già 160 procedure di interpello si sono concluse positivamente, con oltre un terzo delle domande provenienti da residenti nel Regno Unito, mentre gli attuali rumors provenienti dagli ambienti ministeriali fanno riferimento ad altre centinaia “manifestazioni di interesse” a tale regime (dovendosi intendere con tale concetto sia i pre-filing anonimi sia i meri incontri preliminari tra i professionisti degli HNWIs interessati a tale regime ed i funzionari specializzati dell’Amministrazione finanziaria). 4.4.1. Un esempio pratico di c.d. neo-residente che si trasferisce in Italia. – Per meglio comprendere la tipologia di contribuenti stranieri che possono essere interessati a trasferirsi in Italia optando per il regime di cui all’art. 24bis TUIR ed evidenziare le verifiche che debbono essere fatte per individuare le categorie di redditi esteri ricompresi nel perimetro operativo dell’imposta sostitutiva, cerchiamo di fare un esempio pratico. Ipotizziamo due coniugi di nazionalità britannica che dal 2000 vivono in Germania, i quali presentano le seguenti caratteristiche reddituali. Il marito (c.d. contribuente “principale”) ha svolto per anni il ruolo di amministratore delegato di una società tedesca, carica che cesserà in concomitanza con il trasferimento in Italia, pur rimanendo nel board di una società residente nel Regno Unito. Questi, una volta cessata l’attività lavorativa, riceverà pensioni pubbliche e private da Regno Unito, Belgio e Germania. Da ultimo, questi è proprietario di immobili nel Regno Unito e in Belgio, nonché risulta titolare di investimenti gestiti da istituti di credito in Regno Unito, Germania e Belgio. La moglie (c.d. contribuente “secondario”) è, invece, una casalinga e, in quanto tale, non produce reddito. L’unico criterio di collegamento che questi contribuenti hanno con l’Italia, come spesso accade, è la proprietà di un immobile di pregio acquistato anni addietro ed utilizzato per trascorrere brevi periodi di vacanza.
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I coniugi, intendendo trasferirsi in Italia nel 2019, decidono di fare istanza all’Agenzia delle Entrate alla quale entrambi allegano, in relazione al c.d. periodo di osservazione decennale (2009-2018), una dichiarazione sostitutiva di atto notorio contenente il calcolo dei giorni – supportato, per quanto possibile, da biglietti aerei, ricevute dei pedaggi autostradali, etc. – di effettiva permanenza in Italia che, per ciascun anno, sono di gran lunga inferiori a 183 gg. Il profilo soggettivo, cioè quello relativo alla verifica della “non residenza” in Italia per almeno nove degli ultimi dieci periodi di imposta, è centrale per addivenire al buon esito della procedura di interpello. Al fine di voler sgombrare, sin da subito, ogni dubbio circa la tassazione delle fonti di reddito estere, gli istanti decidono altresì di effettuare ulteriori quesiti – stavolta riguardanti il profilo oggettivo – all’Agenzia delle Entrate. Tali quesiti, che possono o meno essere inseriti nell’istanza, hanno l’obiettivo di farsi confermare dal fisco se (e/o quali) fonti di reddito estere risulteranno incluse sotto l’ombrello della flat tax successivamente al trasferimento in Italia come “neo-residenti”. Chiarito il profilo della residenza estera, il versante delle fonti di reddito deve, quindi, essere analizzato Stato per Stato (i.e. nel nostro caso, per Regno Unito, Germania, Paesi Bassi e Belgio), in base alle soluzioni individuate dalle Convenzioni contro le doppie imposizioni stipulate con l’Italia ed alla luce di una c.d. lettura “a specchio” delle disposizioni del TUIR. Per esempio, relativamente ai redditi di fonte inglese del c.d. contribuente “principale”: – le pensioni pubbliche risultano tassabili esclusivamente nel Regno Unito, ai sensi dell’art. 19, comma 2, lett. a), Convenzione Italia-Regno Unito del 21 ottobre 1988 (96), pertanto l’Italia sarà “soddisfatta” con il versamento dell’imposta sostitutiva annua; – per le pensioni private, invece, l’art. 18, comma 1, Convenzione ItaliaRegno Unito, chiarisce che spetta la tassazione esclusiva nello Stato di residenza (97). Questo implica, ancora, che l’Italia sarà “soddisfatta” con
(96) «Le pensioni corrisposte da, o con fondi costituiti da, uno Stato contraente o da una sua suddivisione politica od amministrativa o da un suo ente locale ad una persona fisica in corrispettivo di servizi resi a detto Stato o a detta suddivisione od ente locale, sono imponibili soltanto in questo Stato». (97) «Fatte salve le disposizioni del paragrafo 2 dell’articolo 19 della presente Convenzione, le pensioni e le altre remunerazioni analoghe pagate ad un residente di uno Stato contraente in relazione ad un cessato impiego ed ogni altra annualità pagata a tale residente sono imponibili soltanto in detto Stato».
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il versamento dell’imposta sostitutiva annua perché – dalla lettura “a specchio” dell’art. 23, comma 1, lett. c), TUIR – trattasi di reddito considerato “non prodotto” nel territorio dello Stato; circa il reddito fondiario relativo agli immobili di proprietà, prima facie potrebbe risultare tassabile da entrambi gli Stati in virtù dell’art. 6, comma 1, Convenzione Italia-Regno Unito (98). Il legislatore italiano ha, tuttavia, deciso di non tassare il reddito fondiario di immobili esteri, come specificato espressamente dall’art. 25, comma 1, TUIR; analogamente, gli interessi attivi generati dal conto corrente britannico parrebbero, dalla semplice lettura della norma convenzionale di cui all’art. 11, comma 1, tassabili da entrambi gli Stati (99). Ma è la stessa Amministrazione finanziaria a chiarire che, invece, «gli interessi derivanti da conti correnti bancari corrisposti al neo residente da soggetti esteri […] siano da considerare redditi prodotti all’estero e, come tali, suscettibili di rientrare nel perimetro applicativo dell’articolo 24-bis del TUIR» (100); per gli eventuali capital gains sugli investimenti inglesi, l’art. 13, comma 4, Convenzione Italia-Regno Unito, identifica una potestà impositiva esclusiva in capo all’Italia (101). Senonché, è stato precisato che «la plusvalenza che [il neo-residente, N.d.A.] realizza a seguito della cessione di partecipazioni non qualificate in società estere, negoziate in mercati regolamentati, siano da considerare redditi prodotti all’estero e, come tali, suscettibili di rientrare nel perimetro applicativo dell’articolo 24-bis del TUIR» (102). L’Italia sarà, quindi, “soddisfatta” con il versamento dell’imposta sostitutiva annua, sempre che non si tratti di plusvalenza derivante dalla cessione di partecipazioni qualificate ex art. 67, comma 1, lett. c), TUIR, la quale sarà tassata secondo le regole ordinarie; da ultimo, per i compensi da amministratore, che potrebbero sembrare dar luogo ad una potestà tributaria concorrente in base all’art. 16, Convenzio-
(98) «I redditi che un residente di uno Stato contraente ritrae da beni immobili (compresi i redditi delle attività agricole o forestali) situati nell’altro Stato contraente sono imponibili in detto altro Stato». (99) «Gli interessi provenienti da uno Stato contraente e pagati ad un residente dell’altro Stato contraente sono imponibili in detto altro Stato». (100) Circolare 23 maggio 2017, n. 17/E, 52. (101) «Gli utili derivanti dall’alienazione di ogni altro bene diverso da quelli menzionati nei paragrafi precedenti del presente articolo sono imponibili soltanto nello Stato contraente di cui l’alienante è residente». (102) Circolare 23 maggio 2017, n. 17/E, 52.
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ne Italia-Regno Unito (103), grazie alla c.d. lettura “a specchio” dell’art. 23, comma 1, lett. c), TUIR (che li considera redditi “non prodotti” nel territorio dello Stato), è possibile concludere ancora che l’Italia sarà “soddisfatta” con il versamento dell’imposta sostitutiva annua. Ebbene, la stessa operazione ermeneutica dovrà essere svolta per le rimanenti fonti di reddito localizzate in Germania, Paesi Bassi e Belgio, le quali – con soluzioni analoghe a quelle già viste per il Regno Unito – risultano tutte ricomprese sotto l’ombrello di operatività dell’imposta sostitutiva annua prevista dall’art. 24-bis TUIR. Successivamente alla risposta positiva all’interpello così strutturato, i due coniugi neo-residenti saranno tenuti a provvedere ai periodici versamenti annuali, il primo dei quali con scadenza al 30 giugno 2020, dell’imposta sostitutiva complessiva di € 125.000 (i.e. € 100.000 + € 25.000), nonché a presentare il Modello UNICO 2019 entro il 30 settembre 2020. 4.5. Il regime fiscale per i titolari di redditi pensionistici di fonte estera. – I timori di coloro che vedevano nel Governo “gialloverde”, in carica dal 2018 al 2019, un potenziale rischio di smantellamento del regime ex art. 24-bis TUIR si sono dissipati allorquando questo ha deciso non solo di non metterci mano, ma altresì di affiancarlo con un articolo successivo volto ad attrarre i pensionati titolari di pensioni estere. L’art. 24-ter TUIR (104) stabilisce, infatti, che i contribuenti residenti, da almeno cinque anni, in Stati con cui l’Italia ha siglato accordi convenzionali che prevedono lo scambio di informazioni, titolari di pensioni estere e che si trasferiscono in Comuni del “Mezzogiorno” (i.e. Sicilia, Calabria, Sardegna, Campania, Basilicata, Abruzzo, Molise e Puglia) con meno di 20.000 abitanti (105) a partire dal 1° gennaio 2019 (106), possono esercitare l’opzione
(103) «La partecipazione agli utili, i gettoni di presenza e le altre retribuzioni analoghe che un residente di uno Stato contraente riceve in qualità di membro del consiglio di amministrazione o del collegio sindacale di una società residente dell’altro Stato contraente sono imponibili in detto altro Stato». (104) Introdotto dall’art. 1, comma 273, Legge 30 dicembre 2018, n. 145 (Bilancio 2019). (105) Il Provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate 31 maggio 2019, prot. n. 167878, § 1.4, chiarisce che, a tal fine, deve considerarsi «il dato riferito a tale Comune come risultante dalla “Rilevazione comunale annuale del movimento e calcolo della popolazione” pubblicata sul sito dell’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT) riferito al 1° gennaio dell’anno antecedente al primo anno di validità dell’opzione». (106) Ibidem, § 1.1.
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(sempre revocabile) per una tassazione forfetaria ai fini IRPEF (e relative addizionali) con aliquota unica del 7%. Inizialmente, si prevedeva un termine massimo di cinque anni per tale agevolazione, ma il Decreto crescita lo ha esteso a nove anni, sempre a patto che durante tutto il periodo dell’opzione la residenza rimanga in Comuni con tali parametri abitativi. Oltre al requisito soggettivo, risulta essenziale che l’istante percepisca un assegno pensionistico ex art. 49, comma 2, lett. a), TUIR, da parte di un ente previdenziale estero (107), ben potendo assoggettare all’imposta sostitutiva i «redditi di qualunque categoria, o prodotti all’estero». Siffatta formulazione, emergente dall’ultima modifica operata dal Decreto crescita che ha eliminato l’inciso “percepiti da fonte estera”, permette di includere nel perimetro dell’imposta sostitutiva – con possibilità di esercitare il c.d. cherry picking per alcuni Stati esteri, se risultasse più conveniente il regime “naturale” emergente dalle regole pattizie – tutti i redditi prodotti all’estero individuati sulla base di criteri reciproci a quelli previsti dall’art. 23 TUIR (i.e. in base alla già menzionata c.d. lettura “a specchio”). A differenza del regime dei neo-residenti (108), qui sono assoggettate all’imposta del 7% anche le eventuali plusvalenze derivanti dalla cessione di partecipazioni qualificate e non è prevista alcuna esenzione dall’imposta sulle successioni e donazioni per asset esteri. Questo risulta, quindi, un intervento che realizza il duplice fine di attrarre pensionati stranieri per permettergli di trascorrere il buen retiro in Italia, nonché di ripopolare le piccole realtà municipali del Sud e delle Isole con contribuenti dotati di capacità di spesa. 5. La percezione “paradisiaca” dell’Italia sotto il profilo dei tributi sulle successioni e donazioni. – A differenza di vari ordinamenti che prevedono aliquote sull’imposta di successione che si attestano intorno al 40% (e.g. Regno Unito, Francia, Stati Uniti, etc.), l’Italia è tutt’oggi considerata un’isola felice
(107) Con la Risposta all’interpello 30 agosto 2019, n. 353, è stato infatti chiarito che, «la circostanza che il reddito percepito venga erogato dall’INPS, soggetto residente in Italia, esclude che l’istante possa usufruire del regime di favore di cui all’art. 24-ter del TUIR, nell’ipotesi in cui decida di trasferire la propria residenza fiscale in Italia dopo aver maturato il periodo minimo di residenza estera richiesto dalla norma agevolativa (cinque periodi d’imposta)». (108) Di cui, però, condivide l’esenzione dalla compilazione del Quadro RW, nonché del pagamento di IVIE ed IVAFE.
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da questo punto di vista (109). Come noto, i trasferimenti nei confronti di: i. coniugi e parenti in linea retta sono tassati con aliquota al 4%, applicabile oltre la franchigia di € 1 milione; ii. fratelli e sorelle sono tassati con aliquota al 6%, applicabile oltre la franchigia di € 100.000; iii. altri parenti fino al quarto grado, affini in linea retta ed affini in linea collaterale fino al terzo grado, sono tassati con aliquota al 6%, senza franchigia; iv. altri soggetti sono tassati con aliquota all’8%, senza franchigia; v. portatori di handicap “grave” ex Legge 5 febbraio 1992, n. 104, sono tassati con aliquota al 4%, 6% o 8% (a seconda del rapporto di parentela), applicabile oltre la franchigia di € 1,5 milioni. Questo quadro, significativamente vantaggioso se comparato con le scelte legislative della maggior parte degli ordinamenti, costituisce un ulteriore incentivo per i soggetti non residenti “ad alta capacità contributiva” che intendono trasferirsi in Italia, ma anche per gli stessi residenti che intendano anticipare, con atti inter vivos, la propria successione prima di un annunciato inasprimento della fiscalità. In tal senso, la Proposta di Legge Scotto n. 3855, presentata alla Camera dei Deputati il 24 maggio 2016, richiamandosi proprio a quegli ordinamenti stranieri che incamerano maggiori risorse attraverso una tassazione pesante connessa al trasferimento di beni a titolo gratuito inter vivos o mortis causa, evidenzia come «una modifica dell’imposizione fiscale sulla successione – con l’accentuazione delle aliquote sui trasferimenti di valore più elevato unita a un abbassamento delle franchigie – risponderebbe a quattro obiettivi importanti: – favorire sul lungo periodo una più significativa mobilità sociale; ridurre le disuguaglianze; – limitare l’effetto perverso dell’immobilizzazione dei capitali in patrimoni e in rendite invece del loro utilizzo per gli investimenti economici e produttivi; – aumentare la capacità di spesa pubblica per i servizi sociali a favore dei cittadini. Un’imposta di successione con un’adeguata aliquota (molto superiore a quella più alta) per i trasferimenti di beni milionari è dunque un’esigenza di giustizia sociale, di mobilità sociale e di buon funzionamento dell’economia».
(109) Sul punto, v. N. Saccardo, Italy, in G. Maisto (a cura di), Death as a taxable event and its international ramifications, IFA Cahiers, n. 95B, The Hague, 2010, 467 ss.
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Siffatta Proposta prevede l’abbassamento della «franchigia dall’attuale milione di euro a 500.000 euro e innalzando l’imposizione fiscale dal 4 al 7 per cento per il coniuge e i parenti in linea retta, dal 6 all’8 per cento per i fratelli e le sorelle, dal 6 al 10 per cento su tutto il valore ereditato per i parenti fino al quarto grado e affini in linea retta e dall’8 al 15 per cento su tutto il valore ereditato da altri soggetti. Le stesse modifiche sono apportate alle aliquote relative all’imposizione sulle donazioni. Inoltre è previsto, con un comma aggiuntivo, che per un valore ereditato superiore a 5 milioni di euro l’imposizione fiscale ordinaria sia triplicata». Orbene, tale riforma, per il momento arenatasi tra gli scranni parlamentari, non solo allineerebbe l’Italia al livello medio di imposizione sulle successioni, ma risulterebbe particolarmente penalizzante per i trasferimenti di grandi patrimoni (110). 6. Alcuni spunti, in chiave di pianificazione successoria, per i c.d. neoresidenti. – Al fine di comprendere in che modo un neo-residente possa sfruttare al meglio il proprio trasferimento in Italia anche ai fini del tributo successorio, è opportuno soffermarsi preliminarmente sui due criteri di territorialità prescelti dal legislatore italiano all’art. 2, D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 346 (Testo Unico Successioni, TUS): – la residenza del de cuius (o del donante) al momento dell’apertura della successione (o della donazione), da cui discende che l’imposta è dovuta in relazione a tutti i beni e diritti trasferiti, ovunque risultino situati (principle of worldwide taxation); – la localizzazione o meno dell’oggetto del trasferimento sul territorio nazionale, da cui discende che l’imposta e dovuta solo su beni e diritti esistenti in Italia (principle of territoriality). In base all’interpretazione maggioritaria, il concetto di “residenza” di cui all’art. 2, comma 1, TUS, risulterebbe più ristretto rispetto a quello emergente dall’art. 2 TUIR sopra analizzato e, segnatamente, identificherebbe la residen-
(110) Per intendersi, per coniugi e parenti in linea retta, verrebbe introdotta la franchigia di € 500.000 e l’aliquota applicabile sarebbe pari al 7%. Per fratelli e sorelle, ferma restando la franchigia a € 100.000, l’aliquota diventerebbe dell’8%. Per gli altri parenti fino al 4° grado, nonché per gli affini in linea retta, l’aliquota diventerebbe del 10%, mentre per tutti gli altri soggetti del 15%. Se, però, il valore ereditato superasse € 5 milioni, in luogo delle citate aliquote avremmo rispettivamente 21%, 24%, 30% e 45%.
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za civilistica, cioè lo Stato in cui è ravvisabile la dimora abituale del de cuius (o del donante) ex art. 43, comma 2, c.c. Orbene, si è già visto che il regime opzionale di cui all’art. 24-bis TUIR prevede un’esenzione totale dall’imposta di donazione e successioni di tutti i trasferimenti riguardanti beni ubicati fuori dal territorio nazionale (111), purché non situati in Stati espressamente esclusi dall’area dell’opzione attraverso il c.d. cherry picking (112). L’art. 1, comma 158, Legge 11 dicembre 2016, n. 232, ha, infatti, previsto che «per le successioni aperte e le donazioni effettuate nei periodi d’imposta di validità dell’opzione esercitata dal dante causa, ai sensi dell’art. 24-bis TUIR, introdotto dal comma 152, l’imposta sulle successioni e donazioni di cui al D.Lgs. 346/90 è dovuta limitatamente ai beni e ai diritti esistenti nello Stato al momento della successione o della donazione». Tale esenzione, oltre a rappresentare una chiara deroga ai criteri di territorialità poc’anzi rammentati, appare particolarmente interessante perché prescinde dalla residenza dell’erede o del donatario, nonché dalla circostanza che detti soggetti risultino essere familiari a cui si estende il perimetro applicativo dell’imposta sostitutiva. Inoltre, l’esenzione opererà anche per tutti quei trasferimenti di beni localizzati all’estero effettuati da un familiare “al seguito” del neo-residente trasferitosi in Italia e, per il quale, quest’ultimo ha espressamente richiesto l’applicazione dell’opzione di cui all’art. 24-bis TUIR. Sul punto, la prassi ha abbracciato un’interpretazione estensiva, ritenendo che l’ambito oggettivo di applicazione dell’esenzione non sia limitato esclusivamente a successioni e donazioni (purché effettuate all’interno della forbice temporale di validità dell’opzione), ma in generale a tutti gli «atti a titolo gratuito», considerato che l’art. 2, comma 47, D.L. 3 ottobre 2006, n. 262 (convertito dalla Legge 24 novembre 2006, n. 286) reintroduce l’imposta sulle
(111) Come osserva P. Puri, Profili di interesse notarile del regime tributario di favore per i cd. “neo residenti”, Consiglio Nazionale del Notariato, Studio n. 100-2017/T, 6 luglio 2017, 5, «l’agevolazione in esame consiste non già, come avviene invece per le imposte sul reddito, in un’imposizione sostitutiva (la quale comporta la necessità di operare un calcolo di convenienza), bensì in una vera e propria esenzione totale su talune fattispecie altrimenti colpite dal tributo (beni e diritti esistenti all’estero). Il che lascia supporre un potenziale impatto sulle strategie di pianificazione patrimoniale». (112) È sempre P. Puri, Op. ult. cit., 7, a rilevare che, in tali ipotesi, «i beni collocati in Stati nei cui confronti è stata esclusa l’operatività dell’opzione ai fini dell’imposta sul reddito, dovrebbero, anche se “esteri”, tornare a scontare l’imposizione ordinaria (sempreché si tratti di residente, oltreché ai sensi dell’art. 2 TUIR, anche ai sensi dell’art. 2 TUS)».
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successioni e donazioni, specificandone l’applicabilità anche alla «costituzione di vincoli di destinazione» (113). Conseguentemente, l’esenzione in questione sarà applicabile a: donazioni formali, informali e indirette; atti di costituzione di rendite o pensioni; atti di trasferimento della proprietà; atti di costituzione di diritti reali di godimento; atti di rinuncia a diritti reali di credito; conferimento di beni in trust; creazione di un fondo patrimoniale. Questa, al contrario, non sarà applicabile ai trasferimenti di beni o diritti localizzati all’estero in favore del neo-residente (o di un suo familiare “al seguito”) da parte di un dante causa residente in Italia: queste operazioni risulteranno, dunque, assoggettate alle aliquote ordinarie. Siffatto scenario offre un discreto margine di manovra da parte dei contribuenti, la cui pianificazione dovrà presupporre: i. una preliminare mappatura del patrimonio ubicato fuori dall’Italia; ii. una valutazione di convenienza rispetto alla disciplina ordinaria (considerando le varie franchigie, le esenzioni o altre agevolazioni applicabili); iii. un’attenta analisi della normativa, civilistica e fiscale, dello Stato (o degli Stati) in cui si trovano i beni esteri ed in cui sono residenti i beneficiari del trasferimento liberale (i.e. i donatari o gli eredi); iv. lo studio dell’eventuale trattato bilaterale siglato con l’Italia (114). Considerato che il regime opzionale de quo ha una durata massima di quindici anni sotto il profilo dell’imposta sostitutiva, il medesimo periodo risulta altresì l’ambito temporale entro il quale il neo-residente (o un suo familiare “al seguito”) può effettuare liberalità di beni o diritti localizzati all’estero, beneficiando dell’esenzione in parola. In concreto, prima di effettuare l’operazione il contribuente dovrà fare una duplice verifica. Oltre ad accertarsi che il trasferimento inter vivos o mortis causa si collochi temporalmente all’interno del periodo di validità dell’opzione, dovrà assicurarsi che successivamente a detto trasferimento, ma prima della fine del periodo di imposta in cui esso è avvenuto, non si sia verificata alcuna causa di decadenza o revoca dal regime opzionale, circostanza che
(113) Circolare 23 maggio 2017, n. 17/E, § 5.3. (114) Ad oggi, l’Italia ha concluso solamente sette Convenzioni contro le doppie imposizioni in materia di imposta sulle successioni e, di queste, solo una (i.e. quella con la Francia) trova applicazione anche nei confronti delle donazioni: Convenzioni Italia-Stati Uniti (30 marzo 1955), Italia-Svezia (20 dicembre 1956), Italia-Grecia (13 febbraio 1964), ItaliaRegno Unito (15 febbraio 1966), Italia-Danimarca (10 marzo 1966), Italia-Israele (22 aprile 1968) e Italia-Francia (20 dicembre 1990).
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farebbe venire meno l’esenzione dall’imposta sulle successioni e donazioni con efficacia ex tunc. Al fine di sgombrare qualsiasi dubbio interpretativo, soprattutto nelle rare ipotesi in cui il neo-residente non abbia esperito la procedura di interpello probatorio (ma eserciti l’opzione direttamente in dichiarazione, presentandola entro il 30 settembre), risulta preferibile che la liberalità di beni esteri non venga fatta nel primo periodo di validità dell’opzione (perché verosimilmente il trasferimento avviene a cavallo dell’anno), ma a partire da quello immediatamente successivo (i.e. in cui verrà fatto il primo versamento della flat tax alla data del 30 giugno), cioè quando il regime opzionale è ormai… “a regime”. 6.1. Segue. La cessione delle c.d. partecipazioni qualificate nel primo quinquennio successivo al trasferimento di residenza. – La disciplina dei neoresidenti esclude espressamente dall’ombrello dell’imposta sostitutiva di € 100.000 annui i redditi di cui all’art. 67, comma 1, lett. c), TUIR (115), «re-
(115) Tale norma include nella categoria dei redditi diversi «le plusvalenze realizzate mediante cessione a titolo oneroso di partecipazioni qualificate. Costituisce cessione di partecipazioni qualificate la cessione di azioni, diverse dalle azioni di risparmio, e di ogni altra partecipazione al capitale od al patrimonio delle società di cui all’articolo 5, escluse le associazioni di cui al comma 3, lettera c), e dei soggetti di cui all’articolo 73, comma 1, lettere a), b) e d), nonché la cessione di diritti o titoli attraverso cui possono essere acquisite le predette partecipazioni, qualora le partecipazioni, i diritti o titoli ceduti rappresentino, complessivamente, una percentuale di diritti di voto esercitabili nell’assemblea ordinaria superiore al 2 o al 20 per cento ovvero una partecipazione al capitale od al patrimonio superiore al 5 o al 25 per cento, secondo che si tratti di titoli negoziati in mercati regolamentati o di altre partecipazioni. Per i diritti o titoli attraverso cui possono essere acquisite partecipazioni si tiene conto delle percentuali potenzialmente ricollegabili alle predette partecipazioni. La percentuale di diritti di voto e di partecipazione è determinata tenendo conto di tutte le cessioni effettuate nel corso di dodici mesi, ancorché nei confronti di soggetti diversi. Tale disposizione si applica dalla data in cui le partecipazioni, i titoli ed i diritti posseduti rappresentano una percentuale di diritti di voto o di partecipazione superiore alle percentuali suindicate. Sono assimilate alle plusvalenze di cui alla presente lettera quelle realizzate mediante: 1) cessione di strumenti finanziari di cui alla lettera a) del comma 2 dell’articolo 44 quando non rappresentano una partecipazione al patrimonio; 2) cessione dei contratti di cui all’articolo 109, comma 9, lettera b), qualora il valore dell’apporto sia superiore al 5 per cento o al 25 per cento del valore del patrimonio netto contabile risultante dall’ultimo bilancio approvato prima della data di stipula del contratto secondo che si tratti di società i cui titoli sono negoziati in mercati regolamentati o di altre partecipazioni. Per le plusvalenze realizzate mediante la cessione dei contratti stipulati con associanti non residenti che non soddisfano le condizioni di cui all’articolo 44, comma 2, lettera a), ultimo periodo, l’assimilazione opera a prescindere dal valore dell’apporto; 3) cessione dei contratti di cui al numero precedente qualora il valore dell’apporto sia superiore al 25 per cento dell’ammontare dei beni dell’associante determinati in base alle disposizioni previste del comma 2 dell’articolo 47 del citato testo unico».
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alizzati nei primi cinque periodi di validità dell’opzione, i quali rimangono soggetti al regime ordinario di imposizione di cui all’articolo 68, comma 3». La scelta legislativa di escludere (temporaneamente) le c.d. partecipazioni qualificate dall’imposizione sostitutiva ha «un’evidente finalità antielusiva» ed «è volta a evitare che la persona fisica che detiene una partecipazione qualificata in un’entità estera, suscettibile di produrre una considerevole plusvalenza, trasferisca la sua residenza in Italia al solo fine di godere della tassazione agevolata. Infatti, una volta assolta l’imposizione sostitutiva di centomila euro, il medesimo soggetto potrebbe decidere di trasferirsi nuovamente in altro Stato, neutralizzando così la portata della misura attrattiva» (116). Ciononostante, né il legislatore né la stessa Amministrazione finanziaria hanno escluso l’applicabilità dell’esenzione dall’imposta sulle successioni e donazioni ai trasferimenti delle partecipazioni qualificate effettuati nel primo quinquennio, con la conseguenza che dovrebbe trovare applicazione la norma agevolativa di cui all’art. 3, comma 4-ter, TUS (117). Se, quindi, cadessero in successione delle partecipazioni sociali, tale trasferimento sarà soggetto all’imposta secondo le regole ordinarie, a meno che non si presentino le condizioni cumulative individuate dalla citata disposizione. E, cioè, che: 1) il trasferimento riguarda partecipazioni sociali: – di soggetti di cui all’art. 73, comma 1, lett. a), TUIR, quindi di «società per azioni e in accomandita per azioni, le società a responsabilità limitata, le società cooperative e le società di mutua assicurazione, nonché le società
(116) Circolare 23 maggio 2017, n. 17/E, § 2.4. (117) La vigente formulazione di tale norma stabilisce che «i trasferimenti, effettuati anche tramite i patti di famiglia di cui agli articoli 768-bis e seguenti del codice civile a favore dei discendenti e del coniuge, di aziende o rami di esse, di quote sociali e di azioni non sono soggetti all’imposta. In caso di quote sociali e azioni di soggetti di cui all’articolo 73, comma 1, lettera a), del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, il beneficio spetta limitatamente alle partecipazioni mediante le quali è acquisito o integrato il controllo ai sensi dell’articolo 2359, primo comma, numero 1), del codice civile. Il beneficio si applica a condizione che gli aventi causa proseguano l’esercizio dell’attività d’impresa o detengano il controllo per un periodo non inferiore a cinque anni dalla data del trasferimento, rendendo, contestualmente alla presentazione della dichiarazione di successione o all’atto di donazione, apposita dichiarazione in tal senso. Il mancato rispetto della condizione di cui al periodo precedente comporta la decadenza dal beneficio, il pagamento dell’imposta in misura ordinaria, della sanzione amministrativa prevista dall’articolo 13 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 471, e degli interessi di mora decorrenti dalla data in cui l’imposta medesima avrebbe dovuto essere pagata».
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europee di cui al regolamento (CE) n. 2157/2001 e le società cooperative europee di cui al regolamento (CE) n. 1435/2003 residenti nel territorio dello Stato»; e, inoltre, – è in grado di permettere di acquisire o integrare «il controllo ai sensi dell’articolo 2359, primo comma, numero 1), del codice civile», norma che identifica il concetto di controllo “di diritto” in presenza della «maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria»; 2) l’esercizio dell’attività deve essere proseguito per almeno cinque anni, nonché deve essere mantenuto il controllo “di diritto”. La condicio sine qua non per l’applicabilità della norma in questione è rappresentata dal fatto che il beneficiario del trasferimento delle quote sociali come meglio identificate sub 1), per un periodo non inferiore a cinque anni dalla data del trasferimento: – prosegua l’attività d’impresa, in tutte le ipotesi in cui il trasferimento abbia avuto ad oggetto aziende o rami di esse; e – detenga il controllo societario. Questa ipotesi, evidentemente, ricorre ogniqualvolta il trasferimento abbia ad oggetto quote sociali e azioni di soggetti di cui all’art. 73, comma 1, lett. a), TUIR.; 3) gli aventi causa facciano, nell’atto di donazione o nella dichiarazione di successione, una dichiarazione espressa per fruire dell’agevolazione, attraverso la quale venga palesata la loro volontà di: – proseguire l’attività di impresa; ovvero di – mantenere il controllo societario. La ratio della disposizione è chiaramente rinvenibile nella volontà del legislatore di «favorire il passaggio generazionale delle aziende di famiglia e, pertanto, non può considerarsi applicabile al trasferimento di quei titoli che, per loro natura, non permettono di attuare tale passaggio (ad esempio, titoli obbligazionari). Per analoghi motivi, l’esenzione non può trovare applicazione nei casi in cui beneficiario sia un soggetto societario o una persona fisica che non sia “discendente” o “coniuge” del dante causa» (118). Al riguardo, la verifica del requisito dell’acquisizione o integrazione del controllo previsto per la fruizione dell’agevolazione de qua deve essere effettuata anche in considerazione di quanto disposto dal secondo comma dell’art. 2359 c.c., secondo cui «ai fini dell’applicazione dei numeri 1) e 2) del primo comma si computa-
(118) Circolare 22 gennaio 2008, n. 3/E.
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no anche i voti spettanti a società controllate, a società fiduciarie e a persona interposta: non si computano i voti spettanti per conto di terzi» (119). Tale aspetto riveste un indubbio interesse per quanto attiene il profilo della pianificazione successoria del neo-residente. 7. Conclusione. – Attraverso questi nuovi regimi fiscali opzionali, il legislatore si mette in concorrenza (lecita) con altri paesi, offrendo delle alternative che vengono apprezzate da HNWIs, pensionati stranieri, ricercatori e professori residenti all’estero, manager con elevate qualificazioni e, da ultimo, anche sportivi professionisti. Sul piano sistematico, fa però riflettere il fatto che le sempre più incisive iniziative dell’OCSE finalizzate a colmare le asimmetrie delle norme tributarie nazionali e, così, contrastare la c.d. doppia non-imposizione (120), non siano state ancora in grado di coordinare il frammentario quadro delle varie discipline fiscali finalizzate ad attrarre le persone fisiche (121). L’accrescimento di appeal italiano per gli individui non residenti – il cui obiettivo di fondo consiste nell’attrarre materia imponibile (122), ma anche consumi – impone, tuttavia, alcune brevi riflessioni circa la compatibilità con i principi costituzionali che regolano il diritto tributario, con particolare riguardo ai neo-residenti e agli impatriati. Ma andiamo per ordine. Posto che il regime dei neo-residenti determina una élite di nuovi contribuenti, in virtù del proprio trasferimento di residenza e della propria significativa forza economica, sono del tutto comprensibili i dubbi da taluno avanzati circa la sua compatibilità con i principi di uguaglianza e capacità contributiva sanciti agli artt. 3 e 53 Cost.
(119) Risoluzione 26 luglio 2010, n. 75/E. (120) Su cui, v. per tutti M. Lang, Avoidance of double non-taxation, Wien, 2003. (121) In questo senso, v. anche G. Beretta, Cross-border mobility of individuals and the lack of fiscal policy coordination among jurisdictions (even) after the BEPS Project, in Intertax, 2019, 91 ss. (122) Sempre per fare un paragone con il Regno Unito, basti pensare che nel periodo d’imposta 2012-2013, le autorità fiscali britanniche hanno stimato che le circa 114.800 persone che si sono qualificate come non doms hanno versato nelle casse erariali £ 8,2 miliardi: un ammontare paragonabile a quanto incassato da circa 10 milioni contribuenti “medio-bassi” britannici. Così, A. Kirk, Non-doms in numbers: how 115,000 non-doms pay as much tax as 10 million low-income workers, in Telegraph, 8 aprile 2015.
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Sul punto, vi è chi, inquadrando detto regime in chiave squisitamente agevolativa, reputa che la disciplina di cui all’art. 24-bis risulti «verosimilmente incostituzionale» (123). Orbene, per tentare di pervenire ad una conclusione opposta, deve innanzitutto prendersi atto della posizione della Corte Costituzionale (124) secondo cui il sistema impositivo, ben potendo essere “modulato”, non può essere censurato per scelte di politica fiscale che esprimono la discrezionalità del legislatore e che possono «trovare giustificazione nella peculiarità della situazione soggetta ad imposta sostitutiva, non risultando, al contempo, arbitrarie, irragionevoli o sproporzionate» (125). La giurisprudenza costituzionale, insomma, ammetterebbe differenziazioni impositive, delimitando la loro eventuale censura alle sole ipotesi in cui la discrezionalità del legislatore sia stata esercitata eccedendo i canoni di ragionevolezza o proporzionalità (126).
(123) Così, G. Salanitro, Profili sistematici dell’imposta sostitutiva per le persone fisiche che trasferiscono la residenza in Italia (cd. “flat tax per neo-residenti”), in Riv. dir. trib., 2018, I, 84. (124) V. per tutti, Corte cost., 11 febbraio 2015, n. 10, in GT - Riv. giur. trib., 2015, 384 ss., con nota di P. Boria, L’illegittimità costituzionale della “Robin Hood Tax”. E l’enunciazione di alcuni principi informatori del sistema di finanza pubblica, ivi, 388 ss., ove si rileva che «secondo gli orientamenti costantemente seguiti da questa Corte, non ogni modulazione del sistema impositivo per settori produttivi costituisce violazione del principio di capacità contributiva e del principio di eguaglianza. Tuttavia, ogni diversificazione del regime tributario, per aree economiche o per tipologia di contribuenti, deve essere supportata da adeguate giustificazioni, in assenza delle quali la differenziazione degenera in arbitraria discriminazione. In ordine ai principi di cui agli artt. 3 e 53 Cost., la Corte è, dunque, chiamata a verificare che le distinzioni operate dal legislatore tributario, anche per settori economici, non siano irragionevoli o arbitrarie o ingiustificate (sentenza n. 201 del 2014): cosicché in questo ambito il giudizio di legittimità costituzionale deve vertere “sull’uso ragionevole, o meno, che il legislatore stesso abbia fatto dei suoi poteri discrezionali in materia tributaria, al fine di verificare la coerenza interna della struttura dell’imposta con il suo presupposto economico, come pure la non arbitrarietà dell’entità dell’imposizione” (sentenza n. 111 del 1997; ex plurimis, sentenze n. 116 del 2013 e n. 223 del 2012)». (125) Così, E. Della Valle-M. Strafile, La nuova imposta sostitutiva sui redditi di fonte estera, in Fisco, 2016, 4349. (126) In Corte cost., (ord.) 24 luglio 2000, n. 341, in Giur. it., 2002, 353 ss., con nota di E. Esposito, Diritto transitorio e Corte costituzionale nel difficile cammino verso il “giusto processo”, ivi, veniva statuito che «la Costituzione non impone affatto una tassazione fiscale uniforme, con criteri assolutamente identici e proporzionali per tutte le tipologie di imposizione tributaria; ma esige invece un indefettibile raccordo con la capacità contributiva, in un quadro di sistema informato a criteri di progressività, come svolgimento ulteriore, nello specifico campo tributario, del principio di eguaglianza, collegato al compito di rimozione degli ostacoli
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Ricomposta in questi termini la questione, potrebbe allora sostenersi che la novella del 2016 sia stata guidata da una ragione c.d. extra-fiscale, consistente nel «favorire il rientro e/o il radicamento nel nostro Paese di capitali nomadi con conseguente, auspicabile rafforzamento del nostro apparato produttivo. Si tratta, in poche parole, di una sorta di calamita impositiva che risponde ad una logica che, in passato, ha già superato il vaglio di costituzionalità» (127). Se, dunque, come già evidenziato prima, la finalità di attrarre in Italia contribuenti abbienti, la cui presenza si traduce anche in maggiori consumi ed investimenti con generale beneficio per l’economia nazionale, può essere ritenuta una misura ragionevole, ci pare che l’assenza del carattere arbitrario o sproporzionato della disciplina sia desumibile anche dalla sua applicabilità entro un limite temporale massimo pari a quindici anni. Ad ogni buon conto, quand’anche si dovesse ritenere in linea di massima l’imposizione sostitutiva ex art. 24-bis TUIR non conforme al principio di capacità contributiva, parrebbe ardua una censurabilità costituzionale a causa dell’altamente improbabile possibilità che la questione venga portata dinanzi alla Consulta. Infatti, così come pare del tutto teorica l’emissione di un avviso di accertamento con cui il fisco pretenda l’applicazione dell’IRPEF ordinaria al soggetto che ha esercitato l’opzione (e.g. si potrebbe pensare ad un contribuente che erroneamente opti per il regime dell’art. 24-bis TUIR direttamente in dichiarazione, senza avere i requisiti soggettivi), lo è ancor di più quella del neo-residente che decida, per qualche ragione, di andare in contenzioso tributario. Solo in ipotesi di tal genere, il Giudice tributario potrebbe sollevare una questione di legittimità costituzionale. Ma anche in tale remota ipotesi, la Corte Costituzionale difficilmente cambierebbe il proprio consolidato orientamento in tema di agevolazioni fiscali e modulabilità del prelievo tributario e, nella ancor più inverosimile evenienza di una declaratoria di incostituzionalità, senz’altro dovrà limitare la portata della propria pronuncia solo ai periodi d’imposta futuri, facendo salvi quelli per cui i neo-residenti hanno già beneficiato del regime forfettario (128).
economico-sociali esistenti di fatto alla libertà ed eguaglianza dei cittadini-persone umane, in spirito di solidarietà politica, economica e sociale (artt. 2 e 3 della Costituzione)». (127) Così, ancora, E. Della Valle-M. Strafile, La nuova imposta sostitutiva sui redditi di fonte estera, in Fisco, 2016, 4349-4350. (128) Rileva R. Schiavolin, Sulla costituzionalità dell’imposta sostitutiva italiana per i cd. “neo residenti”, in Novità Fiscali, 2018, 442, che «in via puramente teorica, si potrebbe immaginare un processo su un avviso di accertamento che pretenda illegittimamente di
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Dette perplessità, seppur perfettamente legittime, parrebbero superabili sia in virtù della già menzionata “modulabilità” del prelievo fiscale sia perché il legislatore ha imperniato detto regime non tanto su una generica ratio agevolativa, quanto piuttosto sulla valorizzazione di un più flebile criterio di collegamento con il territorio (almeno nella fase iniziale di insediamento) di soggetti che effettivamente non sono stati residenti in Italia per un lungo periodo e che, forse, non vi si sarebbero altrimenti mai trasferiti: collegamento che, però, diviene radicato e solido col passare del tempo e, in ogni caso, entro un periodo massimo di quindici anni dall’esercizio dell’opzione. In altre parole, qui si rivela la scelta discrezionale del legislatore, il quale ha reputato che un soggetto che non sia stato residente in Italia negli ultimi nove anni su dieci risulti, inevitabilmente, meno integrato nel tessuto socioeconomico italiano rispetto agli altri residenti tout court che integrano appieno i requisiti richiesti dall’art. 2 TUIR, e, quindi, sia inizialmente ragionevole assoggettarlo in misura minore agli obblighi solidaristici (ivi compreso quello di contribuire alle spese pubbliche). Scelta che, peraltro, appare coerente con l’atteggiarsi del principio di capacità contributiva nei confronti delle c.d. fattispecie con elementi di estraneità. Calandosi nella prospettiva solidaristica, che ci pare meglio rappresentare il criterio-guida per leggere le norme tributarie con gli “occhiali” del principio sancito dal primo comma dell’art. 53 Cost. (129), rispetto al superato approccio del beneficio (130), l’introduzione di un criterio di collegamento soggettivo “intermedio” tra la residenza “ordinaria” e la non residenza, esprime correttamente un diverso grado di inserimento nella comunità nazionale
applicare l’IRPEF su redditi esteri assoggettati ad imposta sostitutiva, nel quale la Commissione tributaria sollevi questione di legittimità costituzionale dell’art. 24-bis TUIR. Se, per rendere questo scenario ancora più improbabile, la Corte Costituzionale inopinatamente abbandonasse la propria giurisprudenza in materia di sindacato sulle agevolazioni fiscali, affermando che l’art. 24-bis TUIR è incostituzionale in quanto fa strame del principio di eguaglianza tributaria, essa dovrebbe perlomeno limitare al futuro gli effetti di una tale sentenza, giacché sarebbe contro buona fede pretendere, per i periodi d’imposta precedenti, l’IRPEF su redditi assoggettati dalla normativa allora vigente ad un’imposta sostitutiva». (129) In questo senso, v. R. Cordeiro Guerra, Capacità contributiva e imposizione ultraterritoriale, in Id. (a cura di), Diritto tributario internazionale. Istituzioni, 2a ed., Padova, 2016, 108, secondo cui «il dovere di concorso alle pubbliche spese ha funzione ripartitoria e colorazione solidaristica, giacché consiste in un sacrificio del singolo per finalità che perseguono l’utilità dello stesso (in quanto membro della comunità) e quelle dell’intera collettività». (130) Sul punto, v. G. Falsitta, Manuale di diritto tributario. Parte generale, 10a ed., Padova, 2017, 149.
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e ne giustifica un’altrettanta diversa imposizione. In tal senso, si condivide la ricostruzione secondo cui «nei confronti di un soggetto in contatto con la collettività solo relativamente a specifici episodi sintomatici di idoneità alla contribuzione, ma non di un legame preferenziale e assorbente individuo-comunità, non troverebbe fondamento la chiamata a concorrere con tutte le proprie risorse alle spese pubbliche di quel gruppo sociale. Se la vita del soggetto si svolge pienamente nel contesto della collettività, l’integrazione è assorbente e massimo è il grado di condivisione degli oneri comuni; di conseguenza, l’obbligo di contribuire alle spese pubbliche è ragionevole che sia correlato a una idoneità alla partecipazione alle spese pubbliche del soggetto determinata tenendo in considerazione la sua attitudine complessiva a partecipare allo sforzo comune, anche se palesata da presupposti verificatisi fuori dai confini nazionali» (131). Ora, il caso del neo-residente esprime una categoria molto particolare di contribuente che per un significativo periodo di tempo non è stato residente in Italia: la norma prevede che non lo sia stato per almeno nove anni su dieci, ma nella gran parte dei casi gli istanti sono stranieri che non hanno mai hanno rivestito lo status di residente “ordinario” in Italia. Questa circostanza soggettiva di minor inserimento nella comunità è, di per sé, in grado di giustificare una correlata temporanea residenza “depotenziata” e, per l’effetto, una fiscalità più mite (132).
(131) Così, R. Cordeiro Guerra, Capacità contributiva e imposizione ultraterritoriale, in Id. (a cura di), Diritto tributario internazionale. Istituzioni, 2a ed., Padova, 2016, 110. (132) Osserva L. Peverini, Sulla legittimità costituzionale dell’art. 24 bis Tuir e sulla possibilità di differenziare il concorso alle spese pubbliche da parte dei residenti in funzione del grado di collegamento con il territorio, in Riv. dir. trib., 2019, I, 700-701, che «se il concorso alle spese pubbliche da parte di chi ha un certo collegamento con il territorio, avviene non in base al beneficio che egli ritrae dal pagamento dei tributi, ma avviene in base al fatto che, il far parte di una comunità implica come contropartita dei doveri di solidarietà, si ha un ulteriore motivo per ritenere ragionevole la modulazione che l’art. 24 bis opera in relazione al collegamento con il territorio, determinando un diverso grado di concorso alle spese pubbliche dei neo-residenti. Se l’ottica fosse, esclusivamente o almeno prevalentemente, quella del beneficio, allora una volta che un soggetto è residente ai sensi dell’art. 2, comma 2 Tuir, si potrebbe sostenere che beneficia delle spese pubbliche tanto quanto gli altri residenti (visto che la nozione di residenza è uguale per tutti). Se l’ottica è invece quella solidaristica di cui si è parlato sopra, e se la solidarietà deriva dal fatto di far parte di una comunità, si può allora ben dire che il “farne parte” di un “normale” residente è diverso da quello del neo-residente di cui all’art. 24 bis. Un neoresidente che negli ultimi nove anni su dieci non è stato residente in Italia, è certamente meno integrato (e lo sarà, secondo la discrezionale valutazione del legislatore, per quindici anni) degli altri residenti nella comunità. Questo fa sì che per i redditi prodotti all’estero (e solo per essi)
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Ma se queste riflessioni possono farsi in relazione all’art. 24-bis TUIR, molto meno agevole è il percorso in relazione al regime degli impatriati come emergente dalle ultime modifiche, per almeno due ordini di ragioni. In primo luogo, perché il requisito soggettivo minimo richiesto dal legislatore per poter accedere al regime consiste nel non essere stato residente in Italia per almeno i due periodi d’imposta antecedenti al trasferimento. Rispetto al ben più lungo periodo richiesto per i neo-residenti, qui siamo in presenza di un lasso di tempo estremamente esiguo e che non è affatto in grado di garantire un effettivo minore inserimento del soggetto nella collettività nazionale. Così come è strutturata, la norma si potrebbe prestare ad un uso (rectius abuso) da cittadini italiani che, per un mero biennio risultavano come residenti in un altro paese, pur mantenendo saldi i legami con il paese natìo, con una significativa disparità di trattamento nei confronti di contribuenti residenti che hanno una comparabile capacità reddituale. In secondo luogo, e forse questo è il punto maggiormente critico, il nuovo regime dei lavoratori impatriati stride vistosamente con il principio di capacità contributiva perché lo “sconto” che viene concesso riguarda i redditi prodotti in Italia e non, come per coloro che optano per il regime dell’art. 24-bis TUIR, per quelli di fonte estera. Non siamo, insomma, di fronte ad una forfettizzazione di una ricchezza prodotta all’estero di cui non si conosce (né si è interessati a conoscere) l’esatto ammontare, bensì di redditi prodotti in Italia, di cui si conosce precisamente l’entità. Sono due profili che, pur riguardando un regime che indubbiamente rende il paese Italia un “magnete fiscale” per gli stranieri e, contemporaneamente, per i datori di lavoro domestici, non permettono di sopire le perplessità di compatibilità costituzionale. Ciò detto, il significativo risparmio fiscale – anche delle cessioni inter vivos e mortis causa – deve preludere un’attenta analisi dei requisiti
egli possa optare per una imposta sostitutiva dell’Irpef. Il neo-residente dell’art. 24 bis Tuir è insomma un soggetto che ha un collegamento territoriale intermedio tra il non residente, e tutti gli altri residenti. Questo collegamento intermedio si è tradotto in Italia nella introduzione di una imposta sostitutiva per i redditi prodotti all’estero. Si tratta di una scelta che, come si è detto, appare pienamente in linea con la logica che, nella nostra Carta costituzionale, governa l’obbligo di concorso alle spese pubbliche. L’art. 24 bis non va inteso, in altri termini, come norma isolata, ma va inteso come norma volta a ridisegnare, all’interno dei soggetti che integrano i requisiti dell’art. 2, comma 2, il concetto di soggetto residente».
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soggettivi del contribuente non residente, soprattutto alla luce del paese in cui, successivamente al trasferimento, sarà localizzata la maggior parte della propria capacità contributiva. È evidente, per esempio, che nel caso degli sportivi professionisti sarà tendenzialmente conveniente optare per il regime degli impatriati, ma nell’ipotesi in cui questi dispongano di importanti fonti di reddito estere (e.g. royalties, sponsorizzazioni, dividendi distribuiti da società non residenti, sfruttamento dei diritti d’immagine, etc.), allora verosimilmente sarà preferibile optare per l’imposta sostitutiva di cui all’art. 24-bis TUIR. Sebbene i dati ministeriali indichino che nel corso del 2018 i cittadini italiani iscritti all’AIRE risultassero oltre sei milioni (133), in lieve crescita rispetto all’anno precedente (134), deve prendersi atto che le dichiarazioni relative all’anno d’imposta 2017 comprendono anche: i. 94 neo-residenti (135); ii. 1.624 docenti e ricercatori (136); iii. 3.208 contro-esodati (137); iv. 3.758 lavoratori impatriati (138). In un’ottica globale, si sono dunque moltiplicate le alternative che possono essere valutate dai cittadini italiani non residenti, europei ed extracomunitari, con particolare riguardo a coloro che risiedono in paesi caratterizzati da forte instabilità politica o che rischiano una deriva autoritaria (e.g. Turchia, Russia, etc.), che stanno attraversando un periodo bellico (e.g. Siria, ove molti migranti sono persone laureate o con elevate qualificazioni professionali) o, più semplicemente, che risiedono in paesi extraeuropei per
(133) Per l’esattezza 5.261.281 così ripartiti: 2.874.225 in Europa, 1.651.278 in America meridionale, 470.697 in America settentrionale e centrale, e 292.081 in Africa, Asia, Oceania e Antartide. Così, Decreto Interministeriale Interno-Esteri 13 febbraio 2019. (134) Secondo il Decreto Interministeriale Interno-Esteri 18 gennaio 2018, infatti, questi erano 5.114.469 così ripartiti: 2.770.175 in Europa, 1.596.632 in America meridionale, 461.287 in America settentrionale e centrale, e 286.375 in Africa, Asia, Oceania e Antartide. (135) In MEF, Statistiche sulle dichiarazioni fiscali. Analisi dei dati IRPEF. Anno d’imposta 2017, Roma, 2018, 23, si evidenzia che «dalle dichiarazioni per il 2017 risultano 94 soggetti che hanno compilato il quadro “NR – Nuovi residenti”; l’imposta risultante dai modelli F24 è pari a 8 milioni di euro. Hanno aderito all’agevolazione 75 soggetti come contribuenti principali e 19 soggetti come familiari a cui è stato esteso il regime agevolativo da parte del contribuente principale. Il 62% di tali soggetti ha prodotto in Italia un reddito complessivo pari a 5, milioni di euro rappresentato prevalentemente da reddito da lavoro dipendente (che rappresenta l’87% del totale)». (136) Ibidem, 25. (137) Ibidem, 25. (138) Ibidem, 25.
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cui l’Italia prevede delle quote annue di ingresso (e.g. Giappone, Corea del Sud, India, Nigeria, Egitto, etc.), le quali possono essere coniugate con le nuove agevolazioni contenute in materia di diritto dell’immigrazione.
Pietro Mastellone
Procedure concorsuali e processo tributario* Sommario: 1. I principali effetti delle procedure concorsuali: spossessamento,
cristallizzazione e concorso. – 2. Gli effetti dello spossessamento sulla soggettività tributaria. – 3. La legittimazione concorrente o suppletiva del fallito rispetto al curatore. – 4. L’interruzione del processo. – 5. La notifica della cartella esattoriale. – 6. Definitività del titolo e termini di prescrizione. – 7. Riparto di giurisdizione tra giudice fallimentare e giudice tributario in sede di accertamento del passivo fallimentare. – 8. Litisconsorzio tra ente impositore e agente della riscossione nelle impugnazioni dello stato passivo. – 9. Cenni sui recenti restyling in tema di transazione fiscale.
La concomitante specialità dell’ordinamento concorsuale e di quello tributario pone continui interrogativi sulle soluzioni da adottare nei casi di intersezione dei due sistemi normativi. Molto spesso, infatti, quando si manifesta la crisi o l’insolvenza dell’impresa è già pendente (o imminente) una controversia tributaria, il cui impatto sulle procedure concorsuali – avviate o da avviare – può rivelarsi decisivo, stante la frequente rilevanza
* Testo rivisto e aggiornato della relazione tenuta al corso di formazione “Il giudice civile ed il giudice tributario: fattispecie comuni e profili differenziali” organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura, in collaborazione con il Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria, presso la Corte Suprema di Cassazione, il 19-21 novembre 2018. Nell’aggiornamento si è tenuto conto: del d. lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 con cui è stato emanato il nuovo Codice della crisi di Impresa e dell’insolvenza (di seguito CCI), destinato ad entrare in vigore il 14 agosto 2020 (fatti salvi gli artt. 27, comma 1, 350, 356, 357, 359, 363, 364, 366, 375, 377, 378, 379, 385, 386, 387 e 388, entrati in vigore il 16 marzo 2019); della l. 8 marzo 2019, n. 20, recante «Delega al Governo per l’adozione di disposizioni integrative e correttive dei decreti legislativi adottati in attuazione della delega per la riforma delle discipline della crisi di impresa e dell’insolvenza, di cui alla legge 19 ottobre 2017, n. 155», con la quale verranno effettuate delle modifiche al CCI; della «Direttiva (UE) 2019/1023 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019 riguardante i quadri di ristrutturazione preventiva, l’esdebitazione e le interdizioni, e le misure volte ad aumentare l’efficacia delle procedure di ristrutturazione, insolvenza ed esdebitazione, e che modifica la Dir. (UE) 2017/1132 (Dir. sulla ristrutturazione e sull’insolvenza)» (di seguito Dir. (UE) 2019/1023), entrata in vigore il 16 luglio 2019, che dovrà essere recepita dall’Italia entro il 17 luglio 2021 (salve alcune disposizioni sull’uso dei mezzi di comunicazione elettronici il cui recepimento è stato dilazionato al 17 luglio 2024 e, per i mezzi di impugnazione, al 17 luglio 2026); della sentenza della Corte costituzionale n. 245 del 29 novembre 2019.. Salvo diversa indicazione nelle note, la giurisprudenza citata è stata reperita nelle banche dati di ItalgiureWeb e ilFallimentarista.
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dell’esposizione debitoria maturata verso l’Erario e gli Enti previdenziali. Nella procedura fallimentare – destinata a ridenominarsi “Liquidazione giudiziale” – le questioni più spinose riguardano la sovrapposizione di ruoli tra curatore e contribuente fallito e le regole del riparto di giurisdizione tra giudice fallimentare e giudice tributario. Nelle procedure concorsuali cd. minori – Concordato preventivo e Accordi di ristrutturazione dei debiti – è stato invece l’istituto della Transazione fiscale a rivelare, ormai da oltre un decennio, continue incertezze applicative. The concurrent speciality of Insolvency law and Tax law raises several questions on solutions to be adopted in case of intersections between the two regulatory systems. Very often, indeed, in the event of the crisis or the failure of a firm, tax disputes are pending (or imminent) and their impact on insolvency procedures may be decisive, since outstanding debts towards Tax Authorities and Social Security Institutions are generally relevant. In bankruptcy procedure – which is going to be renamed “Judicial liquidation” – the most crucial issues are related to the overlapping of roles (between the insolvency practitioner and the insolvent tax debtor) and to the rules on jurisdiction (of Tax and Ordinary Courts), while in the so-called minor procedures – Judicial composition with creditors and Debt restructuring agreement – it is the Tax settlement that has continually revealed, for more than a decade, uncertainties in its implementation.
1. I principali effetti delle procedure concorsuali: spossessamento, cristallizzazione e concorso. – Molte sono le teorie formulate sull’inquadramento del fenomeno fallimentare, variamente declinato, sotto il profilo oggettivo, in termini di pignoramento universale, esecuzione collettiva, separazione patrimoniale o vincolo di destinazione e, sotto il profilo soggettivo, in termini di interdizione o perdita della capacità di agire. È comunque pacifico che uno dei principali effetti della dichiarazione di fallimento (1) consista nel cd. spossessamento del debitore, ossia nella perdita «dell’amministrazione e della disponibilità dei suoi beni» (art. 42, co. 1, l.f.), da taluno estesa anche ai comportamenti omissivi che abbiano riflessi patrimoniali (come gli atti interruttivi della prescrizione o il decorso dell’usucapione a favore di terzi). Il fallito non
(1) Così come dell’apertura della liquidazione coatta amministrativa e delle varie forme di amministrazione straordinaria (d.lgs. 270/99, cd. decreto Prodi-bis; d.l. 347/03, cd. decreto Parmalat; d.l. 134/08, cd. decreto Alitalia; d.l. 281/04, cd. decreto Volare), ivi compresa la prima fase della dichiarazione di insolvenza, ove la gestione dell’impresa venga affidata al commissario giudiziale. Più in generale, gran parte delle questioni qui esaminate nell’ottica della procedura fallimentare riguardano anche le procedure di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi.
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perde dunque il diritto di proprietà e gli altri diritti vantati sul proprio patrimonio, bensì (solo) il potere di godere, amministrare e disporre dei beni, diritti, rapporti e facoltà che ne fanno parte (2). Con l’apertura del concorso, infatti, il potere di amministrare e gestire il patrimonio fallimentare viene attribuito al curatore (art. 31 l.f.) e ciò determina una scissione tra titolarità e legittimazione, riconducibile al fenomeno della sostituzione, operante ex lege (3). La persistente titolarità formale dei diritti fa sì che gli eventuali atti patrimoniali compiuti dal fallito non siano invalidi, bensì inefficaci rispetto alla massa dei creditori (art. 44, co. 1 e art. 45 l.f.) (4). Si tratta peraltro di una forma di inefficacia relativa, in quanto azionabile solo dalla curatela (5), mentre nei confronti dei terzi il fallito resta vincolato, anche se solo in futuro, dal momento in cui sarà tornato in bonis. Lo spossessamento determina pertanto una sorta di “segregazione” giuridica temporanea del patrimonio del fallito, che potrà riappropriarsi delle entità patrimoniali eventualmente residuate all’esito della soddisfazione dei creditori prededucibili e concorrenti. Peraltro, trattandosi di un effetto esclusivamente funzionale alle esigenze del concorso, esso è circoscritto in termini sia oggettivi (v. art. 46 l.f.) che temporali (v. art. 120 l.f.), sicché dopo la chiusura del fallimento (ed anche in assenza di integrale soddisfazione del ceto creditorio) il fallito riacquista la disponibilità dei diritti sorti prima della procedura e, laddove abbia beneficiato dell’esdebitazione, consegue anche la liberazione dai debiti residui, nei limiti previsti dall’art. 142 l.f. (6).
(2) Cfr. P. Vella, Sub Art. 42. Beni del fallito, in M. Ferro (a cura di), La legge fallimentare, Padova, 2014, 582. (3) R. Rosapepe, Effetti nei confronti del fallito, in V. Buonocore - A. Bassi (a cura di), Trattato di diritto fallimentare, I, Padova, 2010, 236; cfr. C. Costa, Gli effetti del fallimento sul fallito, in G. Ragusa Maggiore - C. Costa, Le procedure concorsuali. Il fallimento, Torino, 1997, 3 ss., in termini di sostituzione ex lege, in funzione non solo di una valenza liquidatoria “statica”, ma anche in chiave “dinamica”. In giurisprudenza v. Cass. Sez. II, 23 aprile 1993, n. 4776. (4) S. Bonfatti - P.f. Censoni, Manuale di diritto fallimentare, Padova, 2009, 109. (5) V. Cass. Sez. VI-1, 19 luglio 2016 n. 14737; conf. Cass. Sez. III, 11 gennaio 2007 n. 396. (6) L’art. 20, par. 2, della Dir. (UE) 2019/1023 dispone che, laddove gli Stati membri subordinino l’esdebitazione integrale «al rimborso parziale del debito», tale onere deve essere parametrato sulla situazione individuale del debitore ed in particolare deve essere proporzionato al reddito e al patrimonio di cui questi dispone durante il periodo fissato per il discharge, tenendo conto dell’equo interesse dei creditori.
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In ultima analisi, i diritti patrimoniali del fallito restano dunque in fase di quiescenza, in attesa di riespandersi al termine della liquidazione concorsuale. Lo spossessamento del debitore fallito è strettamente connesso al principio della par condicio creditorum, declinato tanto nel criterio della cd. universalità oggettiva (o concorso sostanziale) espresso dall’art. 42 l.f. – cui fanno da corollario l’art. 43 l.f. (perdita della legittimazione processuale del fallito), l’art. 44 l.f. (inefficacia relativa di atti e pagamenti posti in essere o ricevuti dal fallito dopo il fallimento) e l’art. 45 l.f. (inefficacia relativa delle formalità dirette a rendere opponibili gli atti compiuti prima del fallimento, sempre a presidio della intangibilità del patrimonio fallimentare) – quanto nel criterio della cd. universalità soggettiva, espresso dall’art. 52 l.f. nella cd. cristallizzazione del passivo (co. 1) e nella esclusività del cd. concorso formale (co. 2) – sicché, una volta che il creditore abbia scelto di far valere il proprio credito all’interno della procedura concorsuale, egli soggiace alle regole fissate nei sub-procedimenti di accertamento del passivo (artt. 92-103 l.f.) nonché di ripartizione dell’attivo (artt. 110-117 l.f.) – e ciò anche nei casi eccezionali di esonero ex lege dal divieto di azioni esecutive e cautelari sui beni compresi nel fallimento di cui all’art. 51 l.f. (co. 3). Con la precisazione che tra dette ipotesi eccezionali non figura più l’esecuzione esattoriale, avendo l’art. 16, d.lgs. n. 46 del 1999 eliminato la disposizione di cui all’art. 51, d.P.R. n. 602 del 1973 (per cui l’azione esecutiva del concessionario per la riscossione delle imposte dirette poteva essere esercitata anche in pendenza di fallimento). Come anticipato, nei rapporti processuali lo spossessamento si traduce in una sostituzione processuale del curatore al fallito (ex art. 81 c.p.c.), in tutte le controversie (pendenti e future) relative a rapporti di diritto patrimoniale del fallito compresi nel fallimento, nelle quali, a norma del primo comma dell’art. 43 l.f. «sta in giudizio il curatore», cui spetta pertanto la legittimazione processuale, tanto attiva, quanto passiva; peraltro, il secondo comma aggiunge che al fallito è consentito intervenire nel giudizio per le questioni dalle quali può dipendere un’imputazione di bancarotta a suo carico o se l’intervento è previsto dalla legge (7).
(7) Cass. sez. I, 14 maggio 2012, n. 7448; Cass. Sez. II, 20 marzo 2012, n. 4448 e 17 giugno 2010, n. 14624; cfr. Cass. Sez. I, 11 ottobre 2012 n. 17367, con riguardo all’intervento ad adiuvandum del curatore nel processo instaurato dal fallito, che non ne fa cessare la legittimazione cd. vicaria o suppletiva.
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Tuttavia, questo subentro del curatore non è tale da farlo ritenere un “successore” del fallito. Al riguardo, la giurisprudenza di legittimità ha sempre sottolineato che, rispetto agli interessi sottesi all’insinuazione al passivo fallimentare dei creditori concorsuali, «il curatore è da considerarsi terzo rispetto al rapporto giuridico posto a base della pretesa creditoria fatta valere con l’istanza di ammissione», con tutte le conseguenze che ne derivano non solo ai fini della disciplina sulla data certa ex art. 2704 c.c., ma anche dell’efficacia probatoria delle scritture ex art. 2710 c.c., dal momento che «il curatore certamente non è un imprenditore», essendogli viceversa «attribuibile esclusivamente la funzione di semplice gestore del patrimonio» fallimentare, e dovendosi perciò escludere «che la sua posizione sia quella successoria in un rapporto già facente capo al fallito» (8). Anche al di fuori del perimetro dell’accertamento del passivo, non si registra alcuna automaticità del subentro del curatore nella posizione del fallito, come emerge dalla disciplina dei rapporti pendenti, per i quali la legge risulta costantemente orientata all’obbiettivo di tutela degli interessi della massa dei creditori, affidando in linea di principio al curatore la valutazione – e agli altri organi fallimentari (g.d. o c.d.c.) l’autorizzazione – circa il subentro o lo scioglimento dal rapporto pendente (v. art. 72 l.f. e le ulteriori disposizioni speciali dettate negli artt. 72 bis – 83 bis l.f.). Diversamente, nella procedura di concordato preventivo si ha il cd. spossessamento attenuato, per cui l’imprenditore conserva l’amministrazione e la disponibilità dei propri beni, salve le limitazioni connesse alla natura della procedura; di conseguenza, stante il mancato richiamo dell’art. 43 l.f. ad opera dell’art. 169 l.f., l’imprenditore conserva la legittimazione processuale per tutti gli atti che attengono al suo patrimonio, ivi compresa la legittimazione a impugnare gli atti tributari, anche dopo l’ammissione al concordato preventivo e la nomina del commissario giudiziale (9). Nessun tipo di limitazione generano invece le ulteriori procedure concorsuali, come gli accordi di ristrutturazione dei debiti ex art. 182 bis l.f. ed ancor meno i piani di risanamento attestati ex art. 67, co. 3, lett d), l.f.
(8) V. Cass. Sez. U, 20 febbraio 2013 n. 4213, in Giust.civ., 2013, I, 305; conf. ex multis Cass. Sez. VI-1, 27 luglio 2017 n. 18682; Cass. Sez. I, 13 ottobre 2017 n. 24168. (9) V. ex plurimis Cass. Sez. V, 8 giugno 2011 n. 12422, in Rass.giur.trib., 2011, 1065; Cass. Sez. V, 13 dicembre 2013 n. 27897; Cass. Sez. V, 28 luglio 2017 n. 18823; cfr. Cass. Sez. V, 6 marzo 2007 n. 621; Cass. Sez. V, 25 febbraio 2008 n. 4728.
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Si discute se il debitore concordatario debba munirsi dell’autorizzazione giudiziale ex art. 167 l.f.; di certo, ove il giudice tributario rilevi un difetto di autorizzazione del giudice delegato o del tribunale, dovrà concedere, in applicazione del novellato art. 182 c.p.c., un termine per la regolarizzazione, decorso il quale dichiarerà estinto il giudizio per inattività delle parti, ai sensi dell’art. 307 c.p.c. Dopo l’omologazione del concordato, invece, si ritiene generalmente che la legittimazione in capo al contribuente permanga solo per le controversie relative a beni e rapporti non ricompresi nel piano concordatario, per le altre subentrando la legittimazione (in ipotesi concorrente) del commissario giudiziale o del liquidatore. Il fenomeno è stato declinato ora in termini di litisconsorzio necessario, ora in termini di diritto degli organi concorsuali di intervenire nel giudizio promosso dall’imprenditore. Questo aspetto, assai controverso, ha trovato un chiarimento nel CCI di futura applicazione, il cui art. 115 prevede che, nel concordato preventivo con cessione dei beni, il liquidatore giudiziale è legittimato ad esercitare o proseguire non solo «ogni azione prevista dalla legge finalizzata a conseguire la disponibilità dei beni compresi nel patrimonio del debitore e ogni azione diretta al recupero dei crediti» (co. 1), ma anche «l’azione sociale di responsabilità» (co. 2) – aggiungendo che «ogni patto contrario o ogni diversa previsione contenuti nella proposta o nel piano sono inopponibili al liquidatore e ai creditori sociali» – ferma restando «in ogni caso, anche in pendenza della procedura e nel corso della sua esecuzione, la legittimazione di ciascun creditore sociale a esercitare o proseguire l’azione di responsabilità prevista dall’art. 2394 del codice civile» (co. 3). Per riepilogare, in ambito fallimentare i principi di universalità oggettiva e soggettiva si traducono nel concorso sostanziale (per cui ciascun creditore può soddisfarsi proporzionalmente sul patrimonio del fallito, in base al criterio della par condicio creditorum, salve le cause legittime di prelazione) e nel concorso formale (per cui ogni credito soggiace al procedimento endofallimentare di accertamento del passivo), senza eccezione alcuna, nemmeno per i creditori esentati dal concorso sostanziale, come è ancora per l’esecuzione fondiaria (ed era un tempo per l’esecuzione esattoriale). Di conseguenza, per poter trovare soddisfazione in sede fallimentare, tutti i creditori per titoli sorti anteriormente al fallimento – secondo un criterio cronologico-genetico dell’obbligazione – hanno l’onere di presentare domanda conforme alle prescrizioni (anche a pena di inammissibilità) dell’art. 93 l.f., ivi compresi i creditori che, in deroga all’esclusività della competenza fallimentare (art. 24 l.f.), hanno diritto di far accertare l’an e il quantum dei
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loro crediti dinanzi alla giurisdizione tributaria (10). Si crea così un “doppio binario”, non scevro da difficoltà operative. 2. Gli effetti dello spossessamento sulla soggettività tributaria. – Il fenomeno dello spossessamento non comporta un mutamento di titolarità dell’obbligazione tributaria, che resta riferibile al contribuente (anche se) fallito. Sotto il profilo dei presupposti impositivi, infatti, il venir meno del potere del contribuente di disporre del proprio patrimonio non impedisce che il presupposto d’imposta maturi a suo carico, proprio perché, come detto, egli perde la sola disponibilità materiale dei beni, diritti e rapporti giuridici, non anche la loro titolarità formale. A mutare è invece il soggetto tenuto (e legittimato) a compiere gli adempimenti fiscali di pertinenza del patrimonio del fallito, che non è più quest’ultimo, bensì il curatore fallimentare; questi, peraltro, non ha un’autonoma soggettività tributaria, così come non ne ha la “procedura fallimentare”, la quale non è un autonomo soggetto d’imposta, anche perché, diversamente, ne resterebbe alterato il principio di unità e completezza del ciclo impositivo (11). Negli stessi casi di tassazione post-fallimentare, al verificarsi delle fattispecie impositive previste dalle singole leggi d’imposta, l’onere economico relativo al prelievo tributario incide sulla massa attiva fallimentare quale credito prededucibile sorto in occasione o per effetto della procedura (art. 111, co. 2, l.f.), salve le eccezioni previste dalla legge (ad es. per i tributi diretti, che ai sensi dell’art. 183 T.U.I.R. vengono soddisfatti a procedimento concluso, dopo che siano stati integralmente soddisfatti tutti i crediti, tanto prededucibili quanto concorrenti). Pertanto, il curatore fallimentare opera quale soggetto deputato per legge a compiere, in via surrogatoria, atti di natura tributaria che producono effetti nella sfera patrimoniale del fallito; solo in questi termini
(10) G.U. Tedeschi, L’accertamento del passivo, in A. Didone (a cura di), Le riforme delle procedure concorsuali, I, Milano, 2016, 809 ss. (11) Secondo M. Miccinesi, L’imposizione sui redditi nel fallimento e nelle altre procedure concorsuali, Milano, 1990, 55, l’unità e la completezza del ciclo impositivo sono «in funzione della unicità del soggetto al quale va riferita la ricchezza prodotta. Sicché, per quanto riguarda il fallimento, l’imputazione al medesimo e non al fallito dei risultati fiscali della liquidazione concorsuale spezzerebbe automaticamente tale unità, alterando la omogeneità del prelievo».
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può dirsi che egli “succede” al fallito nell’adempimento amministrativo degli obblighi tributari, stante il principio di tassatività di questi ultimi (12). Anche la giurisprudenza di legittimità ha sempre affermato che il contribuente dichiarato fallito «non è privato, a seguito della dichiarazione di fallimento, della sua qualità di soggetto passivo del rapporto tributario» (13), traendone costantemente la conseguenza per cui «l’accertamento tributario inerente a crediti i cui presupposti si siano determinati prima della dichiarazione di fallimento del contribuente, o nel periodo d’imposta in cui tale dichiarazione è intervenuta, deve essere notificato non solo al curatore, ma anche al contribuente, il quale non è privato, a seguito della dichiarazione di fallimento, della sua qualità di soggetto passivo del rapporto tributario» (14). 3. La legittimazione concorrente o suppletiva del fallito rispetto al curatore. – Sebbene l’art. 43, co. 2, l.f. disponga che «il fallito può intervenire nel giudizio solo per le questioni dalle quali può dipendere un’imputazione di bancarotta a suo carico, o se l’intervento è previsto dalla legge» e nonostante sia escluso che l’accertamento tributario faccia stato incondizionatamente in sede penale (15), dottrina e giurisprudenza riservano una costante attenzione al diritto di difesa del fallito, proprio in considerazione dei riflessi penalistici dell’accertamento, una volta divenuto definitivo. In particolare, è stata sempre riconosciuta al fallito – in quanto soggetto passivo del rapporto tributario – una legittimazione processuale concorrente rispetto a quella del curatore, ritenendo perciò necessaria la notifica degli atti impositivi all’uno e all’altro (16), sia pure con la precisazione che la legittimazione attiva e passiva del fallito è
(12) F. Tesauro, Appunti sugli adempimenti fiscali del curatore fallimentare, in Rass. trib., 1990, 241. (13) Cass. Sez. V, 4 luglio 2003 n. 10606, in Fall., 2004, 670; Cass. Sez. V, 24 febbraio 2006, n. 4235, in Foro it., 2006, 2047; conf. Cass. Sez. V, 12 febbraio 2007 n. 3020; Cass. Sez. V, 6 febbraio 2009 n. 2910; Cass. Sez. VI-5, 20 febbraio 2014 n. 4113. (14) Cass. Sez. V, 8 marzo 2002 n. 3427, in Fall. 2033, 254; conf. ex multis Cass. Sez. V, 24 febbraio 2006 n. 4235 cit.; Cass. Sez. V, 11 maggio 2017 n. 11618; Cass. Sez.VI-5, 3 aprile 2018, n. 8132. (15) Stante l’illegittimità costituzionale dell’art. 56, ult.co., d.P.R. n. 600/73 dichiarata da Corte cost., n. 247 del 1983. (16) V. F. Tesauro, op. cit., 242; L. Del Federico, Profili di specialità ed evoluzione giurisprudenziale nella verifica fallimentare dei crediti tributari, Fall., 2009, 1372 s.; B. Quatraro, I rapporti tra le procedure concorsuali ed il fisco, in Dir. fall., 2008, I, 521. In giurisprudenza v., ex plurimis, Cass. Sez. V, 29 marzo 2017 n. 8034, in IlFisco, 2017, 1969; conf. Cass. Sez. V, 11 maggio 2017 n. 11618.
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suppletiva ed eccezionale, in quanto esercitabile in caso di inerzia derivante da assoluto disinteresse degli organi fallimentari, non già da loro precise scelte di carattere processuale (17). La notifica al contribuente fallito viene ricondotta a un duplice ordine di ragioni: i) la conservazione della sua posizione di soggetto passivo del rapporto tributario; ii) la sua esposizione ai riflessi, anche di carattere sanzionatorio, della definitività dell’atto impositivo (18). Di qui l’affermata necessità della duplice notifica dell’atto impositivo al curatore e al fallito, in modo da assicurare a quest’ultimo il diritto di impugnazione, in caso di inerzia della curatela. In altri termini, una volta affermata la legitimatio ad processum del contribuente fallito (19), sia pure di natura suppletiva (come detto in caso di consapevole inerzia degli organi fallimentari), si è imposta la necessità, a fini di tutela del diritto di proprietà dei beni e della titolarità dei relativi rapporti giuridici spettanti al fallito, che gli accertamenti tributari siano portati (anche) a sua conoscenza, mediante una notifica ulteriore rispetto a quella effettuata al curatore. D’altro canto, si è affermato che l’eventuale esercizio di tale diritto da parte del contribuente fallito può giovare alla massa, potendo il curatore avvalersi dell’esito favorevole da questi conseguito, eccependo all’Erario il relativo giudicato in sede di verifica del passivo (20). In passato si è addirittura sostenuto che, qualora l’amministrazione finanziaria non abbia notificato l’atto impositivo al debitore, la curatela fallimentare deve (pur in mancanza di un espresso obbligo di legge) trasmettere al fallito
(17) Cass. Sez. VI-5, 3 aprile 2018 n. 8132; Cass. Sez. I, 2 febbraio 2018 n. 2626; Cass. Sez. VI-T, 6 luglio 2016, n. 13814, per cui «la scelta consapevole della procedura fallimentare di non instaurare o subentrare al fallito in una controversia relativa a rapporti patrimoniali del medesimo esclude la legittimazione del fallito ex art. 43 l. fall., così come può desumersi anche dall’interpretazione testuale del primo comma della norma (ratione temporis applicabile, ma rimasto immutato anche dopo la riforma), secondo la quale nelle controversie “anche in corso” relative a diritti patrimoniali del fallito […] sta in giudizio il curatore»; conf. Cass. Sez. III, 21 luglio 2009, n. 16926. (18) V. Cass. Sez. V, 29 marzo 2017 n. 8034, in Il Fisco, 2017, 1969; conf. ex aliis, Sez. V, 18 marzo 2016 n. 5392, in Boll. Trib., 2017, 1528; Sez. V, 8 marzo 2002 n. 3427, in Fall., 2003, 254. Cfr. P.D. De Dominicis, I rapporti fra le procedure concorsuali ed il processo tributario, in Il diritto tributario delle procedure concorsuali e delle imprese in crisi, a cura di F. Paparella, Milano, 2013, 498 s. (19) Secondo L. Del Federico, I crediti tributari nell’accertamento del passivo fallimentare, in Rass. Trib., 2015, 22, il solido orientamento su cui si radica la teoria della cd. doppia notifica, al curatore e al fallito, muove dall’assunto secondo cui quest’ultimo perde la legittimazione processuale ma non la capacità processuale. (20) 21 Cass. Sez. I, 23 maggio 2018 n. 12854, in Giur.comm. 2019, II, 56 ss.
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gli atti ricevuti – se idonei ad incidere, dopo la chiusura del fallimento, sulla sfera patrimoniale del debitore – per «garantire a quest’ultimo l’esercizio del suo diritto di difesa, adempiendo ad un dovere che trae origine dal carattere impugnatorio del processo tributario, avuto riguardo al termine di decadenza fissato al contribuente per proporre il ricorso» (21); inoltre, laddove il fallito venga a conoscenza della pretesa impositiva quando sono già scaduti i termini per l’impugnazione, il giudice tributario può ritenere che la mancata notificazione dell’atto al fallito abbia impedito il decorso del termine per proporre il ricorso, ovvero assumere che detto termine decorra dalla comunicazione effettuatagli del curatore, con conseguente rimessione in termini (22), o ancora consentirgli l’impugnazione dell’avviso di accertamento, notificato al curatore, in uno all’avviso di liquidazione notificatogli una volta tornato in bonis (23); e ciò anche se, a rigore, la mera comunicazione da parte di un soggetto diverso dall’ente impositore non integra una rituale notifica, né può essere considerata un atto ad essa equipollente, idoneo ai fini del decorso del termine per impugnare. L’ulteriore e connessa questione della validità di un avviso di accertamento ritualmente notificato al curatore fallimentare, ma motivato per relationem al contenuto del p.v.c. in precedenza notificato al contribuente in bonis, registra diversi orientamenti: da quello che ne predica la legittimità (24), a quello opposto che ne assume l’illegittimità (25), passando per la soluzione intermedia che fa leva sulla possibilità per il curatore – gravato dal relativo onere probatorio – di superare la presunzione iuris tantum di consegna dei documenti da parte del fallito, per l’obbligo impostogli dall’art. 88 l.f. (26) (obbligo peraltro spesso disatteso nella prassi, specie nei casi di irreperibilità del fallito o del legale rappresentante di società fallite).
(21) Cass. Sez. V, 23 giugno 2003 n. 9951 in Fall., 2004, 275. (22) V. Cass. Sez. I, 20 marzo 1993 n. 3321 in Giust.civ., 1993, I, 2721; Sez. I, 20 dicembre 1994 n. 10957, in Fall., 1995, 741; Sez. I, 17 marzo 1995 n. 3094, in Il Fisco, 1995, 5109. (23) V. Cass. Sez. V, 23 giugno 2003 n. 9951, in Fall., 2004, 275. (24) Cass. Sez, V, 14 maggio 2010 n. 11784, in Il Fisco, 2010, 3971; cfr. Cass. Sez. V, 7 ottobre 2016, n. 20166; Cass. Sez. VI-5, 5 dicembre 2017 n. 29002. (25) Cass. Sez. V, 4 aprile 2008 n. 8778, in Il Fisco, 2008, 3101; conf. Cass. Sez. V, 31 marzo 2014 n. 7493. (26) Cass. Sez. V, 27 novembre 2015 n. 24254; conf. Cass. Sez. V, 30 ottobre 2018 n. 27628.
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Restano comunque distinti i piani su cui operano gli effetti per curatore e fallito. Invero, in difetto di notifica dell’atto impositivo al fallito, la sottostante pretesa fiscale dovrebbe considerarsi inefficace nei suoi confronti, e l’atto stesso perciò inidoneo a divenire definitivo verso il medesimo, non essendo il debitore parte necessaria del giudizio tributario instaurato dal curatore. Specularmente, l’accertamento fiscale avente ad oggetto obbligazioni tributarie i cui presupposti siano maturati prima della dichiarazione di fallimento del contribuente – o nel periodo d’imposta in cui tale dichiarazione è intervenuta – se notificato soltanto al fallito, e non anche al curatore del fallimento, è inefficace nell’ambito della procedura fallimentare (27). Per questa ragione si è ritenuto che, in ipotesi di avvisi notificati separatamente al fallito ed al curatore, con impugnazione solo da parte del primo, erra l’amministrazione finanziaria ad attendere l’esito del giudizio promosso dal fallito (e l’iscrizione a ruolo definitivo) prima di procedere alla notifica della cartella esattoriale alla curatela, incorrendo nella decadenza ex art. 25 d.P.R. n. 602/73 ove quest’ultima intervenga a distanza di oltre dieci anni dalla notifica dell’avviso, frattanto divenuto definitivo nei confronti della massa per mancata impugnazione del curatore (28). Qualora entrambi – curatore e fallito – impugnino l’avviso d’accertamento notificato in corso di procedura e relativo a presupposti impositivi sorti ante fallimento, il ricorso del fallito potrebbe risultare inammissibile (fatto salvo un intervento nei limiti dell’art. 43 l.f.) in mancanza di inerzia della curatela fallimentare. Resta però da chiedersi se, a fronte di un ricorso introdotto dalla curatela che però il fallito reputi incompleto, inidoneo o erroneo, questi possa restare legittimato a proporre autonomo ricorso. Probabilmente anche in tal caso l’impugnativa del curatore preclude l’autonoma iniziativa del fallito; tuttavia, in dottrina si sostiene che, a fronte di una condotta “relativamente” inerte del curatore (per l’erronea o parziale valutazione dei presupposti su cui
(27) Cass. Sez. VI-5, 6 giugno 2014 n. 12789, che ha ritenuto invalido presupposto per l’emissione della cartella a carico del fallimento l’accertamento notificato, dopo l’apertura della procedura, alla società fallita; conf. Cass. Sez. V, 30 aprile 2014 n. 9434; Cass. Sez. V, 23 giugno 2003 n. 9951, in Fall., 2004, 275; cfr. Cass. Sez. VI-1, 21 dicembre 2015 n. 25689; Cass. Sez. V, 26 ottobre 2011 n. 22277; Cass. Sez. V, 25 gennaio 2008 n. 1634. (28) Cass. Sez. VI-5, 10 dicembre 2012 n. 22437. Cfr. Cass. 13 dicembre 2012, n. 22925 richiamata da P.D. De Dominicis, op. cit., 500, per cui l’eventuale giudizio instaurato dal fallito potrà soltanto giovare alla massa fallimentare posto che in caso di accoglimento il curatore potrà profittare della sentenza favorevole mentre un eventuale esito negativo non spiegherà effetti sulla massa stante il vincolo di indisponibilità gravante sul fallito.
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si fonda l’avviso di accertamento) il fallito conservi la legittimazione ad impugnare in via autonoma l’atto impositivo (29). Se si esclude l’inammissibilità del ricorso del fallito, andrebbe comunque disposta la riunione dei giudizi onde evitare un conflitto tra giudicati, i quali peraltro opererebbero su piani diversi: invero, mentre nei confronti del debitore il giudicato sarebbe azionabile solo al suo rientro in bonis, nei confronti della curatela fallimentare esso avrebbe effetto immediato, ai fini del concorso. In tal senso si è sostenuto che «il giudicato formatosi con la sentenza di merito che accerta il credito erariale nei confronti del curatore, il quale, pur avendone contezza, non sia intervenuto nell’autonomo giudizio introdotto dal fallito ed avente ad oggetto il medesimo atto impositivo, spiega i suoi effetti solo nella procedura concorsuale in quanto funzionale alla scelta dell’amministrazione finanziaria di ottenere un titolo ai fini dell’ammissione al passivo e non può essere opposto dal Fisco al contribuente tornato in bonis, nei cui confronti risulti pronunciata altra sentenza del giudice tributario, anch’essa passata in giudicato, di annullamento dell’atto impositivo, poiché i due giudicati operano su piani distinti e non può essere ravvisato un contrasto tra gli stessi» (30). 4. L’interruzione del processo. – Uno dei principali punti di frizione tra i due ordinamenti speciali (quello concorsuale e quello tributario) si registra quando la sentenza di fallimento del contribuente interviene in pendenza – ovvero nell’imminenza – di un giudizio tributario. L’art. 40 del d. lgs. n. 546/1992 prevede al primo comma (tra l’altro) che «il processo è interrotto se, dopo la proposizione del ricorso, si verifica: a) (…) la perdita della capacità di stare in giudizio» della parte, ossia l’ipotesi contemplata dall’art. 43, co. 1, l.f.; il secondo comma precisa che «l’interruzione si ha al momento dell’evento se la parte sta in giudizio personalmente e nei casi di morte, radiazione o sospensione del difensore» (cfr. interruzione automatica ex artt. 299 e 300 co. 3 c.p.c.), mentre «in ogni altro caso» – compreso quindi il fallimento del contribuente non costituito personalmente – «l’interruzione si ha al momento in cui l’evento è dichiarato o in pubblica udienza o per iscritto con apposita comunicazione del difensore» (cfr. art. 300, co. 1 e 2, c.p.c.).
(29) G. Di Gennaro, Il ricorso tributario proposto dal fallito rispetto all’inerzia del curatore, in www.ilcaso.it, 2015. (30) Cass. Sez. V, 24 luglio 2014 n. 16816, in Rass.giur.trib., 2015, 144.
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Prima della riforma fallimentare i due sistemi risultavano congruenti, poiché si riteneva che l’effetto interruttivo del fallimento in tanto si producesse, in quanto l’evento fosse dichiarato o notificato ai sensi dell’art. 300 c.p.c. (31). La fattispecie veniva quindi pacificamente inquadrata tra le ipotesi di interruzione non automatica, nelle quali la morte o perdita di capacità della parte costituita a mezzo di procuratore – da questi non dichiarate in udienza né notificate alle altre parti – comportano, per il principio di ultrattività del mandato alla lite, che: i) la notificazione della sentenza fatta al procuratore, ex art. 285 c.p.c., è idonea a far decorrere il termine per l’impugnazione nei confronti della parte deceduta o del rappresentante legale di quella divenuta incapace; ii) il procuratore, qualora originariamente munito di procura alla lite valida per gli ulteriori gradi del processo – escluso il giudizio di cassazione, che richiede procura speciale – è legittimato a proporre impugnazione in rappresentanza della parte, che nell’ambito del processo va considerata tuttora in vita e capace; iii) è ammissibile la notificazione dell’impugnazione presso di lui, ai sensi dell’art. 330, comma 1, c.p.c., senza che rilevi la conoscenza aliunde di uno degli eventi previsti dall’art. 299 c.p.c. da parte del notificante (32). Laddove invece l’evento sia stato dichiarato in udienza, o notificato alle altre parti dal procuratore, il termine per la riassunzione ex art. 305 c.p.c. (non più di sei, ma di tre mesi, per i giudizi instaurati dopo il 4 luglio 2009) decorre dal momento in cui interviene la dichiarazione del procuratore o la notificazione dell’evento (e non dal provvedimento giudiziale dichiarativo dell’interruzione, che ha natura meramente ricognitiva) (33). Sennonché, il d.lgs. n. 5 del 2006 ha modificato l’art. 43 l.f., prevedendo al terzo comma che «l’apertura del fallimento determina l’interruzione del processo» (34), per cui il fallimento della parte va ora annoverato tra le ipotesi di interruzione automatica di tutti i giudizi pendenti (35) – compresi quelli
(31) V. Cass. Sez. I, 20 giugno 2000 n. 8363, in Fall., 2001, 650; Cass. Sez. IV, 6 luglio 2001 n. 9164 in Dir.Fall., 2002, II, 623; Cass. Sez. III, 2 maggio 2002 n. 6262, in Fall., 2003, 375; Cass. Sez. IV, 10 maggio 2002, n. 6771; Cass. Sez. I, 8 maggio 2013 n. 10724. (32) Cass. Sez. II, 22 agosto 2018, n. 20964. (33) V. Cass. Sez. Un., 20 marzo 2008 n. 7443, in Guida al dir., 2008, 17, p. 54. (34) Tale modifica, operante dal 16 luglio 2006 anche nei giudizi pendenti (v. art. 153 d.lgs. 5/06), è ispirata alla necessità di evitare che il processo pendente sia interrotto solo a distanza di tempo e su iniziativa formale della parte, come si legge nella relazione ministeriale di accompagnamento. (35) Cass. Sez. Un., n. 7443/08 cit.; Cass. Sez. I, 30 gennaio 2019 n. 2658, in Fall., 2019, 1036; cfr. Cass. Sez. III, 28 dicembre 2016 n. 27165; Cass. Sez. VI-1, 9 aprile 2018 n. 8640;
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tributari –, indipendentemente dalla dichiarazione o notificazione dell’evento interruttivo ai sensi dell’art. 300 c.p.c.; gli effetti interruttivi si verificano ipso iure dalla data del fallimento, mentre la pronuncia giudiziale di interruzione del processo ha valore meramente dichiarativo (36), sebbene ciò non significhi che la parte non fallita sia tenuta alla riassunzione del processo nei confronti del curatore indipendentemente dal fatto che l’interruzione sia stata dichiarata (salva la facoltà di prosecuzione del giudizio da parte del soggetto colpito dall’evento) (37). Quanto all’individuazione del dies a quo per la riassunzione, il Giudice delle leggi ha esteso a questo nuovo caso di interruzione automatica ex art. 43, co. 3, l.f. il consolidato orientamento per cui, a fronte dell’anodino riferimento alla “interruzione” contenuto nell’art. 305 c.p.c., nei casi di interruzione automatica del processo il termine per la riassunzione non decorre dalla data dell’evento interruttivo, bensì da quella in cui esso è venuto a conoscenza della parte non colpita dall’evento (38) (rectius del suo difensore). Deve però trattarsi di conoscenza “legale” – per tale intendendosi quella originata da una dichiarazione, notificazione o certificazione rappresentativa dell’evento assistita da fede privilegiata (39) – non essendo invece rilevante una conoscenza effettiva o aliunde acquisita. Tuttavia, proprio perché si tratta di una interruzione ipso iure, detta dichiarazione non deve necessariamente provenire dal difensore della parte colpita dall’evento interruttivo, potendo consistere anche in una comunicazione della cancelleria fallimentare o del curatore, anche a mezzo p.e.c. (40). Al riguardo va ricordato che la necessità della conoscenza
Cass. Sez. I, 18 aprile 2018, n. 9578. (36) Cass. Sez. V, 14 giugno 2019 n. 15996; Cass. Sez. III, 19 dicembre 2018, n. 29865; Cass. Sez. III, 20 marzo 2006, n. 6098. (37) Cass. Sez. I, 27 marzo 2018, n. 7547; conf. Cass. Sez. VI-1, 1 marzo 2017 n. 5288; Cass. Sez. I, 11 aprile 2018 n. 9016. (38) Corte cost. 21 gennaio 2010, n. 17, che ha dichiarato infondata la correlata questione di legittimità costituzionale dell’art. 305 c.p.c., dopo che la medesima norma era stata dichiarata costituzionalmente illegittima nella parte in cui faceva decorrere il termine per la riassunzione dal verificarsi dell’evento e non dalla sua conoscenza (Corte cost. n. 139 del 1967, n. 159 del 1971, n. 36 del 1976). (39) Cass. Sez. I, 18 aprile 2018 n. 9578; conf. Cass. Sez. VI-3, 25 febbraio 2015 n. 3782; Cass. Sez. IV, 13 marzo 2013 n. 6331. (40) Cass. Sez. I, 30 gennaio 2019 n. 2658, in Fall., 2019, 1036; cfr. Cass. Sez. VI-1, 9 aprile 2018, n. 8640, che ha ritenuto indizio insufficiente la notifica della citazione effettuata direttamente alla curatela della controparte, a meno che, secondo Cass. Sez. III, 30 novembre 2018 n. 31010, sia indirizzata alla parte processuale, contenga esplicito riferimento alla lite
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legale è stata estesa all’individuazione del processo interrotto, non solo nei confronti del curatore fallimentare (che potrebbe ignorarne la pendenza) (41) ma anche nei confronti della controparte del fallito (42). Anche di recente la Suprema Corte ha confermato tale orientamento, distinguendo però la posizione del soggetto del tutto estraneo al procedimento concorsuale – a tutela del quale tutela vale il criterio formale della “conoscenza legale” del fallimento – non solo dal soggetto che è stato parte del procedimento prefallimentare (in quanto tale destinatario della comunicazione della sentenza di fallimento da parte della cancelleria), ma anche da quello che abbia partecipato al procedimento concorsuale, formulando domanda giudiziale (ai sensi e per gli effetti dell’art. 94 l.f.) di ammissione al passivo fallimentare ex art. 93 l.f., in quanto essa presuppone la piena conoscenza della dichiarazione di fallimento (a differenza della semplice ricezione dell’avviso ex art. 92 l.f., che il curatore invia sulla base di fonti informative anche non qualificate) (43). Nel caso in cui venga eccepita la conoscenza legale del giudizio, il giudice di legittimità ha ritenuto che la prova del mancato rispetto del termine per la riassunzione del processo incombe sulla parte diligente, non potendo pretendersi dall’altra parte la prova di un fatto negativo (44). Va infine rammentato che anche nel caso di perdita della capacità di stare in giudizio per fallimento della parte trova applicazione l’art. 328, ult. co., c.p.c. (45), per cui «se dopo sei mesi dalla pubblicazione della sentenza si verifica alcuno degli eventi previsti nell’art. 299, il termine di cui all’art. 327 c.p.c. è prorogato per tutte le parti di sei mesi dal giorno dell’evento» (46).
pendente interrotta e sia corredata da copia autentica della sentenza di fallimento; v. anche Cass. Sez. III, 15 marzo 2018, n. 6398, nel senso della inidoneità qualora la circostanza sia appresa tramite un procuratore diverso da quello che assisteva la parte interessata nel processo interrotto; v. anche Cass. 15 settembre 2017, n. 21375. (41) Cass. Sez. III, 28 dicembre 2016, n. 27165; Cass. Sez. IV, 7 marzo 2013, n. 5650 e 13 marzo 2013 n. 6331. Cfr. P.D. De Dominicis, op.cit., 494. (42) Cass. Sez. I, 30 gennaio 2019 n. 2658 cit.; cfr. Cass. Sez. III, 15 marzo 2018, n. 6398. (43) Cass. Sez. V, 14 giugno 2019 n. 15996. (44) Cass. Sez. I, 3 settembre 2009, n. 19122; cfr. Cass. Sez. VI-3, 25 febbraio 2015, n. 3782; Cass. Sez. III, 11 febbraio 2010, n. 3085. (45) V. Cass. Sez. II, 23 settembre 2016, n. 18759. (46) V. Cass. Sez. II, 30 luglio 2019 n. 20529, per cui la norma – non aggiornata (per palese svista del legislatore) all’esito della riduzione del termine lungo di impugnazione ex art. 327 c.p.c. da sei a tre mesi – deve essere interpretata nel senso che, nei processi instaurati dopo il 4 luglio 2009, laddove l’evento interruttivo si verifichi dopo il decorso della metà del
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Con specifico riguardo al processo tributario, l’art. 43, co. 2, d.lgs. 546/92 si limita a disporre che la parte interessata deve riassumere il giudizio mediante istanza di trattazione (pena la sua estinzione ex art. 45) «entro sei mesi da quando è stata dichiarata l’interruzione del processo». Inoltre, l’art. 40, co. 4, d.lgs. n. 546/92 prevede che, «se uno degli eventi di cui al comma 1, lettera a), si verifica durante il termine per la proposizione del ricorso, il termine è prorogato di sei mesi a decorrere dalla data dell’evento» (salva la sospensione feriale dei termini ex l. n. 742/69). Di conseguenza, ove il fallimento del contribuente intervenga durante il termine per proporre ricorso avverso l’atto impositivo, detto termine viene prorogato di sei mesi a decorrere dalla data dal fallimento, con grande beneficio per la procedura concorsuale, specie nel caso in cui al momento del fallimento il termine per l’impugnazione sia prossimo a scadere, poiché il curatore disporrà di un congruo lasso temporale per ricostruire la vicenda e assumere le opportune iniziative. Circa le conseguenze della interruzione automatica del processo, si è ritenuto che, in mancanza di declaratoria di interruzione o di prosecuzione del processo ad opera da parte colpita dall’evento, gli atti successivamente compiuti siano nulli e inopponibili alla curatela (47). Anche con riguardo al processo tributario, si è affermato che la mancata interruzione del giudizio nel corso del quale sia sopravvenuto il fallimento del contribuente rende nulli, in mancanza di costituzione del curatore, sia gli atti processuali successivamente compiuti, sia la sentenza (ciononostante) emessa, poiché inopponibile alla procedura, con conseguente illegittimità della cartella esattoriale notificata al curatore, in quanto fondata su «un titolo costitutivo della pretesa fiscale che non è opponibile al fallimento stesso» (48). In effetti, il giudicato formatosi nel giudizio promosso dal debitore in bonis e non interrotto, a ben vedere, non è radicalmente nullo, né inutiliter datum, poiché, una volta chiusa la procedura, il credito erariale divenuto de-
termine ex art. 327 c.p.c., il termine lungo di impugnazione è prorogato di tre mesi dal giorno dell’evento. (47) Cass. Sez. IV, 28 ottobre 2013 n. 24271, in Lav. giurispr., 2014, 572; Cass. Sez. III, 30 aprile 2009 n. 10112. (48) Cass. Sez. VI-5, 28 ottobre 2014, n. 22809; conf. Cass. Sez. II, 7 aprile 2017 n. 9124.
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finitivo può essere fatto valere dall’amministrazione finanziaria nei confronti del contribuente tornato in bonis (49). Invero, qualora il curatore subentri nel processo tributario in rappresentanza del debitore, la sentenza spiega i propri effetti «anche nei confronti del debitore tornato in bonis, non incidendo la vicenda relativa alla legittimazione processuale determinata dal fallimento sulla riappropriazione da parte del debitore, successivamente alla chiusura della procedura concorsuale, della posizione di parte processuale, come tale legittimata a subentrare al curatore – decaduto – nel giudizio eventualmente pendente, ovvero ad essere destinataria degli effetti della sentenza di merito eventualmente già pronunciata» (50). Si è infine precisato che «la dichiarazione di fallimento di una delle parti che si sia verificata dopo l’udienza di precisazione delle conclusioni (o di discussione), effettuata nella prima memoria ai sensi dell’art. 190 c.p.c., non produce alcun effetto ai fini della interruzione del processo, sicché il giudizio prosegue tra le parti originarie e la sentenza pronunciata nei confronti della parte successivamente fallita non è nulla, né inutiliter data, bensì inopponibile alla massa dei creditori, rispetto ai quali costituisce res inter alios acta» (51). 5. La notifica della cartella esattoriale. – Sino alla soppressione dell’iscrizione a ruolo (però circoscritta a imposte sui redditi, Iva, Irap e relative sanzioni) (52) ed alla sua sostituzione con i cd. atti “impoesattivi” (53) – l’avviso di accertamento e il provvedimento di irrogazione delle sanzioni, i quali diventano esecutivi decorsi sessanta giorni dalla notifica, realizzando una forma di “concentrazione della riscossione nell’accertamento” – ad opera dell’art. 29, d.l. 31 maggio 2010 n. 78, convertito dalla l. 30 luglio 2010, n. 122 (in vigore dal 1 ottobre 2011 per i periodi d’imposta decorrenti dal 31
(49) Cass. Sez. I, 4 marzo 2011 n. 5226; Cass. Sez. V, 10 dicembre 2010, n. 24963. (50) Cass. Sez. V, 24 luglio 2014 n. 16816, in Riv.giur.trib., 2015, 144; cfr. Cass. Sez. I, 24 luglio 2012 n. 12965, in Corr.giur., 2013, 76; Cass. Sez. III, 22 marzo 2013 n. 7263. (51) Cass. Sez. I, 22 novembre 2017 n. 27829. (52) Per la riscossione di taluni tributi minori non statuali continua ad utilizzarsi la disciplina dell’ingiunzione fiscale di cui al r.d. n. 639/1910, che ai fini dell’insinuazione al passivo fallimentare ha un regime giuridico sostanzialmente assimilato alla riscossione a mezzo ruolo: v. L. Del Federico, I crediti tributari nell’accertamento del passivo fallimentare, in Rass. Trib., 2015, 24. (53) C. Glendi, Notifica degli atti “impoesattivi” e tutela cautelare ad essi correlata, in Dir. proc. trib., 2011, I, 482, nt. 2.
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dicembre 2007) (54), la domanda erariale di insinuazione al passivo fallimentare si fondava di regola sul ruolo (55) – atto impositivo tipico – (56), o meglio sull’estratto del ruolo, ossia l’atto interno contenente lo stralcio del ruolo riguardante il debitore interessato, sub specie di documento elaborato per via informatica contenente gli elementi essenziali della cartella e gli estremi della sua notificazione (57). L’art. 33, d.lgs. 112/1999 prevede che per i debitori falliti (o in amministrazione straordinaria) l’ente creditore iscrive a ruolo il credito e il conces-
(54) L’art. 29 cit. prevede alla lett. g) che i riferimenti alla cartella di pagamento si intendono effettuati agli atti di accertamento esecutivo, al connesso provvedimento di irrogazione delle sanzioni e ai consequenziali atti di rideterminazione degli importi dovuti (in ragione dell’accertamento con adesione o del contezioso), mentre i riferimenti alle somme iscritte a ruolo si intendono effettuati alle somme affidate agli agenti della riscossione. (55) Secondo la definizione data dall’art. 10, d.P.R. 602/73, il ruolo è l’elenco dei debitori e delle somme da essi dovute formato dall’ente creditore, che, ai sensi dei successivi artt. 12, co. 4, e 49, co. 1, una volta sottoscritto costituisce titolo esecutivo legittimante la riscossione forzata dei crediti iscritti, secondo le norme dettate dal tit. II dello stesso d.P.R.; ai sensi dell’art. 11 sono iscritti a ruolo solo imposte, sanzioni e interessi, non anche i cd. oneri “cartellizzati” (aggi e diritti d’esecuzione) che, in quanto corrispettivo di un servizio reso, sono privi del carattere di accessorietà e non beneficiano del privilegio proprio del tributo cui si riferiscono (Cass. Sez. I, 23 dicembre 2015, n. 25932; conf. Cass. Sez. I, 3 aprile 2014, n. 7868). (56) Come noto, i ruoli si distinguono in ordinari e straordinari; i primi attengono alla fase “fisiologica” del rapporto tributario (quando il contribuente è ancora solvibile); i secondi attengono alla sua fase “patologica” (quando vi è pericolo per la riscossione). Al quesito se il fallimento costituisca un rischio per la riscossione – e se pertanto, con l’apertura del concorso, sia necessaria l’iscrizione nei ruoli straordinari del carico erariale – ben si potrebbe rispondere negativamente, trattandosi di procedura pubblica finalizzata per legge alla miglior tutela dei creditori, attraverso lo spossessamento del fallito e il principio della par condicio creditorum (conf. F. Paparella, Gli effetti della soppressione del ruolo e del nuovo accertamento esecutivo ai fini dell’ammissione al passivo fallimentare dei crediti fiscali, in Trattato delle procedute concorsuali a cura di L. Ghia, C. Piccininni, F. Severini, 663 s.; L. Del Federico, I crediti tributari nell’accertamento del passivo fallimentare, in Rass. Trib., 2015, 28). Tuttavia, risulta prevalente in dottrina e giurisprudenza la tesi per cui il fallimento costituisce un concreto pericolo per la riscossione del credito erariale, proprio sotto il profilo della necessità di disporre di un valido titolo ai fini dell’ammissione al passivo. Per un esame critico circa i limiti entro i quali è ammissibile l’insinuazione al passivo fallimentare sulla base di iscrizioni a ruolo a titolo non definitivo ma provvisorio o straordinario, v. L. Del Federico, op. ult. cit., 26 s. (57) L’idoneità probatoria dell’estratto di ruolo, ex art. 2718 c.c. (in quanto riproduzione della parte del ruolo relativa al contribuente, munita della dichiarazione di conformità all’originale resa dal collettore delle imposte, quale coadiutore dell’esattore, ex art. 130, d.P.R. 15 maggio 1963 n. 858) è stata affermata dal giudice di legittimità sia in sede civile ordinaria (Cass. Sez. III 21 gennaio 2016 n. 11794, in Il Fisco, 2016, 2772 ss.: «l’estratto di ruolo è valido ai fini probatori poiché è una riproduzione fedele ed integrale degli elementi essenziali contenuti nella cartella esattoriale»; conf. Cass. 16 giugno 2016, n. 12415) sia in sede fallimentare (Cass.
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sionario provvede alla sua insinuazione; a sua volta, l’art. 87, d.P.R. 602/1973 (come sostituito dall’art. 16, d.lgs. n. 46/1999) dispone che il concessionario può presentare istanza di fallimento per conto dell’Agenzia delle entrate e, ove il debitore venga dichiarato fallito, o sottoposto a liquidazione coatta amministrativa, «chiede, sulla base del ruolo, per conto dell’Agenzia delle entrate l’ammissione al passivo della procedura» (58). Peraltro, con un noto arresto del 2012 le Sezioni Unite della Cassazione hanno affermato che «la legittimazione del concessionario a far valere il credito tributario nell’ambito della procedura fallimentare non esclude la legittimazione dell’Amministrazione finanziaria, che conserva la titolarità del credito azionato» e che, di conseguenza, «la domanda di ammissione al passivo di un fallimento avente ad oggetto un credito di natura tributaria non presuppone necessariamente, ai fini del buon esito della stessa, la precedente iscrizione a ruolo del credito azionato, la notifica della cartella di pagamento e l’allegazione all’istanza di documentazione comprovante l’avvenuto espletamento delle dette incombenze, potendo viceversa essere basata anche su titolo di diverso tenore» (59).
Sez. I, 29 dicembre 2017, n. 31190: «gli estratti del ruolo, consistenti in copie operate su supporto analogico di un documento informatico, formate nell’osservanza delle regole tecniche che presiedono alla trasmissione dei dati dall’ente creditore al concessionario della riscossione, hanno piena efficacia probatoria ove il curatore non abbia sollevato contestazioni in ordine alla loro conformità all’originale»). Peraltro, secondo Cons. Stato, Sez. IV, 6 agosto 2014 n. 4209, l’estratto di ruolo non può essere assimilato al ruolo, vista «la differenza ontologica che non può essere superata dall’omogeneità contenutistica», dato che esso non reca alcuna autonoma (o nuova) pretesa impositiva, potendo al più consentire all’interessato di prendere cognizione di eventuali atti emessi nei suoi confronti. Di conseguenza, la consegna dell’estratto di ruolo non può essere sostitutiva dell’obbligo di mettere a disposizione del contribuente «la copia della cartella con la relazione dell’avvenuta notificazione o l’avviso di ricevimento» ex art. 26, d.P.R. n. 602/73. (58) Quanto al concordato preventivo, l’art. 90 del d.P.R. n. 603/72 impone all’agente della riscossione di attivarsi per l’inserimento del credito nell’apposito elenco della procedura «sulla base del ruolo» e dispone l’inserimento provvisorio delle «somme iscritte a ruolo» contestate nell’elenco di cui agli artt. 176 e 181 l.f. (59) Cass. Sez. Un.,15 marzo 2012 n. 4126, in Riv.giur.trib., 2012, 557 ss., con nota critica di M. Montanari, Il nuovo verbo delle sezioni Unite in materia di titolo e legittimazione ad agire per l’ammissione al passivo dei crediti tributari, ivi, 562 ss., specie con riguardo al superamento del dato normativo testuale dell’art. 87 co. 2, d.P.R. n. 602/1973 – che fa esclusivo riferimento al potere di iniziativa del concessionario (agente) della riscossione – sulla base dell’anodino riferimento all’art. 52 l.f. e di un improbabile vulnus agli artt. 3 e 24 Cost., ritenuto verosimilmente ispirato dai ritardi nella formazione e trasmissione dei ruoli registrati nella prassi, ai fini dell’insinuazione tardiva al passivo fallimentare (cfr. Cass. Sez. VI-1 11 ottobre 2011, n. 20910, per cui i maggiori termini previsti dall’art. 25 d.P.R. n. 602/73 per la notifica
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Del resto, già in precedenza il massimo organo nomofilattico aveva sostenuto che, in presenza di un debito risultante dalla dichiarazione presentata dal contribuente, l’amministrazione finanziaria ben avrebbe potuto insinuarsi al passivo senza ruolo, sia pure nei limiti della sola imposta (per sanzioni e interessi essendo invece necessaria la preventiva iscrizione a ruolo), poiché la dichiarazione del contribuente assume rilevanza ai fini dell’«accertamento definitivo del tributo e costituisce titolo per la sua riscossione», mentre – quanto agli accessori del tributo – «senza la iscrizione a ruolo manca qualsiasi atto in virtù del quale l’Amministrazione finanziaria potrebbe procedere alla sua riscossione» (60). Al contrario, da più parti si sostiene che il ruolo (rectius l’estratto del ruolo) sarebbe necessario ma non sufficiente ai fini dell’ammissione al passivo, dovendosi fornire anche la prova dell’avvenuta notifica della cartella di pagamento, ex art. 25, d.P.R. 602/1973; ciò in ragione della sua natura di atto meramente interno all’Amministrazione finanziaria, formato e reso esecutivo dall’ente creditore e trasmesso all’agente (ex concessionario) per la riscossione dei crediti. Tra l’altro, dopo l’informatizzazione delle procedure di formazione, sottoscrizione e consegna del ruolo, ex d.m. 3 settembre 1999 n. 321, il ruolo è stato “dematerializzato”, risolvendosi in un mero “flusso informatico” tra enti creditori e agente della riscossione. Invero, l’art. 25, d.P.R. n. 602/1973 prevede per l’avvio delle attività esecutive non solo la sottoscrizione del ruolo, ma anche la notifica della cartella di pagamento, che, quale atto prodromico all’azione esattoriale, contiene «l’intimazione ad adempiere l’obbligo risultante dal ruolo entro il termine di sessanta giorni dalla notificazione, con l’avvertimento che, in mancanza, si procederà ad esecuzione forzata». Tale notifica svolge dunque una pluralità di
della cartella di pagamento non costituiscono una esimente di carattere generale rispetto ai termini ex art. 101 l.f., commentata da F. Paparella, Insinuazione al passivo tardiva dei crediti fiscali: recenti ordinanze della Suprema Corte tra vecchie questioni e nuova disciplina dell’accertamento esecutivo, in Riv. trim. dir. trib., 2012, 428 ss.). Conf. L. Del Federico, I crediti tributari nell’accertamento del passivo fallimentare, in Rass. Trib., 2015, 31, per il quale la pronuncia sarebbe stata stimolata per un verso dall’interesse dell’amministrazione finanziaria all’anticipata ammissione al passivo dei crediti tributari e per altro verso dall’intento di ricondurla sullo stesso piano degli altri creditori, così però spingendosi «troppo avanti (…) senza percepire le problematiche ricadute dei principi affermati». (60) Cass. Sez. Un., 4 marzo 2009 n. 5165, in Corr. trib. 2009, 1550; conf. Cass. Sez. I, 14 luglio 2004 n. 13027, in Giur.it., 2005, 1755.
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funzioni: i) “esecutiva”, poiché assimilabile al precetto ex art. 480 c.p.c. (61); ii) “partecipativa”, in quanto diretta a rendere conoscibile al contribuente la pretesa tributaria (62); iii) “impugnatoria”, poiché nel processo tributario il ruolo figura tra gli atti impugnabili, ma, non essendo prevista una sua autonoma notifica, è l’art. 21, co.1, secondo periodo, d.lgs. 546/92 a stabilire che «la notificazione della cartella di pagamento vale anche come notificazione del ruolo», il quale diventa così concretamente impugnabile entro i successivi sessanta giorni. Sennonché, esaminando dette funzioni nello spettro fallimentare, si ha che: i) non rileva la funzione esecutiva, per la superfluità della notifica della cartella esattoriale al fallito o al curatore, stante il divieto di azioni esecutive ex art. 51 l.f. (63); ii) non rileva nemmeno la funzione partecipativa, surrogata dalla domanda di insinuazione al passivo, ai cui fini è sufficiente allegare l’estratto del ruolo – di cui la cartella di pagamento è atto meramente riproduttivo – salvo l’onere di rimediare ad eventuali carenze della domanda (anche mediante l’esibizione della cartella di pagamento e della relata di notificazione prevista dall’art. 26, d.P.R. 602/73) in ossequio all’art. 93, n. 3, l.f., il quale impone la «succinta esposizione dei fatti e degli elementi di diritto che costituiscono la ragione della domanda») (64); iii) più problematica è la funzione impugnatoria, poiché di regola manca l’interesse ex art. 100 c.p.c. ad impugnare un ruolo non seguito da cartella, in quanto ex sé inidoneo ad attivare procedure esecutive (ex art. 50 d.P.R. 602/1973), o ad iscrivere ipoteca, fermo sui mobili o fermo dei pagamenti della P.A. (ai sensi, rispettivamente, degli
(61) Cfr. F. Paparella, Gli effetti della soppressione del ruolo cit., 644, con riguardo alla funzione assolta di «precetto (recante l’intimazione ad adempiere ed idoneo a mettere in mora il contribuente) e di titolo esecutivo che consente di avviare la riscossione coattiva esattoriale»; cfr. ivi il rimando ad ulteriore dottrina, tra cui A. Carinci, La riscossione a mezzo ruolo nell’attuazione del tributo, Pisa, 2008, 154. (62) Specie laddove l’iscrizione a ruolo non sia riproduttiva di atti precedenti (come quando segue a un atto impositivo) ma costituisca il primo atto con cui l’amministrazione finanziaria esercita la propria potestà impositiva, ad es. dopo i controlli automatizzati in materia di accertamento delle imposte sui redditi ex artt. 36-bis e 36-ter, d.P.R. 600/73. (63) Cass. Sez. V, 15 giugno 2018 n. 15834. (64) Sicché, in caso di mancata ottemperanza dell’amministrazione finanziaria all’obbligo di esibizione ex art. 26 d.P.R. n. 602/1973, lo stesso giudice fallimentare potrebbe respingere la domanda per mancato assolvimento dell’onere della prova, specie quanto alla perdurante attualità del credito tributario: in tal senso v. F. Paparella, Le indicazioni delle Sezioni Unite della Suprema Corte sull’impugnabilità dell’estratto di ruolo e gli effetti sull’ammissione al passivo dei crediti tributari, in Riv. dir. trib. 2017, 20 s.
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artt. 77, 86 e 48-bis, d.P.R. cit.), ovvero a far maturare interessi (poiché quelli per ritardata iscrizione a ruolo e quelli di mora ex artt. 20 e 30 d.P.R. cit. non decorrono nell’intervallo tra la consegna del ruolo all’Agente della riscossione e la notifica della cartella). Tuttavia, la possibilità di fondare sul ruolo la domanda di ammissione al passivo, ex art. 87, co. 2, d.P.R. 602/1973, rende concreto e attuale l’interesse ad impugnarlo, per contestare il credito di cui si chiede l’ammissione, facendo così venir meno la ragione tradizionalmente addotta per escludere l’autonoma impugnabilità del ruolo (carenza di interesse) e – al tempo stesso – la tradizionale funzione della notifica della cartella di pagamento, quale “via di accesso” alla giustizia tributaria. Al riguardo soccorre l’ulteriore pronuncia delle Sezioni Unite che nel 2015, risolvendo uno spinoso contrasto (non solo giurisprudenziale), ha affermato l’ammissibilità dell’impugnazione «della cartella (e/o del ruolo) che non sia stata (validamente) notificata e della quale il contribuente sia venuto a conoscenza attraverso l’estratto di ruolo rilasciato su sua richiesta dal concessionario, senza che a ciò sia di ostacolo il disposto dell’ultima parte del terzo comma dell’art. 19 d.lgs. n. 546 del 1992», la cui lettura costituzionalmente orientata impone di ritenere che «l’impugnabilità dell’atto precedente non notificato unitamente all’atto successivo notificato, ivi prevista, non costituisca l’unica possibilità di far valere l’invalidità della notifica di un atto del quale il destinatario sia comunque legittimamente venuto a conoscenza» (65). Peraltro, tale arresto nomofilattico non ha fatto venir meno le divergenti opinioni, specie in dottrina, sul tema della necessità o meno della previa notifica della cartella esattoriale ai fini dell’insinuazione al passivo fallimentare. È ben vero che anche in giurisprudenza, secondo l’impostazione tradizionale, la notifica sarebbe comunque necessaria, poiché, in difetto, resterebbe preclusa la proposizione dell’impugnazione dinanzi al giudice tributario (66).
(65) Cass. Sez.Un. 2 ottobre 2015 n. 19704, in Riv.dir.trib. 2016, 34; conf. Cass. 3 marzo 2016 n. 4238, in Boll.trib., 2016, 1337. Tra i molti commenti in dottrina v. F. Paparella, Le indicazioni delle Sezioni Unite della Suprema Corte sull’impugnabilità dell’estratto di ruolo cit., 12 ss., ove si sostiene l’ininfluenza delle relative argomentazioni ai fini dell’ammissione al passivo, trattandosi «di fattispecie profondamente diverse: quella esaminata dalla Suprema Corte adotta una impostazione dinamica e procedimentale dovuta all’esigenza di ridimensionare i possibili effetti di una cartella notificata irritualmente, mentre nell’ammissione al passivo è necessario adottare una visione statica in quanto occorre pervenire all’accertamento giudiziale del credito tributario alla data di avvio della procedura». (66) Cass. 17 giugno 1998 n. 6032, in Dir.Fall. 1999, II, 285; Cass. 27 maggio 2011 n. 11736, in Rass. giur. trib., 2011, 971 con nota di A. Carinci, Autonomia e indipendenza
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Tuttavia, può ormai dirsi consolidato in giurisprudenza l’orientamento in base al quale l’insinuazione al passivo fallimentare può avvenire sulla base del solo estratto di ruolo o di altro titolo (fogli di prenotazione, sentenze tributarie, dichiarazioni dei redditi del contribuente), senza che sia necessaria la previa notifica della cartella esattoriale, poiché il curatore viene compiutamente reso edotto della pretesa erariale con la comunicazione del ruolo contenuta nella domanda, e può impugnarla avanti al giudice tributario – così come autorizza il dettato dell’art. 19, lett. d), d.P.R. n. 546/1992 – prescindendo dalla cartella, stante la specificità della procedura fallimentare e l’inutilità di atti volti a rendere possibile l’esecuzione singolare (67). Anche di recente è stato ribadito che «l’ammissione allo stato passivo di crediti sia previdenziali che tributari, può essere richiesta dalle società concessionarie per la riscossione, sulla base del semplice estratto del ruolo, senza che
del procedimento di iscrizione a ruolo rispetto alla formazione della cartella di pagamento; Cass. 27 giugno 2011 n. 14116, in Fall., 2011, 1417 con nota di A. Guiotto, L’insinuazione al passivo dei crediti tributari. Cfr. F. Paparella, Le indicazioni delle Sezioni Unite della Suprema Corte sull’impugnabilità dell’estratto di ruolo, cit., 17 s.; Mauro, Rilievi critici sull’orientamento della Cassazione a sezioni unite in tema di insinuazione dei crediti tributari al passivo fallimentare, in Riv. trim. dir. trib., 2012, 752. (67) Cass. Sez. Un., 15 marzo 2012 n. 4126, in Foro it., 2014, 12, 3558.; Cass. 14 marzo 2013 n. 6520, in Fall., 2013, 1499; Cass. Sez. I, 17 marzo 2014 n. 6126, in Dir. Fall., 2015, 222; Cass. Sez. V, 24 febbraio 2016 n. 3609; Cass. 12 settembre 2016 n. 17927, in IlFisco, 2016, 3597; Cass. Sez. VI-1, 11 novembre 2016 n. 23110; Cass. Sez. I, 13 giugno 2017 n. 14693; Cass. Sez. VI-1, 6 novembre 2017 n. 26296; Cass. Sez. I, 16 maggio 2018 n. 11954; Cass. Sez. VI-5, 22 giugno 2018 n. 16603. In particolare, secondo Cass. Sez. V, 9 novembre 2018 n. 28707, il curatore fallimentare non avrebbe interesse a impugnare la cartella di pagamento riguardante tributi dovuti in epoca antecedente alla dichiarazione di fallimento, se non preceduta dalla notificazione, anche nei suoi confronti, dell’atto impositivo che ne costituisce il necessario presupposto, atteso che, non essendo la cartella opponibile alla curatela fallimentare, egli può sempre farne valere l’inefficacia relativa davanti al giudice delegato o al tribunale fallimentare in sede di accertamento del passivo. In dottrina cfr., ex multis, A Carinci, La Cassazione conferma il proprio orientamento sulla non necessità della notifica della cartella ai fini dell’insinuazione al passivo, in Riv. giur. trib., 2014, 612 ss., il quale per un verso descrive gli importanti corollari che ne discendono (la natura non concorsuale dell’aggio afferente l’attività di esazione iniziata dopo la dichiarazione di fallimento, come affermato da Cass. n. 6646/13 e 18645/13; la riduzione dei margini per l’insinuazione ultratardiva, a fronte della legittimazione congiunta dell’agente della riscossione e dell’ente impositore), per altro verso ribadisce la necessità della notifica della cartella nei casi in cui il ruolo è formato all’esito delle procedure di liquidazione e controllo formale ex artt. 36 bis, 36 ter, d.P.R. n. 600/73 e 54 bis, d.P.R. 633/72 (caratterizzate dalla diretta iscrizione a ruolo dei risultati della rettifica della dichiarazione) ove il ruolo, assolvendo non solo la funzione di riscossione, ma anche quella di imposizione, assume natura recettizia, e va perciò comunicato mediante notifica della cartella.
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occorra, in difetto di espressa norma di legge, la previa notifica della cartella esattoriale, salva la necessità, in caso di contestazioni del curatore, per i crediti tributari, di provvedere all’ammissione con riserva, e per i crediti previdenziali, in quanto assoggettati alla giurisdizione del giudice ordinario, della necessità da parte del concessionario di integrare la prova con altri documenti giustificativi in possesso dell’ente previdenziale» (68). In teoria, l’obbligo di notifica della cartella dopo la dichiarazione di fallimento, come condizione di ammissibilità del credito al passivo, potrebbe addirittura risultare pregiudizievole: a) per l’agente della riscossione e per l’ente creditore, poiché, in base al principio di cristallizzazione, i costi di cui all’art. 17, d.lgs. n. 112/1999 (69) potrebbero trovare soddisfazione concorsuale solo in caso di notifica della cartella anteriore alla dichiarazione di fallimento; b) per il fallito, in quanto gli interessi di mora ex art. 30, d.P.R. 602/1973 che comincerebbero a decorrere dalla notifica della cartella potrebbero essere fatti valere solo nei sui confronti, una volta tornato in bonis, ai sensi dell’art. 120, comma 2, l.f. Sennonché, sul primo aspetto deve darsi atto del recente orientamento della Suprema Corte per cui «le spese di insinuazione al passivo sostenute dall’agente della riscossione (cd. diritti di insinuazione) rappresentano i costi normativamente forfetizzati di una funzione pubblicistica e hanno natura concorsuale, essendo previste da una disposizione speciale equiordinata rispetto al principio legislativo di eguaglianza sostanziale e di pari accesso al concorso di tutti i creditori, di cui agli artt. 51 e 52 l.f., sicché tali spese devono essere ammesse al passivo fallimentare in applicazione estensiva dell’art. 17 del d.lgs. n. 112 del 1999, che prevede la rimborsabilità delle spese relative alle procedure esecutive individuali, risultando altrimenti ingiustificato un trattamento differenziato delle due voci di spesa, fermo restando che il credito per
(68) Cass. Sez. VI-1, 30 gennaio 2019 n. 2732. (69) Segnatamente, il compenso determinato in misura proporzionale alle somme iscritte a ruolo riscosse (cd. aggio), gravante sul debitore nel caso di pagamento tardivo (oltre sessanta giorni dalla notifica della cartella) ed il rimborso delle spese esecutive e di notifica della cartella. Peraltro, l’art. 29, co. 1, d.l. 78/10 dispone che all’agente della riscossione spettano (a rigore solo dopo l’affidamento della riscossione, e quindi salvo pagamento intervenuto nei trenta giorni successivi alla scadenza del termine per impugnare) «l’aggio, interamente a carico del debitore, e il rimborso delle spese», senza possibilità di pagamento ridotto entro il predetto termine di sessanta giorni.
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le spese di insinuazione va riconosciuto in via chirografaria, non essendo relativo al tributo riscosso» (70). D’altro canto, in mancanza della notifica della cartella diventa difficile per il curatore la (pur doverosa) verifica in ordine alla legittimità del procedimento adottato dall’ente impositore e, dunque, il controllo circa la legittimità della pretesa erariale. Si pensi, ad esempio, agli importanti profili legati ai termini di decadenza dell’azione tributaria, o di prescrizione del credito erariale. Ai fini della individuazione del dies a quo per l’impugnazione del ruolo – alla luce dell’art. 21, co. 1, d.lgs. n. 546/1992, per cui «il ricorso deve essere proposto a pena di inammissibilità entro sessanta giorni dalla data di notificazione dell’atto impugnato» – talora si è ritenuto che la notificazione della cartella non sarebbe necessaria ai fini dell’ammissione del credito al passivo, quanto piuttosto ai fini del consolidamento della pretesa creditoria ivi iscritta, ovvero per dare avvio al decorso del termine di impugnazione del ruolo dinanzi al giudice tributario (71). In altre pronunce si è invece sostenuto che la domanda di ammissione ex art. 93 l.f. terrebbe luogo della notificazione della cartella di pagamento, sicché il termine di sessanta giorni per la proposizione del ricorso al giudice tributario potrebbe decorrere dal suo deposito (72). In alternativa, potrebbe anche sostenersi la decorrenza del dies a quo dal decreto di esecutività dello stato passivo ex art. 96 l.f.
(70) Cass. Sez. I, 22 dicembre 2015 n. 25802, in Fall., 2016, 680; conf. Cass. Sez. I, 11 giugno 2019, n. 15717. Contra, Cass. Sez. I, 15 marzo 2013 n. 6646, per cui «le spese per la notificazione della cartella esattoriale, ove questa sia avvenuta dopo la dichiarazione di fallimento del contribuente, non possono gravare sulla procedura concorsuale apertasi a suo carico, né, a maggior ragione, sono prededucibili, trattandosi di attività non necessaria ai fini dell’ammissione al passivo del relativo credito e dovendo trovare applicazione la normativa di cui alla legge fallimentare, senza che possano rilevare, a tal fine, le disposizioni che regolano i rapporti tra l’ente creditore ed il concessionario». (71) V. Cass. Sez. VI-5, 20 novembre 2014 n. 24736: «invero, che la cartella vada notificata, ai fini del consolidamento della pretesa tributaria, è innegabile; ciò tuttavia non esclude che l’ammissione - si badi, con riserva - al passivo fallimentare possa avvenire anche in difetto di notificazione, ma significa soltanto che sarà poi onere dell’agente della riscossione provvedere alla notificazione della cartella al fine di far decorrere il termine per l’impugnazione, nella competente sede giurisdizionale tributaria, da parte del curatore». (72) Cfr. Cass. Sez. VI-1, 31 maggio 2011 n. 12019. In termini, v. F. Paparella, Le indicazioni delle Sezioni Unite della Suprema Corte sull’impugnabilità dell’estratto di ruolo cit., 19, nel caso in cui l’estratto di ruolo allegato al ricorso ex art. 93 l.f. sia «completo di tutte le informazioni relative agli atti impositivi precedenti», nel qual caso la domanda sarebbe idonea ad integrare la “piena conoscenza” dell’atto impositivo.
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In ogni caso, se la domanda è fondata sul solo estratto di ruolo, il curatore che intenda contestare il credito erariale per fatti impeditivi di qualunque genere (ivi compresa la decadenza per tardiva iscrizione a ruolo del tributo) deve proporre l’ammissione con riserva ex art. 88 d.P.R. 602/73, esplicitando le ragioni che giustificano il ricorso dinanzi al giudice tributario, in attesa della cui decisione il credito dovrà necessariamente essere ammesso con riserva (73). 6. Definitività del titolo e termini di prescrizione. – Il tema dell’applicabilità della prescrizione ordinaria decennale ex art. 2946 c.c. a un titolo di formazione extragiudiziale – come la cartella esattoriale o l’avviso di accertamento “impoesattivo” non impugnato dal contribuente nei sessanta giorni successivi alla sua notifica – ha registrato negli ultimi tempi un forte dibattito. In un primo momento, la Suprema Corte aveva affermato che «la prescrizione quinquennale prevista dall’art. 2948 c.c. n. 4, per tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad un anno od in termini più brevi si riferisce alle obbligazioni periodiche o di durata, caratterizzate dal fatto che la prestazione è suscettibile di adempimento solo con decorso del tempo, di guisa che soltanto con il protrarsi dell’adempimento nel tempo si realizza la causa del rapporto obbligatorio e può essere soddisfatto l’interesse del creditore per il tramite della ricezione di più prestazioni, aventi un titolo unico, ma ripetute nel tempo ed autonome le une dalle altre; tale prescrizione, per contro, non trova applicazione con riguardo alle prestazioni unitarie, suscettibili di esecuzione così istantanea, come differita o ripartita, in cui cioè è, o può essere, prevista una pluralità di termini successivi per l’adempimento di una prestazione strutturalmente eseguibile però anche uno actu con riferimento alle quali opera la ordinaria prescrizione decennale contemplata dall’art. 2946 c.c.» (74). In altri termini, «la disposizione codicistica trova applicazione nella ipotesi di prestazioni periodiche in relazione ad una causa debendi continuativa, mentre la medesima norma non trova applicazione nella ipotesi di debito unico» (75). Tale orientamento – in base al quale, in sostanza, il termine di prescrizione per la riscossione dei crediti erariali (Irpef, Iva, Irap, ecc.) sarebbe decennale, una volta decorso dalla notifica il termine per l’impugnazione della cartella
(73) V. Cass. Sez. I, 23 agosto 2012 n. 14617, in Riv. dott. comm., 2, 2013, 416. (74) V. Cass. Sez. II, 3 settembre 1993 n. 9295. (75) Cass. Sez. Un., 25 luglio 2002 n. 10955, in Foro it., 2003, I, 879; Cass. Sez. V, 28 febbraio 2014 n. 4838; Cass. Sez. V, 23 febbraio 2010 n. 4283; Cass. Sez. V, 9 febbraio 2007 n. 2941; Cass. Sez. V, 24 marzo 2003 n. 4271.
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esattoriale e di qualsiasi altro atto amministrativo di natura accertativa, con conseguente soggezione dell’azione esecutiva alla prescrizione ordinaria ex art. 2953 c.c. – è stato però oggetto di revisione ad opera delle Sezioni Unite, chiamate a rispondere al quesito «se la decorrenza del termine perentorio per fare opposizione alla cartella di pagamento (art. 24, comma 5, del d.lgs. n. 46/1999), determinando la decadenza dall’impugnazione, produca solo l’effetto sostanziale della irretrattabilità del credito o renda applicabile l’art. 2953 c.c., convertendo il termine di prescrizione quinquennale (art. 3 commi 9 e 10, L. n. 335/1995) in quello decennale». Ebbene, secondo il massimo organo nomofilattico, «la scadenza del termine perentorio stabilito per opporsi o impugnare un atto di riscossione mediante ruolo o comunque di riscossione coattiva produce soltanto l’effetto sostanziale della irretrattabilità del credito ma non determina anche l’effetto della c.d. conversione del termine di prescrizione breve eventualmente previsto in quello ordinario decennale, ai sensi dell’art. 2953 cod. civ.» (76). Inoltre, trattandosi di un principio di applicazione generale, esso «si applica con riguardo a tutti gli atti – comunque denominati – di riscossione mediante ruolo o comunque di riscossione coattiva di crediti degli enti previdenziali ovvero di crediti relativi ad entrate dello Stato, tributarie ed extratributarie, nonché di crediti delle Regioni, delle Province, dei Comuni e degli altri Enti locali nonché delle sanzioni amministrative per la violazione di norme tributarie o amministrative e così via. Con la conseguenza che, qualora per i relativi crediti sia prevista una prescrizione (sostanziale) più breve di quella ordinaria, la sola scadenza del termine concesso al debitore per proporre l’opposizione, non consente di fare applicazione dell’art. 2953 cod. civ., tranne che in presenza di un titolo giudiziale divenuto definitivo». In sostanza, quando la cartella esattoriale non viene opposta dal contribuente nei termini previsti dalla legge e diventa perciò definitiva, ciò non significa che il termine di prescrizione quinquennale o più breve (ad es. triennale per il bollo auto) si trasforma in decennale, ai sensi dell’art. 2953 c.c., dal momento che questa “trasformazione” si ha solo quando il credito dell’agente
(76) Cass. Sez. Un., 17 novembre 2016 n. 23397, in Foro it., 2017, I, 938; conf. ex aliis Cass. Sez. VI-3, 7 dicembre 2018 n. 31817 e 15 maggio 2018 n. 11800, in tema di cartella di pagamento relativa a sanzioni amministrative per violazione del C.d.S.; Cass. Sez. VI-4, 18 maggio 2018 n. 12200 in tema di contributi previdenziali (Inps); Cass. Sez. V, 26 febbraio 2019 n. 5577, in tema di cartella emessa per sanzioni; Cass. Sez. VI-5, 3 maggio 2019 n. 11760, in tema di notifica di intimazione di pagamento successiva a cartella di pagamento
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di riscossione sia stato accertato in sede giudiziale, con sentenza passata in giudicato (cd. actio iudicati) (77). Di recente il giudice di legittimità ha sostenuto che – alla stregua di quanto accade per i tributi locali (Ici, Imu, tasse per lo smaltimento dei rifiuti, contributi di bonifica ecc.) – qualora per i crediti sia prevista una prescrizione (sostanziale) più breve di quella ordinaria, «la sola scadenza del termine concesso al debitore per proporre l’opposizione, non consente di fare applicazione dell’art. 2953 c.c., tranne che in presenza di un titolo giudiziale divenuto definitivo», dovendosi altrimenti applicare la prescrizione quinquennale. Il contribuente potrà dunque «chiedere al giudice l’estinzione del credito statale per intervenuta prescrizione breve, non soltanto nei casi di notifica di cartella esattiva (art. 36 bis e/o ter d.P.R. n. 600/73), bensì anche nelle fattispecie riguardanti qualsiasi atto amministrativo di natura accertativa (avvisi di accertamento, avvisi di addebito, ecc.)» (78). 7. Riparto di giurisdizione tra giudice fallimentare e giudice tributario in sede di accertamento del passivo fallimentare. – Come anticipato, in materia fallimentare vigono i due principi fondamentali del concorso sostanziale e del concorso formale, che trovano riscontro, tra l’altro, nell’art. 51 l.f. (che pone il divieto di azioni esecutive e cautelari individuali) e nell’art. 52 l.f. (che prevede il carattere di esclusività del procedimento di verifica dei crediti di cui agli artt. 93 e ss. l.f.). Entrambi i principi possono subire deroghe: ad es., prima che fosse introdotta la riscossione mediante ruolo, con il d.lgs. n. 46/1999, la cd. esecuzione esattoriale costituiva eccezione al divieto ex art. 51 l.f. (eccezione che non è stata eliminata nemmeno con il nuovo CCI nei confronti del creditore fondiario, il quale se ne può avvalere ai sensi dell’art. 41 t.u.b.); quanto invece al concorso formale, rispetto alla regola dell’art. 52 l.f. prevale l’esclusività della giurisdizione tributaria ex art. 2, d.lgs. n. 546/1992, sicché ogni questione su an e quantum dell’obbligazione tributaria ricade nella competenza del giudice tributario (79). Il procedimento di accertamento del passivo fallimentare è un procedimento giurisdizionale contenzioso di cognizione, governato dai principi della
(77) V. Cass. Sez. V, 22 marzo 2019 n. 8105, in IlFisco, 2019, 1671, per cui non rileva se si tratti di una pronuncia passata in giudicato di merito o in rito (nel caso di specie, di declaratoria di tardività dell’originario ricorso del contribuente). (78) Cass. Sez. V, 23 novembre 2018, n. 30362. (79) In particolare, appartengono alla giurisdizione tributaria le controversie aventi ad
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domanda (il ricorso ex art. 93 l.f.) e del contraddittorio (nella peculiare forma del contraddittorio cd. incrociato tra creditori, curatore e fallito, ex art. 95 l.f.). Esso ha ad oggetto l’accertamento dell’esistenza del credito oggetto della domanda, della sua opponibilità al fallimento e della sussistenza di eventuali cause di prelazione che lo assistano. L’ammissione al passivo può essere chiesta non solo da creditori già muniti di titolo esecutivo – o comunque titolari di un credito certo, liquido ed esigibile – bensì anche da soggetti portatori di un credito la cui esistenza deve essere ancora accertata, attraverso una decisione sul corrispondente diritto sostanziale. Peraltro, ai crediti tributari si applica la disposizione speciale di cui all’art. 88 del d.P.R. n. 602/1973 (come sostituito dall’art. 16 del d.lgs. n. 46/1999) a norma del quale «se sulle somme iscritte a ruolo sorgono contestazioni, il credito è ammesso al passivo con riserva, anche nel caso in cui la domanda di ammissione sia presentata in via tardiva a norma dell’articolo 101 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267. Nel fallimento, la riserva è sciolta dal giudice delegato con decreto, su istanza del curatore o del concessionario, quando è inutilmente decorso il termine prescritto per la proposizione della controversia davanti al giudice competente, ovvero quando il giudizio è stato definito con decisione irrevocabile o risulta altrimenti estinto». Pertanto, ferma restando la necessità di insinuare al passivo il credito tributario, le relative contestazioni – già pendenti o ancora promuovibili – devono essere risolte dal giudice tributario. Resta invece ferma la competenza esclusiva del giudice fallimentare quanto a: i) natura concorsuale del credito tributario (i.e. sua anteriorità rispetto all’apertura del fallimento); ii) esistenza ed opponibilità del titolo (prova del credito tributario); iii) collocazione del credito tributario (sussistenza ed estensione dell’eventuale privilegio) (80). Con riguardo al primo aspetto, la concorsualità del credito tributario viene generalmente ricondotta all’anteriorità dell’insorgere del suo presupposto fattuale rispetto all’apertura della procedura (81), indipendentemente dall’epoca
oggetto i tributi d’ogni genere (compresi quelli di cui sono titolari gli enti territoriali) nonché le sanzioni, gli interessi ed ogni altro accessorio. Vi sono peraltro alcune iscrizioni a ruolo di carichi diversi dai crediti tributari (ad es. previdenziali) che ricadono invece nella giurisdizione esclusiva del giudice (ordinario) del lavoro. (80) Tra gli innumerevoli autori v. L. Del Federico, Profili di specialità ed evoluzione giurisprudenziale nella verifica fallimentare dei crediti tributari, Fall., 2009, 1372; B. Quatraro, op. cit., 519 s. (81) L. Del Federico, I crediti tributari nell’accertamento del passivo fallimentare, in
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di formazione e notifica dell’atto impositivo (in fase di accertamento o riscossione), e ciò anche a prescindere dalle complesse questioni di teoria generale sottese all’ampio dibattito sul ruolo dell’accertamento ai fini del sorgere dell’obbligazione tributaria, riduttivamente polarizzato tra teoria dichiarativa (che valorizza l’obbligazione tributaria) e teoria costituiva (che valorizza l’atto impositivo) (82) . Anche la consolidata giurisprudenza della Cassazione considera crediti tributari anteriori al fallimento (e perciò “concorsuali”) quelli per i quali si sia verificato il presupposto impositivo, a prescindere dal momento dell’accertamento e dell’iscrizione a ruolo, proprio sull’assunto che l’obbligazione tributaria sorga al verificarsi del presupposto materiale previsto dalla norma, e che l’accertamento sia invece una mera condizione di esigibilità del credito, con cui «l’Amministrazione finanziaria si limita ad evidenziare l’esistenza di presupposti già verificatisi, al solo fine di precisare, in termini quantitativi, gli effetti giuridici, scaturiti da quei presupposti e da essa non modificabili, trattandosi di materia sottratta alla sua disponibilità» (83); tale tesi è stata invero applicata anche al credito portato dall’atto di irrogazione di sanzioni per l’illecito amministrativo tributario, nonostante di esso paia più agevolmente predicabile la natura costituiva (84). Un vulnus alla teoria dichiarativa sembrerebbe indirettamente inferto dall’art. 14-quaterdecies, co. 3, lett c), l. n. 3/2012, che esclude dall’esdebitazione del sovraindebitato (tra l’altro) «i debiti fiscali che, pur avendo causa anteriore al decreto di apertura della procedura … sono stati successivamente accertati in ragione della sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi» (quasi
Rass. Trib., 2015, 13 s., con rimandi alla tesi ampiamente condivisa in ambito fallimentaristico, ex multis da A. Guiotto, L’insinuazione al passivo dei crediti tributari, in Fall., 2011, 1418; B. Quatraro, op. cit., 516. (82) Ex plurimis, L. Del Federico, Profili di specialità cit., 1370; F. Paparella, Gli effetti della soppressione del ruolo, cit., 649 s., ivi con specifico richiamo anche alla conforme conclusione di F. Tesauro, op. cit., 242, esponente della dottrina costitutivista; più di recente cfr. L. Gambi, L’accertamento dei crediti fiscali nel concordato preventivo, in www.ilcaso.it, 22 maggio 2019, 8 ss. (83) V. Cass. Sez. Un., 28 maggio 1987 n. 4779, in Giust.civ., 1987, I, 2520; conf. Cass. Sez. Un., 9 giugno 1989 n. 2786, in Boll.trib., 1989, 1174; cfr. Sez. Un., 6 settembre 1990 n. 9201, in Fall., 1991, 348 ss.; cfr. Cass. Sez. V, 12 marzo 1994 n. 2423, in Giur.it., 1995, I, 268; Cass. Sez. V, 13 settembre 2013 n. 20978, in www.fisconline.it; cfr., di recente, Cass. Sez. V, 4 aprile 2019 n. 9440, in IlCaso, 22 maggio 2019. (84) Ex multis, Cass. 19 marzo 1984 n. 1868, in Riv. trib., 1984, II, 237; Cass. 9 febbraio 1987 n. 1375, in Fall., 1987, 923; cfr. L. Del Federico, op. cit. 1370, nt. 6.
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a testimoniare che il legislatore non ritenga concorsuali i crediti tributari i cui presupposti impositivi siano sorti prima dell’apertura della procedura concorsuale, laddove accertati in epoca successiva). Peraltro, tale disposizione è stata espunta dal corrispondente art. 278, co. 7, CCI. Con riguardo ai rapporti tra giurisdizione tributaria e giurisdizione fallimentare è oggetto di ampio dibattito – specie in dottrina – a chi spetti la cognizione sull’eccezione di prescrizione in sede di accertamento del passivo (85). Nella giurisprudenza di legittimità appare consolidato l’orientamento per cui essa spetta al giudice tributario, anche successivamente alla notifica della cartella esattoriale (quale atto prodromico all’esecuzione), poiché anche le controversie dirette ad accertare l’estinzione del tributo rientrano nella giurisdizione esclusiva del giudice speciale (86), la quale «si estende ad ogni questione relativa all’an o al quantum del tributo, arrestandosi unicamente di fronte agli atti della esecuzione tributaria; ne consegue che anche l’eccezione di prescrizione, quale fatto estintivo dell’obbligazione tributaria, rientra nella giurisdizione del giudice che abbia giurisdizione in merito alla predetta obbligazione» (87). Pertanto, ove in sede di ammissione al passivo il curatore eccepisca, dopo la notifica della cartella di pagamento, la prescrizione dei crediti tributari, il credito va ammesso con riserva, in attesa della decisione del giudice tributario, «a nulla rilevando l’invio al contribuente di un successivo
(85) Cfr. L. Gambi, Erario e fallimento: principi, profili applicativi ed aspetti problematici, in Riv. dir. fall., 2019, 161; L. Del Federico, I crediti tributari nell’accertamento del passivo fallimentare, in Rass. Trib., 2015, 20 s., il quale condivisibilmente distingue tra eccezione di decadenza dal potere impositivo, spettante alla cognizione del giudice tributario (in quanto normalmente collocato “a monte” dell’atto impositivo e integrante un vizio dell’atto da far valere con la sua impugnazione) ed eccezione di prescrizione dell’obbligazione tributaria, da attribuire alla cognizione del giudice fallimentare (in quanto collocata “a valle” dell’atto, nella fase della mera riscossione, e perciò afferente il rapporto obbligatorio), applicando la medesima logica anche all’estinzione per intervenuto condono fiscale. (86) In senso difforme v. già L. Del Federico, Profili di specialità ed evoluzione giurisprudenziale nella verifica fallimentare dei crediti tributari, Fall., 2009, 1372. Dopo l’introduzione del cd. avviso di accertamento esecutivo vi è chi attribuisce alla cognizione del giudice fallimentare anche la decadenza dal potere di riscossione del credito erariale oltre il 31 dicembre del terzo anno successivo a quello di definitività dell’accertamento: v. A. Carinci, L’ammissione al passivo dei crediti tributari, in Aa.Vv., Il diritto tributario delle procedure concorsuali e delle imprese in crisi, a cura di F. Paparella, Milano, 2013, 548, nt. 4. (87) Cass. Sez. Un., 19 novembre 2007 n. 23832, in Vita not. 2007, I, 1235; Cass. Sez. Un., 3 maggio 2016 n. 8770; Cass. Sez. Un., 13 giugno 2017 n. 14648; Cass. Sez. VI-1, 21 ottobre 2015 n. 21483; Cass. Sez. I, 9 ottobre 2017 n. 23576, in Fall., 2018, 579 ss.
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sollecito di pagamento, non trattandosi di un atto di esecuzione forzata, la cui cognizione è demandata al giudice ordinario, bensì di un atto assimilabile all’avviso di mora ex art. 50, comma 2, del d.P.R. n. 602 del 1973, impugnabile davanti alle commissioni tributarie» (88). Al riguardo va però considerato che la Corte costituzionale, con sentenza n. 114 del 31 maggio 2018 (89), ha dichiarato «incostituzionale l’art. 57, comma 1, lett. a), d.P.R. n. 602/73 nella parte in cui non prevede che, nelle controversie che riguardano gli atti dell’esecuzione forzata tributaria successivi alla notifica della cartella di pagamento o dell’intimazione ad adempiere, siano ammesse le opposizioni all’esecuzione regolate dall’art. 615 c.p.c. (al di fuori di quelle concernenti la pignorabilità dei beni)» (90). In particolare, il Giudice delle Leggi ha ritenuto che l’impossibilità per il contribuente di proporre opposizione all’esecuzione ai sensi dell’art. 615 c.p.c. non configuri un vuoto di tutela nelle situazioni in cui egli contesti il titolo della riscossione coattiva, poiché in tal caso la relativa controversia appartiene alla giurisdizione del giudice tributario e l’atto processuale di impulso è il ricorso ex art. 19 d.lgs. 546/1992 – proponibile avverso il ruolo e la cartella di pagamento – non già l’opposizione ex art. 615 c.p.c.; viceversa, laddove il contribuente contesti il diritto di procedere all’esecuzione forzata tributaria per essersi verificato un evento “a valle” della notifica della cartella di pagamento, in forza di fatti avvenuti successivamente alla definizione del ruolo (ad es. qualora il pignoramento, o altro successivo atto dell’esecuzione, intervenga dopo l’adempimento del debito tributario mediante definizione del ruolo, o dopo la cd. rottamazione della cartella di pagamento, ovvero quando è maturata la prescrizione del credito), la procedura esecutiva dovrebbe inesorabilmente proseguire nonostante il venir meno (o la sospensione) del titolo esecutivo, essendosi per un verso al di fuori della giurisdizione tributaria, ai sensi dell’art. 2, co. 1, seconda parte, d.lgs. 546/1992 (91) e per altro verso
(88) Cass. Sez. I, 11 giugno 2019, n. 15717; conf. Cass. Sez. I, 22 dicembre 2015 n. 25802, in Fall., 2016, 680. (89) V. S. Ziino, Appunti sulla opposizione all’esecuzione per crediti tributari, in Riv. es. forz., 1/2019, in part. 49 ss. (90) L’art. 57, co. 1, d.P.R. 602/73 dispone che nell’esecuzione fiscale non sono ammesse né le opposizioni regolate dall’art. 615 c.p.c. – eccetto quelle concernenti la pignorabilità dei beni – (lett. a) né quelle regolate dall’art. 617 c.p.c. relative alla regolarità formale ed alla notificazione del titolo esecutivo (lett. b). (91) Per cui «Restano escluse dalla giurisdizione tributaria soltanto le controversie riguardanti gli atti della esecuzione forzata tributaria successivi alla notifica della cartella di
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non potendosi ricorrere alla giurisdizione ordinaria ex art. 615 c.p.c., proprio in forza della disposizione ritenuta incostituzionale (92). Per quanto concerne i riflessi in ambito fallimentare – limitati, stante l’operatività del divieto di azioni esecutive individuali ex art. 51 l.f., ripetuto nell’art. 150 CCI – la sentenza n. 114/18 della Corte costituzionale sembrerebbe comportare che, in ragione della vis actractiva del tribunale fallimentare, il curatore possa proporre una contestazione equivalente alla “opposizione all’esecuzione” che il contribuente, se fosse stato in bonis, avrebbe potuto proporre dinanzi al giudice ordinario dell’esecuzione, dunque solo per far valere fatti successivi all’emissione della cartella, quali ad esempio il pagamento del tributo, la rateizzazione, la cd. “rottamazione”, lo sgravio con discarico dei ruoli ovvero – per l’appunto – la prescrizione del credito. Si tratta infatti di ipotesi nelle quali l’Agenzia delle Entrate-Riscossione non sarebbe più legittimata, per il venir meno del presupposto ex art. 88, d.P.R. 602/73, a proporre insinuazione al passivo fallimentare; né, in caso di sgravio, vi sarebbe più un provvedimento impugnabile davanti al giudice tributario, attraverso l’istituto della «ammissione con riserva». Una volta individuato nella “notifica” della cartella di pagamento il crinale tra la giurisdizione ordinaria (fallimentare) e quella tributaria, occorre dunque verificare se l’atto sia stato notificato o meno, poiché, laddove si discuta della notifica o si impugni un atto non notificato, permane la giurisdizione del giudice tributario (93).
pagamento e, ove previsto, dell’avviso di cui all’articolo 50 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, per le quali continuano ad applicarsi le disposizioni del medesimo decreto del Presidente della Repubblica». (92) Deve però darsi atto che alcuni interventi normativi si erano già mossi in questa direzione: l’art. 3, co. 3-bis, d.l. n. 40 del 2010 aveva inserito nell’art. 49 del d.P.R. n. 602/1973 la possibilità per l’esecutato di dimostrare con apposita documentazione l’avvenuto pagamento delle somme dovute, ovvero lo sgravio totale riconosciuto dall’ente creditore; l’art. 1, co. 537544, l. n. 228 del 2012 aveva invece introdotto la sospensione legale dell’esecuzione forzata tributaria in caso di: a) prescrizione o decadenza; b) sgravio; c) sospensione amministrativa concessa dall’ente creditore; d) sospensione giudiziale, oppure sentenza di annullamento della pretesa dell’ente creditore, in un giudizio cui il concessionario non ha partecipato; e) pagamento in data antecedente alla formazione del ruolo. (93) Cfr. Cass. Sez. VI-5, n. 24638 del 2017, per cui il contribuente non può «rimettere in discussione la pretesa impositiva, oramai cristallizzata nelle cartelle di pagamento divenute definitive», ma soltanto eccepire «un fatto nuovo e sopravvenuto, rispetto alla notifica delle stesse», fatto che le renderebbe «invalide».
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In proposito merita menzione, sebbene esuli dall’ambito fallimentare, una recente pronunzia della Suprema Corte per cui «in materia di esecuzione forzata per la riscossione di entrate di natura tributaria, anche dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 114 del 2018, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 57 del d.P.R. n. 602 del 1973 nella parte in cui esclude l’ammissibilità dell’opposizione regolata dall’art. 615 c.p.c. in relazione agli atti della procedura successivi alla notifica della cartella o dell’avviso di pagamento, le opposizioni cd. “recuperatorie”, ossia con le quali l’opponente intenda contestare il diritto dell’ente impositore o dell’agente di riscossione di agire in executivis per ragioni riferibili agli atti prodromici, di cui egli non abbia avuto conoscenza per omessa o viziata notificazione, devono proporsi, ai sensi degli artt. 2 e 19 del d.lgs. n. 546 del 1992, innanzi al giudice tributario nel termine di rito ivi previsto» (94). In effetti, l’art. 19, d. lgs. 546/1992, dopo aver fornito nel primo comma l’elenco degli atti autonomamente impugnabili, precisa nel terzo comma che «gli atti diversi da quelli indicati non sono impugnabili autonomamente» e che «ognuno degli atti autonomamente impugnabili può essere impugnato solo per vizi propri», aggiungendo però che «la mancata notificazione di atti autonomamente impugnabili, adottati precedentemente l’atto notificato, ne consente l’impugnazione unitamente a quest’ultimo»; di qui l’evidente allargamento delle maglie dell’accesso alla tutela giurisdizionale dinanzi al giudice tributario. 8. Litisconsorzio tra ente impositore e agente della riscossione nelle impugnazioni dello stato passivo. – In tema di impugnazione dello stato passivo si registrano orientamenti difformi circa la configurabilità o meno di un litisconsorzio necessario tra l’agente (ex concessionario) della riscossione e l’ente impositore. In passato, con riguardo all’allora vigente art. 77, d.P.R. 15 maggio 1963, n. 858, si era ritenuta necessaria l’integrazione del contraddittorio nell’ambito del giudizio di opposizione a stato passivo ogniqualvolta l’ente impositore avesse interesse a contrastare la pretesa del contribuente, ossia quando fosse in questione la sussistenza del rapporto d’imposta o la validità del titolo esecutivo (95).
(94) Cass. Sez. VI-3, 7 maggio 2019 n. 11900, in Judicium, 12 luglio 2019. (95) Cass. Sez. I, 16 ottobre 1976 n. 3513, in Foro it., 1976, I, 2824.
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Più di recente, taluno ha valorizzato il carattere obbligatorio della chiamata in causa dell’ente impositore, prevista dall’art. 39, d.lgs. 13 aprile 1999, n. 112, per cui «il concessionario, nelle liti promosse contro di lui che non riguardano esclusivamente la regolarità o la validità degli atti esecutivi, deve chiamare in causa l’ente creditore interessato; in mancanza, risponde delle conseguenze della lite» (96); altri ha fatto riferimento all’autorizzazione ex art. 106 c.p.c., rimessa alla discrezionalità del giudice di primo grado e incensurabile in sede d’impugnazione (97); altri ancora ha configurato la possibilità per il contribuente di impugnare la cartella esattoriale indifferentemente nei confronti dell’ente impositore o dell’agente della riscossione, essendo rimessa a quest’ultimo «la facoltà di chiamare in giudizio l’ente impositore» (98). In effetti, l’agente della riscossione opera quale mero sostituto processuale ex art. 81 c.p.c., sicché va affermata la legittimazione concorrente dell’ente impositore, che può partecipare più rapidamente al concorso, anche senza attendere l’iscrizione a ruolo del carico tributario. Pare dunque meritevole di adesione l’orientamento per cui, con riguardo alla domanda di ammissione al passivo ex art. 93 l.f., «alla legittimazione del concessionario a far valere il credito tributario nell’ambito della procedura fallimentare deve essere attribuita una valenza esclusivamente processuale, nel senso che il potere rappresentativo attribuito agli organi della riscossione non esclude la concorrente legittimazione dell’amministrazione finanziaria, la quale conserva la titolarità del credito azionato e la possibilità di agire direttamente per farlo valere in sede di ammissione al passivo» (99). Di conseguenza, ed anche nella successiva fase di impugnazione dello stato passivo, vale il principio per cui «il potere rappresentativo attribuito all’agente della riscossione e l’onere di quest’ultimo, nelle liti promosse contro di lui che non riguardano esclusivamente la regolarità o la validità degli atti esecutivi, di chiamare in causa l’ente creditore interessato, ai sensi dell’art. 39, d.lgs. 13 aprile 1999, n. 112, non escludono la concorrente legittimazione dell’ente impositore (nella specie Inps) a proporre opposizione allo stato passivo ai sensi dell’art. 98 legge fall., anche quando sia stato l’agente della
(96) Cass. Sez. I, 12 dicembre 2017 n. 29806; Cass. Sez. IV, 16 giugno 2016, n. 12450. (97) Cass. Sez. I, 5 maggio 2016, n. 9016; conf. Cass. Sez. I, 22 maggio 2019 n. 13929. (98) Cass. Sez. V, 28 aprile 2017, n. 10528. (99) Cass. Sez. Un., 15 marzo 2012, n. 4126, in Fall., 2013, 45; conf. Cass. Sez. I, 29 novembre 2018 n. 30880.
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riscossione a presentare domanda ai sensi dell’art. 93 l.f., in quanto esso conserva la titolarità del credito così azionato» (100). Di recente è stato altresì precisato che, pur escludendosi un’ipotesi di litisconsorzio necessario tra l’agente/concessionario e l’ente impositore creditore, nulla impedisce a quest’ultimo di spiegare intervento e, in caso di effettiva partecipazione, di impugnare la relativa sentenza, «non essendo la sua posizione assimilabile a quella di un mero interventore ad adiuvandum, avuto riguardo alla titolarità sostanziale della situazione soggettiva che costituisce oggetto della controversia ed alla natura concorrente della legittimazione processuale spettante al concessionario» (101). 9. Cenni sui recenti restyling in tema di transazione fiscale. – L’art. 1, comma 81, l. 11 dicembre 2016, n. 232 (102) – in vigore dal 1 gennaio 2017 – (103), ha fortemente innovato l’art. 182-ter l.f., a cominciare dalla rubrica, ove la locuzione «transazione fiscale» è stata sostituita con il «trattamento dei crediti tributari», vincolante per il debitore e quindi obbligatorio, tanto che il primo comma precisa che il debitore può proporre il pagamento parziale o dilazionato dei propri debiti tributari e contributivi «esclusivamente mediante proposta presentata ai sensi del presente articolo» (104). L’ambito oggettivo di applicazione della norma è stato ampliato, riguardando ora tutti i crediti tributari e contributivi (e relativi accessori) amministrati, rispettivamente, dalle agenzie fiscali e dagli enti gestori di forme di
(100) Cass. Sez. VI-1, 26 novembre 2015, n. 24202. (101) Cass. Sez. I, 13 settembre 2017 n. 21201. (102) Per la situazione previgente sia consentito il rinvio a P. Vella, La (in)disponibilità dei crediti tributari nelle procedure concorsuali tra diritto interno e principi dell’Unione europea, in Riv. dir. trib., 2016, IV, 111 ss.; Ead., Iva, concordato preventivo e transazione fiscale, in Enc. It. Treccani, Libro dell’anno del Diritto 2017. (103) Al riguardo, si può ritenere che la novella sia applicabile solo alle procedure il cui piano sia stato presentato dopo l’1 gennaio 2017, ovvero distinguere i concordati ove il provvedimento di omologazione è definitivo dai casi in cui la proposta non è stata ancora approvata dai creditori, oppure pendono opposizioni. Una soluzione praticabile è quella di ritenere applicabile la novella, oltre che ai procedimenti avviati dal 1 gennaio 2017, anche a quelli la cui proposta non sia ancora stata votata o sottoscritta per adesione a quella data (v. Cass. 15 settembre 2017, n. 21474). (104) F. Paparella, Il nuovo regime dei debiti tributari di cui all’art. 182-ter L.F.: dalla transazione fiscale soggettiva e concorsuale alla retrogradazione oggettiva, in Rass. trib., 2018, 327, che sottolinea l’esclusione di qualsiasi elemento consensuale, negoziale o transattivo, sebbene al secondo comma sia riproposta la formula della “proposta di accordo”.
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previdenza e assistenza obbligatorie (inclusi i crediti relativi all’Iva e alle ritenute operate e non versate che prima potevano soltanto essere oggetto di dilazione), nonché i tributi amministrati dall’Agenzia dei monopoli (in aggiunta ai già previsti tributi doganali). Continuano invece a rimanere esclusi i crediti relativi a tributi propri degli enti regionali o locali. Un professionista indipendente deve attestare che la soddisfazione proposta per i crediti tributari e previdenziali privilegiati non sia inferiore a quella realizzabile dal ricavato in caso di liquidazione, ai sensi dell’art. 160, co. 2, prima parte, l.f., dalla cui ultima parte invece la norma si discosta, rendendo sufficiente che tale trattamento (piuttosto che non «avere l’effetto di alterare l’ordine delle cause legittime di prelazione») non sia inferiore o meno vantaggioso – in termini di percentuale, tempi di pagamento e garanzie – rispetto a quello offerto ai creditori con grado di privilegio inferiore o con posizione giuridica e interessi economici omogenei; inoltre, la parte di credito falcidiata e degradata a credito di natura chirografaria va inserita in un’apposita classe. Anche il trattamento riservato ai crediti tributari o contributivi di natura chirografaria non può essere differenziato rispetto a quello degli altri creditori chirografari o (se i creditori sono suddivisi in classi) della classe di chirografari per la quale è previsto il trattamento più favorevole. La nuova disciplina non obbliga a redigere un documento specifico da destinare all’Amministrazione finanziaria, diverso da quelli predisposti per la generalità dei creditori. Non vi sono novità con riguardo alle modalità di espressione del diritto di voto, mentre la legittimazione al suo esercizio è stata chiaramente ripartita tra l’ente impositore creditore (Agenzia delle Entrate) e, limitatamente agli oneri di riscossione ex art. 17, d.lgs. 112/1999, l’agente della riscossione (Agenzia delle Entrate-Riscossione, subentrata a Equitalia). Con specifico riguardo agli accordi di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis l.f., l’art. 182-ter, co. 5, l.f. prevede che il professionista indipendente renda una apposita attestazione di convenienza del trattamento proposto per i crediti tributari e contributivi rispetto alle alternative concretamente praticabili, la quale risulta quindi più onerosa (105), poiché richiede una valutazione comparativa non solo con la prospettiva liquidatoria, ma anche con le altre
(105) E tra l’altro di dubbia utilità, inerendo ad un accordo già raggiunto: v. M. Spadaro, Il trattamento dei crediti tributari e contributivi secondo il nuovo art. 182 ter l.fall., in Fall., 2018, 16 s.
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soluzioni possibili (ad es. concordato preventivo e azioni esecutive individuali); la norma prevede altresì che tale presupposto è soggetto ad un, penetrante, sindacato di merito da parte del tribunale, in sede di omologazione. È stato inoltre eliminato il termine di trenta giorni entro il quale l’assenso doveva essere espresso ed è stata ripetuta la distinta legittimazione dell’ente impositore e dell’agente della riscossione. In luogo del precedente atto di «assenso alla proposta» è ora prevista la sottoscrizione di un «atto negoziale» che equivale alla «sottoscrizione dell’accordo di ristrutturazione». Ai fini del voto (nel concordato preventivo) o dell’adesione (negli accordi di ristrutturazione), l’attestazione del professionista indipendente rappresenta una condizione necessaria ma non sufficiente, restando l’Amministrazione comunque libera di esprimersi negativamente. La novella del 2016, nel ricondurre la falcidiabilità dei crediti tributari sotto l’usbergo della regola generale dettata per tutti i creditori dall’art. 160, co. 2, l.f., ha tolto linfa al pregresso dibattito sulla impugnabilità del diniego di adesione (106), facendo propendere per la sua sindacabilità – anche sotto il
(106) In passato si sono confrontati due indirizzi, l’uno volto a ricondurre il voto dell’Amministrazione nell’ambito della più ampia e generale volontà del ceto creditorio, rendendo il debitore titolare di una situazione di mero fatto, l’altro (maggioritario) teso invece a ravvisare nel voto la manifestazione di un provvedimento amministrativo, come tale impugnabile. In questo secondo ambito, le argomentazioni spese in favore della giurisdizione del giudice amministrativo possono così riassumersi: i) come nell’abrogata transazione sui ruoli, la posizione del contribuente sarebbe di interesse legittimo e il controllo ammesso sarebbe di mera legittimità, sub specie di eccesso di potere, non rientrando la materia nella giurisdizione di merito ex artt. 7 e 135 c.p.a.; ii) la giurisdizione tributaria sarebbe preclusa da un limite esterno (l’attinenza dell’oggetto della lite alla materia tributaria ex art. 2, d.lgs. 546/92) e da un limite interno (l’individuazione tassativa degli atti impugnabili ex art. 19, d.lgs. cit. fra i quali non figura il rifiuto di transazione fiscale); iii) l’art. 7, co. 4, dello Statuto dei diritti del contribuente prevede che la natura tributaria dell’atto non preclude il ricorso agli organi della giustizia amministrativa quando ne ricorrano i presupposti; iv) la valutazione compiuta dall’ufficio sarebbe assimilabile a quella svolta in sede di valutazione della richiesta di dilazione di pagamento ex art. 19, d.P.R. 600/1973, pacificamente soggetta alla giurisdizione amministrativa. Gli aspetti valorizzati invece dall’orientamento favorevole alla giurisdizione del giudice tributario possono così riepilogarsi: i) la non decisività della configurazione di un interesse legittimo; ii) l’ampliamento della giurisdizione tributaria ad opera della l. 488/2001; iii) il carattere non più strettamente tassativo dell’elencazione di cui all’art. 19 d.lgs. 546/1992; iv) l’assimilabilità del diniego in questione al rigetto delle domande di definizione agevolata dei rapporti tributari ex art. 19, co. 1, lett. h), d.lgs. 546/1992, stante la natura agevolativa dell’istituto transattivo (poiché, da un lato, la percezione del tributo risulterebbe agevolata per l’Amministrazione rispetto al rischio di insoddisfazione in caso di fallimento; dall’altro, il contribuente avrebbe una sopravvenienza attiva quale effetto della falcidia). In estrema sintesi
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profilo della convenienza – in sede di omologa, nell’alveo della giurisdizione concorsuale. La cancellazione di ogni riferimento al “consolidamento” e alla “cessazione della materia del contendere nei giudizi pendenti” consente ora di affermare che, da un lato, l’Amministrazione può procedere con l’emissione di ulteriori atti di accertamento, dall’altro il contribuente può iniziare o proseguire i giudizi dinanzi al giudice tributario, secondo la regola generale dell’art. 176 l.f. (107), tenendo conto dell’applicabilità del principio per cui «le controversie in cui è parte un fallimento sono trattate con priorità» (art. 43, co. 4 l.f., richiamato dall’art. 169 co. 2, l.f.). In mancanza di apposite disposizioni, gli effetti di un accordo di ristrutturazione sui giudizi tributari pendenti restano regolati dai generali criteri dettati in materia processuale, con particolare riguardo alla cessazione della materia del contendere (108). Sul punto, nella Circolare dell’Agenzia delle entrate n. 16 del 23 luglio 2018 si sottolinea che «la pronuncia di cessata materia del contendere non travolge la pretesa tributaria, ma il giudizio instaurato avverso la pretesa medesima, in quanto è venuto meno l’interesse delle parti alla coltivazione del processo». Inoltre, con rigurdo alla risoluzione di diritto prevista negli accordi di ristrutturazione dall’art. 182-ter, co. 6, l.f. (109) si sostiene
può dirsi che la giurisdizione tributaria è stata sostenuta dai massimi organi della giustizia ordinaria (Cass. Sez. Un., 18 febbraio 2014 n. 3774) e amministrativa (Cons. Stato, 14 luglio 2016 n. 4021). (107) Il debitore deve includere nella proposta di concordato anche i crediti oggetto di contestazione giudiziale, inserendoli in apposita classe, al duplice scopo di: i) consentire l’ammissione al voto dei crediti contestati ex art. 176 l.f.; ii) assicurare il consenso informato dei restanti creditori (v. Cass. Sez. I, 13 giugno 2018 n. 15414; conf. Cass. 7 marzo 2017, n. 5689; Cass. 26 luglio 2012, n. 13284). (108) V. Cass. Sez. V, 31 maggio 2016 n. 11316, nel senso che «in tema di transazione fiscale ex art. 182 ter l.fall., quella conclusa, ai sensi del comma 6, nell’ambito degli accordi di ristrutturazione dei debiti, pur non comportando espressamente la cessazione della materia del contendere relativamente ai giudizi in corso, atteso il mancato richiamo del precedente comma 5, determina parimenti, quale conseguenza, la dichiarazione d’inammissibilità del ricorso per sopravvenuta carenza dell’interesse delle parti ad una pronuncia di merito sull’impugnazione»; conf. Cass. Sez. V, 18 gennaio 2019, n. 1361. Cfr. Cass, Sez. Un., 18 maggio 2000, n. 368 in F.It., 2001, I, 956; Cass. Sez. V, 5 agosto 2004 n. 15081, in F.It. 2005, I, 1862. (109) Nella norma si prevede ora non più la “revoca” ma la “risoluzione di diritto” dell’accordo, nel caso in cui «il debitore non esegue integralmente, entro novanta giorni dalle scadenze previste, i pagamenti dovuti alle Agenzie fiscali e agli enti gestori di forme di previdenza e assistenza obbligatorie». Si tratta di una prima disciplina della fase esecutiva degli accordi di ristrutturazione, circoscritta ai crediti tributari e contributivi e diversa dal regime
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che il mancato assolvimento integrale e tempestivo, da parte del debitore, dei pagamenti dovuti in adempimento dell’accordo, farebbe «rivivere la pretesa tributaria nella misura originaria, poiché la rideterminazione del credito tributario nell’ambito dell’accordo di ristrutturazione non realizza un effetto novativo dell’obbligazione tributaria». Non si comprende perché l’intervento legislativo del 2016 non abbia toccato anche l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese, la procedura di composizione della crisi da sovraindebitamento (110) e l’esdebitazione ex art. 142 l.f. (111), né paiono apprezzabili le ragioni dell’esclusione dei tributi locali. Avrebbe altresì meritato un chiarimento legislativo la questione afferente i concordati fallimentari, non sussistendo argomenti apprezzabili, oltre quello testuale, per la loro esclusione. In ogni caso, dal 14 agosto 2020 è destinata ad entrare in vigore la nuova disciplina sulla “transazione fiscale” contenuta nel Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza emanato con il d.lgs. n. 14 del 2019 – salvi gli emendamenti che potranno essere apportati in attuazione della legge-delega 8 marzo 2019, n. 20 (cd. correttivo) – la quale, invero, non è particolarmente innovativa rispetto all’attuale assetto dell’art. 182-ter l.f., la cui disciplina è stata però sdoppiata in due norme, dedicate l’una agli accordi di ristrutturazione dei debiti (art. 63, nuovamente intitolato «transazione fiscale e accordi sui crediti contributivi») l’altra al concordato preventivo (art. 88, che continua invece ad essere rubricato «trattamento dei crediti tributari e contributivi»). In particolare, con riguardo agli accordi di ristrutturazione, l’esperto indipendente dovrà attestare la convenienza del trattamento proposto per i crediti fiscali e previdenziali rispetto non più alle alternative concretamente praticabili, bensì alla «liquidazione giudiziale», conformemente a quanto previsto
di «risoluzione e annullamento del concordato» ex art. 186 l.f. che fa riferimento (in senso ostativo) alla nozione civilistica di «inadempimento di scarsa importanza». (110) Che infatti continua a prevedere la non falcidiabilità delle risorse proprie dell’Unione Europea, dell’Iva e delle ritenute operate e non versate (oggetto solo di possibile dilazione). Di recente però la Corte costituzionale, con sentenza n. 245 del 29 novembre 2019, ha dichiarato incostituzionale l’art. 7, comma 1, terzo periodo, della legge 27 gennaio 2012, n. 3 (Disposizioni in materia di usura e di estorsione, nonché di composizione delle crisi da sovraindebitamento), limitatamente alle parole: «all’imposta sul valore aggiunto»; pertanto anche in quella procedura è ora consentita la falcidiabilità dell’IVA. (111) Nonostante Corte giust. 16 marzo 2017 (sollecitata dalla Cass. Sez. V, 6 maggio 2015, n. 13542) sia pervenuta alle stesse conclusioni raggiunte in tema di concordato preventivo.
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per il concordato preventivo (art. 88 co. 2, CCI), fermo restando il relativo sindacato giudiziale di merito sul punto (art. 63 co. 1, CCI). Ulteriore ed apprezzabile novità è l’intervento sul piano di ristrutturazione dei debiti del consumatore sovraindebitato, per il quale l’art. 67, CCI non contempla più alcuna forma di non falcidiabilità, facendo applicazione della regola generale dettata dall’art. 160, co. 2, l.f. per i crediti privilegiati. Al riguardo l’art. 68 co. 4, CCI prevede espressamente che «l’OCC, entro sette giorni dall’avvenuto conferimento dell’incarico da parte del debitore, ne dà notizia all’agente della riscossione e agli uffici fiscali, anche degli enti locali, competenti sulla base dell’ultimo domicilio fiscale dell’istante, i quali entro quindici giorni debbono comunicare il debito tributario accertato e gli eventuali accertamenti pendenti». Identiche regole sono rispettivamente contenute, con riguardo al cd. concordato minore del debitore sovraindebitato, nell’art. 75 co. 2 CCI e nell’art. 76 co. 4 CCI. Paiono così destinate ad essere superate tutte le residue diatribe sul tema della falcidiabilità dell’Iva. Di particolare rilievo è infine la disposizione dell’art. 48, co. 5, CCI, per cui «il tribunale omologa gli accordi di ristrutturazione anche in mancanza di adesione da parte dell’amministrazione finanziaria quando l’adesione è decisiva ai fini del raggiungimento delle percentuali di cui all’articolo 57, comma 1, e 60, comma 1 e quando, anche sulla base delle risultanze della relazione del professionista indipendente, la proposta di soddisfacimento della predetta amministrazione è conveniente rispetto all’alternativa liquidatoria». Si tratta di una novità di grande importanza, che agevola la conclusione dei (soli) accordi di ristrutturazione introducendo la possibilità di “sterilizzare” il dissenso del (solo) creditore-fisco, nel caso in cui la sua adesione sarebbe «decisiva» ai fini del raggiungimento delle maggioranze previste (60% e, per gli accordi agevolati, 30%) e la proposta risulti conveniente rispetto alla «alternativa liquidatoria» (ad es. anche una liquidazione in bonis) (112).
(112) Secondo A. Zorzi, Piani di risanamento e accordi di ristrutturazione nel codice della crisi, in Fall., 2019, 1003 s., le due condizioni sarebbero alternative, nel senso che il cram down sul fisco sarebbe possibile sia quando la proposta è conveniente (anche se l’adesione non è decisiva), sia quando l’adesione è decisiva (anche se la proposta non è conveniente). Tuttavia, la dichiarata necessità di prevedere nel secondo caso il pagamento integrale del credito tributario o contributivo, inficia la solidità della tesi, poiché vi è contraddizione in termini tra cram down e pagamento integrale, proprio dei creditori estranei all’accordo. Pare dunque più condivisibile che si tratti di condizioni cumulative, come sostenuto anche da G.B. Nardecchia, Il nuovo codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza. Disciplina, novità, problemi applicativi, Molfetta, 2019, cap. 16, par. 10.
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Lo strumento, per quanto duttile e pragmatico, non ha mancato di suscitare perplessità poiché, pur essendo ispirato dal condivisibile fine di superare “ingiustificate resistenze” dell’amministrazione finanziaria, si presta ad un uso opportunistico del debitore, che potrebbe appropriarsi del surplus della ristrutturazione anche in assenza di una maggioranza di crediti favorevole al piano (113). In ogni caso, il nuovo istituto dovrà passare il vaglio di compatibilità con la Direttiva (UE) 2019/1023, segnatamente: i) con l’art. 11, che prescrive alternativamente il rispetto di una serie di condizioni per la validità della “ristrutturazione trasversale dei debiti” (cd. Cross-Class Cram-Down); ii) con l’art. 2, n. 6), per cui la «verifica del migliore soddisfacimento dei creditori» (cd. Best Interest of Creditors Test, o test di convenienza) va parametrata rispetto non solo all’alternativa liquidatoria, ma anche al «migliore scenario alternativo possibile se il piano di ristrutturazione non fosse omologato»; iii) con l’art. 10, par. 2, lett. d) e il Cons. 50, che includono tra le condizioni minime da verificare obbligatoriamente in sede di omologazione del piano la «verifica del migliore soddisfacimento dei creditori» solo su contestazione delle parti dissenzienti interessate, e non d’ufficio, «onde evitare che sia effettuata in tutti i casi una valutazione» del Best Interest of Creditors Test; iv) con l’art. 5, par. 3, lett. b), che contempla la ristrutturazione trasversale dei debiti tra i casi di nomina obbligatoria di un Insolvency Practitioner, mentre l’art. 44 co. 4, CCI prevede la nomina del commissario giudiziale nel giudizio di omologazione degli accordi di ristrutturazione solo in presenza di istanze per l’apertura della procedura di liquidazione giudiziale.
Paola Vella
(113) A. Zorzi, op. cit., 1004 s.
Giurisprudenza e interpretazione amministrativa
Cass., Sez. V, 2 luglio 2019 - 23 settembre 2019, n. 23549; Pres. De Masi - Est. Stalla Imposta di registro – art. 20 – rilevanza del collegamento e degli elementi extratestuali – questione di legittimità costituzionale È rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, in rapporto agli artt. 53 e 3 Cost., del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, come risultante dagli interventi apportati dalla L. n. 205 del 1917, art. 1, comma 87, (L. di bilancio 2018) e dalla L. n. 145 del 2018, art. 1, comma 1084, (L. di bilancio 2019), nella parte in cui dispone che, nell’applicare l’imposta di registro secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, si debbano prendere in considerazione unicamente gli elementi desumibili dall’atto stesso, «prescindendo da quelli extratestuali e dagli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi». (1)
(Omissis) § 1.1 La Alfa srl con socio unico propone quattro motivi di ricorso per la cassazione della sentenza n. 142/43/13 del 19 novembre 2013, con la quale la commissione tributaria regionale della Lombardia, a conferma della prima decisione, ha ritenuto legittimo l’avviso di liquidazione per imposta proporzionale di registro notificatole dall’agenzia delle entrate in esito a riqualificazione giuridica D.P.R. n. 131 del 1986, ex art. 20, in termini di cessione di azienda, della seguente operazione: - 15 settembre 2008, costituzione della D.T. srl a socio unico da parte della D.T. srl (ora Alfa srl); - 28 novembre 2008, delibera di aumento di capitale della neocostituita D.T. srl, da liberarsi con conferimento in natura di tre rami di azienda; - 28 novembre 2008, conferimento in essa del proprio ramo d’azienda da parte di D.T. srl (già socio unico della conferitaria, poi divenuta Omissis srl), di Omissis srl (già Omissis srl) e di Omissis srl (già Omissis srl); - 29 dicembre 2008, cessione alla Alfa srl a s.u. delle quote di partecipazione così acquisite nella D.T. srl da parte delle conferenti Omissis, Omissis e Omissis. La commissione tributaria regionale, in particolare, ha rilevato che:
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Parte seconda
- la riqualificazione ex art. 20 cit., era legittima dal momento che, per quanto articolata mediante plurimi atti negoziali, l’operazione in esame doveva ritenersi sostanzialmente unitaria, e con oggetto la cessione dei rami aziendali a favore della Alfa in veste di cessionaria finale delle quote; - non erano nella specie applicabili le tutele procedimentali di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, relativo alle sole imposte dirette; - nel caso di specie, la riqualificazione poteva anche prescindere dalla contestazione di abuso del diritto, posto che l’amministrazione finanziaria si era limitata alla riqualificazione giuridica degli atti sottoposti a registrazione assoggettandoli ad aliquota proporzionale sulla base della stessa base imponibile (non rettificata) indicata dalle parti, perché desumibile dagli atti stessi. Resiste con controricorso l’agenzia delle entrate. La società ricorrente ha depositato memoria 25 giugno 2019 con la quale invoca lo jus superveniens costituito sia dalla L. n. 205 del 2017, art. 1, comma 87, (L. di bilancio 2018), sia L. n. 145 del 2018, comma 1084, (L. di bilancio 2019); allega inoltre la risposta ad interpello n. 196 del 18 giugno 2019, con la quale la stessa agenzia delle entrate, in fattispecie similare, sarebbe orientata ad escludere la rilevanza ex art. 20, D.P.R. n. 131 del 1986, (nella formulazione risultante dal suddetto jus superveniens) di atti collegati ed elementi extratestuali. § 1.2 Con il primo motivo di ricorso la società lamenta - ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, - violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, dal momento che questa norma consentirebbe all’amministrazione finanziaria di riqualificare il solo atto presentato alla registrazione, non anche gli atti a questo esterni, ed asseritamente collegati (imposta d’atto); inoltre l’ordinamento tributario escluderebbe espressamente (D.P.R. n. 917 del 1986, art. 176, comma 3), che operazioni quali quella in esame possano concretare abuso del diritto perché finalizzate al mero risparmio fiscale. Con il secondo motivo di ricorso si deduce violazione della stessa norma sotto il profilo che, nella specie, si trattava di operazione rispondente a reali esigenze di riorganizzazione aziendale attraverso atti che si mantenevano soggettivamente, oggettivamente e finalisticamente distinti ed autonomi; inoltre, la riqualificazione ex art. 20, muoveva testualmente dalla considerazione dei soli effetti “giuridici” dell’atto, non anche di quelli “economici”, invece presi in esame dall’amministrazione finanziaria nell’avviso opposto. Con il terzo e il quarto motivo di ricorso si deduce violazione di legge con riguardo al principio del contraddittorio ex L. n. 212 del 2000, artt. 6 e 12, L. n. 4 del 1929, art. 24, D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, ed al principio dell’onere della prova ex art. 2697 c.c.. Per non avere la Commissione Tributaria Regionale rilevato che l’avviso di liquidazione in oggetto non era stato preceduto dalla elevazione di un verbale di constatazione della condotta abusiva; né, ad ogni modo, dall’instaurazione di un contraddittorio preventivo in attuazione di un principio che doveva ritenersi imma-
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nente nell’ordinamento tributario, anche in conformità alla giurisprudenza CGUE in materia. Neppure, infine, l’amministrazione finanziaria aveva osservato le garanzie procedimentali di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, commi 4 e 5. § 2. Il dato normativo di partenza, quello sul quale si è poggiato l’avviso di liquidazione opposto, è costituito dal previgente D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, (Testo Unico imposta di registro): “Interpretazione degli atti. 1. L’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente”. La già citata legge di bilancio previsionale per l’anno 2018 (L. n. 205 del 2017, art. 1, comma 87, lett. a)), è intervenuta su questa norma, la quale trova oggi una più circoscritta definizione: “L’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, sulla base degli elementi desumibili dall’atto medesi o, prescindendo da quelli extratestuali e dagli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi”. Fermo restando il principio basilare di prevalenza della sostanza sulla forma, l’intervento legislativo in questione ha significativamente ristretto l’oggetto dell’interpretazione negoziale al solo atto presentato alla registrazione, ed agli elementi soltanto da quest’ultimo desumibili; non rilevano quindi più, come espressamente indicato dal legislatore, gli elementi evincibili da atti eventualmente ad esso collegati, così come quelli riferibili ad indici esterni o fonti extratestuali. Quanto all’efficacia temporale di quest’ultima disposizione (se applicabile solo per il futuro, ovvero anche agli atti registrati prima della sua entrata in vigore ed ancora in corso di accertamento o sub judice), questa corte di legittimità ha maturato, nel corso del 2018, un monolitico orientamento in questo senso: “in tema di imposta di registro, la L. n. 205 del 2017, art. 1, comma 87, lett. a), modificativo del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, con effetto dal 1 gennaio 2018, non ha natura interpretativa, ma innovativa, in quanto introduce limiti all’attività di riqualificazione della fattispecie precedentemente non previsti: ne deriva che tale disposizione non ha efficacia retroattiva e, pertanto, gli atti antecedenti alla data della entrata in vigore della stessa continuano ad essere assoggettati all’imposta secondo la disciplina contemplata dal detto D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, nella previgente formulazione” (Cass. 2007/18; così Cass. nn. 4407/18; 5748/18; 7637/18; 8619/18; 13610/18 ed altre). Non è però utile qui soffermarsi sugli argomenti addotti a sostegno di questo indirizzo, dal momento che il legislatore è nuovamente intervenuto con la, pure già citata, legge di bilancio previsionale per l’anno 2019, stabilendo (L. n. 145 del 2018, art. 1, comma 1084), che: “La L. 27 dicembre 2017, n. 205, art. 1, comma 87, lett. a), costituisce interpretazione autentica del testo unico di cui al D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, art. 20, comma 1”.
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Parte seconda
Si tratta di disposizione con la quale il legislatore ha palesato la volontà di attribuire portata retroattiva alla formulazione dell’art. 20, risultante dalla L. bilancio 2018, quale effetto normalmente riconducibile alla norma di interpretazione autentica ed alla sua natura prettamente dichiarativa di un significato fin dall’inizio contenuto nella norma interpretata. Ebbene, si ritiene che la nuova e più ristretta formulazione del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, così risultante, ponga una rilevante e non manifestamente infondata questione di legittimità costituzionale. § 3. In punto rilevanza, non è possibile decidere la controversia senza fare applicazione - appunto retroattiva - della norma in esame. Norma che, come detto, l’amministrazione finanziaria ha posto a fondamento esclusivo di un avviso di liquidazione (per imposta proporzionale di registro, in luogo di quella autoliquidata dalla società in misura fissa) che, proprio all’esito della riqualificazione giuridica di un complesso di atti negoziali collegati ed asseritamente costituente un’operazione unitaria, individua in quest’ultima la sostanza di una cessione aziendale, sebbene indirettamente realizzata attraverso il previo conferimento di rami aziendali in una società costituita ad hoc e la cessione alla odierna ricorrente delle, così liberate, quote sociali della conferitaria. È vero che la ricorrente, aldilà della stretta questione interpretativa dell’art. 20 cit., oppone anche profili diversi e potenzialmente assorbenti, perché per altra ragione invalidanti l’avviso di liquidazione opposto. Questi profili - dedotti nei motivi di ricorso diversi dal primo - non sembrano però condivisibili: - non quello concernente l’esclusione, nella specie, di qualsivoglia collegamento negoziale, dal momento che il giudice di merito, con valutazione argomentata e qui non sindacabile, ha invece positivamente riscontrato, nell’ambito di un tipico accertamento fattuale di sua competenza (qual è quello in questione: Cass. n. 22216/18 ed altre), il requisito del collegamento negoziale, assumendo come dato imprescindibile di causa proprio l’unitarietà dell’operazione realizzata e l’univocità del suo scopo finale (tanto più corroborate, egli ha ritenuto, dal coordinamento imprenditoriale delle varie società coinvolte e dalla strettissima contestualità temporale del tutto); - non quello con cui si assume la mancata previa elevazione di processo verbale di constatazione e la mancata osservanza della procedura di tutela prevista dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, (allora vigente) in caso di contestazione di condotte fiscalmente abusive, dal momento che, come meglio si avrà modo di dire (p. 4.3), il D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, ha a che vedere con la riqualificazione giuridica dell’atto da registrare, e non con la contestazione di condotte abusive od elusive, sicché: “(...) i motivi di ricorso incidentale sono infondati, in quanto si basano sull’assunto per cui la commissione avrebbe dovuto rilevare la mancata applicazione, da parte della amministrazione finanziaria, delle garanzie di contraddittorio endoprocedimentale di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, (oggi L. n. 212 del 2000, art. 10-bis);
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assunto che è errato essendosi, nel caso di specie, fatta applicazione, da parte del fisco, del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, che detta una regola interpretativa e non antielusiva, il cui impiego non è condizionato al rispetto delle suddette garanzie” (Cass. n. 13610/18; così Cass. nn. 313/18; 6758-6759/17 e molte altre); il che al contempo rende del tutto ininfluente, ai fini della decisione, tanto che l’operazione qui dedotta potesse non presentare alcun connotato abusivo o distorsivo rispondendo piuttosto, come pure sostenuto dalla società, a “reali esigenze di riorganizzazione aziendale”, quanto che il conferimento di azienda seguito dalla cessione delle quote non sia, a certe condizioni, considerato abusivo ai fini delle imposte sul reddito (TUIR, art. 176, comma 3); - e neppure quello relativo al mancato contraddittorio preventivo in sede amministrativa, non in applicazione di una specifica previsione legislativa (insussistente), ma quale espressione di un principio generale ed immanente nell’ordinamento; dal momento che qui si discute di imposta “non armonizzata” di registro, e che l’orientamento di legittimità sul punto si è ormai saldamente attestato, a superamento di un diverso indirizzo, nel senso che: “in tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, l’Amministrazione finanziaria è gravata di un obbligo generale di contraddittorio endoprocedimentale, la cui violazione comporta l’invalidità dell’atto purchè il contribuente abbia assolto all’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere e non abbia proposto un’opposizione meramente pretestuosa, esclusivamente per i tributi “armonizzati”, mentre, per quelli “non armonizzati”, non è rinvenibile, nella legislazione nazionale, un analogo generalizzato vincolo, sicchè esso sussiste solo per le ipotesi in cui risulti specificamente sancito” (Cass. SSUU 24823/15, ed innumerevoli altre). § 4.1 In punto non manifesta infondatezza, sussistono consistenti dubbi di incompatibilità del “nuovo” art. 20, con quanto prescritto dagli artt. 53 e 3 Cost. Nella disciplina dell’imposta di registro - ma il discorso può riferirsi alla fiscalità nella sua interezza, e nei suoi risvolti tanto nazionali quanto sovranazionali - quello di prevalenza della sostanza sulla forma è principio imprescindibile ed anche storicamente radicato. Esso trova la propria origine, nell’ordinamento postunitario, con la L. n. 585 del 1862, art. 7, secondo cui: “la tassa è applicata secondo l’intrinseca natura degli atti e non secondo la loro forma apparente”; disposizione poi trasfusa nel R.D. n. 3269 del 1923, art. 8, in base al quale: “le tasse sono applicate secondo l’intrinseca natura e gli effetti degli atti dei trasferimenti, se anche non vi corrisponda il titolo o la forma apparente”. Il D.P.R. n. 634 del 1972, art. 19, poi recepito dal vigente TUR, art. 20, ha tenuto ferma questa impostazione di fondo, introducendo - a sintesi di un acceso dibattito dottrinale - l’attribuzione “giuridici”, riferita agli effetti dell’atto che vanno considerati nell’opera di riqualificazione. Si tratta di principio che è stato costantemente valorizzato, nell’interpretazione della norma in esame, dalla giurisprudenza di legittimità secondo la quale - all’esatto
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contrario di quanto oggi portato dall’attuale formulazione dell’art. 20, - la qualificazione dell’atto secondo parametri di tipo sostanzialistico, e non nominalistico o di apparenza, comporta la necessaria considerazione anche di elementi esterni all’atto e, in particolare, anche di elementi desumibili da atti eventualmente collegati con quello presentato alla registrazione. Unica voce dissonante in un panorama giurisprudenziale di legittimità vastissimo e del tutto consolidato sul punto specifico (da Cass. nn. 10743/13, 6405/14, 25001/15, fino a Cass. nn. 2050/17, 4404/18, 5748/18, 5755/18, 14999/18, 881/19 ed innumerevoli altre) è costituita da Cass. n. 2054/17 la quale, pur affermando che l’amministrazione finanziaria non è tenuta a conformarsi alla qualificazione giuridica attribuita al contratto dalle parti, ha poi stabilito che essa non può operare la riqualificazione del medesimo - ex art. 20, - travalicando “lo schema negoziale tipico in cui l’atto risulta inquadrabile, salva la prova, da parte sua, sia del disegno elusivo sia delle modalità di manipolazione ed alterazione degli schemi negoziali classici”. Tanto che, in assenza di prova di intento elusivo e strumentale, la cessione dell’intera partecipazione societaria non potrebbe essere riqualificata in termini di cessione aziendale. E tuttavia, la posizione così isolatamente espressa - per quanto rispondente a posizioni sostenute con forza dalla dottrina ed anche da alcune pronunce di merito - non ha avuto seguito, risultando infatti poco dopo esaminata da Cass. n. 11873/17 la quale, prendendo espressamente posizione sulla suddetta pronuncia, ha ritenuto di doverla infine disattendere confermando e recuperando il suddetto orientamento. Orientamento i cui i passaggi essenziali possono così ricapitolarsi: - la natura di “imposta d’atto” propria dell’imposta di registro (e confermata dal TUR, art. 1, secondo cui l’oggetto dell’imposta è costituito appunto dall’atto soggetto a registrazione e da quello che sia volontariamente presentato per la registrazione) non osta alla valorizzazione complessiva di elementi interpretativi esterni e di collegamento negoziale; dal momento che l’“atto presentato alla registrazione” non si identifica con il sostrato materiale o cartaceo che lo contiene e veicola (“atto-documento”), bensì con l’insieme delle previsioni negoziali preordinate, anche mediante collegamento e convergenza finalistica, al perseguimento di una programmata regolazione unitaria degli effetti giuridici derivanti dai vari negozi collegati (“atto-negozio”); indiretta conferma di ciò si ha anche in tutte quelle previsioni, che potremmo definire satelliti del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, che stabiliscono (indipendentemente dalla formulazione e, talvolta, persino dall’esistenza stessa di un sostrato documentale o cartaceo) la registrazione dei contratti verbali (art. 3); l’autonoma e plurima registrazione di più disposizioni negoziali tra loro indipendenti, ancorchè contenute in un unico atto complesso (art. 21); l’imponibilità di disposizioni negoziali puramente enunciate (art. 22); - il recupero di elementi negoziali esterni e collegati all’atto presentato alla registrazione risponde all’esigenza di evidenziare, appunto in attuazione della regola per cui la sostanza vince sulla forma, la causa reale di tale atto, assunta quale criterio ispiratore di un’attività (quella di qualificazione negoziale volta all’emersione della
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materia imponibile) che, per sua natura, non può essere lasciata alla discrezionalità delle parti contribuenti nè a quello che le parti abbiano dichiarato (sulla “indisponibilità della qualificazione contrattuale ai fini fiscali”: Cass. 2009/18); tanto che, a riprova, analoga esigenza non si pone con riguardo alla registrazione di atti di natura non dispositiva e negoziale ma decisionale, come una sentenza o un lodo arbitrale, in ordine ai quali occorre invece fare stretto riferimento al solo contenuto ed ai soli effetti che emergano dalla pronuncia stessa, “senza possibilità di utilizzare elementi ad essa estranei, nè di ricercare contenuti diversi da quelli su cui si sia formato il giudicato” (Cass. 15918/11); - un simile processo di riqualificazione è reso possibile, e normale, dal richiamo a scopo qualificatorio degli istituti civilistici generali, già da tempo enucleati dalla dottrina e dalla giurisprudenza, della “causa concreta” del contratto (focalizzata fin da Cass. n. 10490/06) e del “collegamento negoziale”, definibile nella risultante di un elemento oggettivo di connessione e di un elemento soggettivo di perseguimento di un “fine ulteriore” rispetto a quello raggiungibile dai singoli negozi isolatamente considerati; così da dar vita ad un “meccanismo attraverso il quale le parti perseguono un risultato economico complesso, che viene realizzato, non attraverso un autonomo e nuovo contratto, ma attraverso una pluralità coordinata di contratti, i quali conservano una loro causa autonoma, anche se ciascuno è concepito, funzionalmente e teleologicamente, come collegato con gli altri, cosicchè le vicende che investono un contratto possono ripercuotersi sull’altro. Ciò che vuol dire che, pur conservando una loro causa autonoma, i diversi contratti legati dal loro collegamento funzionale sono finalizzati ad un unico regolamento dei reciproci interessi” (tra le molte, Cass. 11914/10; 7255/13; 19161/14; 20726/14; 10722/17; 22216/18 cit.); - la circostanza che la qualificazione dell’atto debba avvenire secondo gli effetti “giuridici” del medesimo, e che sempre in ragione di tali effetti “giuridici” sia in pratica applicata la tariffa d’imposta, non preclude che si attribuisca rilevanza, visto anche il sostrato prettamente economico del principio di capacità contributiva, a quello scopo economico unitario ed ultimo infine raggiunto dalle parti proprio attraverso la combinazione ed il coordinamento degli effetti giuridici dei singoli atti; chè proprio in questo si realizza la causa concreta (o “reale” che dir si voglia) dell’atto e si disvela la sua “intrinseca natura”. Ora, il convincimento per cui il criterio di qualificazione sostanziale dell’atto presentato alla registrazione non confligge con la considerazione dell’eventuale collegamento negoziale (il cui accertamento, anzi, sollecita) ha prodotto una casistica giurisprudenziale estremamente diffusa ed eterogenea di qualificazione giuridica ex art. 20, secondo cui, solo per citare qualche esempio più ricorrente: è vendita il conferimento di aziende o immobili, anche gravati da mutui ipotecari accollati dalla società conferitaria, collegato alla successiva cessione a terzi delle quote di quest›ultima: tra le altre, Cass. nn. 12909/18; 5748/18; 4590/18; 6758/17; ha rilevato Cass. 13610/18 che «il conferimento societario di un›azienda e la successiva
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cessione dal conferente a terzi delle quote della società devono essere qualificati come cessione di azienda se il fisco riconosca nell’operazione complessiva, in base alle circostanze obiettive del caso concreto, la causa unitaria della cessione aziendale»; - è vendita la fattispecie di collegamento negoziale tra mutuo ipotecario e conferimento alla società dell’immobile su cui grava l’ipoteca: Cass. 4589/18; Cass. ord.7637/18; - è cessione di azienda la vendita separata, ma collegata, di tanti beni singolarmente considerati, ma funzionalmente suscettibili di destinazione ed organizzazione produttiva unitaria: Cass. nn. 15175/16; 1955/15; 17965/13; nonchè Cass. 31069/17, secondo cui: “la nozione di cessione d’azienda assunta ai fini dell’imposta di registro induce a riaffermare la centralità dell’elemento funzionale, ossia del legame fra singolo elemento aziendale ed impresa, che conferisce l’attributo aziendale a ciascuno degli elementi che la compone, e che non viene meno nelle cessioni “scomposte” di beni aziendali, con formula cosiddetta “spezzatino” o “a gradini”; ha osservato Cass. ord.21767/17 che: “in ambito tributario, a fini della determinazione dell’imposta applicabile, la qualificazione di un negozio come cessione d’azienda postula una valutazione complessiva dell’operazione economica realizzata, assumendo rilievo preminente la causa reale di essa, alla luce dell’obiettivo economico perseguito e dell’interesse delle parti alle prestazioni”; - è vendita di area edificabile la cessione di un terreno con entrostante fabbricato vetusto, collegata alla successiva richiesta, da parte dell’acquirente, di concessione edilizia per la demolizione e la ricostruzione: Cass. 24799/14; Cass. 12062/16; Cass. n. 313/18; - l’imposta agevolata sostitutiva di quelle di registro, bollo ed ipotecaria sulle operazioni di credito a medio-lungo termine (D.P.R. n. 601 del 1973, art. 15), non si applica, non solo quando il contratto di finanziamento contenga una clausola che renda discrezionale il recesso unilaterale della banca prima dei 18 mesi, ma anche quando tale clausola sia contenuta in un contratto di conto corrente con apertura di credito al quale il contratto di finanziamento risulti collegato: Cass. 7254/16 e 6505/18. § 4.2 Gli odierni dubbi di legittimità costituzionale di una disposizione che vieti la qualificazione giuridica dell’atto (anche) in ragione di atti collegati trovano radice, giustificazione e logica conseguenzialità proprio nell’orientamento di legittimità che si è sinteticamente riassunto. Si tratta infatti di indirizzo interpretativo che, da un lato, ha escluso qualsiasi menomazione ed incidenza, ex art. 41 Cost., sulla libera iniziativa economica e sull’autonomia negoziale delle parti, posto che la ri-qualificazione del contratto per intrinseco ed in forza di collegamento negoziale lascia comunque intatta la validità e l’efficacia del contratto stesso e dello schema negoziale liberamente prescelto dalle parti, risolvendosi unicamente nell’applicazione della disciplina impositiva più appropriata al caso e secondo un criterio di tassatività e predeterminazione impositiva che resta aderente all’art. 23 Cost.; e che, dall’altro, ha paventato che proprio una opposta lettura
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dell’art. 20, (cioè nel senso poi adottato dal legislatore del 2018) si sarebbe posta in disaccordo con l’art. 53 Cost., (cosicchè l’interpretazione dominante nella giurisprudenza di legittimità risultava, per così dire, non solo consentita, ma addirittura imposta dal criterio generale dell’interpretazione costituzionalmente conforme). Si è in proposito osservato che quella di registro - da tempo - non è più (se non in minima parte) una semplice tassa con funzione corrispettiva del servizio di registrazione, conservazione ed attribuzione di data certa all’atto presentato, per assumere invece i connotati della vera e propria imposta che trova nell’atto stesso il presupposto rivelatore di una determinata “forza economica” e, per tale via, un tipico indice di capacità contributiva: tra le altre, Cass. nn. 2713/02, 14150/13 e, più recentemente, Cass. nn. 362/19 e 1962/19. Il netto superamento della funzione primigenia di mera remunerazione di un servizio pubblico, a favore di un ruolo di imposizione (con metodo tariffario e per famiglie di effetti negoziali) della ricchezza espressa dall’atto, iscrive a pieno titolo l’imposta di registro nell’ambito dei principi impositivi di matrice costituzionale e, segnatamente, nella previsione di cui all’art. 53 Cost.. E, d’altra parte, non si discute del fatto che la pregnante esigenza di attuazione del principio di capacità contributiva sia sottesa anche all’art. 20, pur nella sua attuale ridotta portata; non essendoci dubbio alcuno che anche l’attuale formulazione della norma imponga, proprio al fine di far emergere l’effettiva ricchezza imponibile, di non fermarsi al “nomen” attribuito al contratto dalle parti, per accedere invece al contenuto reale ed alla natura sottostante dell’atto. Sennonché, una volta ribadita questa esigenza, non appare poi del tutto lineare nè coerente - proprio sul piano costituzionale - che l’opera di emersione si debba per forza arrestare alla disamina del solo atto presentato, esclusa ogni considerazione di quegli (eventuali) elementi meta-testuali e di collegamento negoziale attraverso i quali può invece aversi (ed in certi casi, soltanto si ha) piena contezza e ricostruzione della forza economica e della capacità contributiva espresse dall’operazione. È vero che (C. Cost. 156/01, sull’Irap): “è costante nella giurisprudenza di questa Corte l›affermazione secondo la quale rientra nella discrezionalità del legislatore, con il solo limite della non arbitrarietà, la determinazione dei singoli fatti espressivi della capacità contributiva che, quale idoneità del soggetto all›obbligazione di imposta, può essere desunta da qualsiasi indice che sia rivelatore di ricchezza e non solamente dal reddito individuale: sentenze n. 111 del 1997, n. 21 del 1996, n. 143 del 1995, n. 159 del 1985)”; e, inoltre, che (C. Cost. 249/17 in tema di revisione catastale) “la capacità contributiva, desumibile dal presupposto economico al quale l’imposta è collegata, può essere ricavata, in linea di principio, da qualsiasi indice rivelatore di ricchezza, secondo valutazioni riservate al legislatore, salvo il controllo di costituzionalità, sotto il profilo della palese arbitrarietà e manifesta irragionevolezza (sentenza n. 162 del 2008)”.
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E tuttavia, nel caso di specie il dubbio verte proprio sul corretto esercizio della discrezionalità legislativa e sulla corretta applicazione del principio per cui le scelte del legislatore tributario non devono risultare irragionevoli o ingiustificate; doveroso essendo il controllo sull’uso ragionevole, o meno, che il legislatore abbia fatto dei suoi poteri discrezionali in materia tributaria, al fine di verificare “la coerenza interna della struttura dell’imposta con il suo presupposto economico (...)” (C. Cost. nn. 111/97 cit.; 223/12; 116/13, riprese anche da 10/2015). Là dove, tornando all’art. 20, l’esenzione del collegamento negoziale dall’opera di qualificazione giuridica dell’atto produce l’effetto pratico di sottrarre ad imposizione una tipica manifestazione di capacità contributiva. Nè sembrano individuabili altri principi di rango costituzionale, o anche soltanto preminenti esigenze di sistema, idonei a giustificare e rendere razionale la “disapplicazione” nel caso di specie del principio di capacità contributiva. Il che rileva tanto nelle ipotesi - che sono poi quelle prese perlopiù in esame dalla casistica giurisprudenziale - nelle quali il collegamento negoziale implichi un maggior carico fiscale per il contribuente (e dunque un maggior gettito per l’erario), quanto nelle situazioni in cui (come pure è concepibile) dalla considerazione del collegamento negoziale possa invece scaturire una qualificazione giuridica dell’atto comportante una minore imposizione. Si è poi affermato (C. Cost. 155/01) che, perché sussista capacità contributiva, è necessario e sufficiente “che vi sia un collegamento tra prestazione imposta e presupposti economici presi in considerazione, in termini di forza e consistenza economica dei contribuenti”, e non può negarsi che il collegamento impositivo così instaurato possa (debba) scaturire anche dalla considerazione del collegamento negoziale in sede di registrazione dell’atto. Il fatto che tutti siano tenuti a concorrere alle spese pubbliche “in ragione” della loro capacità contributiva fa sì che la forza economica espressa dall’atto (la cui considerazione in termini sostanziali e di effettività è, come detto, indubitabilmente insita anche nell’attuale formulazione dell’art. 20), costituisca, al tempo stesso, fondamento e limite dell’imposizione, di cui definisce sia la legittimazione solidaristica sia la misura esigibile. Oltre che sul piano della effettività dell’imposizione, tutto ciò provoca ripercussioni anche sul principio di uguaglianza, dal momento che a pari manifestazioni di forza economica (e quindi di capacità contributiva) non possono corrispondere imposizioni di diversa entità: a seconda, per esempio, che si tassi la cessione unitaria di azienda ovvero i vari atti di dismissione dei singoli cespiti strumentali che la compongono; ovvero ancora, per restare alla fattispecie, che si tassi l’acquisizione dell’azienda a seconda che ad essa si pervenga attraverso una cessione diretta invece che mediante l’articolazione di un conferimento societario e di una successiva cessione di quote.
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Altrimenti detto, le manifestazioni di forza economica (e quindi di capacità contributiva) non sembrano razionalmente differenziabili a seconda che le parti abbiano stabilito di realizzare il proprio assetto di interessi con un solo atto negoziale, piuttosto che con più atti collegati. Diversamente ragionando, si verrebbe a determinare una disparità di imposizione (tra contribuenti di un solo atto e contribuenti di più atti collegati) in conseguenza dell’adozione di un criterio di qualificazione giuridica inidoneo - perché, a ben vedere, ancora labiale, estrinseco e condizionato da un’opzione di tecnica negoziale - a dare contezza della ricchezza imponibile insita nell’operazione. Non sembra dunque che il collegamento negoziale possa - di per sè rappresentare un indice di diversificazione di fattispecie legittimante un trattamento non omogeneo delle due situazioni prese a comparazione. § 4.3 Occorre dar conto dell’obiezione secondo cui l’ordinamento consente oggi espressamente all’amministrazione finanziaria di contestare il collegamento negoziale quando quest’ultimo sia sintomatico di abuso, con ciò mostrando di attribuire rilevanza alla fattispecie solo allo scopo della repressione dell’elusione fiscale, non anche di semplice qualificazione giuridica dell’atto. Il riferimento è alla L. n. 212 del 2000, art. 10 bis, introdotto dal D.Lgs. n. 128 del 2015, il quale - come è noto - contiene la disciplina generale dell’abuso e dell’elusione fiscale concernente ogni tributo. L’obiezione (a parte il fatto che si basa su una disposizione di legge non applicabile alla presente fattispecie, perché sopravvenuta all’avviso di liquidazione opposto) non è dirimente. Va detto che sul punto specifico - ed a differenza del diverso aspetto del collegamento negoziale - l’orientamento di legittimità è stato, all’analisi diacronica, effettivamente oscillante. Questa corte ha in una prima fase affermato che anche il TUR, art. 20, dovrebbe trovare applicazione alla luce del principio generale antielusivo, fungendo anzi nell’ambito dell’imposta di registro, ipotecaria e catastale - quale vera e propria “norma antiabuso”; è per questo che - si è osservato - “gli stessi concetti privatistici sull’autonomia negoziale regrediscono a semplici elementi della fattispecie tributaria” e, inoltre, che “l’autonomia contrattuale e la rilevanza degli effetti giuridici dei singoli negozi restano necessariamente circoscritti alla regolamentazione formale degli interessi delle parti, perché altrimenti finirebbero per sovvertire i detti criteri impositivi” (tra le molte: Cass. nn. 11457/05; 10273/07; 13580/07; 17965/13; 5877/14). E tuttavia, l’indirizzo più recente - anche successivo all’introduzione dell’art. 10 bis, - ha definitivamente abbandonato questo approccio, concludendo nell’opposto senso della indifferenza dell’art. 20, all’abuso del diritto ed alla elusione fiscale. Sono infatti ormai ricorrenti le affermazioni di segno fermamente contrario, secondo le quali il fatto che la norma in questione attribuisca preminente rilievo alla “intrinseca natura” ed agli “effetti giuridici” dell’atto, rispetto al suo “titolo” ed alla sua “forma apparente”, non presuppone necessariamente che l’operazione oggetto di
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riqualificazione abbia carattere elusivo, men che meno evasivo o fraudolento (tra le altre: Cass. nn. 18454/16; 25487/15; 24594/15, ord.); con la conseguenza, tra il resto, che “non grava sull’Amministrazione l’onere di provare i presupposti dell’abuso del diritto, atteso che i termini giuridici della questione sono già tutti desumibili dal criterio ermeneutico di cui all’art. 20,” (Cass. 3481/14). Ben si comprende, allora, come l’art. 20, - depurato da qualsiasi requisito di non genuinità dell’atto - neppure abbia a che fare “con l’istituto della simulazione, atteso che la riqualificazione in parola avviene anche se le parti hanno realmente voluto quel negozio o quel dato collegamento negoziale, e ciò perché quello che conta sono gli effetti oggettivamente prodottisi” (Cass. ord. 5748/18 cit.). Aggiunge quest’ultima pronuncia che: “In tema di imposta del registro, il D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, (nella formulazione anteriore alla L. n. 205 del 2017), non è norma predisposta al recupero di imposte “eluse”, dando rilievo, in sede di qualificazione giuridica degli atti negoziali presentati a registrazione, non già all’abuso” in relazione a determinate operazioni economiche, che non rileva a fini impositivi, bensì all’effetto giuridico finale oggettivamente prodotto dagli atti registrati, il cui contenuto economico è indice di capacità contributiva, con la conseguenza che non è richiesta la prova dell’esistenza di valide ragioni economiche dell’operazione”. Si tratta di affermazione in linea con Cass. n. 6758/17 cit., secondo cui: “in tema di imposta di registro, l’applicazione del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, che detta una regola interpretativa e non antielusiva, non è soggetta al contraddittorio endoprocedimentale previsto per l’utilizzazione delle disposizioni antielusive (del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, oggi L. n. 212 del 2000, art. 10-bis), traducendosi nella qualificazione oggettiva degli atti secondo la causa concreta dell’operazione negoziale complessiva, a prescindere dall’eventuale disegno o intento elusivo delle parti, sicchè il conferimento societario di un’azienda e la successiva cessione dal conferente a terzi delle quote della società devono essere qualificati come cessione di azienda se il fisco riconosca nell’operazione complessiva - in base alle circostanze obiettive del caso concreto - la causa unitaria della cessione aziendale, senza la necessità di dimostrare un disegno elusivo del contribuente”. Concludendo sul punto, l’espressa inclusione nella L. n. 212 del 2000, art. 10 bis, comma 2, lett. a), della fattispecie di collegamento negoziale (invece mancante nella struttura testuale dell’art. 20): consente all’amministrazione finanziaria, nell’esercizio dei poteri estesi di accertamento dell’imposta di registro conferitile dal D.P.R. n. 131 del 1986, art. 53 bis, e previa l’osservanza delle tutele procedimentali contenute nella legge, di disconoscere gli effetti degli atti collegati in quanto elusivi e, come tali, privi di sostanza economica diversa dal mero risparmio d’imposta (altrimenti legittimo ai sensi dell’art. 10 bis, comma 4, in parola); non esclude che il collegamento negoziale continui purtuttavia a rilevare, D.P.R. n. 131 del 1986, ex art. 20, anche al di fuori del contesto elusivo e sanzionatorio,
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e dunque anche quando esso emerga sul piano obiettivo della mera qualificazione giuridica e come opzione negoziale effettivamente rispondente ad esigenze pratiche sostanziali, nel senso di non deviate nè strumentali nè unicamente orientate al risparmio d’imposta. § 5. In definitiva, si ravvisano tutti i presupposti per demandare al giudice delle leggi il vaglio di legittimità, in rapporto agli artt. 53 e 3 Cost., del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, nei termini di cui in dispositivo. Da quanto si è finora osservato, risulta evidente come questa estrema soluzione non possa evitarsi attraverso un’interpretazione costituzionalmente conforme della norma censurata, visto che questa: - per lettera, ratio e contesto di emanazione, è assolutamente inequivoca ed invalicabile nel prescrivere l’estromissione degli elementi extratestuali e degli atti collegati dall’opera di qualificazione negoziale; - l’ipotetica interpretazione conforme (come già costantemente adottata da questa corte di legittimità) dovrebbe alternativamente identificarsi proprio con quella così espulsa dall’ordinamento. P.Q.M. La Corte: - visto l’art. 134 Cost., e della L. n. 87 del 1953, art. 23; - dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, in rapporto agli artt. 53 e 3 Cost., del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, come risultante dagli interventi apportati dalla L. n. 205 del 1917, art. 1, comma 87, (L. di bilancio 2018) e dalla L. n. 145 del 2018, art. 1, comma 1084, (L. di bilancio 2019), nella parte in cui dispone che, nell’applicare l’imposta di registro secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, si debbano prendere in considerazione unicamente gli elementi desumibili dall’atto stesso, “prescindendo da quelli extratestuali e dagli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi”; - dispone la sospensione del presente giudizio; - ordina che, a cura della cancelleria, la presente ordinanza sia notificata alle parti del giudizio di cassazione, al pubblico ministero presso questa Corte ed al Presidente del Consiglio dei Ministri; ordina, altresì, che l’ordinanza venga comunicata dal cancelliere ai Presidenti delle due Camere del Parlamento; - dispone l’immediata trasmissione degli atti, comprensivi della documentazione attestante il perfezionamento delle prescritte notificazioni e comunicazioni, alla Corte Costituzionale. (omissis)
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(1) La Cassazione porta alla Corte costituzionale la questione della rilevanza dei collegamenti negoziali ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro. Sommario: 1. La recente modifica dell’art. 20 D.P.R. n. 131/1986 provoca contrap-
poste reazioni. – 2. La limitazione degli “elementi” rilevanti per l’individuazione degli “effetti giuridici” non riguarda le correlazioni fra gli effetti di più atti. – 3. L’art. 20 non esclude l’operatività di criteri di qualificazione previsti per altri tributi in forza di rapporti sistematici influenti sull’applicazione dell’imposta di registro. – 4. Talune ipotesi di “riqualificazione” ormai costanti nella giurisprudenza della Cassazione si giustificano solo come applicazioni della generale disciplina di cui all’art. 10 bis L. n. 212/2000. – 5. Il risultato pratico di una dichiarazione di incostituzionalità delle innovazioni testuali all’art. 20 consisterebbe nell’inapplicabilità delle garanzie sostanziali e procedimentali di cui all’art. 10 bis L. n. 212/2000 a veri e propri interventi antielusivi.
Le modificazioni recentemente introdotte nell’art. 20 D.P.R. n. 131/1986 non escludono la rilevanza, ai fini dell’applicazione dell’imposta, dei collegamenti sul piano degli effetti degli atti, né di quelli considerati nella disciplina di tributi in rapporto di alternatività con il registro. La Cassazione effettua talvolta, accertando “collegamenti negoziali”, veri e propri interventi antielusivi, riconducibili alla disciplina dell’art. 10 bis L. n. 22/2000. Non vi è quindi ragione di dichiarare incostituzionali le succitate modificazioni. The new rules introduced by Section 20 of Presidential Decree n. 131/1986 for the application of registration tax do not exclude the relevance of all connections between agreements. Some of such connections are relevant in terms of effects of the agreements or for the application of taxes alternative to the registration tax. The Corte di Cassazione sometimes takes “anti-elusion” decisions (in line with the rules set out in Section 10 bis of Law n. 22/2000) by identifying connections between agreements. There is therefore no reason to consider that the abovementioned new rules are uncostitutional.
1. La recente modifica dell’art. 20 D.P.R. n. 131/1986 provoca contrapposte reazioni. – L’intervento legislativo volto a risolvere, imponendo autoritativamente una delle due soluzioni contrapposte, un risalente conflitto interpretativo circa la rilevanza dei dati “extratestuali” nell’applicazione dell’imposta di registro (1) ha sollevato, unitamente a giudizi positivi (2), qualche
(1) Art. 1, c. 87, lett.a), n. 2, L. n. 205/2017; secondo il disposto dell’ art. 1, c. 1084, L. n. 145/2018 con efficacia interpretativa. (2) Cfr. A. Lomonaco, Considerazioni sull’articolo 20 del Testo unico dell’imposta di
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dubbio circa la sua opportunità e coerenza con l’intero assetto disciplinare dell’istituto, così come si è sino ad oggi evoluto (3). L’ordinanza che qui si commenta assume invece che la considerazione degli elementi “extratestuali”, e specificamente dei collegamenti negoziali che consentano di identificare una unitaria “operazione”, sia imposta dagli artt. 53 e 3 della costituzione e quindi sottopone alla Corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale delle disposizioni di legge succitate. L’estrema polarizzazione (4) delle posizioni assunte dal potere legislativo e dall’organo depositario della nomofilachia fa dubitare che all’origine
registro dopo la legge di bilancio 2018, in www.notariato.it. Per una valutazione sostanzialmente positiva dell’innovazione cfr. anche A. Busani, Non assoggettabili al registro gli atti tra di essi collegati e la loro sostanza economica, in Corr. trib., 2017, 2135 ss.; ma cfr. altresì A. Carinci, Parola fine sulla natura interpretativa della modifica apportata all’art. 20 T.U.R. dalla Legge di bilancio 2018, in il fisco, 2019, 335 ss.; F. Tundo, Un “legislatore”volitivo restituisce l’imposta di registro alla sua tradizione, in Corr. trib., 2019, 274 ss. (3) Tenuto anche conto che la ragione pratica a suo tempo connessa all’affermazione dell’irrilevanza dei dati extratestuali è oggi superata dalla conservazione su memorie informatiche di gran parte degli atti registrati. Per una sintetica, ma efficace, esposizione delle perplessità sollevate dall’emanazione delle disposizioni succitate cfr. M. Basilavecchia, Quel che resta dell’atto: considerazioni sull’imposta di registro, in Corr. trib, 2019, 476 ss.; cfr. anche G. Giusti, La riforma dell’art. 20: un’occasione persa?, in Riv. dir. trib., 2019, I, 711 ss. La valutazione dell’opportunità della modifica è evidentemente condizionata dall’opinione dei vari autori in ordine all’evoluzione, nel tempo, del sistema normativo del registro ed alla possibilità che in esso potesse darsi un qualche rilievo all’individuazione di collegamenti negoziali (cfr., ad es., S. Cannizzaro, Autonomia e pluralità di disposizioni nel sistema dell’imposta di registro: contributo ad una riflessione in chiave evolutiva, in Riv. trim. dir. trib., 2016, 277 ss.; G. Tabet, L’applicazione dell’art. 20 T.U. Registro come norma di interpretazione e/o antielusiva, in Rass. trib., 2016, 913 ss.). Per una prospettiva generale sull’evoluzione, nei secoli, del tributo di registro cfr. G. Fransoni, Il presupposto dell’imposta di registro fra tradizione ed evoluzione, in Rass. Trib., 2013, 955 ss.; Id., Oggetto dell’imposta, commento all’art. 1 D.P.R. n. 131/1986, in Codice delle leggi tributarie, Milanofiori Assago, 2014, 5 ss. (4) Polarizzazione almeno in parte imputabile all’idea, pressoché generalmente accettata, che abbia un senso contrapporre “forma (giuridica)” a “sostanza (economica)”, intendendo con la prima espressione indicare un ambito di qualificazioni “astratte”, fondate sull’esercizio di poteri (autoritativi o – più problematicamente - di autonomia), con la seconda l’effettivo e concreto atteggiarsi di situazioni, rapporti, vicende nel contesto sociale. A prescindere dall’arbitrarietà dell’identificazione fra “concretezza” ed economicità (anche l’economia, in quanto scienza, opera su astrazioni), si dimentica che ogni disciplina giuridica opera necessariamente tramite astrazioni e che il risultato pratico di ogni ragionamento fondato sul prevalere della “sostanza” sulla “forma” è l’individuazione di altra categoria astratta (“tipo”, negoziale, effettuale,
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di tali posizioni sia una valutazione non sufficientemente approfondita della disciplina del tributo di registro, nelle sue singole articolazioni e nel contesto sistematico. 2. La limitazione degli “elementi” rilevanti per l’individuazione degli “effetti giuridici” non riguarda la correlazione fra gli effetti di più atti. – Innanzi tutto, non mi sembra sostenibile, nella sua assolutezza, l’affermazione che qualsiasi atto o fatto giuridico documentato in “atti” diversi da quello sottoposto a registrazione e in esso non “enunciato” ai sensi dell’art. 22 D.P.R. n. 131/1986 sia ormai irrilevante ai fini della determinazione del tributo correlato alla registrazione stessa (o a quella di tali “diversi” atti). È evidente, infatti, che le vicende rientranti nel programma di azione costituito dagli effetti di un precedente negozio possono incidere sul regime fiscale di quest’ultimo (5), o, viceversa, essere oggetto di trattamenti diversificati in ragione dell’imposta ad esso applicata od applicabile (6) (7). Su questi aspetti della disciplina del tributo una disposizione puntuale, come quella inserita nell’art. 20 D.P.R. n. 131/1986 (d’ora in poi, per brevità, citato semplicemente come “art. 20”), non avrebbe potuto intervenire senza
ecc.) e di una conseguente, diversa, disciplina cui sottoporre il caso esaminato. In effetti, la contrapposizione fra “forma” e “sostanza” ha sempre dominato il dibattito teorico e giurisprudenziale sull’interpretazione dell’art. 20 D.P.R. n. 131/1986 e dei suoi precedenti storici (come ben risulta dall’ultima - perché pubblicata poco prima dell’entrata in vigore della modifica – monografia sul tema: G. Girelli, Forma giuridica e sostanza economica nel sistema dell’imposta di registro, Milanofiori Assago, 2017, cui si può rinviare per gli accurati riferimenti alla vastissima dottrina ed alla ricca giurisprudenza sull’argomento). (5) Si pensi alla disciplina della condizione sospensiva – art. 27 D.P.R. n. 131/1986 – e alle altre ipotesi espressamente previste – artt. 24, c. 2, 35, 36, 37, 38, c. 2, del medesimo D.P.R. -, ma si può far riferimento, ad es., alle molteplici ipotesi di “decadenza” da regimi fiscali “condizionati” al mantenimento di determinati assetti giuridici o di fatto. (6) E qui gli esempi sono forse ancor più numerosi: dalle espresse previsioni – artt. 28, 30, 31, 33, c. 2, 10, nota, Tariffa, parte prima, D.P.R. n. 131/1986 – alle molteplici implicazioni che, in ordine all’applicazione dell’imposta di registro, si desumono dai “collegamenti” risultanti dalla considerazione degli effetti di un atto, della loro incidenza sul venire in essere di altri e sulla conformazione dei loro effetti (si pensi alla problematica del regime fiscale dei trusts, dei contratti di affidamento fiduciario, di altri negozi ad effetto destinatorio – ad es., il mandato, in particolare il mandato ad alienare senza rappresentanza). (7) Sulle implicazioni procedimentali di questi “collegamenti” (e sulle possibili estensioni ai “collegamenti negoziali” di cui al successivo punto 4) cfr. Consiglio Nazionale del Notariato, Studio n. 102/2008 (rel. Basilavecchia), in www.notariato.it e G. Tabet, Sulla competenza territoriale degli Uffici in un caso di riqualificazione di negozi giuridici collegati, in Rass. trib., 2017, 820 ss..
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pregiudicare l’intero assetto sistematico dell’istituto; solo un ampio ed articolato intervento normativo avrebbe potuto modificare correlazioni e regole intrinsecamente connesse con la stessa ratio dell’imposta di registro (8). Sembra comunque totalmente estranea alla nozione stessa di “extratestualità” ogni ipotesi in cui l’interazione sul piano degli effetti risulti dal contenuto dispositivo dei diversi atti e sia quindi anche testualmente esplicitata. Invero, nel testo stesso della disposizione della cui legittimità costituzionale si discute è inserita la clausola “salvo quanto disposto dagli articoli successivi” (9), la cui efficacia normativa non va limitata all’esclusione delle potenziali antinomie (forse risolvibili anche in virtù della regola della prevalenza della lex specialis), ma apprezzata come limitazione di ogni interferenza con soluzioni interpretative fondate su principi basilari della disciplina del registro, espressione della ratio cui l’intero tributo si ispira (10).
(8) Peraltro con risultati difficilmente apprezzabili in termini di intrinseca razionalità e congruità sistematica, vista l’innegabile centralità – scolpita nello stesso art. 20 e nei suoi precedenti storici – della dimensione effettuale degli atti nell’applicazione di questo tributo. Sulla rilevanza sistematica degli effetti degli atti nell’applicazione dell’imposta di registro prima della modifica all’art. 20 cfr. ad es., G. Escalar, Il nuovo art. 20 del T.U.R. e l’indebita riqualificazione delle cessioni di partecipazioni in cessioni d’azienda, in Corr. trib., 2018, 731 ss. (9) Sulla rilevanza di questa parte della “nuova” disposizione cfr. A. Lomonaco, op. loc. cit., che parrebbe però considerare tutte le ipotesi di correlazione effettuale previste negli “articoli successivi” come “eccezionali”, mentre a me sembrano espressione del principio per cui l’imposta di registro assume a presuppostogli atti per la loro efficacia giuridica (potenziale?), cfr. per tutti F. Tesauro, Novità e problemi nella disciplina dell’imposta di registro, in Riv dir. fin. sc. fin., 1975, I, 100 ss. (10) Pertanto non sembra fondata l’interpretazione dell’art. 20 come modificato che ne desume l’irrilevanza, in assoluto, degli effetti giuridici di atti diversi da quello registrato (cfr., ad es., G. Escalar, op. loc. cit.), in quanto le implicazioni degli effetti con quelli di altri atti devono pur sempre essere disposte dalle parti, quindi risultare dall’interpretazione di almeno uno degli atti che producono gli effetti stessi. Dunque, la nuova formulazione dell’art. 20 non costituisce ostacolo all’elaborazione interpretativa, in corso anche dopo l’intervento legislativo, in ordine al regime fiscale di atti fra loro connessi per implicazioni effettuali, ad es., in quanto inseriti in preordinati “programmi” negoziali, anche laddove (a differenza di quanto avvenuto per la sequenza contratto preliminare – definitivo – art. 10, nota, Tariffa, parte prima, D.P.R. n. 131/1986), manchino espresse disposizioni in merito (si pensi alle già menzionate ipotesi di “programmi” inclusi in contratti ad effetti destinatori, ma anche a quelli risultanti da contratti normativi, contratti quadro, e così via). Tanto meno può dirsi impedita dalla modifica dell’art. 20 la considerazione del contenuto negoziale desumibile da documenti allegati a quello registrato (e con esso sottoposti a registrazione – art. 11, c. 7, D.P.R. n. 131/1986). È frequente, ad es., soprattutto nella prassi bancaria, ma anche in altri settori, la tecnica di redazione degli atti caratterizzata dall’allegazione ad un documento, eventualmente in forma di
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In definitiva, la novella legislativa sembra interferire solo con il ricorso, nell’accertamento dell’“intrinseca natura e degli effetti giuridici degli atti”, allo schema concettuale del “collegamento negoziale” fondato non sulla reciproca implicazione nella trama degli effetti giuridici (11), ma su di un unitario apprezzamento di una più complessa “operazione” non esplicitata in atti ma rilevabile essenzialmente sul piano dei motivi che evidenziano l’interesse comune delle parti. In questo senso depongono d’altronde tutte le argomentazioni svolte nell’ordinanza. 3. L’art. 20 non esclude l’operatività di criteri di qualificazione previsti per altri tributi in forza di rapporti sistematici influenti sull’applicazione del registro. – Va allora chiarito che parte almeno della casistica giurisprudenziale evocata nell’ordinanza a dimostrazione dell’irrazionalità, prima ancora del conflitto con l’art. 53 cost., dell’innovazione introdotta nell’art. 20 riguarda fattispecie sulle quali l’innovazione stessa non potrebbe incidere.
atto pubblico, di altro documento, il cui contenuto integra e specifica le clausole contenute nel primo. Talvolta ad essere allegata è la scrittura rappresentativa di altro contratto, i cui effetti si connettono o costituiscono il presupposto per l’efficacia dell’atto in forma più solenne. Si pensi agli atti unilaterali aventi ad oggetto la concessione di ipoteche a garanzia delle obbligazioni derivanti da contratti di mutuo nella prassi di alcune banche allegati, in forma di scrittura privata, all’atto unilaterale stesso. Analogamente, nei casi risolti da Cass. Sez. V (come le altre in appresso citate, se non è precisata la provenienza da altre Sezioni), nn. 7254/2016 e 6505/2018 (citate nell’ordinanza annotata a riprova della rilevanza dei collegamenti negoziali) a contratti di apertura di credito con garanzia ipotecaria (evidentemente in forma idonea all’iscrizione dell’ipoteca), erano allegati contratti di conto corrente tra la stessa banca ed il medesimo debitore; la questione riguardava la rilevanza, ai fini del riconoscimento del regime sostitutivo per i finanziamenti a medio e lungo termine, di una clausola di recesso senza limitazioni temporali per la banca contenuta nel contratto di conto corrente e contrastante con quella inserita nel contratto di apertura di credito, che invece vietava alla banca il recesso prima della scadenza del termine di diciotto mesi. È chiaro che il problema riguardava qui le reciproche interferenze degli effetti giuridici dei due contratti (se veramente di negozi autonomi si trattava), visto che secondo la Cassazione il conto corrente costituiva modalità di attuazione delle obbligazioni nascenti dal finanziamento, nonché la rilevanza della clausola espressa volta a regolare eventuali conflitti fra le disposizioni contenute nei due documenti. Comunque il collegamento negoziale, sul quale le sentenze citate sembrano fondare la soluzione (negativa circa la spettanza del regime sostitutivo) ha poco a vedere con la questione proposta alla Cassazione. (11) Per essere alcuni atti posti in essere in adempimento di situazioni doverose (o comunque nell’ambito di “programmi”) derivanti da altri, ovvero perché gli effetti degli uni sono condizionati o modificati dal sopravvenire di altri o dei loro effetti (per ulteriori esempi cfr. A. Lomonaco, op. loc. cit.).
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Mi riferisco alle note pronunzie che affermano soggette ad imposta proporzionale di registro, come unitaria cessione d’azienda, le più separate cessioni di singoli cespiti (o gruppi di cespiti) aziendali che, nel loro insieme, determinino l’acquisizione, da parte di un nuovo titolare, di un complesso aziendale (anche solo potenzialmente) operativo. L’applicazione dell’imposta proporzionale di registro discende, in questi casi (12), dall’operatività del principio di alternatività con l’IVA, positivamente disciplinato dall’art. 40 D.P.R. n. 131/1986 (13), ma immediatamente condizionato, nei concreti contenuti disciplinari, dai principi e dagli assetti sistematici dell’IVA. E’ noto, infatti, che la regola dell’alternatività implica una prioritaria qualificazione delle fattispecie rilevanti secondo norme e principi propri dell’imposta sul valore aggiunto, quindi, una volta accertata l’estraneità delle fattispecie stesse all’area di operatività (14) di quest’ultimo tributo, l’applicazione dell’imposta proporzionale di registro sul contenuto negoziale così come definito e qualificato secondo disciplina e principi dell’IVA (15). Ora, è pacifico che nella disciplina dell’imposta sul valore aggiunto, in virtù dei principi propri di tale istituto, i collegamenti negoziali possono assumere rilievo ai fini dell’individuazione delle “operazioni” imponibili. L’integrazione testuale introdotta nell’art. 20 D.P.R. n. 131/1986 non potrebbe in alcun modo modificare gli assetti sistematici di un tributo diverso dal registro
(12) Si prescinde, evidentemente, da eventuali accertamenti della simulazione relativa delle cessioni frazionate. (13) Che è “successivo” all’art. 20; ma già si è detto che il valore normativo della limitazione testuale introdotta con la novella trae forza dall’autonomia dei principi cui si riconducono le discipline escluse. (14) In realtà, la linea di confine non coincide, e non ha mai coinciso, con la nozione teorica della “non soggezione” come esclusione d’imposta; infatti, già nell’art. 38 D.P.R. n. 131/1986 erano considerate “non soggette” ad IVA alcune operazioni esenti da questa imposta. Il numero di queste operazioni esenti da IVA ma soggette ad imposta di registro in misura proporzionale è via via aumentato. Infine, sono state, come è noto, introdotte “deroghe” al principio di alternatività, che comportano il prelievo di ambedue i tributi. (15) La relazione di alternatività - subordinazione fra i due tributi è chiaramente evidenziata nel c. 2 dell’art. 40 D.P.R. n. 131/1986, ove, per le operazioni permutative definite con richiamo all’art. 11 D.P.R. n. 633/1972, che identifica in ogni scambio in natura due operazioni, si afferma soggetta ad imposta proporzionale di registro la “prestazione non soggetta” ad IVA, introducendo così nel sistema normativo del registro una qualificazione totalmente incompatibile con i principi del sistema stesso (in cui permute, do ut facias e facio ut facias sono sempre considerati assetti negoziali unitari), ma direttamente derivata dai principi e dalle norme dell’imposta sul valore aggiunto (cfr. G. Giusti, op. loc. cit.; A. Lomonaco, op. loc. cit.)
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(e per di più armonizzato). Dunque la soluzione accolta dalla prevalente giurisprudenza circa il trattamento fiscale delle cessioni di azienda poste in essere con la tecnica c. d. “a spezzatino” non potrebbe in alcun modo essere posta in discussione a seguito della modifica all’art. 20 di cui qui si tratta (16). Discorso in parte analogo potrebbe essere svolto con riguardo all’affermazione che ai collegamenti negoziali deve necessariamente darsi rilievo ai fini della distinzione fra “atti a titolo oneroso”, soggetti ad imposta di registro (proporzionale secondo le previsioni di tariffa ed ove non operi l’alternatività con l’IVA) e “trasferimenti a titolo gratuito” (o liberalità) soggetti ad imposta sulle successioni e donazioni (17). Anche in questi casi il collegamento rileva ai fini dell’identificazione della fattispecie imponibile del tributo sulle liberalità e reagisce sulla disciplina del registro in ragione del rapporto fra i due istituti fiscali, da parte della dottrina descritto in termini di “alternatività” (18). A prescindere dai contrasti teorici e dalle difficoltà operative cui danno luogo i problemi inerenti la delimitazione dell’ambito di operatività dei due tributi (19), sembra evidente che la rilevazione dei collegamenti negoziali per
(16) Alle medesime conclusioni si deve pervenire con riguardo all’ulteriore casistica derivante dal principio di alternatività (relativa, ad es., alle quietanze per obbligazioni derivanti da “operazioni” soggette ad IVA – cfr. ancora A. Lomonaco, op. loc. cit.–, alle garanzie per le stesse prestate, ai relativi accertamenti giudiziali, ecc.; cfr. in proposito A. Fedele, L’alternatività IVA registro ed i suoi limiti, in Riv. dir. trib., 2018, II, 83 ss.), dalla quale emergono talvolta profili di rilevanza del collegamento che eccedono l’ambito effettuale delle “operazioni” soggette ad IVA. Analoghe considerazioni potrebbero riferirsi ai casi in cui la cessione di un fabbricato è considerata, in ragione di successivi atti o fatti, cessione di area fabbricabile (alla stregua della giurisprudenza citata alla successiva nt. 21), ma il cedente è un soggetto IVA (si veda però la recente Corte di giustizia-Prima sezione, del 4.9.2019, in causa C-71/18 in corso di pubblicazione su questa Rivista, con nota di A. Comelli, ove si ammette in astratto la possibilità di individuare una cessione di area fabbricabile se la cessione di un fabbricato concorre con altri atti a formare una unica operazione, ma nega che, nel caso prospettato, ciò si verifichi; dalle conclusioni dell’avvocato generale sembra emergere che la qualificazione come vendita di terreno fabbricabile non possa desumersi dal mero accertamento dell’ “intenzione delle parti”). Per l’ipotesi che il cedente non sia soggetto IVA, si veda la successiva nt. 21. (17) Cfr. G. Giusti, op. loc. cit.. (18) Cfr. A. Fedele, Riforma dell’imposta sulle successioni e sulle donazioni come esito dell’evoluzione storica del tributo, in L’imposta sulle donazioni e successioni tra crisi e riforme, Milano, 2001, 39 ss., in part. 49 ss. (19) Si pensi al dibattito sull’interpretazione e l’operatività dell’art. 25 D.P.R. n. 131/1986; al discusso regime fiscale di assetti negoziali complessi come il contratto a favore di terzi (che è, peraltro, assetto negoziale unitario); alla preferenza per il mantenimento del regime fiscale proprio degli atti in sé a titolo oneroso quando la natura liberale del complessivo assetto nego-
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dimostrare la natura liberale dell’operazione non potrebbe essere pregiudicata dalla modifica dell’art. 20 cui si rivolge l’ordinanza in esame, trattandosi dell’applicazione di norme e principi attinenti specificamente l’imposta sulle successioni e donazioni, non l’imposta di registro (20). 4. Talune ipotesi di “riqualificazione” ormai costanti nella giurisprudenza della Cassazione si giustificano solo come applicazioni della generale disciplina di cui all’art. 10 bis L. n. 212/2000. – Sembra, a questo punto, evidente che la casistica cui ha veramente riguardo la Cassazione nel prospettare l’incostituzionalità della recente modifica dell’art. D.P.R. n. 1312/1986 in quanto limitativa della possibilità di prendere in considerazione “elementi extratestuali” (in particolare i collegamenti negoziali non menzionati negli atti) sia essenzialmente quella dei conferimenti d’azienda seguiti da cessione delle partecipazioni nella società conferitaria e dei conferimenti di immobile con accollo alla conferitaria delle obbligazioni derivanti da mutui di recente contratti dal conferente, casistica sulla quale la giurisprudenza della stessa Cassazione si è consolidata nel senso di “riqualificare”, in virtù dell’accertato collegamento, i più negozi, nel primo caso come unitaria compravendita di azienda al cessionario delle partecipazioni, nel secondo come compravendita di azienda (per un prezzo pari all’importo delle passività accollate) (21).
ziale emerga da collegamenti negoziali evidenziati od accertati solo successivamente all’applicazione dell’IVA o dell’imposta di registro in misura proporzionale (art. 1, c. 4 bis, D. Lgs. n. 346/1990 – e qui la Cassazione parrebbe richiedere, per escludere l’applicazione dell’imposta sulle successioni e donazioni, la menzione, nell’atto di trasferimento, dell’intento liberale – cfr. Cass. n. 13133/2013 – con la conseguenza che si assoggetterebbero ad imposta proporzionale di registro atti autoqualificati come liberali). In quest’area dovrebbe essere ricondotto anche il caso del c. d. “contratto a gradini” di cui a Cass., Sez. I civ., n. 2658/1979, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1982, II, 79 ss., con nota di D. Jarach, I contratti a gradini e l’imposta di registro. (20) D’altra parte gli atti fra i quali si individuano, a questi fini, collegamenti evidenziano, di regola, connessioni sul piano degli effetti (si pensi, ad es., alle rinunzie ai crediti derivanti da negozi in sé onerosi) ovvero si inseriscono in programmi negoziali preventivamente esplicitati (si pensi agli atti costitutivi di trusts, ai negozi disciplinati dalla L. n 116/2017, ad alcune ipotesi di negozi di destinazione ex art. 2645 ter c. c., e così via). Si rientra quindi in aree in cui la modifica all’art. 20 non potrebbe, in quanto tale, intervenire, come si è detto nel precedente paragrafo. (21) Si noti che l’ordinanza annotata non fa menzione della “riqualificazione”come cessione d’azienda della cessione di tutte le partecipazioni in una società (cfr. ad es., Cass. nn. 8542/2016, 3533/2018, quest’ultima in Riv. dir. trib., suppl. on line 15.2.2018, con nota di G. Fransoni; Cass. ord. N. 24594/2015, in Giur. trib., 2016, 520 ss., con nota di G. Tabet, L’art. 20 della Legge di registro e la dottrina della metempsicosi.); la scelta si spiega, giacché, in tale
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Con riguardo al primo caso si deve però tener conto che nella logica originaria del registro il conferimento di azienda o di complesso aziendale (22), era, come ogni altro trasferimento a titolo oneroso, soggetto ad imposta proporzionale (23), eventualmente con agevolazioni per determinate ipotesi di conferimento (24); solo successivamente, e con graduata progressione (25), il legislatore è pervenuto ad assoggettare tutti i conferimenti d’azienda, da chiunque effettuati, ad imposta fissa (26). La progressiva neutralizzazione dell’imposta di registro sui conferimenti d’azienda è avvenuta nel contesto dell’attuazione della Direttiva n. 69/335/
ipotesi, l’accertamento della “causa concreta” non si fonda su elementi “estranei” all’ (in ipotesi) unico atto (cfr. E. Della Valle, Il nuovo art. 20 del T.U.R. e l’”isolata” cessione totalitaria di partecipazioni: molto rumore per nulla, in il fisco, 2018, 517 ss.). Tuttavia, a prescindere dai casi in cui l’intero pacchetto è ceduto con più atti, il “superamento del velo” della soggettività riconosciuta a tutte le società è elemento costitutivo del ragionamento che giustifica la “riqualificazione” come cessione di azienda dei conferimenti seguiti da cessione delle quote. Anche in relazione a questa casistica potranno dunque valere le considerazioni appresso svolte. Le considerazioni che seguono nel testo potrebbero altresì essere riferite ai casi (cfr. Cass. nn. 24799/2014, 12062/2016 e 313/2018, citate nell’ordinanza annotata) in cui cessioni di fabbricati, non effettuate nell’esercizio d’impresa, vengono “riqualificate” come cessioni di aree fabbricabili in considerazione di fatti od atti (richieste di permessi di demolire e/o ricostruzione sull’area di risulta) successivi. Infatti, se la considerazione dell’immobile solo per le potenzialità di futura ricostruzione non risulta dal testo dell’atto di cessione, l’apprezzamento della vicenda come unitaria “operazione” avente ad oggetto la cessione dell’area dovrebbe essere ricondotta alla disciplina dell’art. 10 bis L. n. 121/2000 (il ricorso, ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro, al criterio interpretativo di cui all’art. 1362, c. 2, c. c. sembra oggi ancor più problematico dopo la modifica dell’art. 20). Si noti che l’applicazione, in questi casi, dell’IRPEF alla plusvalenza realizzata dal cedente è stata esclusa da Cass. n. 5088/2019 in virtù dell’inestensibilità analogica dell’art. 67, c. 1, lett. b), T.U.I.R., qualificato come norma eccezionale. (22) Nella disciplina dell’IVA sin dall’inizio esclusi dall’applicazione dell’imposta anche se posti in essere nell’esercizio d’impresa: art.2, c. 3, lett. b, D.P.R. n.633/1972. (23) Per l’evoluzione storica della disciplina dell’imposta di registro in materia di circolazione delle aziende e di atti societari si può fare riferimento a A. Uckmar, La legge del registro, Padova, 1958, I, 357 ss.; II, 216 ss.; A. Berliri, Le leggi del registro, Milano, 1946, 175 ss.; Perricone, Azienda e società nell’imposta di registro, Milano, 1966. Successivamente vedi l’art.47 D.P.R. n. 634/1972. (24) Cfr., ad es., art. 4, c. 1, let. B), Tariffa, parte prima, allegata al D.P.R. n. 634/1972, che riduceva a metà l’imposta dovuta sui soli conferimenti eseguiti da società; in precedenza, si applicavano le agevolazioni di cui alla L. 18.3.1965, n. 170. (25) Cfr., ad es., l’art. 25 L. 8.5.1998, n. 146 “in applicazione” del D. Lgs. 8.10. 1997, n. 358. (26) Cfr. art. 4, c. 1, lett. a), n. 3, Tariffa allegata al D.P.R. n. 131/1986 (che assorbe la previsione della successiva lett. b).
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CEE (e successive modificazioni) sulla raccolta e circolazione dei capitali e pertanto nella prospettiva dell’incentivazione del rafforzamento patrimoniale delle imprese e delle ristrutturazioni aziendali, includendo anche i passaggi dalla gestione individuale dell’impresa alla struttura societaria (27). Sempre nel quadro dell’attuazione di tale direttiva, il regime dei trasferimenti delle partecipazioni sociali, già consolidato nell’applicazione della sola imposta fissa in ragione dei rapporti surrogatori con altri tributi (28), ha assunto la specifica funzione di eliminare un limite fiscale alla libera circolazione dei capitali. Anche la disposizione che, ai fini della determinazione dell’imponibile nei conferimenti immobiliari, prevede la detrazione delle “passività e degli oneri accollati” a società ed enti conferitari (29) costituisce una deroga ai principi propri del registro, giustamente incentrati sulla regola della c. d. tassazione “al lordo” dei trasferimenti (30). La ratio di questa disciplina derogatoria va identificata, come per quella relativa ai conferimenti, nell’interesse a favorire e promuovere la capitalizzazione, il rafforzamento delle strutture societarie o comunque ordinate allo svolgimento di attività commerciali od agricole. Insomma, queste norme che consentono ai contribuenti sostanziali “arbitraggi”, nell’ottica del “vantaggio fiscale”, prevedendo regimi derogatori ordinati alla promozione della destinazione all’impresa e della libera circolazione dei capitali, sembrano richiedere, innanzi tutto, controlli circa la rispondenza delle operazioni poste in essere alla ratio di quei regimi.
(27) Sulla ratio del regime fiscale dei conferimenti cfr. anche G. Girelli, Forma giuridica, cit., 197, e, sulla compatibilità dell’applicazione dell’imposta proporzionale ai conferimenti immobiliari con la direttiva sulla raccolta e circolazione di capitali la nt. 24 nella stessa pagina. (28) Inizialmente con imposizioni denominate, appunto, “surrogatorie” (ma limitatamente alle sole partecipazioni in società anonime), poi con l’imposta sulle società; comunque, già l’art. 11, Tariffa, parte prima, All. A, al D.P.R. n. 634/1972 prevedeva l’applicazione della sola imposta fissa a tutti i trasferimenti di partecipazioni sociali mediante rinvio all’art. 8 Tabella allegata al medesimo D.P.R.. (29) Cfr. l’art. 50, c. 1, D.P.R. n. 131/1986; nel precedente D.P.R. n. 634/1972 la valutazione degli apporti “al netto” era prevista, al c. 4 dell’art. 47, relativo alle sole società diverse da quelle di capitali ed agli enti non societari aventi ad oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali od agricole; per le società di capitali il c. 2 prevedeva l’assunzione ad imponibile del “valore normale” degli immobili oggetto di conferimento. (30) Art. 43, c. 2, D.P.R. n.131/1986. Infatti, se si accetta l’idea che l’indice di capacità contributiva caratterizzante il tributo si identifica con le correlate modificazioni patrimoniali che l’atto oneroso è idoneo a produrre nei patrimoni delle parti, non può non tenersi conto di tutti gli effetti che incidono sui patrimoni stessi, modificandone il contenuto.
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Il “collegamento” fra più negozi cui si riferisce la Cassazione assume, in questo contesto, sicuro rilievo, ma come indice, innanzi tutto, della non rispondenza della concreta “operazione” posta in essere alla “ratio” incentivante delle norme dalle quali dipende il “vantaggio fiscale” perseguito dalle parti, non di una effettiva natura dell’operazione, cui conseguirebbe, sempre e necessariamente, l’applicazione di un dato regime fiscale. Il riscontro del collegamento negoziale si configura qui, oggettivamente, come metodologia di controllo ordinata al “disconoscimento” di vantaggi fiscali “indebiti”, realizzati in contrasto con le finalità delle norme e dei principi dell’ordinamento tributario. D’altro canto, tutta la motivazione dell’ordinanza è intessuta di continui richiami al principio di “prevalenza della sostanza sulla forma”, alla “qualificazione degli atti secondo parametri di tipo sostanzialistico”; dal riferimento al “sostrato economico del principio di capacità contributiva” come principio ispiratore nell’interpretazione dell’art. 53 cost. si desume la rilevanza, ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro, dello “scopo economico unitario ed ultimo” raggiunto dalle parti. Si tratta di formule ed articolazioni argomentative da sempre utilizzate a sostegno di interventi volti a reprimere forme di abuso del diritto (31). In effetti, la reazione dell’Amministrazione finanziaria a fronte dei casi suindicati corrisponde esattamente ai due profili della disciplina dell’abuso del diritto o elusione fiscale chiaramente evidenziati nel primo comma dell’art. 10 bis L. n. 212/2000 (aggiunto dall’art. 1 D. Lgs. n. 128/2015): disconoscimento dei “vantaggi indebiti” (32), determinazione del tributo sulla base delle norme e dei principi elusi. La riferibilità della disciplina “generale” dell’abuso anche all’applicazione dell’imposta di registro è d’altro canto, generalmente riconosciuta dalla dottrina (33).
(31) Cfr. G. Tabet, L’art. 20 cit. (32) Nella logica della repressione dell’abuso come “disapplicazione” di norme (cfr. S. La Rosa, Elusione e antielusione fiscale nel sistema delle fonti del diritto, in Riv. dir.trib., 2010, I, 785 ss., ora in Scritti scelti, I, Torino, 2011, 171 ss., in part. 179 ss.). (33) Cfr. S. Cipollina, Curvature del tempo e interpretazione degli atti nell’imposta di registro, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2018, II, 29 ss.; V. Mastroiacovo, La nuova disciplina dell’abuso del diritto e dell’elusione fiscale nella prospettiva dell’imposta di registro, in Riv. not., 2016, I, 31 ss. Parrebbe invece orientato ad escludere, in linea di principio, l’operatività della disciplina dell’abuso relativamente all’imposta di registro (caratterizzata dall’esclusiva rilevanza della “forma giuridica) G. Girelli, Forma giuridica, cit., 127 ss., 180 ss., che tuttavia
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La rilevanza dei collegamenti negoziali ai fini dell’applicazione della disciplina dell’abuso è ancor più certa (34) e non è in alcun modo pregiudicata dalla modifica dell’art. 20. Anzi, va rilevato che l’operatività della disciplina antiabuso, con le connesse garanzie procedimentali, non dipende dalla formulazione dell’art. 20 o di qualsiasi altra norma o principio relativi all’imposta di registro, ma dall’introduzione stessa di una disciplina generale del contrasto all’elusione ed all’abuso in materia tributaria (35). La Cassazione obietta che l’accertamento dei collegamenti negoziali ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro dovuta non è funzionale a reprimere forme di elusione fiscale, ma ad individuare “l’intrinseca natura e gli effetti giuridici” (36) degli atti in ragione degli interessi in concreto perseguiti dalle parti (37). Da qui il riferimento, ormai costante nelle motivazioni, alla “causa concreta” dell’”operazione”costituita anche da più atti collegati. Anche ad ammettere la correttezza del ricorso a tale nozione ai fini della de-
giunge in alcuni casi ad ammetterla (cfr. p. 200 ss.). Peraltro, la modifica all’art. 53 bis D.P.R. n. 131/1986, apportata dall’art. 1, c. 87, lett. b), L. n. 205/2017, parrebbe aver apportato un decisivo contributo, sul piano normativo, a questa tesi (cfr. gli scritti di G. Escalar, A. Lomonaco e G. Giusti, addietro citati). (34) Anche su base testuale: il c. 1 dell’art. 10 bis si riferisce a “una o più operazioni”; nella lett. a) del c. 2 si menzionano “i fatti, gli atti e i contratti, anche tra loro collegati”. (35) Resterebbe da affrontare il tema della competenza ad emettere l’atto di accertamento (avviso di liquidazione) relativo all’ “abuso” evidenziato dal collegamento di più atti, sul quale può farsi rinvio a G. Tabet, Sulla competenza territoriale degli Uffici cit., in Rass. trib., 2017, 820 ss. (36) La disposizione mantiene la tradizionale formula “anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente” che non ha , e non ha mai avuto, a che fare con la contrapposizione tra “forma” e “sostanza”, come invece la Corte sembra ritenere, trattandosi solo dell’elementare precisazione che nell’interpretazione dei contratti (ed in genere di tutti i negozi giuridici) i termini utilizzati dai loro autori, ed in particolare i “titoli” (cioè i nomi di tipi negoziali utilizzati per “intitolare” gli atti), vanno interpretati in funzione del contenuto dispositivo delle clausole negoziali e degli effetti giuridici che ne conseguono (essendo “indisponibile”, per le parti, la “qualificazione contrattuale ai fini fiscali” – Cass. n. 2009/2018 - citata nell’ordinanza, e ciò conferma l’improprietà dell’uso, in giurisprudenza, del termine “riqualificazione”: le parti non “qualificano” gli atti con effetti giuridicamente rilevanti; pertanto sono l’Agenzia delle entrate prima ed il giudice poi a “qualificare”, con effetti giuridicamente rilevanti, gli atti). La contrapposizione tra “forma” (giuridica) e “sostanza” (economica) è invece propria degli argomenti dell’elusione sin dalle prime formulazioni della dottrina della Scuola pavese (cfr. per tutti B. Griziotti, Lo studio funzionale dei fatti finanziari, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1940,I, 306 ss.; Id., L’interpretazione funzionale delle leggi finanziarie, ivi, 1949, 349 ss.). (37) Per una sintetica, ma efficace, analisi dell’evoluzione giurisprudenziale e delle sue criticità cfr. G. Tabet, Sulla competenza cit., loc. cit.
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terminazione dell’imposta di registro (38), va notato che, in quest’ambito, si tratta di ricondurre gli atti soggetti a registrazione a categorie tipologiche (sia pure, dopo la riforma, incentrate più frequentemente su tipi di effetti che non su tipi negoziali) (39). Quindi, una volta individuato il “concreto assetto di interessi” perseguito dalle parti, lo si deve ricondurre ad una delle categorie previste dalla legge (in Tariffa o nel corpo del D.P.R.), cioè ad una nozione in sé incompatibile (perché legale ed astratta) con quella di causa concreta. Sia nel caso dell’”operazione” costituita da conferimento di azienda e successiva cessione della relativa partecipazione sociale che in quello del mutuo seguito da conferimento in società con accollo della relativa obbligazione, la categoria cui hanno riguardo Amministrazione finanziaria e giudici è la “vendita” di azienda (nella disciplina del registro trasferimento a titolo oneroso (40)) cui l’”operazione” viene ricondotta “superando” quelle (conferimento di azienda (41), negoziazione di quote (42), atti portanti assunzione di un’obbligazione che non costituisce corrispettivo di altra prestazione (43), questi ultimi riconducibili alla più generale categoria degli atti aventi per oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale (44)) risultanti dagli atti (45). Ma l’individuazione della “causa concreta” deve tener conto dei motivi, degli interessi effettivamente perseguiti dalle parti nei singoli e specifici assetti negoziali ed è indubbio , proprio nei casi in cui l’operazione appare strutturata
(38) Come è noto, sul piano civilistico il concetto è utilizzato al fine di stabilire (anche tramite l’apprezzamento di collegamenti negoziali) validità, risolubilità, possibilità comunque di scioglimento dei contratti, forme di risarcimento o altre forme di tutela per l’una o l’altra parte; talvolta si rileva, anche in quest’ambito, l’improprietà del riferimento (cfr., ad es., V. Roppo, Causa concreta: una storia di successo? Dialogo (non reticente né compiacente) con la giurisprudenza di legittimità e di merito, in Riv. dir. civ., 2013, 957 ss.). Sulle difficoltà (se non sull’impossibilità) che ostacolano l’utilizzazione della “causa concreta” ai fini dell’individuazione dei fatti indici di capacità contributiva in concreto verificatisi cfr., da ultimo, G. Giusti, op. loc. cit. (39) Cfr. G. Tabet, L’art. 20 cit., loc. cit. (40) Cfr. ad es., art. 3, c. 1, lett. b), D.P.R. n. 131/1986, in correlazione con gli art. 1 e 2 Tariffa, parte prima, allegata al medesimo D.P.R.. (41) Art. 4, c. 1, lett. a), n. 3, Tariffa, parte prima, allegata al D.P.R. n. 131/1986. (42) Art. 11 Tariffa, parte prima; art. 2, Tariffa, parte seconda, art. 8, tabella; allegate al D.P.R. n.131/1986. (43) Art. 43, c. 1, lett.e), D.P.R. n. 131/1986. (44) Art. 9, Tariffa, parte prima, allegata al D.P.R. n. 131/1986. (45) Cfr. G. Tabet, Il collegamento negoziale tra riqualificazione ed abuso, in Rass. trib., 2018, 227 ss., che richiama anche un caso giurisprudenziale in cui il collegamento includeva un apporto a fondo comune di investimento immobiliare.
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(“artificiosamente”?) per ottenere un minor impatto fiscale, che l’interesse in concreto perseguito dalle parti è specificamente rivolto al controllo-disponibilità del bene (azienda o immobile che sia) corrispondente alla titolarità delle partecipazioni (bene di secondo grado), in quanto esse hanno coscientemente rinunziato, in vista del “vantaggio fiscale”, al trasferimento dei più immediati, diretti e soddisfacenti poteri e facoltà di controllo, godimento e disponibilità che connotano la titolarità o la proprietà dei beni stessi. Quindi la “qualificazione” dell’operazione come vendita, lungi dal costituire una necessaria conseguenza dell’individuazione della “causa concreta” dell’operazione, comporta una “equiparazione” di fattispecie che supera e forza proprio il “concreto” assetto di interessi realizzato con l’operazione e tale equiparazione si giustifica solo in ragione del disconoscimento, nel singolo caso (46), di “vantaggi fiscali indebiti” secondo lo schema tipico dell’intervento antielusivo. Mi sembra evidente che la soluzione giurisprudenziale dei casi qui considerati sia riconducibile proprio all’ambito di operatività dell’art. 10 bis L. n. 212/2000 (47) e quindi non sia fondata l’eccezione di incostituzionalità prospettata nell’ordinanza.
(46) Che non si sia di fronte alla diretta applicazione delle categorie legali, ma al loro puntuale “superamento”, è evidenziato, ad es., dal ricorso all’argomento della “sostanziale” equiparazione fra proprietà del bene e titolarità delle partecipazioni della società proprietaria, che è tipico argomento antielusivo, ma, proprio in quanto tale, non è (come sembra invece ritenere la Cassazione) evidente e necessario in astratto, altrimenti ogni cessione di partecipazioni sociali dovrebbe essere assoggettata ad imposizione come cessione di quota di comproprietà dell’azienda sociale, ma opera caso per caso, in relazione alla specificità del singolo, concreto, assetto di interessi. Infatti questo argomento è esplicitamente richiamato quando si tratta di equiparare a “vendita” dell’azienda il suo conferimento in società con la collegata cessione delle quote (qui il “velo” della soggettività è “squarciato”), ma è invece rigettato e confutato quando si equipara a “vendita” dell’immobile l’operazione consistente nell’assunzione del mutuo e nel successivo conferimento dell’immobile con accollo della relativa passività, ma senza che le quote vengano cedute (cfr., ad es., Cass. n. 4589/2018): il “velo” della soggettività è qui essenziale perché possa configurarsi un “trasferimento con corrispettivo in denaro”, altrimenti il risultato “economico” dell’operazione risulterebbe coincidere con la permanenza nel patrimonio del conferente sia dell’immobile che del debito (oltre al denaro proveniente dal mutuo). (47) Anzi, a questo proposito, mi parrebbe forse più appropriato ricondurre il dispositivo di quelle sentenze piuttosto allo schema della “disapplicazione” delle norme da cui derivano i vantaggi fiscali indebiti che non a quello dell’imposizione delle operazioni secondo la loro “rilevanza economica”. In altri termini, si potrebbe identificare il risultato dell’intervento antielusivo con l’esclusione dell’operatività delle disposizioni “di favore” (art. 4, c. 1, lett. a), n. 3, Tariffa,parte prima e art. 50, c. 1, D.P.R. n. 131/1986) e quindi alla stregua di conferimenti soggetti alle ordinarie aliquote previste per i trasferimenti a titolo oneroso (su di un imponibile
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Restano, a mio avviso, del tutto impregiudicati eventuali profili di illegittimità costituzionale inerenti la successiva qualificazione, per legge, della modifica all’art. 20 come “interpretazione autentica” (48). In conclusione, l’opportunità della modifica stessa e la sua congruenza con le linee generali dell’evoluzione del tributo di registro possono essere discusse (49), ma una sua interpretazione conforme ai principi consente di limitarne gli effetti alla rilevazione di “collegamenti negoziali” fra atti che non evidenzino reciproci riferimenti testuali od implicazioni fra i loro effetti. Questo tipo di collegamenti può invece assumere rilievo ai fini dell’applicazione della generale disciplina antiabuso ed antielusione di cui all’art. 10 bis L. n. 212/2000, cui si deve, a tal fine, fare esclusivo ricorso. 5. Il risultato pratico di una dichiarazione di incostituzionalità delle innovazioni all’art. 20 consisterebbe nell’inapplicabilità delle garanzie sostanziali e procedurali di cui all’art. 10 bis L. n. 212/2000 a veri e propri interventi antielusivi. – Infine, si deve sommessamente rilevare che la vicenda giurisprudenziale di cui l’ordinanza annotata costituisce l’ultimo episodio prende le mosse nel periodo in cui si è prospettata come certa l’introduzione di una disciplina generale dell’abuso del diritto in materia tributaria, caratterizzata da un tentativo di sua più precisa delimitazione e soprattutto da garanzie procedimentali per i contribuenti. Da quel momento, la Corte di cassazione si è decisamente orientata ad escludere la, precedentemente affermata (50), riconducibilità dell’applicazione dell’art. 20, supportata dall’individuazione di collegamenti negoziali e riferimenti alla “causa concreta”, alle tecniche e modalità di contrasto all’elusione ed all’abuso del diritto (51). Il risultato pratico perseguito è l’inoperatività, con riguardo all’applicazione dell’imposta di registro (e di quelle che ne dipendono), delle garanzie, soprattutto procedimentali, poste dall’art. 10 bis L. n. 212/2000 a tutela del contribuente ma
non diminuito delle passività accollate alla conferitaria nel caso di conferimenti di immobili). (48) Si veda, in proposito, la nota del prof. Tabet di seguito pubblicata a commento della medesima ordinanza ed ivi riferimenti a dottrina e giurisprudenza. (49) Cfr. ancora G. Giusti, op. loc. cit.. (50) Cfr. V. Mastroiacovo, Spunti per un nuovo sistema delle imposte indirette sui “trasferimenti” della ricchezza, in Per un nuovo ordinamento tributario (contributi coordinati da Victor Uckmar), II, Milanofiori Assago, 2019, 1049 ss., in part. nt. 11 a p. 1054. (51) E ciò risulta dalla stessa motivazione dell’ordinanza, che pur vorrebbe negarlo.
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anche per favorire una più meditata ed equilibrata reazione alle diverse forme di abuso del diritto in materia tributaria (52). Questo sarebbe l’effettivo risultato di un eventuale accoglimento, da parte della Corte costituzionale, dell’eccezione di costituzionalità sollevata (53), eccezione che, per le ragioni addietro indicate, dovrebbe invece essere rigettata (54).
Andrea Fedele
(52) Cfr. S. Cipollina, op. loc. cit. (53) L’ordinanza non prospetta, neppure in via subordinata, profili di incostituzionalità dell’efficacia retroattiva riconosciuta, qualificandola per legge come interpretativa, alla disposizione che ha introdotto la modifica all’art. 20. La ragione sembra evidente: se le “riqualificazioni” effettuate nei casi di cui al precedente art. 20, sono soggette per il solo effetto della sua introduzione, alla disciplina di cui all’art. 10 bis L. 212/2000, cui si applicano le regole di diritto transitorio poste dall’art. 1, c. 5, D.Lgs. n. 128/2015, la retroattività della modifica all’art. 20 risulta irrilevante. (54) Si vedano le conclusioni del lavoro di G. Giusti, più volte citato. Si noti che la questione oggi sollevata dalla Corte di cassazione può, per molti versi, ed in particolare per i risultati pratici perseguiti, essere assimilata a quella sollevata, con ordinanza del 5.11.2013, n. 24739, nei confronti dell’art. 37 bis D.P.R. n.600/1973, e dichiarata infondata dalla Corte costituzionale con sentenza n. 132/2015. Allora l’eccezione era rivolta direttamente nei confronti della disciplina procedimentale degli interventi antielusivi, considerata in contrasto con l’art. 53 cost. dal quale si derivava un generale, non articolato, principio antielusivo, rispetto al quale ogni ulteriore precisazione o regola procedimentale si configurava come limite, in sé incostituzionale, e comunque lesivo del principio di eguaglianza, stante l’affermata operatività per una parte soltanto dei tributi.
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Parte seconda
(1) Interpretativa di secondo livello e incostituzionalità della disciplina di risulta? Due erano le possibilità per sollevare la questione di costituzionalità nei confronti dell’art. 20 T. U 131/1986, cosi come integrato ad opera degli articoli 1, c. 87, l. 205/17 e 1,c .1084, l.145/ 18. Una via era di dubitare della modalità con cui era stata imposta con effetto retroattivo la modifica circa la irrilevanza degli elementi extratestuali riconducibili all’atto soggetto a registrazione, ai fini della sua qualificazione. Ciò in quanto la natura interpretativa dell‘intervento legislativo era stato unanimemente negato dalla Cassazione. Tuttavia questa soluzione difficilmente poteva essere accolta dalla Corte costituzionale, considerato il suo orientamento consolidato secondo cui il Parlamento è sostanzialmente libero di imporre con effetti ex tunc un’interpretazione del testo legislativo giudicata politicamente più opportuna. L’altra via – ed è stata quella seguita dall’ordinanza in commentoera di prospettare la violazione degli art. 3 e 53 della Costituzione, posto che, dopo la modifica dell’art. 20 del T.U, la qualificazione dell’atto soggetto a registrazione doveva escludere il ricorso ad elementi extra testuali. L’opinione dell’A è però che anche questa strada ha scarse possibilità di venire accolta, non essendo sufficientemente dimostrato che un’interpretazione evolutiva del tributo di registro, per quanto auspicabile, sia anche costituzionalmente necessitata. Abstract :There were two possibilities to raise the question of constitutionality in relation to art. 20 T.U 131/1986 as amended by article 1, c. 87 l 205/17 and by article 1.c .1084, l.145/ 18. One way was to doubt the way in which the change had been retroactively imposed about the irrelevance of the extra-textual elements attributable to the act subject to registration tax, for the purposes of its qualification. Actually, the interpretive nature of the legislative intervention was unanimously denied by the Supreme Court. However, this solution could hardly be accepted by the Constitutional Court, given its well-established view that Parliament is essentially free to impose an interpretation of the legislative text with effects ex tunc, just because considered politically more appropriate. The other waywhich is that one followed by the High Court- was to point out the violation of articles 3 and 53 of the Constitution, because, after the amendment of article 20 of the T.U 31/1986, the qualification of the act subject to registration had to exclude the relevance of extra- textual elements. However, the paper concludes, that even this road has little chance of being accepted because it does not sufficiently demonstrate that an evolutionary interpretation of the register tax, however desirable, is also constitutionally required.
Era abbastanza scontato che finisse davanti alla Corte Costituzionale il novellato art. 20 d.P.R. 131/1986 (in seguito “la norma A”), come risulta dopo l’intervento apportato dal combinato disposto degli articoli 1, c. 87, L. 205/2017 ( in seguito “la norma B”) e 1, c. 1084, L. 145/ 2018 ( in seguito ”la norma C”) e va dato atto alla Cassazione di avere immediatamente risposto alla attese sollevando d’ufficio la questione, con una ampia e motivata ordinanza (23549/2019).
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Sotto il profilo teorico, le possibilità per sollecitare un pronunciamento della Consulta erano due. Stando alla prima, oggetto dello scrutinio erano le modalità attraverso cui era stata imposta l’efficacia temporale della nuova formulazione dell’art. 20, essendo (detta efficacia) affidata ad una legge interpretativa di secondo livello (“la norma C”) che affermava la natura interpretativa della precedente norma B, nella parte in cui escludeva la rilevanza di elementi extra testuali e del collegamento negoziale nella riqualificazione degli atti presentati alla registrazione. Legittimo poteva infatti sorgere il dubbio sulla costituzionalità dell’intervento legislativo, dopo che il diritto vivente, costituito da una giurisprudenza unanime della Cassazione (Cass. 2007/2018 e successive conformi (1)), aveva affermato che la norma B non era interpretativa, ma innovativa e quindi priva di efficacia retroattiva; conclusione – questa – anche avvalorata dall’assenza di una clausola espressa che qualificasse l’enunciato come interpretativo, cosi come imposto dai principi generali indicati dallo Statuto del contribuente (art. 1, co. 2, L. 212/2000), vincolanti in sede applicativa. Insomma,” un intervento a gamba tesa” del Parlamento, esercitato attraverso una norma pseudo interpretativa, e per giunta di secondo livello, che avrebbe potuto rinverdire la mai sopita problematica dello straripamento di potere legislativo (cfr. da ult. Corte cost. 12/2018). Era però prevedibile che questa prospettazione molto difficilmente avrebbe potuto superare lo scoglio della manifesta infondatezza. Da tempo la Consulta è infatti orientata nell’affermare che il potere di interpretazione di una legge non è riservato dalla Costituzione in via esclusiva al giudice né tanto meno è sottratto alla potestà normativa degli organi legislativi, quando la scelta imposta dalla legge rientra tra possibili varianti del testo originario (ex pluribus, 586/1990, 480/1992, 397/1994, 311/1995, 525/2000) e che persino la presenza di un indirizzo omogeneo della Corte di cassazione non costituisce un ostacolo, trattandosi soltanto di un’opzione interpretativa divergente con la linea di politica del diritto perseguita dal legislatore. E se è vero che una recente sentenza della Corte (167/2018) sembrava avere preso le distanze dalla passata giurisprudenza- laddove aveva censurato
(1) V. G. Tabet, Il collegamento negoziale tra riqualificazione ed abuso, in Rass. Trib., 2018, 227; S. Cipollina, Curvature nel tempo e interpretazione degli atti nell’imposta di registro, in Riv. dir. fin., 2018, II, 29
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una norma pseudo interpretativa (sulla natura non tributaria del contributo antincendi) perché lungi dall’esplicitare una possibile variante di senso della norma interpretata, incongruamente le attribuisce un significato non compatibile con la intrinseca ed immutata natura tributaria della prestazione, così ledendo la coerenza e la certezza dell’ordinamento giuridico, detto precedente non autorizzava a fare bene sperare, considerato che il vulnus costituzionale era stato individuato non tanto nella pseudo interpretazione autentica, quanto nella modifica retroattiva della giurisdizione in base ad una operazione meramente nominalistica. D’altra parte, se prima dell’intervento della norma C, poteva fondatamente argomentarsi che la norma B agisse ex nunc, in quanto riduttiva e modificativa della disposizione ove era formulata la norma A, adesso la libertà del giudice risultava vincolata dalla qualifica operata dalla ius superveniens in ordine alla natura interpretativa della norma B. Né l’art. 1, co. 2, L. 212/2000 prevede che la clausola di interpretazione autentica debba necessariamente essere inserita nel corpo dell’atto ove trova sede la norma interpretativa. Infine, ammesso anche che la natura interpretativa potesse essere ora essere contestata, l’efficacia per il passato poteva comunque essere predicata, affermando la natura retroattiva e non solo retrospettiva della norma B. E sono noti, tanto l’orientamento alquanto elastico della Consulta in tema di retroattività non penale (cfr. ad esempio Corte cost. 397/1994, 229/1999, 291/2003), quanto le difficoltà di fare valere nel giudizio incidentale “l’uso distorto” della retroattività come vizio autonomo, al di fuori del limite generale della ragionevolezza (cfr. Corte cost. 525/2000). Ecco dunque svelate – a mio avviso –le ragioni che hanno fatto propendere per la seconda prospettazione, la quale ha condotto la Cassazione a dubitare della costituzionalità del contenuto materiale della norma A, nella sua nuova e più ristretta formulazione, quale risulta ab origine dall’intervento della norma B, inequivoca ed invalicabile – così si esprime l’ordinanza di rinvio – nel prescrivere l’estromissione di elementi extra testuali e del collegamento negoziale nella qualificazione degli atti soggetti a registrazione. In dettaglio, il ragionamento della Cassazione è articolato dai seguenti passaggi: a) in base ad un orientamento ormai consolidato della giurisprudenza di legittimità (contra, ma isolatamente, Cass. 2054/2017) la natura di imposta d’atto del tributo di registro non osta alla valorizzazione complessiva, attraverso un processo ermeneutico di riqualificazione dell’atto, di elementi
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interpretativi esterni e di collegamento negoziale, posto che oggetto della tassazione non è l’atto documento, ma l’atto negozio; b) il recupero di elementi negoziali esterni e collegati, da un lato, risponde all’esigenza di fare emergere l’effettiva ricchezza imponibile in attuazione della regola per cui la sostanza vince sulla forma e dall’altro è in linea con l’elaborazione evolutiva della nozione civilistica della causa concreta, ormai enucleata dalla dottrina e giurisprudenza maggioritaria; c) pertanto, se si esclude la rilevanza del collegamento negoziale ai fini della qualificazione unitaria di più atti, si impedisce di tassare l’effettivo movimento di ricchezza, in contrasto con il parametro costituzionale degli artt. 3 e 53; d) l’estromissione legale di tale possibile lettura dell’art. 20, esclude il ricorso ad un’interpretazione costituzionalmente conforme. Come è facile constatare, il dubbio del giudice a quo si appunta sulla disciplina di risulta, quale emerge dopo la correzione (che non piace) della disposizione: e cioè dopo la radiazione della possibilità interpretativa contraria rispetto alla linea di politica del diritto giudicata dal legislatore più opportuna (Corte cost. 480/1992). Detto altrimenti, viene apprezzato come costituzionalmente necessitato il ripristino della linea interpretativa, inaugurata con la sentenza n. 14900/2001, che ha condotto il Supremo Collegio a predicare, nell’applicazione del tributo di registro, la tangibilità sul piano fiscale delle forme negoziali (alias, la riqualificazione), grazie al ruolo forte assegnato all’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986, trasformato – come è stato acutamente rilevato (2) in una clausola di autoadattamento del sistema di tassazione agli assetti negoziali complessi retti da un’unica causa. Senza qui ripetere cose già dette (3) è noto che, tramite questa lettura dell’art. 20, veniva ribaltata la tesi tradizionale della tassazione isolata dei singoli atti e della irrilevanza degli elementi desunti aliunde e la sua sostituzione con l’apprezzamento del risultato complessivo finale, realizzato attraverso il collegamento tra più documenti negoziali. Di qui ha origine anche la distinzione secondo cui, per il tramite della c.d. riqualificazione, si attinge alla causa
(2) S. Cannizzaro, Autonomia e pluralità di disposizioni nel sistema dell’imposta di registro: contributo ad una riflessione in chiave evolutiva, in Riv. trim. dir. trib., 2016, 277 ss. (3) V. G. Tabet, L’applicazione dell’art. 20 T.U. Registro come norma di interpretazione e/ o antielusiva, in Rass. Trib., 2016, 913
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economica della fattispecie negoziali complesse per misurare il reale movimento di ricchezza; mentre la disposizione antielusiva ex art. 37 bis d.P.R. 600/1973, ed ora l’art. 10 bis L. 212/2000, riguardano le fattispecie negoziali prive di causa economica, poste in essere essenzialmente per realizzare vantaggi fiscali riprovati dal sistema. Il ritorno “imposto” alla più ristretta lettura dell’art. 20 sarebbe quindi – secondo l’ordinanza – irragionevole e discriminatorio, posto che l’esenzione del collegamento negoziale dall’opera di qualificazione giuridica produce l’effetto di sottrarre ad imposizione una tipica manifestazione di capacità contributiva. Anche così impostato, ritengo però che il dubbio di costituzionalità abbia scarse possibilità di essere accolto, dal momento che nessuna della sentenze della Cassazione che hanno contribuito ad alimentare il diritto vivente avevano argomentato che tale norma ipotetica fosse anche costituzionalmente necessitata e cioè l’unica a salvaguardare la disciplina dell’imposta di registro dal vizio di legittimità. E’certamente vero che il collegamento negoziale è stato ignorato dal legislatore storico del tributo, avendo egli preso in considerazione le modificazioni patrimoniale emergenti da un singolo atto soggetto a registrazione, senza dare rilevanza alle articolazioni negoziali unitariamente considerate ed è altrettanto certo che un’interpretazione evolutiva dell’art. 20, intesa come clausola di adattamento della tassazione degli atti negoziali complessi contribuisce a “modernizzare” la tassazione; ma resta a mio avviso insuperabile l’obiezione che un’“interpretazione evolutiva” non equivale a priori ad una interpretazione costituzionalmente necessitata. Se il principio ispiratore del registro era (ed è restato) l’imposizione degli effetti giuridici prodotti dal negozio, quale risulta dall’atto soggetto a registrazione, la “restaurazione” della preclusione all’utilizzo di elementi extra testuali non può essere considerata una scelta del legislatore irragionevole e ingiustificata, tale da essere tolta di mezzo da una sentenza di accoglimento della Consulta. E, d’altro canto, se la tariffa assoggetta a differente imposizione il gestum, tipizzandolo mediante l’utilizzo di categorie tipologiche, incentrate sul modello negoziale (e/o alla natura dell’oggetto dall’atto dispositivo e/o l’effetto che ne scaturisce), sarebbe –questa si- incoerente con la predetta ratio una norma che consentisse una tassazione in base ad un apprezzamento unitario dell’intera operazione in sé considerata, individuata mediante l’interesse concreto perseguito dalla parti.
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In breve e, ragionando in termini dovere essere costituzionale, il criterio di qualificazione e di sussunzione deve essere omogeneo a quello di tipizzazione, senza possibilitĂ di divaricazione tra forma giuridica e contenuto economico.
Giuliano Tabet
Cass. Civ., Sez. V, 15 gennaio 2019 – 7 marzo 2019, n. 6630; Pres. Cirillo - Est. Crucitti Procedure concorsuali – Liquidazione coatta amministrativa – Imposta sul Reddito delle Persone Giuridiche (IRPEG) – Redditi di impresa – Durata del periodo di imposta – Determinazione del reddito L’impresa sottoposta alla liquidazione coatta amministrativa continua ad essere tassata ai fini dell’imposta sulle società nel periodo compreso tra l’apertura della procedura e la chiusura del procedimento concorsuale, a prescindere dalla durata ed anche se vi è stato esercizio provvisorio. In deroga alle regole ordinarie, la determinazione del reddito nel corso del maxi periodo d’imposta è ispirata al criterio patrimoniale e tale decisiva circostanza esclude la possibilità di chiedere il rimborso anticipato delle ritenute d’acconto prima che la liquidazione complessiva del tributo periodico determini la nascita di un credito d’imposta. (1)
(Omissis) Ritenuto in fatto. – Con provvedimento di diniego, emesso nel 2008, l’Agenzia delle entrate, Ufficio di Salerno, disconosceva il diritto al rimborso di credito IRPEG (maturato nel periodo 1 gennaio 1996-7 marzo 1997) reclamato dal Commissario liquidatore del Credito Commerciale Tirreno soc. coop., posta in liquidazione coatta amministrativa, sul presupposto che il liquidatore (avendo ceduto alla Banca Popolare dell’Emilia Romagna tutte le attività e passività esistenti nonché ogni altro rapporto o sopravvenienza attiva e passiva anche di natura tributaria) non fosse il soggetto legittimato e che l’istanza fosse, comunque, intempestiva. Il ricorso proposto, avverso l’atto di diniego, dal Credito Commerciale Tirreno S.p.A., in liquidazione coatta amministrativa, e dalla Banca Popolare dell’Emilia Romagna veniva dichiarato inammissibile dalla C.T.P. per carenza di legittimazione del commissario liquidatore del Credito Commerciale Tirreno, unico destinatario dell’atto. La decisione, appellata dal Credito Commerciale Tirreno S.p.A. in liquidazione coatta amministrativa, e dalla Banca Popolare dell’Emilia Romagna soc. coop, è stata confermata dalla Commissione Tributaria Regionale della Campania, seppur con diversa motivazione.
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Il Giudice di appello, infatti, contrariamente al primo Giudice, ha riconosciuto la legittimazione sostanziale e processuale alla richiesta di rimborso in capo al Commissario liquidatore ma, in considerazione dell’unicità del periodo di imposta proprio della procedura concorsuale, ha ritenuto l’istanza intempestiva, rilevando che il relativo credito sarebbe stato possibile di utilizzo alla fine della procedura di liquidazione. Avverso la sentenza propongono ricorso, su cinque motivi, Credito Commerciale Tirreno S.p.A., in liquidazione coatta amministrativa, e la Banca Popolare dell’Emilia Romagna soc. coop su cinque motivi. L’Agenzia delle entrate resiste con controricorso. Le ricorrenti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c. Motivi della decisione. – 1. Con il primo motivo le ricorrenti deducono, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della sentenza impugnata per insanabile contrasto tra motivazione e dispositivo laddove la C.T.R., pur avendo affermato, in motivazione, la legittimazione sostanziale e processuale del Commissario Liquidatore, aveva, poi, rigettato l’appello proposto dalle Società avverso la decisione di primo grado che quella legittimazione aveva negato; 1.1. in subordine, denunciano, sulla base degli stessi rilievi, la contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 c.p.c; 2. Con il secondo motivo si deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1703 c.c. e ss., del D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 59, comma 2, dell’art. 2028 c.c., nonchè della L. n. 212 del 2000, art. 8, per avere la C.T.R., da un lato, disconosciuto la legittimazione alla richiesta di rimborso della Credito Commerciale Tirreno S.p.A. e, dall’altro lato, la legittimazione processuale della Banca Popolare dell’Emilia Romagna soc. coop., mentre la legittimazione del Commissario liquidatore derivava dalla circostanza che quest’ultimo aveva agito in qualità di mandatario della Banca cessionaria e che quest’ultima, proprio in virtù del predetto rapporto di mandato, aveva piena legittimazione processuale, in quanto parte direttamente interessata all’esito del giudizio; 2.1. in subordine, qualora si volesse considerare insussistente il rapporto di mandato, secondo la prospettazione difensiva, si sarebbe, comunque, realizzata una gestione d’affari altrui, ai sensi dell’art. 2028 c.c.; inoltre, sempre secondo le ricorrenti, i giudici di appello, nel negare la legittimazione del Credito Commerciale Tirreno S.p.A., avrebbero violato il principio dell’indisponibilità e intrasmettibilità dell’obbligazione tributaria. 3. Con il terzo motivo si deduce l’insufficiente motivazione della sentenza impugnata laddove, nel ritenere insussistente la legittimazione del Credito Commerciale Tirreno alla presentazione dell’istanza di rimborso, i giudici di appello non avevano esaminato quanto risultante dall’atto di ratifica del 12 ottobre 2008 ovvero l’esistenza di un rapporto di mandato o, comunque, di negotiorum gestio tra i due istituti bancari.
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4. Tali motivi, attinenti alla medesima questione, possono essere trattati congiuntamente e sono il primo manifestamente infondato e gli altri inammissibili per difetto di interesse. 5. Contrariamente, infatti, a quanto ritenuto dalle ricorrenti, dalla lettura della sentenza impugnata non appare revocabile in dubbio che la C.T.R. abbia riconosciuto in capo alla cedente Credito Commerciale Tirreno S.p.a., in persona del Commissario liquidatore, la legittimazione sostanziale e processuale in relazione al diritto controverso (id est rimborso v. pag. 6 della motivazione) e riconosciuto, altresì, che la Banca Popolare dell’Emilia Romagna Società Cooperativa sia l’effettivo titolare del diritto in contestazione. 5.1. Sul punto, invero, non si ravvisa nè la dedotta nullità della sentenza impugnata nè la dedotta contraddittorietà della motivazione. Secondo il costante e condiviso orientamento di questa Corte (v., tra le più recenti, Cass. n. 24600 del 18/10/2017, id. n. 26074 del 17/10/2018) l’esatto contenuto della sentenza va individuato non alla stregua del solo dispositivo, bensì integrando questo con la motivazione, nella parte in cui la medesima riveli l’effettiva volontà del giudice. Ne consegue che va ritenuta prevalente la parte del provvedimento maggiormente attendibile e capace di fornire una giustificazione del dictum giudiziale. Sussiste, così, contrasto insanabile tra dispositivo e motivazione, che determina la nullità della sentenza, solo quando il provvedimento risulti inidoneo a consentire l’individuazione del concreto comando giudiziale e, conseguentemente, del diritto o bene riconosciuto. 5.2. Nella specie è evidente l’insussistenza di contrasto con il dispositivo e di contraddizione nella motivazione della sentenza impugnata, laddove il rigetto dell’appello affermato dalla C.T.R. consegue alla questione esaminata, per seconda, dal Giudice di appello (dopo avere, per prima, riconosciuta la legittimazione sostanziale e processuale), relativa alla tempestività della presentazione dell’istanza di rimborso e risolta in senso sfavorevole alle odierne ricorrenti, con conferma della sentenza di primo grado sia pure sulla base di una diversa motivazione. 6. Tale capo della sentenza viene attinto dagli ulteriori motivi di ricorso. 6.1. In particolare, con il quarto motivo si deduce una motivazione contraddittoria circa un fatto decisivo e controverso, costituito dall’eccepita inapplicabilità del D.P.R. 4 febbraio 1998, n. 42, art. 4, comma 4. Secondo la prospettazione difensiva, la contraddittorietà della motivazione sarebbe evidente per avere la C.T.R. ritenuto dopo avere affermato che la procedura di liquidazione dà origine a un maxi periodo di imposta, che termina con la chiusura della detta procedura di liquidazione -l’applicabilità del D.P.R. n. 42 del 1988, art. 4, comma 4, stante la sussistenza di “un periodo di imposta successivo”. 6.2. Con il quinto motivo si deduce, invece, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 42 del 1988, art. 4, comma 4, giacché tale norma, secondo la prospettazione difensiva, non sarebbe applicabile alla specie, non essendosi ancora chiuso il periodo di liquidazione coatta amministrativa
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che costituisce ai fini fiscali un unico maxi periodo di imposta che decorre dalla sua apertura alla sua chiusura. 6.3 Il quarto motivo è inammissibile giacché la dedotta contraddittorietà della motivazione non viene riferita a un accadimento storico naturalistico (id est a un fatto nell’accezione rilevante di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5), ma, in realtà, con il mezzo di impugnazione, si introduce una questione in diritto, più correttamente fatta oggetto del quinto motivo. 6.2. Tale ultimo motivo è inammissibile, per più ordini di ragioni. In primo luogo il mezzo è inconferente rispetto al decisum. Dalla complessiva lettura della sentenza impugnata, si evince, infatti, che, contrariamente a quanto ritenuto dalle ricorrenti, il Giudice di appello ha rilevato che la richiesta di rimborso fosse stata intempestiva, in quanto formulata prima dell’unico momento possibile per una procedura di liquidazione coatta amministrativa ovvero, atteso l’unico maxi periodo di imposta proprio di dette procedure concorsuali, la dichiarazione da presentarsi alla chiusura della procedura stessa. Tale argomentazione, non attinta dal mezzo di impugnazione, è, peraltro, conforme ai precedenti in materia di questa Corte la quale ha, in più occasioni ribadito che “l’impresa posta in liquidazione coatta amministrativa continua ad essere soggetta all’imposta sul reddito d’impresa, sia per il reddito prodotto nel periodo compreso tra l’inizio dell’esercizio ed il provvedimento che ordina la liquidazione amministrativa, sia per quello eventualmente prodotto nel periodo compreso tra l’inizio e la fine della procedura; anche se, stanti le esigenze temporali proprie della liquidazione concorsuale, la legge prevede espressamente un periodo d’imposta diverso ed eventualmente più ampio di quello ordinario, facendolo coincidere con la durata della procedura stessa (Cass. n. 7838/2001, n. 12433/2004, n. 14029/2007; n. 19314/2011). 7. Alla luce delle considerazioni sin qui svolte e in ossequio al principio espresso dalle Sezioni Unite di questa Corte n. 7155 del 21/03/2017 il ricorso va dichiarato inammissibile 8. Le ricorrenti, soccombenti, vanno condannate, in solido, al rimborso, in favore dell’Agenzia delle entrate, delle spese processuali, nella misura liquidata in dispositivo. P.Q.M. Dichiara il ricorso inammissibile. (Omissis)
(1) La sorte della ritenuta d’acconto sugli interessi attivi bancari nella liquidazione coatta amministrativa. Sommario: 1. La descrizione della fattispecie. – 2. Il contesto normativo di riferimen-
to. – 3. La particolare rilevanza delle ritenute d’acconto nel metodo patrimoniale ai fini della determinazione dell’imposta dovuta. – 4. Conclusione.
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La sentenza si occupa di un tema già esaminato nel passato da altre pronunce della Suprema Corte ribadendo una conclusione corretta ma scarsamente argomentata in merito a un profilo essenziale che riguarda i particolari criteri di determinazione del reddito nella liquidazione coatta amministrativa e gli effetti della ritenuta d’acconto rispetto alla determinazione del residuo attivo. The judgement deals with a matter already examined by the other decisions issued by the Italian Supreme Court, endorsing a correct but not adequately argued conclusion with reference to an essential profile concerning the income determination in the compulsory administrative winding up and the withholding tax’s effects on the determination of the residual assets.
Con la sentenza in esame la Suprema Corte torna ad esaminare un tema già affrontato nel passato (1) che attiene alle ritenute d’acconto applicate agli interessi attivi maturati sui depositi bancari, ai sensi dell’art. 26 del DPR n. 600 del 1973, in pendenza della procedura di liquidazione coatta amministrativa (2); per questa ragione il ricorso è stato dichiarato inammissibile ai sensi dell’art. 360-bis del Cod. Proc. Civ. ovvero in base alla norma filtro che consente di delibare rapidamente ricorsi inconsistenti in forza di un giudizio di inammissibilità nel merito. In prima analisi, quindi, la questione attiene ai rimborsi, che sono un settore della nostra materia privo di riferimenti normativi per la generalità dei tributi a proposito delle procedure concorsuali nonostante perduri il problema di acquisire le risorse da destinare ai creditori in tempi compatibili con la chiusura della procedura al punto che nel passato sono state avanzate autorevoli proposte di modifiche normative nel contesto della tendenza riformatrice
(1) Per conferma cfr. F. Tesauro, In tema di ritenute d’acconto a carico dei fallimenti e di cessione dei crediti d’imposta, in Boll. Trib., 2003, 885 (anche in L. Tosi (a cura di), Problematiche fiscali del fallimento e prospettive di riforma, Padova, 2005, 43); G. Marini, Appunti in tema di ritenute sugli interessi attivi accreditati nel corso delle procedure concorsuali, in Rass. Trib., 2000, 811; M. Martelli, Il rimborso delle ritenute d’acconto subite dalle procedure concorsuali, in Dir. Prat. Trib., 2002, II, 329. (2) Si tratta di una procedura poco esplorata in dottrina anche perché la disciplina ai fini delle imposte sui redditi è analoga a quella riservata al fallimento; tra i contributi più completi si veda M. Miccinesi, L’imposizione sui redditi nel fallimento e nelle altre procedure concorsuali, Milano, 1990, 221; A. Uricchio, I profili fiscali della liquidazione coatta amministrativa, in F. Paparella (a cura di), Il diritto tributario delle procedure concorsuali e delle imprese in crisi, Milano, 2013, 835; G. Tinelli, La determinazione del reddito d’impresa nelle procedure concorsuali, in Rass. Trib., 1989, I, 267.
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dell’ultimo decennio culminata con l’approvazione del Codice della crisi e dell’insolvenza di cui al D. Lgs. n. 14 del 12 gennaio 2019 (3). E sotto questo profilo, in effetti, nei gradi di merito è stato sollevato un problema di tempestività e di legittimazione a proporre l’istanza di rimborso, così come, in una visione più ampia, è pertinente il tema, dall’ampio spessore teorico, del rapporto tra la situazione soggettiva attiva nascente dalla ritenuta d’acconto e l’imposta complessivamente dovuta al termine dell’esercizio d’imposta risultante dalla dichiarazione dei redditi secondo le diverse fattispecie (4). Tuttavia, è proprio quest’ultimo aspetto a collocare in secondo piano le questioni tipiche dei rimborsi in quanto il problema di fondo si intreccia ed è condizionato dalla particolare disciplina riservata alla liquidazione coatta amministrativa in punto di determinazione del reddito nel corso della procedura
(3) Per conferma si veda A. Fantozzi, Considerazioni generali sui profili fiscali delle procedure concorsuali e sul rapporto tra par condicio creditorum, interesse fiscale ed altri interessi diffusi, in L. Ghia - C. Piccininni - F. Severini, diretta da, Il fallimento e le altre procedure concorsuali, VI, Torino, 2012, 417, il quale, dopo avere rilevato che “per soddisfare l’esigenza degli organi della procedura di acquisire le risorse necessarie da destinare ai creditori non sarebbe auspicabile derogare all’impianto che contraddistingue il sistema attuale ed alla disciplina applicabile alla generalità dei contribuenti talché bisognerebbe preservare l’iniziativa del curatore o del commissario volta alla richiesta della ripetizione dell’indebito, da un lato, e le attività amministrative e di controllo, dall’altro”, ha così concluso “un profilo sul quale sarebbe ipotizzabile un intervento mirato e sistematico è quello che riguarda i tempi per l’accertamento (o il diniego, totale o parziale) del diritto di credito da parte dell’Amm. Fin. in modo da pervenire in tempi ragionevolmente brevi alla definizione del rapporto. In una visione sistematica, infatti, non mi sembra molto coerente che l’Erario debba accertare i crediti tributari secondo le regole generali che disciplinano la fase di ammissione al passivo e, quindi, entro i tempi rigidamente previsti dalla legge fallimentare, mentre il curatore o il commissario difficilmente riescono a definire le situazioni giuridiche soggettive attive entro gli stessi termini anche ricorrendo all’impugnazione del silenzio rifiuto. Pertanto, allo scopo di risolvere il problema dei rimborsi vantati dalle procedure concorsuali e riequilibrare il rapporto tra l’accertamento dei debiti tributari e il riconoscimento dei crediti fiscali, potrebbe essere sufficiente una norma che impone all’Amm. Fin. di esprimersi sulle richieste di rimborso entro un termine ragionevole dalla presentazione dell’istanza del curatore o del commissario ed, in particolare, allo scopo di assicurare la definizione e la stabilità del rapporto tributario, potrebbe ipotizzarsi il collegamento dei seguenti termini per: a) la proposizione dell’istanza gli stessi termini a carico del ceto creditorio per la presentazione dell’istanza di ammissione al passivo; b) la valutazione dell’Amm. Fin. sulla sussistenza o meno del diritto di credito lo stesso termine necessario per la definizione dello stato passivo allo scopo anche di agevolare la predisposizione dei piani di ripartizione ai creditori”. (4) In proposito, tra i tanti, si veda G. Cipolla, Ritenuta alla fonte, in Dig. Comm., XIII, Torino, 1996, 1, ove ampi ed ulteriori riferimenti dottrinali.
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dal momento che la richiesta di rimborso anticipata può alterare l’ammontare del tributo dovuto seppur con riferimento ad un periodo di imposta dalla durata atipica e variabile. Questa decisiva precisazione ci impone di passare rapidamente a illustrare i fatti. 1. La descrizione della fattispecie. – A fronte di un’istanza di rimborso ai fini IRPEG, avanzata da una banca nel corso della procedura di liquidazione coatta amministrativa, l’Agenzia delle Entrate ha comunicato il proprio diniego adducendo la carenza di legittimazione del Commissario – che aveva nel frattempo esaurito le attività liquidatorie – e l’intempestività della richiesta. La prima questione è stata accolta dalla Commissione Tributaria Provinciale mentre il giudice di appello ha correttamente riconosciuto la legittimazione sostanziale e processuale del Commissario liquidatore nonostante la chiusura della procedura (5); tuttavia, dopo aver sgombrato il campo dalle questioni procedimentali, anche la Commissione Tributaria Regionale si è espressa in favore dell’Agenzia delle Entrate “rilevando che il relativo credito sarebbe stato possibile di utilizzo alla fine della procedura di liquidazione” in coerenza con uno dei due motivi di diniego espressi in merito all’istanza di rimborso. La società in liquidazione coatta amministrativa ha pertanto opposto ricorso per Cassazione avanzando l’applicazione del comma 4 dell’art. 4 del DPR n. 42 del 4 febbraio 1988 compreso tra le disposizioni correttive, di coordinamento e transitorie del TUIR. Anche tale motivo è stato dichiarato inammissibile ed in questo senso la Corte ha argomentato con due frasi consecutive che enunciano un ragionamento sbrigativo ed essenziale meritevole di essere riportato integralmente: a) “Dalla complessiva lettura della sentenza impugnata si evince, infatti, che, contrariamente a quanto ritenuto dalle ricorrenti, il Giudice di ap-
(5) Sul piano processuale, tale conclusione è pacifica nel fallimento per i giudizi di Cassazione (anche nel caso in cui il fallito sia tornato in bonis) in quanto non trovano applicazione gli artt. 299 e 300 del Cod. Proc. Civ. come risulta, ad esempio, da Cass., n. 17008 del 9 luglio 2013, in Fall., 2014, 341; Cass., n. 4514 del 14 febbraio 2019. In generale, sugli aspetti processuali riferiti alla legittimazione del curatore e sulle perduranti prerogative del fallito, tra i tanti, cfr. M. Mauro, Imposizione fiscale e fallimento, Torino, 2011, 49; P. D. De Dominicis, I rapporti tra le procedure concorsuali ed il processo tributario, in F. Paparella (a cura di), Il diritto tributario delle procedure concorsuali e delle imprese in crisi, cit., 489.
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pello ha rilevato che la richiesta di rimborso fosse intempestiva, in quanto formulata prima dell’unico momento possibile per una procedura di liquidazione coatta amministrativa ovvero, atteso l’unico maxi periodo di imposta proprio di dette procedure concorsuali, la dichiarazione da presentarsi alla chiusura della procedura stessa” (il sottolineato è nostro); in concreto, quindi, l’istanza di rimborso è stata considerata intempestiva perché è stata avanzata in anticipo rispetto alla liquidazione del tributo con la conseguenza che il relativo credito non poteva trovare conferma nella sede naturale ovvero nella dichiarazione dei redditi (6); b) “Tale argomentazione, non attinta dal mezzo di impugnazione, è, peraltro, conforme ai precedenti di questa Corte la quale ha, in più occasioni, ribadito che «l’impresa posta in liquidazione coatta amministrativa continua ad essere soggetta all’imposta sul reddito d’impresa, sia per il reddito prodotto nel periodo compreso tra l’inizio dell’esercizio ed il provvedimento che ordina la liquidazione amministrativa, sia per quello eventualmente prodotto nel periodo compreso tra l’inizio e la fine della procedura; anche se, stanti le esigenze temporali proprie della liquidazione concorsuale, la legge prevede espressamente un periodo d’imposta diverso ed eventualmente più ampio di quello ordinario, facendolo coincidere con la durata della procedura stessa (Cass. n. 7838/2001, n. 12433/2004, n. 14029/2007; n. 19314/2011»”. Il secondo percorso argomentativo è quello più criptico perché si limita a collegare il credito con le regole speciali, proprie del fallimento e della liquidazione coatta amministrativa, che attengono alla durata dell’esercizio d’imposta con un’affermazione che rasenta l’ovvietà in presenza di indicazioni normative univoche risalenti alla riforma degli anni Settanta. Infatti, nulla è stato precisato, anche nei diversi precedenti richiamati, in merito ai criteri di
(6) Diversa sarebbe stata la questione se l’istanza di rimborso fosse stata presentata dopo la chiusura della procedura e dopo aver presentato l’ultima dichiarazione dei redditi. In questa ipotesi, infatti, è necessario distinguere se il credito era stato indicato o meno nella dichiarazione perché nel primo caso sarebbe stato applicabile l’art. 4 del DPR n. 42 del 4 febbraio 1988, compreso tra le disposizioni correttive, di coordinamento e transitorie del TUIR, ove è previsto “Se l’eccedenza riportata non è computata in diminuzione nella dichiarazione dei redditi relativa al periodo d’imposta successivo, o se questa non è presentata, il contribuente può chiederne il rimborso presentando istanza all’intendente di finanza del suo domicilio fiscale a norma dell’art. 38 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602”; invece, il secondo caso è quello più problematico perché attiene all’ipotesi dell’istanza di rimborso che, in concreto, rettifica e corregge le lacunose indicazioni dell’ultima dichiarazione presentata.
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determinazione del reddito nella liquidazione coatta amministrativa che pure sollevano argomenti essenziali favorevoli alla decisione della Suprema Corte. 2. Il contesto normativo di riferimento. – Prima del 2004 la disciplina della liquidazione coatta amministrazione, ai fini IRPEG, era compresa nell’art. 125 del TUIR ed è stata trasferita integralmente all’art. 183 a seguito del D. Lgs. n. 344 del 12 dicembre 2003 in occasione del passaggio all’IRES. L’assetto normativo era ed è analogo a quello del fallimento sicché, in estrema sintesi, occorre (7): a) distinguere il periodo d’imposta compreso “tra l’inizio dell’esercizio e … il provvedimento che ordina la liquidazione” (comma 1) (8) da quello relativo “al periodo compreso tra l’inizio e la chiusura del procedimento concorsuale, quale che sia la durata di questo ed anche se vi è stato esercizio provvisorio” (comma 2); b) inoltre, il reddito prodotto nel corso della procedura è determinato in forza del criterio patrimoniale in deroga alle regole ordinarie (comma 2) (9). Il primo aspetto, ovvero la necessità di adottare un unico maxi periodo d’imposta, attiene all’an dell’obbligazione tributaria ma, in definitiva, non influisce sulla fattispecie in esame dal momento che la presentazione di un’istanza di rimborso anticipata rispetto alla liquidazione annuale del tributo assume lo stesso rilievo giuridico a prescindere dalla durata dell’esercizio d’imposta. Infatti, anche nel caso in cui quest’ultimo coincida con l’anno solare sarebbe difficile riconoscere, ad esempio, la possibilità di chiedere il rimborso
(7) Per tutti cfr. A. Uricchio, I profili fiscali della liquidazione coatta amministrativa, cit., 835. (8) La norma indica anche i criteri di determinazione della base imponibile essendo precisato che il reddito relativo a tale frazione di esercizio è determinato secondo le regole ordinarie “in base al bilancio redatto dal … commissario liquidatore”. (9) Tale sistema normativo è completato dall’art. 4 del DPR n. 42 del 4 febbraio 1988, compreso tra le disposizioni correttive, di coordinamento e transitorie del TUIR, ove sono dettate un complesso di regole, ormai pacifiche nell’esperienza giuridica, basate sul principio che l’eccedenza a credito risultante dalla dichiarazione può essere alternativamente utilizzata negli esercizi d’imposta futuri oppure chiesta a rimborso. In particolare, il comma 4 – espressamente richiamato nella sentenza in commento – prevede che “Se l’eccedenza riportata non è computata in diminuzione nella dichiarazione dei redditi relativa al periodo d’imposta successivo, o se questa non è presentata, il contribuente può chiederne il rimborso presentando istanza all’intendente di finanza del suo domicilio fiscale a norma dell’art. 38 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602”.
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di un acconto ai fini IRES prima che la liquidazione dell’imposta determini la nascita di un credito riferito all’obbligazione annuale. In questi termini depone il carattere periodico (rectius: annuale) delle imposte sui redditi nonché l’autonomia delle obbligazioni riferite al singolo esercizio d’imposta. Se dunque la ritenuta fosse rimborsabile in anticipo rispetto alla determinazione dell’imposta dovuta, in concreto, perderebbe la sua natura di “acconto” utilizzabile in sede di liquidazione al termine dell’esercizio per assumere quella di obbligazione ex lege fonte, a sua volta, di un diritto di restituzione a prescindere dalla situazione complessiva del soggetto passivo in violazione dell’art. 79 del TUIR che disciplina il passaggio dall’imposta lorda a quella netta (10). Più immediata, invece, è l’influenza del criterio di determinazione della base imponibile ai fini IRES (ovvero della grandezza necessaria per liquidare l’imposta espressione del quantum dell’obbligazione tributaria) perché il comma 2 dell’art. 183 del TUIR impone di apprezzare la “differenza tra il residuo attivo e il patrimonio netto della società all’inizio del procedimento, determinato in base ai valori fiscalmente riconosciuti”, con la specificazione che “il patrimonio netto dell’impresa o della società all’inizio del procedimento concorsuale è determinato mediante il confronto secondo i valori riconosciuti ai fini delle imposte sui redditi tra le attività e le passività … Il patrimonio netto è considerato nullo se l’ammontare delle passività è pari o superiore a quello delle attività”. Com’è noto, tale particolare criterio di determinazione del reddito ha, da un lato, notevolmente snellito gli adempimenti a carico dei curatori, svincolandoli dagli obblighi contabili imposti dalla determinazione analitica del reddito d’impresa (11) ma, dall’altro, ha notevolmente limitato la pretesa tri-
(10) Sulla classica tripartizione dei crediti d’imposta nelle procedure concorsuali con riferimenti ai diversi tributi si veda R. Miceli, La disciplina dei crediti d’imposta e dei rimborsi, in F. Paparella (a cura di), Il diritto tributario delle procedure concorsuali e delle imprese in crisi, cit., 351; invece, sulla particolare fattispecie della trasformazione delle imposte anticipate in crediti d’imposta cfr. G. Ragucci, Il credito d’imposta da trasformazione delle “attività per imposte anticipate” nel fallimento, ivi, 373. (11) Com’è noto, tale soluzione è stata concepita con il Testo Unico del 1986, in risposta ad un risalente orientamento dottrinale che ha mutuato l’espressione “incubo fiscale” coniata dal Calamandrei a proposito dei problemi fiscali del processo civile (cfr. R. Provinciali, Il processo di fallimento sotto l’incubo fiscale, in Dir. Fall., 1958, I, 83; C. Ruggeri, La voracità del fisco nelle procedure fallimentari, in Dir. Fall., 1958, I, 226), con una netta inversione di tendenza rispetto alla soluzione adottata con la riforma del 1973 posto che originariamente “il
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butaria determinando la sua sostanziale postergazione rispetto agli interessi dei creditori concorrenti sicché la presenza di redditi tassabili è un’ipotesi del tutto eccezionale sostanzialmente limitata ai rari casi in cui l’impresa torna in bonis (12). In particolare, esso subordina la presenza di materia imponibile al confronto tra due grandezze patrimoniali di diversa natura in quanto al patrimonio netto iniziale non è contrapposto quello finale bensì il residuo attivo (13) con la duplice conseguenza che per potersi avere un reddito imponibile non è sufficiente il residuo attivo ma occorre altresì che esso sia superiore al patrimonio iniziale (14) ed, inoltre, che la determinazione di tale grandezza deve precedere la dichiarazione finale a seguito della quale sorgono gli eventuali crediti d’imposta anche in ragione delle ritenute d’acconto subite. 3. La particolare rilevanza delle ritenute d’acconto nel metodo patrimoniale ai fini della determinazione dell’imposta dovuta. – Tra le due grandezze da porre a confronto quella più problematica è il residuo attivo dal momento
reddito imponibile della procedura altro non era che l’ordinario reddito d’impresa prodotto nell’arco di tempo compreso tra l’inizio e la chiusura della procedura, dalle operazioni di amministrazione e liquidazione del patrimonio aziendale compiute dal curatore” (così G. Falsitta, Problematiche fiscali nelle procedure concorsuali, in AA. VV., Società commerciali e procedure concorsuali, Milano, 1995, 57). (12) In senso analogo cfr. G. Falsitta, Problematiche fiscali nelle procedure concorsuali, cit., 58, che evidenzia “In definitiva con il Testo Unico è venuta meno la possibilità che, nel 99% delle procedure concorsuali, sorga un debito d’imposta”; P. Russo, Manuale di diritto tributario, Milano, 1999, 691, che sottolinea “con il testo unico scompare dalle procedure concorsuali il prelievo sul reddito d’impresa”. Per tale ragione questa impostazione ha subito severe critiche in dottrina in quanto il criterio patrimoniale è stato considerato “espressione di un favor, che pone in secondo piano il credito per le imposte sui redditi a vantaggio di altri interessi privatistici, ritenuti evidentemente meritevoli di maggiore tutela” (così A. Fantozzi, Considerazioni generali sui profili fiscali delle procedure concorsuali e sul rapporto tra par condicio creditorum, interesse fiscale ed altri interessi diffusi, cit., 417, ma in precedenza si veda G. Falsitta nei tre saggi raccolti nel volume La tassazione delle plusvalenze e sopravvenienze nelle imposte sui redditi, Padova, 1986, 233 e 257, che evidenzia “non vi è ragione che possa seriamente coonestare l’asserto della non tassazione, che vorrebbe dire violazione del principio dell’universalità dell’imposta e creazione di una area di privilegio fiscale”). In senso opposto, invece, si veda A. Carinci, Migrazione fra procedure concorsuali e neutralità del fattore fiscale nelle soluzioni alla crisi d’impresa, in Il Fisco, 2014, 4122. (13) Cfr. G. Ragucci, Il residuo attivo nel calcolo dell’imponibile fiscale del fallimento, in Corr. trib., 2010, 2325. (14) Al riguardo si veda A. Fantozzi - F. Paparella, Lezioni di diritto tributario dell’impresa, Padova, 2019, 370.
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che il patrimonio netto iniziale è determinato “in base ai valori fiscalmente riconosciuti” in forza di un documento qualificato (id est: il “bilancio redatto dal curatore o dal commissario”) sottoposto ad una rigorosa disciplina sul piano endofallimentare. Inoltre, può considerarsi ormai pacifico l’obbligo per il curatore o per il commissario straordinario di includere nella determinazione del patrimonio netto iniziale le eventuali attività o passività rinvenute successivamente e non presenti nelle scritture contabili nonché, per converso, l’obbligo di espungere le attività e le passività che, sebbene presenti in contabilità, in realtà, risultino inesistenti (15). Invece, la determinazione del “residuo attivo” risente di tutte le vicende che sorgono o che trovano una definizione compiuta nel corso della procedura in quanto non è altro che l’insieme delle attività (denaro, crediti e beni (16)), comprese nel patrimonio dell’impresa fallita, che residuano al termine della liquidazione dell’attivo dopo aver estinto le spese della procedura e le passività concorsuali, tramite i riparti parziali o finale, e che devono essere retrocesse al fallito nel caso in cui l’impresa torni in bonis (17). Per tale ragione nel passato sono sorte numerose questioni alle quali ha provato a far fronte la prassi con posizioni non sempre convincenti in quanto in qualche caso sono state prospettate conclusioni opposte in relazione allo stesso problema (18). Ad esempio, è apprezzabile che l’Amm. Fin. abbia rettificato l’orientamento precedente riprendendo le opinioni favorevoli a valutare i beni strumentali al valore fiscalmente riconosciuto (piuttosto che al valore
(15) Sul tema, cfr. G. Tinelli, La determinazione del reddito d’impresa nelle procedure concorsuali, cit., 263; M. Miccinesi, L’imposizione sui redditi nel fallimento e nelle altre procedure concorsuali, cit., 139 e 179; G. Zizzo, Aspetti problematici della determinazione del reddito d’impresa in sede di chiusura della procedura fallimentare, in Riv. dir trib., 1992, I, 688. Da ultimo, anche la Circ. Ag. Entrate n. 26/E del 22 marzo 2002, in Riv. dir. trib., 2005, II, 61, distingue le attività e le passività rinvenute o rivelatesi inesistenti dagli eventi successivi all’apertura del fallimento (perdita, distruzione e diminuzione del valore dei beni) ai fini della determinazione del patrimonio netto iniziale. (16) Da tempo infatti la ripartizione dell’attivo non è più rigidamente ancorata alla liquidazione dei beni e diritti in denaro per consentire di velocizzare la fase dei riparti e la chiusura della procedura. (17) Tra i tanti si veda soprattutto M. Miccinesi, L’imposizione sui redditi nel fallimento e nelle altre procedure concorsuali, cit., 192; G. Zizzo, Aspetti problematici della determinazione del reddito d’impresa in sede di chiusura della procedura fallimentare, cit., 689. (18) Per conferma si consulti la Circ. Agenzia delle Entrate n. 26 del 22 marzo 2002 e la n. 42/E del 4 ottobre 2004, entrambe in Riv. dir. trib., 2005, II, 61, con nota critica di G. Falsitta, L’eterno ritorno della ‘questione fiscale’ delle procedure concorsuali (nota a Circolari, Agenzia delle Entrate, Dir. Centrale Normativa e Contenzioso, nn. 26/E/2002 e 42/E/2004).
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corrente) in analogia al criterio utilizzato per la determinazione del patrimonio netto iniziale (19). Invece, meno condivisibile è la conclusione prospettata a proposito dei debiti concorsuali che non sono stati insinuati al passivo o oggetto di rinuncia dopo l’ammissione. Infatti, con la Circ. 26/E del 2002 l’Amm. Fin. ha inizialmente condiviso l’orientamento dottrinale che li considera indeducibili nel corso del maxiperiodo fallimentare escludendoli dalla determinazione del residuo attivo (20) ma con la Circ. 42/E del 2004 è stata privilegiata una soluzione intermedia tra le due tesi estreme (favorevoli o sfavorevoli a valorizzare le passività anzidette nel calcolo del residuo attivo) e, cioè, quella che impone di distinguere le passività di cui il curatore non ha tenuto conto ai fini del patrimonio netto iniziale da quelle che, pur non essendo insinuate, sono state prese in considerazione ai fini della determinazione del patrimonio netto iniziale: nella prima ipotesi i debiti sono irrilevanti ai fini della determinazione del residuo attivo mentre nel secondo caso il curatore deve detrarre dal residuo attivo le passività non insinuate, ammettendo quindi la rilevanza delle passività rimaste estranee alla procedura (21). In proposito, è stato autorevolmente ritenuto che alla base di tale soluzione “vi sia la preoccupazione sugli effetti che determina l’applicazione del metodo patrimoniale nei casi in cui, ai sensi dell’art. 118 l. fall., il fallimento si chiuda per l’inesistenza del passivo oppure per l’integrale pagamento dei
(19) Tra i tanti, cfr. L. Potito, Le procedure concorsuali sotto il profilo dell’imposizione sui redditi, in Riv. Dir. Fin., 1989, I, 290; G. Zizzo, Aspetti problematici della determinazione del reddito d’impresa, cit., 677; D. Stevanato, La cessazione dell’impresa nel diritto tributario, in F. Amatucci (a cura di), Gli aspetti fiscali dell’impresa, Torino, 2003, 309; G. Ragucci, Il residuo attivo nel calcolo dell’imponibile fiscale del fallimento, cit., 2324. (20) Per effetto di una sorta di “sterilizzazione” secondo l’espressione utilizzata da G. Falsitta, L’eterno ritorno della “questione fiscale” delle procedure concorsuali, cit., 70, condivisa da F. Brighenti, Adempimenti tributari e responsabilità del curatore fallimentare, Torino, 1996, 59. Invece, in senso favorevole alla detrazione di detti debiti dal residuo attivo, sulla base dell’omogeneità tra i termini da confrontare per la determinazione del reddito imponibile per cui il residuo attivo dovrebbe essere inteso quale patrimonio netto finale da contrapporre a quello iniziale, si sono espressi M. Miccinesi, L’imposizione sui redditi nel fallimento e nelle altre procedure concorsuali, cit., 187; L. Potito, Le procedure concorsuali sotto il profilo dell’imposizione sul reddito, cit., 290. (21) Tale soluzione è stata condivisa da G. Zizzo, La determinazione del patrimonio netto finale ai fini delle imposte sui redditi, in F. Paparella (a cura di), Il diritto tributario delle procedure concorsuali e delle imprese in crisi, cit., 115, avendola ritenuta più idonea a contemperare le esigenze di equità e di semplificazione.
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creditori e, quindi, nelle ipotesi in cui si verifica il ritorno in bonis del fallito” in quanto “la ripresa dell’attività e la contestuale applicazione delle regole ordinarie del reddito d’impresa … risulta inevitabilmente problematica (essendo applicabile la situazione fiscale ante fallimento a distanza di tempo) una volta che medio tempore è intervenuto il metodo patrimoniale” (22). Questa impostazione però stride con l’obiettivo di semplificazione perseguito con il metodo patrimoniale, trasferisce le incertezze sull’imprenditore eventualmente tornato in bonis e, comunque, rende complessa l’applicazione della regola alle altre procedure (in primis l’amministrazione straordinaria). In ogni caso, ai fini della questione in esame, è pacifico che i crediti d’imposta maturati nel corso della procedura concorrono a determinare il residuo attivo e, dunque, astrattamente possono favorire ulteriore materia imponibile. In questo aspetto è agevole cogliere la netta differenza rispetto alla regola ordinaria – fondata sulla contrapposizione tra costi e ricavi ed assicurata dal sistema delle variazioni in aumento ed in diminuzione di cui all’art. 83 del TUIR – in quanto nel metodo reddituale la ritenuta d’acconto è un fenomeno patrimoniale che non influenza la base imponibile ma incide solo nella determinazione del tributo nel passaggio dall’imposta lorda a quella netta ai sensi dell’art. 79 del TUIR. Invece, nella prospettiva del metodo patrimoniale il residuo attivo impone di attribuire alle ritenute d’acconto un doppio effetto: il primo come elemento che concorre a determinare il residuo (come se fosse un elemento positivo del reddito secondo le regole ordinarie), ancorché il credito sia in attesa di realizzazione (23), ed in questi termini si orienta l’istituto dell’assegnazione ai creditori dei “crediti d’imposta del fallito non ancora rimborsati” , se consenzienti, in occasione del riparto finale ai sensi del precedente art. 117 della legge fall. (oggi corrispondente all’art. 232 del Codice della crisi) (24).
(22) Per conferma si veda A. Fantozzi, Considerazioni generali sui profili fiscali delle procedure concorsuali, cit., 417. (23) Questa situazione e’ agevole per i crediti risultanti dalle dichiarazioni precedenti (eventualmente, chiesti a rimborso) oppure originati da eventi sopravvenuti (si pensi, ad esempio, alle somme rimborsabili a seguito di un giudizio favorevole passato in giudicato) mentre presenta maggiori difficoltà se sorgono in concomitanza della chiusura della procedura in quanto occorre prima produrre la dichiarazione finale per chiederli a rimborso o valutare l’alternativa della cessione. (24) Sull’istituto si veda L. Del Federico, Le cessioni e le assegnazioni dei crediti d’imposta nel fallimento, in F. Paparella (a cura di), Il diritto tributario delle procedure concorsuali e delle imprese in crisi, cit., 389; Mauro, Imposizione fiscale e fallimento, cit., 146; A. Viotto,
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Il secondo invece, riguarda la tradizionale e consolidata funzione di “acconto” ai fini della liquidazione del tributo sicché, in estrema sintesi: a) se il credito d’imposta determina un residuo attivo superiore al patrimonio netto iniziale il “reddito” prodotto nel corso della procedura è tassabile e la ritenuta d’acconto contribuisce altresì a rettificare l’imposta lorda in base alle regole ordinarie; b) invece, se la nonostante l’inclusione dei crediti d’imposta non si perviene ad un residuo attivo oppure se esso è inferiore al patrimonio netto iniziale la procedura non produce materia imponibile (come se fosse in perdita) e le ritenute concorrono a determinare (o esprimono in assenza di altri crediti d’imposta) le somme da chiedere a rimborso in base alla dichiarazione finale. Tali regole applicative, dunque, favoriscono una conclusione univoca in quanto la richiesta anticipata di rimborso viola la disciplina che presidia la liquidazione del tributo – ovvero la fase nella quale le varie species di acconti assolvono alla tipica funzione di anticipazione rispetto all’imposta dovuta – e prospetta una discutibile equivalenza tra le ritenute d’acconto subite e l’eventuale credito d’imposta relativo all’obbligazione annuale; come visto, questa possibilità non può escludersi in assoluto nel fallimento e nella liquidazione coatta amministrativa ma non consente di attribuire alle ritenute d’acconto la natura di crediti d’imposta dei quali chiedere il rimborso a prescindere dall’imposta complessivamente dovuta. 4. Conclusione. – In definitiva, la sentenza in esame è condivisibile in punto di decisione nonostante l’essenzialità della trama argomentativa. Sul piano generale, in senso favorevole alla pronuncia depone altresì il fatto che la determinazione dell’imposta dovuta al termine della procedura concorsuale può considerarsi uno dei pochi settori del diritto tributario delle procedure concorsuali dove non emerge la ricorrente tensione tra i principi generali e le norme della nostra materia e quelli del diritto fallimentare (25);
Crediti erariali nei fallimenti: riflessioni alla luce delle recenti evoluzioni giurisprudenziali, in Riv. dir. trib., 2005, II, 227, nonché i dubbi sollevati da A. Fantozzi, Considerazioni generali sui profili fiscali delle procedure concorsuali, cit., 417. (25) Al riguardo, per tutti, si veda A. Fantozzi, Considerazioni generali sui profili fiscali delle procedure concorsuali, cit., 417; F. Paparella, Il regime fiscale dell’amministrazione straordinaria: la necessità di distinguere le fattispecie sulla base della natura e della finalità della procedura, ivi, V, Torino, 2011, 511; M. Mauro, Imposizione fiscale e fallimento, cit., 6 e 303.
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infatti, nonostante i dubbi sistematici dovuti al metodo patrimoniale, nelle procedure liquidatorie il residuo attivo è la grandezza che coniuga la ripartizione dell’attivo con la definizione dei rapporti con l’Erario nella prospettiva di garantire la certezza delle risorse da destinare ai creditori e di limitare i rapporti pendenti (26). D’altro canto, tale impostazione è coerente con vicende connesse alla cessazione dell’impresa nel sistema delle imposte sui redditi in quanto comprende tutte le operazioni suscettibili di incidere sulla ricchezza tassabile ed è idonea a definire il ciclo fiscale nel rispetto delle esigenze di razionalità e di coerenza impositiva che permeano lo statuto fiscale dell’impresa (27). Tuttavia, anche a prescindere da fattispecie particolari (28), permangono le complesse questioni dovute alla necessità di far confluire nella dichiarazione finale ai fini delle imposte sui redditi (29) tutte le situazioni giuridiche soggettive, attive e passive, nei confronti dell’Erario al termine della procedura ed in questo contesto si colloca il tema sollevato nel passato da un autorevole Maestro sulla legittimità costituzionale delle ritenute d’acconto applicate ai fallimenti ed alle procedure concorsuali assimilate ai sensi dell’art. 53 della Cost. (30). Gran parte di esse risentono della circostanza che la determinazione del residuo e la dichiarazione finale sono due operazioni assai delicate che dovrebbero essere temporalmente invertite per avere certezza delle somme residue da destinare ai creditori (31) ma, in ogni caso, a tale risalente impo-
(26) L’esigenza sistematica di distinguere le procedure fondate sulla prosecuzione dell’attività dell’impresa da quelle di natura liquidatoria è stata da noi evidenziata con riferimento all’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi ma poi ha trovato espresso riconoscimento normativo per il concordato e per gli accordi di ristrutturazione (per conferma, se si vuole, si veda F. Paparella, Luci ed ombre dovute all’assenza di una disciplina compiuta in tema di amministrazione straordinaria nel sistema delle imposte sui redditi, in Riv. Dir. Trib., 2010, I, 299, nonché I principi generali del concordato con riserva e del piano concordatario nel sistema delle imposte sui redditi, in A. Leozappa (a cura di), Il concordato con riserva, Unicusano, 2016, 57). (27) Sul tema, sia consentito di rinviare a A. Fantozzi - F. Paparella, Lezioni di diritto tributario dell’impresa, cit., 13, ove ulteriori riferimenti dottrinali. (28) Ad esempio, la possibilità che dei rimborsi ne benefici l’impresa tornata in bonis a danno dei creditori concorsuali e prededucibili. (29) Mentre per quella ai fini IVA si aggiunge l’ulteriore complicazione delle garanzie da rilasciare in favore dell’Erario. (30) Per conferma si veda F. Tesauro, In tema di ritenute d’acconto a carico dei fallimenti e di cessione dei crediti d’imposta, cit., 885. (31) Sotto questo profilo si vedano le distinte soluzioni prospettate dalla dottrina e dalla giurisprudenza compiutamente organizzate da M. Mauro, Imposizione fiscale e fallimento, cit.,
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stazione non è possibile far fronte con richieste di rimborso anticipate che possono alterare la misura dell’imposta dovuta.
Franco Paparella
146, inclusa quella indicata dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 10349 del 1 luglio 2003 (commentata da A. Viotto, Crediti erariali nei fallimenti: riflessioni alla luce delle recenti evoluzioni giurisprudenziali, cit., 227, e richiamata nell’ordinanza della Corte Costituzionale n. 114 del 29 marzo 2007, che ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale sull’effettuazione delle ritenute agli interessi attivi maturati in favore delle procedure concorsuali) con la quale è stata riconosciuta la possibilità di presentare la dichiarazione finale prima della chiusura del fallimento. Inoltre, in aggiunta a quanto evidenziato alla nota 3, non è stata mai compiutamente valutata la soluzione indicata da una isolata sentenza del Tribunale di Padova del 8 maggio 2002 (in Il Fisco, 2004, 5796) che ha prospettato una sorta di ultrattività degli organi della procedura con il compito di riscuotere i crediti d’imposta e predisporre un piano di riparto supplementare; indubbiamente essa è priva di base normativa ma in senso favorevole depone la scelta effettuata con la novella del secondo comma dell’art. 118 della legge fall. (per effetto della legge n. 132 del 6 agosto 2015) che consente ora la chiusura della procedura nonostante i giudizi pendenti (al riguardo si veda F. Acquilanti, La determinazione del reddito nell’ipotesi di chiusura anticipata del fallimento, in Dir. e Prat. Trib., 2017, I, 2410).
Cassazione, Sezione V Trib., 19 dicembre 2018 - 30 aprile 2019, n. 11401; Pres. Cristiano - Rel. Vecchio Mandato senza rappresentanza ad alienare beni immobili – Imposta sulle successioni e donazioni – Inapplicabilità – Strumentalità e neutralità del trasferimento del bene dal mandante al mandatario
(Omissis)
Svolgimento del processo. – 1. La Commissione tributaria regionale del Veneto, con sentenza n. 37/29/13 del 25 febbraio 2013 (pubblicata il 26 marzo 2013) - in accoglimento dell’appello della Amministrazione finanziaria e in riforma della sentenza della Commissione tributaria provinciale di Vicenza - ha rigettato, con la compensazione delle spese del doppio grado del giudizio, il ricorso proposto dal notaio G.M.F. avverso l’avviso di liquidazione della imposta di donazione, applicata dalla Agenzia delle entrate di Bassano del Grappa sull’atto rogato dal ridetto pubblico ufficiale col quale M.G.R., nel conferire a F.B. mandato, senza rappresentanza, per la vendita di un immobile, aveva trasferito a titolo gratuito la proprietà del bene alienando al mandatario [N.B. le generalità delle parti contraenti sono erroneamente indicate nel provvedimento come A.B. e A.F., mandanti, e G.M., mandatario]. 1.1 - La Commissione tributaria provinciale aveva accolto il ricorso sulla base della considerazione che all’intervenuto trasferimento della proprietà dell’immobile non doveva applicarsi il regime fiscale della donazione, in quanto il succitato trasferimento era meramente strumentale alla esecuzione del mandato, costituendo adempimento della obbligazione dei mandanti di somministrare al mandatario, ai sensi dell’art. 1719 cod. civ., i mezzi necessari per l’esecuzione del contratto. 1.2 - Dopo aver rilevato che il ricorrente, col libello introduttivo, censurando l’atto impositivo esclusivamente in relazione alla determinazione della base imponibile del tributo litigioso, non aveva dedotto «il carattere meramente strumentale del trasferimento della proprietà dell’immobile», la Commissione tributaria regionale ha opposto che «in ogni caso» non era condivisibile la qualificazione del negozio operata dal Giudice di primo grado, in quanto non era «connaturata» al contratto di mandato,
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né comunque necessaria la «immediata e contestuale trasmissione della proprietà» dell’immobile alienando in capo al mandatario senza rappresentanza, «essendo sufficiente che la proprietà sia in capo al mandatario al momento» della stipulazione della compravendita col terzo acquirente. Sicché, essendosi, invece, realizzato «un immediato passaggio di proprietà del bene (...) a titolo gratuito», doveva, allora, «trovare applicazione il regime previsto per le donazioni di immobili», senza che a tanto ostasse l’assoggettamento «a ulteriore tassazione» della vendita finale dell’immobile a opera del mandatario al terzo acquirente. E ciò in quanto «sotto il profilo fiscale» risultava innegabile «l’arricchimento in capo al mandatario», comportato dal trasferimento immediato del bene e suscettibile di «venir meno» soltanto ed eventualmente con la esecuzione del mandato, esecuzione della quale neppure vi era alcuna prova nel caso di specie. 2. - Il responsabile di imposta ha impugnato la sentenza con ricorso affidato a un unico motivo. 3. - La Agenzia delle entrate ha resistito con controricorso. Motivi della decisione. – 1. - Con l’unico motivo di impugnazione recante denunzia di violazione o falsa applicazione degli «artt. 8, comma 3, e 46 [rectius: art. 2, commi 47 e 49,] del d.l. 3 ottobre 2006, n. 26, convertito dalla legge 24 novembre 2006, n. 286» e 1719 cod. civ., il ricorrente ha dedotto: ai sensi dell’art. 1719 cod. civ. il mandante è tenuto a somministrare al mandatario i mezzi necessari per la esecuzione del mandato; nella specie l’operato trasferimento della proprietà risulta «meramente funzionale e strumentale all’adempimento della prestazione del mandatario»; costui è obbligato a «ritrasferire in capo al mandante» il prezzo della vendita corrisposto dal terzo acquirente; tale obbligazione comporta che sia «affievolita la base imponibile» (del trasferimento a favore del mandatario), sicché deve essere applicata soltanto la tassa fissa di registro, come stabilito, in termini, dalla Commissione tributaria regionale della Toscana con sentenza n. 117/2011 del 28 marzo 2011. La difforme interpretazione costituisce violazione o falsa interpretazione delle norme di legge indicate. Il ricorrente ha soggiunto, a confutazione del negativo rilievo della Commissione tributaria regionale, che egli col ricorso introduttivo aveva sostenuto proprio che, essendo il mandato senza rappresentanza ad alienare un immobile assimilabile al negozio fiduciario, «la intestazione del bene [in capo al mandatario] viene ad assumere una funzione strumentale»; sicché il passaggio della proprietà non ha carattere definitivo e «non rappresenta un vero incremento patrimoniale» [del mandatario], «siccome finalizzato ad altra funzione». In conclusione, ha ribadito che il punto controverso è esclusivamente costituito dalla determinazione della base imponibile del tributo in carenza di alcun «arricchimento» in capo al mandatario essendo costui tenuto a trasferire, a sua volta, il bene al terzo acquirente, in adempimento del mandato.
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2.- L’Agenzia delle entrate controricorrente, premettendo, con richiamo di pertinenti arresti di legittimità, che per il «perfezionamento» del mandato senza rappresentanza a vendere immobili non è necessario «alcuno specifico trasferimento della proprietà immobiliare tra mandante e mandatario», ha opposto che il trasferimento operato dai contraenti dell’atto rogato dal notaio, «lungi dal configurare [l’adempimento di] una obbligazione tipica del contratto di mandato» ha, invece, realizzato «un atto di disposizione a titolo gratuito autonomamente tassabile». L’Avvocatura generale dello Stato, rilevando inoltre la carenza nello strumento contrattuale sia della previsione di alcun termine per la esecuzione del mandato sia della indicazione del nome del terzo acquirente, ha, quindi, argomentato che il «rogito [...] potrebbe essere interpretato presupponendo il conferimento del mandato come un mezzo per alienare o concedere in godimento un bene immobile eludendo la normale imposta di donazione», non ostando a ciò, ai sensi dell’art. 20 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, la qualificazione giuridica impressa al negozio dalle parti, laddove la volontà di costoro è stata «manifestamente quella di trasferire la proprietà del bene immobile alla persona del “mandatario” con tutti gli effetti giuridici connessi, compresi gli obblighi di trascrizione immobiliare». Ha, infine, sostenuto l’Agenzia delle entrate che il caso in esame è perfettamente sussumibile nella previsione del negozio fiduciario - oggetto della propria circolare n. 28/E del 28 (rectius: 27) marzo 2008 - nel quale assume rilievo, sotto il profilo fiscale, la realizzazione «di un vero e proprio trasferimento a titolo gratuito del bene dalla sfera giuridica del fiduciante a quella del fiduciario» sicché è indubbia l’applicazione della imposta sulle donazioni. 3. -Il ricorso è fondato. 3.1 - La Corte rileva in limine che non deve essere preso in considerazione l’assunto della controricorrente Avvocatura generale dello Stato circa il supposto intento elusivo (della imposta sulle donazioni) del negozio oggetto della imposizione. Si tratta, per vero, di mera illazione in punto di fatto, concernente questione affatto estranea all’ambito del giudizio di merito, sicché la relativa prospettazione non è ammissibile nella sede del presente scrutinio di legittimità. 3.2 - L’art. 2, comma 47, del d.l. 3 ottobre 2006, n. 262, conv. dalla I. 24 novembre 2006, n. 286, ha istituito «l’imposta sulle successioni e donazioni sui trasferimenti di beni e diritti per causa di morte, per donazione o a titolo gratuito e sulla costituzione di vincoli di destinazione, secondo le norme del Testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta sulle successioni e donazioni, di cui al decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 346, nel testo vigente alla data del 24 ottobre 2001, fatto salvo quanto previsto» nei successivi commi da 48 a 54. Nel reintrodurre nell’ordinamento la imposta sulle successioni e donazioni (abrogata dall’art. 13 della legge 18 ottobre 2001, n. 383) la novella ha rimodulato la configurazione del tributo ampliandone la base impositiva con la inclusione di tutti i trasferimenti a titolo gratuito e della costituzione dei vincoli di destinazione.
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La estensione della tassazione al più ampio genus degli atti a titolo gratuito (rispetto alla species delle sole liberalità previste dall’art. 1 del d.lgs. 31 ottobre 1990, n. 346) conduce a correlare il presupposto del tributo all’accrescimento patrimoniale, senza contropartita, del beneficiario, anziché all’animus donandi il quale difetta negli atti a titolo gratuito diversi dalle liberalità. Il successivo comma 49, dell’art. 2 del D.l. 3 ottobre 2006, cit. dispone, quindi: «Per le donazioni e gli atti di trasferimento a titolo gratuito di beni e diritti e la costituzione di vincoli di destinazione di beni l’imposta è determinata dall’applicazione delle seguenti aliquote al valore globale dei beni e dei diritti al netto degli oneri da cui è gravato il beneficiario diversi da quelli indicati dall’articolo 58, comma 1, del citato testo unico di cui al decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 346, ovvero, se la donazione è fatta congiuntamente a favore di più soggetti o se in uno stesso atto sono compresi più atti di disposizione a favore di soggetti diversi, al valore delle quote dei beni o diritti attribuiti: [...]». 3.3 - In materia di conferimento di mandato senza rappresentanza per l’alienazione di un immobile, non constano precedenti specifici di legittimità in ordine al regime fiscale del trasferimento a titolo gratuito del bene alienando operato dal mandante nei confronti del mandatario, al fine di somministrare a costui la provvista per l’esecuzione del mandato. Apprezzabili spunti sono tuttavia offerti dalla giurisprudenza di questa Corte in tema di trust in relazione alla variegata tipologia dei trasferimenti a titolo gratuito disposti dal settlor a favore del trustee. 3.4 - Al riguardo, secondo il più recente orientamento, è da privilegiare la interpretazione costituzionalmente orientata del ridetto art. 2, commi 47 e segg., del d. I. 3 ottobre 2006, cit., la quale, con confacente richiamo dell’art. 53, primo comma, Cost., circoscrive la applicazione della suddetta norma tributaria, correlandola, in senso restrittivo, al rilievo della capacità contributiva comportata dal trasferimento del bene; sicché, quando il conferimento costituisce un atto sostanzialmente «neutro» che non arreca un reale ed «effettivo incremento patrimoniale [al] beneficiario» meramente formale della attribuzione, resta esclusa la ricorrenza di alcun « trapasso di ricchezza suscettibile di imposizione indiretta » (così da ultimo: Sez.5, ordinanza n. 1131 del 17 luglio 2018, dep. il 17 gennaio 2019, n. m.; cui adde Sez. 5, sentenza n. 21614 del 26/10/2016, Rv. 641558 - 01; Sez. 5, sentenza n. 975 del 17/01/2018, Rv. 646913 - 01; Sez. 5, sentenza n. 15469 del 13 giugno 2018, n. m.; Sez. 5, ordinanza n. 31445 del 5/12/2018, Rv. 652134 - 01; Sez. 5, ordinanza n. 31446 del 5/12/2018, n. m.). 3.5 - Siffatto principio di diritto merita di trovare applicazione anche in relazione al caso in esame del trasferimento, a titolo gratuito, dell’immobile alienando operato dal mandante in capo al mandatario senza rappresentanza, al fine della esecuzione del mandato alla vendita. Sotto il pregnante e decisivo profilo della capacità contributiva il trasferimento in parola risulta, infatti, manifestamente neutro in quanto non comporta alcun sostanziale «trapasso di ricchezza» e definitivo arricchimento della sfera patrimoniale del mandatario, atteso che costui è gravato (per l’adempimento del mandato) dalle correlate
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obbligazioni di trasferire al terzo acquirente il bene (del quale è intestatario meramente formale), e di corrispondere al mandante il relativo prezzo, ovvero - qualora il mandato non possa essere adempiuto - dalla obbligazione di retrocedere il bene al mandante. 3.6 - Orbene, in relazione al negativo rilievo della Commissione tributaria regionale, circa la ritenuta omessa deduzione da parte del contribuente del «carattere meramente strumentale del trasferimento della proprietà dell’immobile», è appena il caso di aggiungere che il ricorrente, mediante testuale riproduzione, in parte de qua, del libello introduttivo e mediante la allegazione di copia dell’atto a corredo del ricorso per cassazione, ha offerto adeguata confutazione dell’erroneo assunto contenuto in proposito nella sentenza impugnata. Priva di pregio è, poi, la obiezione della Commissione tributaria regionale (fatta propria dalla controricorrente Avvocatura generale dello Stato) che non è necessario il trasferimento del bene alienando in capo al mandatario ai fini del perfezionamento del mandato senza rappresentanza per la vendita di un immobile. Il rilievo è esatto; ma non vale a infirmare, ove il trasferimento sia disposto contestualmente al conferimento del mandato, i caratteri della strumentalità (sul piano del collegamento tra i negozi) e della neutralità (sotto il profilo della capacità contributiva) della intestazione, meramente formale e interinale, dell’immobile in capo al mandatario nella palese carenza di alcun reale «trapasso di ricchezza suscettibile di imposizione indiretta». 3.7 - In conclusione, in accoglimento del ricorso, la sentenza impugnata deve essere cassata. E, poiché non sono necessari ulteriori accertamenti di fatto, né residua alcuna altra questione controversa, ricorrono i presupposti, ai sensi dell’art. 384, secondo comma, cod. proc. civ., per la decisione nel merito, mediante accoglimento del ricorso introduttivo del giudizio. 3.8 - L’alterno esito dei giudizi di merito e la carenza di specifici precedenti di legittimità in termini consigliano la integrale compensazione delle spese processuali del presente giudizio e dei gradi precedenti. P.Q.M. accoglie il ricorso, cassa e, decidendo nel merito, accoglie il ricorso introduttivo del giudizio. Compensa le spese dei gradi di merito e del presente giudizio.
(1) La disciplina impositiva del mandato senza rappresentanza ad alienare beni immobili: note a margine di una recente pronuncia della Corte di cassazione. Sommario: 1. I termini della controversia decisa dalla Suprema Corte. – 2. L’“eccezione
di elusività” e l’esistenza di una “norma antielusiva specifica” relativa a una peculiare tipologia di mandato a vendere. – 3. Il trattamento impositivo del negozio fiduciario secondo l’Agenzia delle entrate. – 4. La natura strumentale e neutrale del trasferimento del bene dal mandante al mandatario secondo la Suprema Corte. – 5. Osservazioni conclu-
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sive: la rilevanza della neutralità del trasferimento del bene dal mandante al mandatario (anche) ai fini delle imposte sui redditi. Secondo la Suprema Corte, in presenza di un mandato senza rappresentanza ad alienare un bene immobile, il trasferimento di tale bene dal mandante al mandatario deve ritenersi neutrale ai fini dell’imposizione indiretta, trattandosi di un trasferimento di natura strumentale, meramente formale e interinale, che non comporta alcun “trapasso di ricchezza” a favore del mandatario. Questa condivisibile pronuncia offre lo spunto per una breve digressione sulla disposizione di cui all’art. 33, comma 1, TUR, nonché per ulteriori brevi riflessioni sull’imposizione diretta degli eventuali redditi generati dal bene “temporaneamente” trasferito al mandatario per l’esecuzione del mandato. According to the Supreme Court, in the case of a mandate without representation to dispose a real estate property, such a transfer from the principal to the agent must be considered neutral for indirect taxes purposes, being it merely an instrumental, formal and interim transfer, not entailing any “wealth transfer” in favour of the agent. Such decision offers the opportunity for a brief examination of Art. 33, paragraph 1, TUR, in addition to further comments on the direct taxation of any income arising from the asset “temporarily” transferred to the agent to implement the mandate.
1. I termini della controversia decisa dalla Suprema Corte. – La sentenza in commento merita di essere segnalata in quanto – per quel che consta (come indicato anche dalla stessa Suprema Corte) – rappresenta la prima pronuncia di legittimità (1) che esamina il trattamento fiscale, ai fini dell’imposizione indiretta (in specie, ai fini dell’imposta sulle successioni e donazioni), del mandato senza rappresentanza ad alienare beni immobili, ovverosia il «regime fiscale del trasferimento a titolo gratuito (2) del bene alienando operato dal mandante nei confronti del mandatario, al fine di somministrare a costui la provvista per l’esecuzione del mandato». Secondo la tesi sostenuta in giudizio dall’Agenzia delle entrate (“smentita” dal Giudice di primo grado, e “condivisa”, invece, dal Giudice d’appello),
(1) Insieme alla sentenza “gemella” n. 11402, depositata il 30 aprile 2019. (2) In verità, non è tecnicamente corretto qualificare il trasferimento del bene dal mandante al mandatario in termini di trasferimento “a titolo gratuito”. Difatti, come si vedrà a breve, è la stessa Suprema Corte a evidenziare (condivisibilmente) il carattere “strumentale” e, quindi, “neutrale” di questo trasferimento, rappresentando un segmento interno di una più complessa fattispecie negoziale volta a realizzare un assetto di interessi di tipo oneroso (nella specie, vendita in nome proprio, ma per conto del mandante, del bene immobile).
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trattandosi di un mandato senza rappresentanza ad alienare un bene immobile “accompagnato” dall’«immediato passaggio di proprietà (…) a titolo gratuito», dal mandante al mandatario, del bene da alienare, si sarebbe dovuto applicare il regime impositivo previsto per le donazioni di immobili, «senza che a tanto ostasse l’assoggettamento “a ulteriore tassazione” della vendita finale dell’immobile, ad opera del mandatario, al terzo acquirente»; questo perché – in base alle argomentazioni erariali (“condivise” dal Giudice d’appello) ai fini impositivi «risultava innegabile “l’arricchimento in capo al mandatario”, comportato dal trasferimento immediato del bene e suscettibile di “venir meno” soltanto ed eventualmente con la esecuzione del mandato, esecuzione della quale neppure vi era alcuna prova nel caso di specie». Al fine di corroborare una simile soluzione interpretativa, l’Agenzia delle entrate ha ritenuto che la fattispecie negoziale in esame fosse da sussumere in quella del negozio fiduciario, con conseguente “utilizzabilità” nel caso di specie delle indicazioni interpretative contenute nella circolare n. 28/E del 27 marzo 2008, in cui è sostenuta l’applicabilità dell’imposta sulle successioni e donazioni ai negozi fiduciari aventi ad oggetto beni immobili, in ragione del «trasferimento a titolo gratuito del bene dalla sfera giuridica del fiduciante a quella del fiduciario» (3). Ed ancora, l’Agenzia delle entrate ha anche provato a contestare l’“elusività” della fattispecie negoziale in esame, in quanto, ad avviso di quest’ultima, «la carenza nello strumento contrattuale sia della previsione di alcun termine per la esecuzione del mandato, sia della indicazione del nome del terzo acquirente (…)» potevano indurre ad interpretare tale fattispecie negoziale «presupponendo il conferimento del mandato come un mezzo per alienare o concedere in godimento un bene immobile eludendo la normale imposta di donazione». Peraltro, nel sostenere l’esistenza di un “supposto intento elusivo”, l’Agenzia delle entrate ha richiamato l’art. 20, d.p.r. 26 aprile 1986, n. 131 (“TUR”), evocando, cioè, quell’opzione interpretativa (in verità, mai pienamente consolidatasi in sede di legittimità (4)) che vedeva nella “(ri)
(3) In questi termini cfr. circ. n. 28/E del 27 marzo 2008 (par. 3.2.). (4) La giurisprudenza di legittimità non è mai stata univoca sulla natura antielusiva dell’art. 20, TUR. Difatti, in alcune pronunce è stato affermato che l’art. 20 TUR doveva trovare applicazione alla luce del principio generale antielusivo, fungendo, nell’ambito delle imposte di registro, ipotecaria e catastale, da vera e propria norma antiabuso (in questi termini cfr., tra le altre, Cass., 30 maggio 2005, n. 11457; Cass., 4 maggio 2007, n. 10273; Cass., 11 giugno 2007, n. 13580; Cass., 24 luglio 2013, n. 17965; Cass., 13 marzo 2014, n. 5877). In senso contrario,
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qualificazione negoziale” disciplinata da tale disposizione uno strumento di contrasto delle condotte elusive nell’ambito dell’imposta di registro e che, come noto, è stata ormai definitivamente smentita a livello normativo a seguito: i) dell’introduzione (ad opera dell’art. 7, d.lgs. 24 settembre 2015, n. 156) del “nuovo” art. 10-bis, l. 27 luglio 2000, n. 212, recante la disciplina generale di contrasto del fenomeno dell’abuso del diritto (valevole per qualsiasi settore impositivo) (5); ii) della recente “riformulazione” dello stesso art. 20, TUR (6), ad opera dell’art. 1, l. 27 dicembre 2017, 205 (7). 2. L’“eccezione di elusività” e l’esistenza di una “norma antielusiva specifica” relativa a una peculiare tipologia di mandato a vendere. – A fronte
in molte altre pronunce la stessa Suprema Corte aveva negato la natura di norma antielusiva all’art. 20, TUR, ritenendo che quest’ultimo si limitasse ad attribuire rilievo alla intrinseca natura e agli effetti giuridici dell’atto rispetto al suo titolo e alla sua forma apparente, a tal fine valorizzando il collegamento funzionale esistente tra più atti così come emergente anche da elementi extratestuali (in questi termini cfr., tra le altre, Cass., 10 febbraio 2017, n. 3562; Cass., 21 settembre 2016, n. 18454; n. Cass., 18 dicembre 2015, 25487; Cass., 10 giugno 2015, n. 24594; Cass., 19 giugno 2013, n. 15319). (5) Come noto, con l’introduzione della “nuova” disciplina generale dell’abuso del diritto ex art. 10-bis, l. n. 212/2000, è stato abrogato l’art. 37-bis, d.p.r. 29 settembre 1973, n. 600; non è stato abrogato, invece, il citato art. 20, TUR, ciò a conferma del fatto che tale disposizione non ha mai avuto una valenza di norma antielusiva. Inoltre, è stato riformulato l’art. 53-bis, TUR, relativo alle attribuzioni e ai poteri degli Uffici, con l’inserimento dell’inciso «fermo restando quanto previsto dall’art. 10-bis della legge 27 luglio 2000, n. 212», così confermando, in via ulteriore, l’applicabilità dell’art. 10-bis, l. 212/2000, anche nell’ambito dell’imposta di registro, quale norma generale di contrasto dei fenomeni elusivi/abusivi. (6) L’art. 1, comma 87, l. n. 205/2017, ha riformulato l’art. 20, TUR, chiarendo che “l’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, sulla base degli elementi desumibili dall’atto medesimo, prescindendo da quelli extratestuali e dagli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi”. Ciò implica che, fermo restando che per «effetti giuridici» sono da intendersi solo quelli civilistici, l’Ufficio può certamente prescindere dal nomen iuris attribuito all’atto dalle parti, ma, nell’esercizio di tale potere di accertamento, dovrà limitarsi soltanto alla riqualificazione giuridica dell’atto, senza poter attribuire alcuna rilevanza ad elementi esterni rispetto all’atto registrato (ossia ad elementi non risultanti dal contenuto dell’atto sottoposto a registrazione). Pertanto, come chiarito nella stessa Relazione illustrativa a tale modifica normativa, l’eventuale collegamento funzionale sussistente tra più atti negoziali (autonomamente sottoposti a registrazione), al più, potrà assumere rilevanza in chiave elusiva ai sensi dell’art. 10-bis, l. n. 212/2000, sempre che sussistano tutti i presupposti ivi previsti per configurare una condotta elusiva. (7) Con l’art. 1, comma 1084, L. 30 dicembre 2018, n. 145, è stato chiarito che “l’art. 1, comma 87, lett. a) della Legge 27 dicembre 2017, n. 205, costituisce interpretazione autentica dell’art. 20, comma 1 del Decreto del Presidente della repubblica 26 aprile 1986 n. 131”.
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di ciò, in primo luogo, la Suprema Corte ha (giustamente) respinto per ragioni processuali la predetta “eccezione di elusività” prospettata dall’Agenzia delle entrate (parrebbe, per la prima volta) in sede di legittimità, trattandosi (testualmente) «di mera illazione in punto di fatto, concernente questione affatto estranea all’ambito del giudizio di merito, sicché la relativa prospettazione non è ammissibile» in sede di legittimità. Ad ogni modo, come già detto, il richiamo dell’art. 20 TUR in chiave antielusiva, effettuato dall’Agenzia delle entrate nelle proprie difese, risultava inconferente, essendo oramai pacifico (già a livello normativo) il seguente dato giuridico: la “(ri)qualificazione negoziale” prevista da tale disposizione non ha (e non ha mai avuto) nulla a che vedere con il fenomeno dell’elusione/abuso del diritto (8). Peraltro, in tema di contrasto ai fenomeni elusivi nell’ambito dell’imposta di registro, in questa sede va ricordata la disposizione di cui all’art. 33, comma 1, TUR, qualificata in dottrina come “norma antielusiva specifica”, concernente il trattamento impositivo da applicare alla peculiare fattispecie negoziale del mandato irrevocabile con dispensa del mandatario dall’obbligo del rendiconto ex art. 1713, c.c. (9) Ciò consentirà di definire, con l’aiuto di più precisi riferimenti normativi, la differenza tra le fattispecie di evasione, simulazione ed elusione, che possono ricorrere nel mandato a vendere immobiliare, e, in tal modo, di meglio inquadrare la fattispecie oggetto della sentenza in commento. Secondo autorevole dottrina (10), «proprio perché l’imposta di registro colpisce l’atto avendo precipuo riguardo al suo contenuto giuridico, nel presupposto che vi sia una corrispondenza tra il tipo contrattuale e il substrato economico dell’operazione, il legislatore ha avvertito l’esigenza di intervenire
(8) Sul tema cfr., tra gli altri, G. Tabet, L’applicazione dell’art. 20 t.u. registro come norma di interpretazione e/o antielusiva, in Rass. trib., 2016, 913 ss.; V. Mastroiacovo, La nuova disciplina dell’abuso del diritto e dell’elusione fiscale nella prospettiva dell’imposta di registro, in Riv. not., 2016, 31 ss.; M. Beghin, Ancora equivoci sull’interpretazione degli atti ai fini dell’imposta di registro, in Corr. trib., 2017, 2622. Per una ricostruzione sistematica sul tema si veda G. Girelli, Forma giuridica e sostanza economica nel sistema dell’imposta di registro, Milano, 2017, passim. (9) Una simile pattuizione è assente nella vicenda negoziale esaminata dalla Suprema Corte nella sentenza in commento (in cui difetta anche l’ulteriore requisito della irrevocabilità del mandato), per cui questa vicenda negoziale è fuori dall’ambito applicativo dell’art. 33, comma 1, TUR. (10) In questi termini G. Marongiu, L’abuso del diritto nella legge di registro tra principi veri e principi asseriti, in Dir. prat. trib., n. 2, 2013, 369.
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con apposite disposizioni per reprimere fenomeni di elusione, caratterizzati da una divergenza tra lo schema negoziale adottato dalle parti contraenti e gli scopi pratici da esse perseguiti, diversi ed ulteriori rispetto a quelli connaturati al tipo negoziale.» In questo contesto normativo «una ratio antielusiva» ispirerebbe anche il disposto di cui al citato art. 33, comma 1, TUR, in forza del quale, «il mandato irrevocabile con dispensa dall’obbligo di rendiconto è soggetto all’imposta stabilita per l’atto per il quale è stato conferito». In tal senso, secondo la citata dottrina, «(…) a titolo esemplificativo, il mandato irrevocabile a vendere con dispensa dall’obbligo del rendiconto è assimilato ai fini dell’imposta in esame alla vendita, nel presupposto che esso dissimuli un trasferimento dal mandante al mandatario dei diritti cui si riferisce» (11). Per quanto condivisibile, questa impostazione dottrinale presenta un profilo che meriterebbe un ulteriore approfondimento. Si tratta, in particolare, del passaggio argomentativo (poc’anzi riportato) in cui si afferma che la norma antielusiva specifica in esame andrebbe applicata anche ai casi di simulazione negoziale. Difatti, alla luce della nozione (domestica) di abuso del diritto, così come definita dall’art. 10-bis, l. n. 212/2000, la simulazione negoziale non appartiene al fenomeno dell’elusione/abuso del diritto, bensì a quello dell’evasione (12). Pertanto, se si assume la qualificazione del citato art. 33, TUR, in termini di norma antielusiva specifica, tale disposizione – in linea di principio – non dovrebbe trovare applicazione in presenza di una fattispecie negoziale simulata, da contrastare, invece, con gli “ordinari” strumenti accertativi (in specie, dimostrando la simulazione in sede accertativa). Peraltro, in tal senso, in un successivo passaggio del citato contributo dottrinale, è lo stesso Autore a ricordare come la simulazione negoziale (in cui il negozio posto in essere è apparente e non voluto) «nulla» abbia «in comune con le asserite operazioni elusive nelle quali le pattuizioni sono vere, reali ed effettivamente volute» (13).
(11) In questi termini G. Marongiu, op. cit., 370. (12) Si ricorda che ai sensi dell’art. 10-bis, comma 12, l. n. 212/2000, «in sede di accertamento l’abuso del diritto può essere configurato solo se i vantaggi fiscali non possono essere disconosciuti contestando la violazione di specifiche disposizioni tributarie.» (13) In questi termini G. Marongiu, op. cit., 373. Di recente, sul tema e, più in generale, sulla diversità tra la nozione domestica di abuso del diritto (non comprensiva anche dei fenomeni simulatori) e la nozione di abuso del diritto elaborata dal diritto unionale (comprensiva anche delle fattispecie “artificiose” ovvero simulate) si veda, tra gli altri, F. Gallo, L’abuso del diritto nell’art. 6 della Direttiva 2016/1164/UE e nello Statuto dei diritti del contribuente: confronto tra le due nozioni, in Rass. trib., 2018, 271 ss.; G. Falsitta, Note critiche intorno al
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In verità, non si tratta di una precisazione puramente teorica. Difatti, le modalità per giungere all’applicazione (coattiva) del “giusto” trattamento impositivo – in linea di principio – dovrebbero essere differenti a seconda che il mandato irrevocabile con dispensa dall’obbligo di rendiconto rappresenti una fattispecie negoziale realmente voluta dalle parti, oppure rappresenti una fattispecie negoziale simulata. Difatti, in presenza, ad esempio, di un mandato irrevocabile a vendere un bene immobile, con dispensa del mandatario dall’obbligo di rendiconto realmente voluto dalle parti (ad esempio, per uno scopo di garanzia (14)), risulta applicabile il citato art. 33, comma 1, TUR, trattandosi, appunto, di una fattispecie negoziale reale, che non ha nulla di simulato. In questo caso il contribuente in sede di registrazione dell’atto dovrà applicare il trattamento impositivo ordinariamente previsto per l’atto per il quale è stato conferito il mandato (nell’esempio il trattamento impositivo previsto per la vendita dell’immobile); in mancanza, l’Agenzia delle entrate procederà al recupero della maggiore imposta, quale imposta principale, mediante la procedura di liquidazione ex art. 3-ter, d.lgs. n. 18 dicembre 1997, n. 463 (15). Tuttavia, trattandosi di una norma antielusiva specifica, al contribuente dovrebbe essere consentito
concetto di abuso del diritto nella recentissima codificazione, in Per un nuovo ordinamento tributario, Contributi coordinati da V. Uckmar in occasione dei Novant’anni di Diritto e Pratica Tributaria, C. Glendi - G. Corasaniti - C. Corrado Oliva - P. dé Capitani di Vimercate (a cura di), Padova, 2019, tomo II, 923 ss.; Id., Unità e pluralità del concetto di abuso del diritto nell’ordinamento interno e nel sistema comunitario, in Riv. dir. trib., n. 4, 2018, 333 ss.; Id., Spunti critici e ricostruttivi sull’errata commistione di simulazione ed elusione nell’onnivoro contenitore detto «abuso del diritto», in Riv. dir. trib., 2010, II, 349 ss. Sulla distinzione tra interposizione fittizia e interposizione reale (rilevante ai fini della configurabilità del fenomeno elusivo nell’ordinamento interno) si veda F. Paparella, Primi punti fermi della Cassazione sull’art. 37, comma 3, del DPR n. 600 del 1973, in Rass. trib., n. 4, 2000, 1273 ss. (14) Una simile fattispecie negoziale, sotto il profilo civilistico, potrebbe porsi in contrasto con il divieto del patto commissorio ex art. 2744, c.c. A tale ultimo riguardo si rinvia, tra gli altri, a G. Tarantino, Patto commissorio, alienazioni in garanzia ed autonomia privata: alla ricerca di un difficile equilibrio, in I Contratti, 2012, 12 ss.; M. Albanese, Brevi note in tema di patto commissorio, procura a vendere e autonomia privata ovvero la fattispecie e i suoi confini, in Giur. it., 2012, 570 ss.; C. Botta, Il mandato irrevocabile all’incasso. Autonomia privata, cooperazione gestoria e tutela degli interessi dei creditori, Napoli, 2005, 135 ss. (15) Il recupero dell’imposta principale è effettuato nei confronti dei soggetti di cui all’art. 10, comma 1, lett. b), TUR, ossia «i notai, gli ufficiali giudiziari, i segretari o delegati della pubblica amministrazione e gli altri pubblici ufficiali per gli atti da essi redatti, ricevuti o autenticati».
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presentare in via preventiva (ex art. 11, co. 2, l. 212/2000 (16)) istanza di interpello disapplicativo dell’art. 33, comma 1, TUR, dimostrando l’assenza nel caso di specie dei “rischi di elusività” (17) sottesi alla disposizione in esame (dimostrando, cioè, l’insussistenza di un vantaggio fiscale indebito ovvero la sussistenza di valide ragioni economiche che hanno necessitato la realizzazione di una fattispecie negoziale di tal genere). Qualora si ottenga la disappli-
(16) Non dovrebbero esserci dubbi sul seguente dato giuridico: l’istituto dell’interpello disapplicativo ex art. 11, comma 2, l. n. 212/2000, ha un ambito disciplinare generale, valevole per qualsiasi settore impositivo in cui siano previste norme antielusive specifiche, come tali potenzialmente disapplicabili qualora ne sussistano i presupposti. (17) Il mandato a vendere un bene immobile è stato utilizzato alcune volte per “aggirare” la norma che dispone l’agevolazione per l’acquisto della “prima casa” (ex art. 1, nota II bis, della Tariffa Parte I, allegata al TUR). In particolare, colui che è già proprietario di un immobile acquistato usufruendo dell’“agevolazione prima casa”, per poter acquistare un nuovo immobile usufruendo nuovamente di tale agevolazione, deve trasferire la titolarità del primo immobile entro un anno dal secondo acquisto; tuttavia, se per “privarsi” della titolarità del primo immobile, quest’ultimo, invece di venderlo, lo trasferisca “temporaneamente” al mandatario mediante stipulazione di un mandato a vendere, potrebbe configurarsi una condotta volta all’elusone/ abuso della disciplina agevolativa in esame. In una simile fattispecie il mandato a vendere il primo immobile è un negozio realmente voluto dalle parti; tuttavia, il “problema elusivo” non riguarda direttamente il mandato a vendere, in quanto quest’ultimo “concorre” a rendere “elusivo” il negozio di acquisto del secondo immobile in ragione della indebita applicazione, a quest’ultimo, della “agevolazione prima casa” (per violazione della relativa ratio agevolativa), (elusività/abuso del diritto) da contestare ai sensi dell’art. 10-bis, l. n. 212/2000. Pertanto, in una simile fattispecie non entrerà in gioco la disposizione di cui all’art. 33, comma 1, TUR; difatti, assumendo che la volontà non sia quella di privarsi a titolo definitivo della proprietà del primo immobile ma solo quella di “perdere temporaneamente” la titolarità del primo immobile (per gli anni necessari a far decadere l’Agenzia delle entrate dal potere di accertamento), così da poter acquistare il secondo immobile usufruendo nuovamente della “agevolazione prima casa”, il mandato a vendere il primo immobile non dovrebbe contenere la clausola della irrevocabilità del mandato e la clausola della dispensa del mandatario dall’obbligo del rendiconto. Di contro, qualora il mandato a vendere il primo immobile dovesse essere irrevocabile, con previsione della dispensa del mandatario dall’obbligo di rendiconto, in tal caso si ricadrebbe nell’ambito applicativo del citato art. 33, comma 1, TUR, con conseguente applicazione al trasferimento del bene immobile dal mandante al mandatario del trattamento impositivo previsto per la vendita. Ma se così è, se, cioè, in questo caso il mandato a vendere è fiscalmente assimilato alla vendita, salvo peculiarità del caso (ad esempio, la simulazione del mandato de quo), andrebbe riconosciuta la spettanza dell’“agevolazione prima casa” sull’acquisto del secondo immobile, anche e soprattutto in considerazione del fatto che, pure sotto il profilo civilistico, la irrevocabilità del mandato a vendere e la previsione della dispensa dall’obbligo del rendiconto dovrebbero “ostacolare” un “ritorno” del primo immobile al mandante su semplice “richiesta” di quest’ultimo (qualora dovesse verificarsi un simile “ritorno” del primo bene immobile al mandante entro gli ordinari termini decadenziali di accertamento, l’Agenzia delle entrate sarebbe legittimata a disconoscere l’“agevolazione prima casa” sull’acquisto del secondo immobile).
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cazione di tale disposizione per (dimostrata) assenza di “rischi di elusività”, a quel punto al trasferimento del bene immobile dal mandante al mandatario andrà applicato il “giusto” trattamento impositivo in ragione della corretta ricostruzione del relativo contenuto negoziale ex art. 20 TUR (18). Peraltro, qualora sia stata presentata istanza di interpello disapplicativo e alla stessa sia stata fornita risposta, nei casi di mancato adeguamento del contribuente alla risposta ovvero di supposta non corrispondenza tra la fattispecie descritta nell’istanza e quella realmente posta in essere, l’eventuale successiva attività accertativa dovrà rispettare i vincoli procedimentali stabiliti dall’art. 6, comma 2, d.lgs. n. 156/2015. Da ultimo, può essere interessante osservare come, in caso di mancata presentazione dell’istanza di interpello disapplicativo e di non applicazione in sede di registrazione del trattamento impositivo previsto dal citato art. 33, comma 1, TUR, l’Agenzia delle entrate dovrebbe procedere soltanto al recupero della maggiore imposta (quale imposta principale) con le modalità poc’anzi indicate e (sussistendone i presupposti) all’irrogazione della sanzione per omesso versamento (19), non potendo, invece, contestare (con separato atto) nei confronti del contribuente anche la sanzione amministrativa prevista dall’art. 11, comma 7-ter, d.lgs. 1997, n. 471 (così come modificato dal d.lgs. n. 158/2015), in quanto l’ambito applicativo di tale disposizione sanzionatoria è circoscritto alle sole imposte sui redditi e all’Iva (20).
(18) Nell’esempio fatto, trattandosi di un mandato posto in essere per uno scopo di garanzia, andrebbe applicato il trattamento impositivo previsto per questa tipologia di negozi. (19) L’art. 3-ter, d.lgs. n. 463/1997, stabilisce che nei confronti dei soggetti di cui all’art. 10, comma 1, lett. b), TUR, oltre al recupero dell’imposta principale, debba essere contestualmente irrogata la sanzione (nella misura del 30% dell’imposta) di cui all’art. 13, d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, in caso di mancato versamento dell’imposta principale (oggetto della procedura di liquidazione) nei termini ivi indicati. (20) Il comma 7-ter dell’articolo 11, d.lgs. n. 471/1997 stabilisce che, laddove il contribuente disapplichi la norma antielusiva specifica senza aver preventivamente presentato istanza di interpello disapplicativo, deve essere punito con una sanzione amministrativa ricompresa tra 2.000 e 21.000 euro; la medesima sanzione deve essere applicata in misura raddoppiata qualora l’Agenzia delle entrate, in sede di accertamento, disconosca la spettanza della disapplicazione della norma antielusiva specifica. Se, quindi, questa disposizione sanzionatoria è legata ai connotati di preventività e (soprattutto) di obbligatorietà dell’interpello disapplicativo, è alquanto discutibile la scelta legislativa di circoscriverne l’ambito applicativo alle sole imposte sui redditi e all’Iva, a fronte di un’applicabilità generalizzata (in tutti i settori impositivi) dell’istituto dell’interpello disapplicativo ex art. 11, comma 2, l. n. 212/2000.
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Tutto ciò non dovrebbe essere perfettamente ripetibile (proseguendo con il precedente esempio) in presenza di un mandato irrevocabile a vendere un bene immobile con dispensa del mandatario dall’obbligo di rendiconto che, però, non sia realmente voluto dalle parti, ma sia simulato, con dissimulazione del differente contratto di vendita del bene immobile dal mandante al mandatario. Difatti, sebbene anche qui il “giusto” trattamento impositivo da applicare sia sempre quello previsto per la vendita del bene immobile (contratto dissimulato), tuttavia, trattandosi di una fattispecie simulata, in caso di mancata applicazione di un simile trattamento impositivo in sede di registrazione e autoliquidazione dell’imposta, questo “risultato impositivo” dovrebbe raggiungersi in sede accertativa - in linea di principio - non già mediante applicazione del citato art. 33, comma 1, TUR (perché norma antielusiva specifica), bensì dimostrando (con onere probatorio incombente sull’Agenzia delle entrate) la simulazione e, per l’effetto, disvelando il contratto (dissimulato) di vendita (realmente voluto dalle parti). Più precisamente, la maggiore imposta così recuperata andrebbe qualificata non come imposta principale, ma come imposta complementare, con tutte le relative conseguenze sotto il profilo delle modalità accertative (21) e delle misure sanzionatorie (22). Inoltre, essendo fuori dall’ambito applicativo dell’art. 33, comma 1, TUR, non risulterebbe applicabile neppure l’istituto dell’interpello disapplicativo (ex art. 11, comma 2, l. n. 212/2000), vista l’assenza di una “norma antielusiva specifica” da disapplicare; d’altro canto, in presenza di una simile fattispecie simulatoria non avrebbe neppure un senso logico la presentazione dell’istanza di interpello disapplicativo, perché implicherebbe lo “spontaneo” disvelamento all’Agenzia delle entrate della simulazione posta in essere dalle parti. Chiaramente, se l’Agenzia delle entrate, in presenza di una simile fattispecie simulatoria, dovesse accertare la maggiore imposta (prevista per la vendita del bene immobile) invocando (quasi certamente (23)) l’applicazione dell’art.
(21) Non dovrebbe applicarsi la procedura di liquidazione ex art. 3-ter, d.lgs. n. 463/1997, trattandosi di imposta complementare da recuperare direttamente nei confronti del contribuente con le ordinarie modalità accertative nei termini decadenziali di cui all’art. 76, TUR. (22) Non dovrebbe applicarsi la sanzione per omesso versamento di cui all’art. 13, d.lgs. n. 471/1997, in ragione della inapplicabilità della procedura di liquidazione ex art. 3-ter, d.lgs. n. 463/1997. Di contro, assunta la dissimulazione di un contratto di vendita, essendoci stata quasi certamente una occultazione del corrispettivo di tale vendita, l’Agenzia delle entrate potrebbe irrogare la specifica sanzione amministrativa stabilita dall’art. 72, TUR per i casi di occultazione (totale o parziale) del corrispettivo. (23) In ragione, da un lato, della “semplicità applicativa” dell’art. 33, comma 1, TUR e,
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33, comma 1, TUR, una eventuale difesa del destinatario dell’atto, qualora dovesse condurre al disvelamento della simulazione in sede amministrativa e/o in sede processuale, se eccepito da quest’ultimo, dovrebbe anche condurre - in linea di principio - all’annullamento del provvedimento impositivo perché illegittimamente fondato sull’art. 33, comma 1, TUR; tuttavia, se ancora nei termini, l’Agenzia delle entrate potrebbe emettere nei confronti del contribuente un nuovo provvedimento impositivo fondando il recupero della maggiore imposta (questa volta correttamente) sulla dimostrazione della simulazione. Ciò posto, si è consapevoli del fatto che escludere dall’ambito applicativo dell’art. 33, comma 1, TUR, le fattispecie negoziali simulate possa risultare un’impostazione eccessivamente formale e di difficile attuazione pratica, in considerazione della oggettiva difficoltà per l’Agenzia delle entrate a distinguere le fattispecie negoziali realmente volute dalle parti da quelle simulate, nonché in considerazione della formulazione testuale della disposizione, che potrebbe essere intesa come una scelta legislativa di “semplificazione” del trattamento impositivo, da applicare tout court a tutte le fattispecie di mandato irrevocabile con dispensa del mandatario dall’obbligo di rendiconto, al di là di qualsiasi ulteriore indagine in merito alla natura reale o simulata della fattispecie negoziale sottoposta a registrazione (quale norma di contrasto tanto delle condotte elusive/abusive quanto delle condotte evasive). Seguendo quest’ultima opzione interpretativa, l’eventuale imposta recuperata ai sensi dell’art. 33, comma 1, TUR, andrebbe qualificata, in ogni caso, come imposta principale da recuperare sempre applicando la procedura di liquidazione ex art. 3-ter, d.lgs. n. n. 463/1997; di contro, resterebbe ferma (anche per i motivi di ordine logico poc’anzi indicati) l’inutilizzabilità dell’istituto dell’interpello disapplicativo (ex art. 11, comma 2, l. n. 212/2000) in presenza di fattispecie negoziali simulate (24).
dall’altro, della oggettiva difficoltà ad appurare la simulazione. (24) Questa opzione interpretativa, se, da un lato, “semplifica” certamente l’attività accertativa dell’Agenzia delle entrate, dall’altro, potrebbe condurre ad un “eccesso di semplificazione” in presenza di fattispecie simulatorie rispetto alle quali: i) se il negozio dissimulato fosse una vendita, con conseguente occultazione del corrispettivo della vendita, si porrebbe il problema della contestabilità o meno della specifica sanzione amministrativa stabilita dall’art. 72, TUR (“occultazione di corrispettivo”), a fronte del recupero della maggiore imposta (quale imposta principale) effettuato mediante la procedura di liquidazione ex art. 3-ter, d.lgs. n. n. 463/1997, nei confronti di soggetti diversi dalle parti del negozio (procedura che, di per sé, prevede l’irrogazione della sanzione per omesso versamento, ove ne sussistano i presupposti); ii) potrebbe porsi un problema di “giusta” imposta da applicare laddove, a fronte di un negozio
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Ciò posto, concludendo sul punto, va rilevato che con riferimento alla fattispecie negoziale esaminata nella sentenza in commento, assunta la non applicabilità alla stessa del disposto di cui all’art. 33, comma 1, TUR (25), un’eventuale contestazione in termini di elusione/abuso del diritto avrebbe richiesto la dimostrazione, da parte dell’Agenzia delle entrate (già nella motivazione del provvedimento impositivo), della sussistenza di tutti i connotati tipici della condotta elusiva/abusiva (assenza di sostanza economica e conseguimento di un vantaggio fiscale indebito), ora definiti dal citato art. 10-bis, l. n. 212/2000. 3. Il trattamento impositivo del negozio fiduciario secondo l’Agenzia delle entrate. – Concluso questo breve inquadramento, va ora esaminata la soluzione interpretativa indicata dalla Suprema Corte nella sentenza in commento in merito al trattamento fiscale, ai fini dell’imposta sulle successioni e donazioni, del mandato senza rappresentanza ad alienare un bene immobile. Anticipando le conclusioni, va da subito rilevato come la Suprema Corte, in buona sostanza, faccia propria la soluzione interpretativa già prospettata dalla dottrina (26), basata sulla (corretta) valorizzazione ai fini impositivi della “strumentalità” e della “neutralità” del trasferimento del bene immobile dal mandante al mandatario, quale “provvista” necessaria per l’esecuzione del mandato. Prima di esaminare questa soluzione interpretativa, appare opportuno ricordare quanto sostenuto dall’Agenzia delle entrate con riferimento al trattamento impositivo del negozio fiduciario (27), a cui, per certi aspetti, il mandato senza rappresentanza ad alienare è stato assimilato.
simulato rappresentato dal mandato irrevocabile (ad esempio) a vendere con dispensa dall’obbligo di rendiconto, il negozio dissimulato fosse (in ipotesi) un trasferimento a titolo gratuito o a titolo liberale. Difatti, in una simile ipotesi l’art. 33, comma 1, TUR, imporrebbe l’applicazione dell’imposta di registro prevista per la vendita; di contro, dando rilevanza al negozio dissimulato, andrebbe (correttamente) applicata l’imposta di donazione. (25) Per le ragioni indicate nella precedente nota n. 9. (26) Il riferimento è a V. Mastroiacovo, Il mandato ad alienare tra limiti ordinamentali e pregiudizi fiscali, in Riv. trim. dir. trib., n. 1, 2018, 95 ss. (27) Nella letteratura giuridica il termine “fiducia” viene comunemente impiegato per indicare due diversi fenomeni: i) una particolare specie di proprietà, definita “proprietà fiduciaria”, in cui le facoltà di godere e di disporre di un dato bene sono attribuite al proprietario non già per soddisfare un interesse proprio, bensì per soddisfare un interesse altrui; ii) una particolare tipologia negoziale, definita come negozio fiduciario, in forza della quale la proprietà di un bene viene trasferita da un soggetto ad un altro soggetto con il patto (pactum fiduciae) che
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In questa sede non può essere approfondita la tematica civilistica relativa al corretto inquadramento giuridico di tale specifica tipologia di mandato (28), peraltro, non poco dibattuta in dottrina (29). Difatti, vista l’assenza di una disciplina normativa del mandato senza rappresentanza (30) ad alienare, le differenti posizioni dottrinali su tale tematica possono così sintetizzarsi: i) secondo una parte della dottrina civilistica (31) il trasferimento del bene avverrebbe direttamente dal mandante al terzo per il tramite del mandatario, il quale, in forza del mandato, sarebbe legittimato a disporre in nome proprio del diritto altrui, rendendo così non necessario il trasferimento interno della proprietà del bene dal mandante al mandatario (se così fosse, ai fini fiscali ci sarebbe un unico trasferimento da assoggettare ad imposizione, quello dal mandante al terzo); ii) diversamente, secondo altra parte della dottrina civilistica (32), si avrebbe un duplice trasferimento, un primo trasferimento dal mandante al mandatario e un secondo trasferimento dal mandatario al terzo (33). Ciò posto, seguendo la teoria del duplice trasferimento, è stato ricordato (34) come
il secondo se ne serva per un dato fine, raggiunto il quale, deve ritrasferire il bene al primo. Sul tema si veda F. Galgano, La “fiducia romanistica”, in Atlante di diritto privato comparato, XIII, Milano, 1992, 181; F. Ferrara, I negozi fiduciari, in Studi in onore di Scialoja, Milano, 1905, 745; N. Lipari, Il negozio fiduciario, Milano, 1964, passim. (28) Per una sistemazione di carattere generale del mandato si veda G. Minervini, Il mandato, la commissione, la spedizione, in Trattato di diritto civile, F. Vassalli (a cura di), Torino, 1954, vol. VIII, Tomo primo, passim. (29) Per una più completa ricostruzione delle differenti impostazioni dottrinali relative all’inquadramento giuridico del mandato senza rappresentanza ad alienare, anche e soprattutto nell’ottica dell’individuazione del relativo trattamento impositivo, si rinvia a V. Mastroiacovo, op. cit., ibidem. (30) Per una ricostruzione sistematica del “mandato in nome proprio” cfr. A. Luminoso, Mandato, commissione, spedizione, in Trattato di diritto civile e commerciale, A. Cicu - F. Messineo - L. Mengoni (a cura di), Milano, 1984, XXXII, 63 – 92. (31) Cfr., tra gli altri, L. Mengoni, Gli acquisti «a non domino», Milano, 1994, 5. (32) Cfr., tra gli altri, L. Carraro, Il mandato ad alienare, Padova, 1947, 11 e 14. In particolare, per giustificare la necessità di un passaggio intermedio del diritto da trasferire dal mandante al mandatario, è stata richiamata la norma che impone al mandante l’obbligo, salvo patto contrario, «di somministrare al mandatario i mezzi necessari per l’esecuzione del mandato e per l’adempimento delle obbligazioni che a tal fine il mandatario ha contratto in nome proprio» (art. 1719, c.c.). (33) Come ricordato in dottrina (V. Mastroiacovo, op. cit., 112 113), il primo trasferimento per alcuni verrebbe attuato in forza di un negozio a causa esterna, speculare a quello di ritrasferimento ex art. 1706, c.c., antecedente al trasferimento al terzo, mentre per altri sarebbe automatico ma condizionato sospensivamente al compimento dell’attività gestoria di alienazione dal mandatario al terzo. (34) In questi termini V. Mastroiacovo, op. cit., 113.
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secondo parte della dottrina il trasferimento del bene dal mandante al mandatario sarebbe assimilabile al trasferimento del bene dal fiduciante al fiduciario, in quanto il mandatario (similmente al fiduciario) consegue la proprietà del bene, ma l’esercizio dei relativi diritti risulta interamente regolato dal negozio obbligatorio di mandato. Pertanto, come (condivisibilmente) osservato dal citato Autore, «qualora l’evoluzione del sistema giuridico ci conduca oggi verso l’ammissibilità» nell’ordinamento giuridico della figura del negozio astratto (nella specie, quello di trasferimento del bene dal mandante al mandatario), «fermi restando i rischi per il mandante connessi all’effettivo adempimento del mandato, potremmo riconoscere al trasferimento della titolarità al mandatario natura meramente strumentale, in quanto programmata al solo fine dell’alienazione al terzo» (35). In altri termini, seguendo questa impostazione, il trasferimento del bene dal mandante al mandatario assumerebbe i connotati di un trasferimento meramente strumentale per il compimento dell’attività gestoria del mandatario (alienazione del bene a terzi). Assunta l’assimilabilità del trasferimento del bene dal mandante al mandatario al trasferimento del bene dal fiduciante al fiduciario, vanno, quindi, esaminate le indicazioni interpretative fornite dalla prassi amministrativa in merito al trattamento impositivo (ai fini dell’imposta sulle successioni e donazioni) del negozio fiduciario (come tali, potenzialmente applicabili alla fattispecie in esame, così come sostenuto in giudizio dall’Agenzia delle entrate), al fine di verificarne la correttezza. In particolare, una prima indicazione interpretativa è contenuta nella circ. n. 3/E del 22 gennaio 2008, in cui l’Agenzia delle entrate – come noto – ha commentato (con risultati non del tutto convincenti) (36) l’imposta sulle successioni e donazioni, così come (re)istituita in sede di conversione del d.l. 3 ottobre 2006, n. 262 (con l. 24 novembre 2006, n. 286), da applicarsi «sui trasferimenti di beni e diritti per causa di morte, per donazione o a titolo gratuito e sulla costituzione di vincoli di destinazione» (37).
(35) In questi termini V. Mastroiacovo, op. cit., ibidem. (36) Per un’analisi critica delle indicazioni interpretative fornite dall’Agenzia delle entrate nella circ. n. 3/E del 2008, cfr. S. Zagà, L’applicabilità ai vincoli di destinazione ed ai trust della (re)istituita imposta sulle successioni e donazioni: spunti ricostruttivi alla luce della prassi ministeriale e della recente giurisprudenza di merito, in Diritto e Pratica Tributaria, n. 5, 2010, II, 839 ss. (37) In via generale, per una ricostruzione sistematica della (re)istituita imposta sulle successioni e donazioni si rinvia a G. Gaffuri, L’imposta sulle successioni e donazioni, II ed.,
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Difatti, nel tentativo di “spiegare” il significato del “nuovo” presupposto d’imposta rappresentato dalla «costituzione di vincoli di destinazione», indentificandolo in qualunque atto costitutivo di vincolo di destinazione avente effetti traslativi, l’Agenzia delle entrate aveva indicato, tra gli esempi, anche «il negozio fiduciario di cui prevalentemente si avvalgono le società fiduciarie disciplinate dalla legge 23 novembre 1939, n. 1966 (recante la disciplina in materia di società fiduciarie e di revisione), che si propongono di assumere l’amministrazione di beni per conto di terzi» (38). È evidente l’errore in cui era incorsa l’Amministrazione finanziaria con una simile affermazione, avendo fatto “confusione” fra due diversi istituti giuridici: i) il “mandato di amministrazione fiduciaria”, di cui (per espressa previsione normativa) si avvolgano prevalentemente le società fiduciarie ex l. n. 1966/1939, regolato dalle norme sul mandato di cui agli artt. 1703 ss., c.c., che non produce mai effetti traslativi della proprietà, dal fiduciante al fiduciario, dei beni oggetto di intestazione fiduciaria (essenzialmente titoli e partecipazioni); ii) la “costituzione di vincoli di destinazione”, quali fattispecie negoziali idonee a determinare, con riferimento a specifici beni, una “separazione patrimoniale da destinazione”, ossia in grado di determinare un effetto “segregativo” del bene “vincolato”, il quale confluisce in un patrimonio che è “separato” dal patrimonio “generale” del disponente e dal patrimonio “generale” dell’eventuale soggetto “affidatario” del bene “vincolato” (nell’ipotesi in cui l’apposizione del vincolo avvenga mediante trasferimento del bene nel patrimonio di quest’ultimo). Pertanto, a causa di questa errata assimilazione tra vincoli di destinazione e mandato fiduciario, l’Agenzia delle entrate nella predetta circolare era giunta all’assurda conclusione secondo cui anche gli atti di intestazione fiduciaria di beni “a favore” delle società fiduciarie (ex l. n. 1966/1939) dovessero essere assoggettati alla (re)istituita imposta sulle successioni e donazioni.
Padova, 2008, passim. (38) Inoltre, proseguiva l’Agenzia delle entrate nella citata circolare (par. 5.2.) affermando che le successive attribuzioni di beni «sono soggette ad autonoma imposizione a seconda degli effetti giuridici prodotti, indipendentemente da ogni precedente imposizione. Pertanto, nell’ipotesi in cui il bene trasferito in sede di costituzione del vincolo debba essere successivamente ritrasferito a terzi, si verificherà che: - il primo negozio traslativo della proprietà sarà assoggettato all’imposta sulle successioni e donazioni; - il secondo trasferimento, in base alla sua natura giuridica, sarà anch’esso assoggettato all’imposta sulle successioni e donazioni ovvero all’imposta di registro».
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Non poteva essere così. Difatti, il conferimento di un mandato fiduciario a favore di una società fiduciaria (ex l. n. 1966/1939) non produce mai effetti traslativi della proprietà, né tanto meno effetti lato sensu “segregativi” (recte, di separazione patrimoniale) con limitazione della responsabilità patrimoniale del soggetto disponente, similmente a ciò che accade nella differente ipotesi di costituzione di vincoli di destinazione ovvero, in specie, di conferimento di beni in trust. In tal senso, è qui sufficiente ricordare che le società fiduciarie, in base a quanto stabilito dalla l. n. 1966/1939, «si propongono, sotto forma di impresa, di assumere l’amministrazione dei beni per conto terzi». Lo strumento giuridico prevalentemente utilizzato (nonché presupposto dalla l. n. 1966/1939) per svolgere questa specifica attività – come detto - è il mandato fiduciario (39) senza (ovvero in alcuni casi anche con) rappresentanza per la mera amministrazione di beni (essenzialmente titoli e partecipazioni), accompagnato dalla riserva di proprietà da parte del fiduciante. In questi casi, pertanto, non si realizza alcun trasferimento della proprietà dei beni oggetto di intestazione fiduciaria, i quali restano nella “proprietà sostanziale” del soggetto fiduciante, mentre la società fiduciaria acquisisce soltanto la legittimazione a disporne (40) nei limiti del pactum fiduciae sottostante (41). In altri termini, in questi casi si verifica una separazione (recte, dissociazione) tra “intestazione” e “proprietà” (42): l’affidamento di beni in amministrazione si realizza con la società fiduciaria che li amministra in posizione di “intestataria in proprio nome”, mentre il fiduciante rimane l’effettivo titolare degli stessi (43), secon-
(39) Per la qualificazione del mandato fiduciario in termini di mandato senza rappresentanza cfr. G. Visentini, L’imposizione dei redditi che derivano dai valori immobiliari trasferiti in “fiducia”, in Giur. Comm., 1977, 278; per la sua qualificazione come contratto atipico cfr. F. Di Maio, Società fiduciarie e contratto fiduciario, Milano, 1977, passim. (40) In questi termini M. Nuzzo, Società fiduciaria, in Enc. Dir., XLII, Milano, 1990, 1094; F. Gallo, Gli enti di gestione fiduciaria: problemi di tutela del risparmio e connessi profili fiscali, in Giur comm., 1981, parte I, 736. (41) In tal senso cfr. Cass. 23 settembre 1997, n. 9355. (42) Cfr. S. Pugliatti, Fiducia e rappresentanza indiretta, in Diritto civile, Milano 1951, 315. (43) L’esistenza di una dissociazione tra legittimazione e titolarità, senza alcun trasferimento della “proprietà effettiva” dal fiduciante alla società fiduciaria, è confermata anche da tutta una serie di disposizioni legislative, quali: i) l’art. 1, 4° co., r.d. 29 marzo 1942, laddove è riconosciuta la legittimità dell’intestazione alle società fiduciarie di titoli appartenenti a terzi e, quindi, del solo esercizio dei diritti derivanti da tali titoli, alla condizione che le società fiduciarie dichiarino le generalità degli effettivi proprietari dei titoli medesimi; ii) l’art. 9, 1°
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do uno schema negoziale riconducibile all’istituto della c.d. “fiducia germanistica”. Pertanto, il mandato fiduciario, quale strumento negoziale prevalentemente utilizzato dalle società fiduciarie e presupposto dalla stessa l. n. 1966/1939, va tenuto distinto dal negozio fiduciario stricto sensu inteso, comunemente riconducibile al diverso istituto della c.d. “fiducia romanistica”, in cui il fiduciante trasferisce al fiduciario un diritto reale con un vincolo di restituzione che ha efficacia obbligatoria solo inter partes. Prendendo consapevolezza di ciò, l’Agenzia delle entrate è successivamente intervenuta con la circolare n. 28/E del 27 marzo 2008 per correggere (in verità, solo in parte) l’interpretazione fornita nella precedente circolare n. 3/E del 2008, riconoscendo che il mandato fiduciario (riconducibile allo schema della “fiducia germanistica”) di cui si avvalgono prevalentemente le società fiduciarie ex l. n. 1966/1939, non è idoneo a realizzare il presupposto della (re)istituita imposta sulle successioni e donazioni, vista l’assenza di un trasferimento di beni o diritti (44). Diversamente, in questo ultimo documento di prassi l’Agenzia delle entrate ha affermato che l’imposta sulle successioni e donazioni, comunque, andrebbe applicata nei casi di intestazione fiduciaria di beni immobili, in quanto il negozio fiduciario utilizzato a tal fine, essendo riconducibile al diverso schema della “fiducia romanistica”, comporta sempre il trasferimento del diritto di proprietà del bene immobile dal soggetto fiduciante al soggetto fiduciario. In altri termini, secondo l’Agenzia delle entrate il negozio fiduciario sarebbe idoneo ad integrare il presupposto dell’imposta sulle successioni e donazioni, non tanto quale atto costitutivo di un vincolo di destinazione, bensì
co., l. 29 dicembre 1962, 1745, laddove è stabilito che le società fiduciarie «devono comunicare (…) i nomi degli effettivi proprietari delle azioni ad esse intestate ed appartenenti a terzi, sulle quali hanno riscosso utili». Tutte queste disposizioni, così come anche il relativo regime fiscale di trasparenza (con tassazione in capo al fiduciante quale effettivo proprietario) dei redditi prodotti dai beni (valori mobiliari) intestati alla società fiduciaria confermano, nel caso di intestazione fiduciaria di beni attuata attraverso lo strumento negoziale (ordinariamente utilizzato) del “mandato fiduciario”, l’assenza di un effetto traslativo della proprietà dei beni in capo alla società fiduciaria, così come, per la medesima ragione, l’assenza di un qualunque effetto “segregativo” in grado di determinare una “separazione patrimoniale”, diversamente da quanto accadrebbe nella diversa ipotesi in cui su tali beni venisse costituito un “vincolo di destinazione”. (44) Per un’analisi del rapporto tra soggettività passiva d’imposta e intestazione fiduciaria di beni a favore delle società fiduciarie ex l. n. n. 1966/1939, cfr. S. Zagà, Intestazione fiduciaria e soggettività passiva d’imposta, in Dir. e prat. trib., n. 5, 2015, II, 889 ss.
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quale trasferimento a titolo gratuito di beni e diritti, tutte le volte in cui sia riconducibile al diverso schema della “fiducia romanistica”, ossia comporti il trasferimento della titolarità del bene dal fiduciante al fiduciario, a prescindere dal fatto che quest’ultimo non acquisisce in modo stabile e definitivo nel proprio patrimonio tale bene (essendo obbligato a ritrasferirlo al fiduciante o ad un soggetto terzo da quest’ultimo indicato, in forza del pactum fiduciae). 4. La natura strumentale e neutrale del trasferimento dal mandante al mandatario secondo la Suprema Corte. – Oltre a evidenti errori in termini di corretto inquadramento giuridico delle predette figure negoziali, sotto il profilo squisitamente fiscale l’errore di fondo alla base della lettura interpretativa dell’Agenzia delle entrate poc’anzi ricordata è individuabile nel fatto che il “nuovo” presupposto dell’imposta sulle successioni e donazioni – la «costituzione di vincoli di destinazione» – venga interpretato senza tenere in alcun conto la manifestazione di capacità contributiva che il legislatore ha programmaticamente inteso colpire con la (re)istituzione dell’imposta de qua, (manifestazione di capacità contributiva) da individuarsi nello stabile e definitivo arricchimento di un soggetto diverso dal disponente, senza la sopportazione di alcun sacrificio economico da parte del primo (beneficiario). Diversamente, devono ritenersi esclusi dall’ambito applicativo di tale imposta tutti i trasferimenti di beni e diritti non aventi natura liberale o gratuita, in quanto riconducibili ad un assetto di interessi di natura onerosa; se così non fosse si avrebbe un’irrazionale e incostituzionale sovrapposizione tra l’ambito applicativo dell’imposta sulle successioni e donazioni e quello dell’imposta di registro (45). A tal riguardo è stato condivisibilmente affermato in dottrina (46) che «a seguito dell’estensione dell’ambito applicativo dell’imposta sulle successioni e donazioni ai “vincoli di destinazione” e, più in generale, a tutti gli atti che comportano il trasferimento a titolo gratuito di beni e diritti, il perimetro di
(45) Ai fini impositivi assume, quindi, rilevanza la distinzione tra attribuzioni patrimoniali a titolo gratuito e attribuzioni patrimoniali a titolo oneroso. Con riferimento alla distinzione civilistica tra atti a titolo oneroso e atti a titolo gratuito cfr. per tutti M. Sandulli, Le nozioni giuridiche di onerosità e gratuità, in Banca, borsa e titoli di credito, 1973, I, 339 ss.; T.O. Scozzafava, La qualificazione di onerosità o gratuità del titolo, in Riv. dir. civ., 1980, 68 ss.; nonché, P. Morozzo della Rocca, Gratuità, liberalità, solidarietà, Milano, 1998, passim. (46) In questi termini cfr. G. Corasaniti, Profili impositivi dell’intestazione fiduciaria, in Obbligazione e contratti, n. 6, 2009, 557-558.
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imponibilità non sia più (come prima essenzialmente) circoscritto ai soli atti di liberalità, essendo stato ampliato fino a ricomprendere anche (tutta) l’area della gratuità (47), ma non anche quella dell’onerosità, area quest’ultima rientrante, invece, nel diverso ambito di operatività dell’imposta di registro». Pertanto, affinché possa trovare applicazione l’imposta sulle successioni e donazioni è necessario, di volta in volta, verificare che l’attribuzione patrimoniale (oltre ad essere stabile e definitiva) abbia natura liberale o gratuita. Con riferimento a tale indagine, è già stato ricordato in dottrina come «la qualificazione di un negozio giuridico quale atto a titolo gratuito, ovvero, quale atto a titolo oneroso» vada «apprezzata sulla base di una valutazione complessiva dell’intera operazione economica, anche valorizzando l’eventuale collegamento tra più atti» (48), dovendosi, senza dubbio, riconoscere natura onerosa ad un atto negoziale (che sarà, pertanto, escluso dall’ambito applicativo dell’imposta sulle successioni e donazioni) tutte le volte in cui quest’ultimo sia diretto a realizzare un assetto di interessi in cui alla posizione di vantaggio conseguita da un soggetto si accompagni anche la sopportazione da parte di quest’ultimo di un correlato sacrificio di natura patrimoniale, anche se non in rapporto di necessaria o tendenziale equivalenza. Come noto, negli ultimi tempi la questione relativa alla definizione dell’ambito applicativo dell’imposta sulle successioni e donazioni è stata più volte affrontata dalla Suprema Corte con specifico riferimento all’istituto del trust; in particolare, quest’ultima ha cercato di definire il significato del “nuovo” presupposto impositivo, rappresentato dalla «costituzione dei vincoli di destinazione», giungendo inizialmente a risultati poco convincenti, salvo poi assestarsi in recenti pronunce su soluzioni interpretative giuridicamente più corrette, basate sulla valorizzazione del carattere neutrale e strumentale del conferimento dei beni in trust (49).
(47) Come già ricordato, è critico rispetto a questa estensione del presupposto d’imposta anche all’area della gratuità (in quanto si rischierebbero sovrapposizioni tra il tributo successorio e l’imposta di registro) D. Stevanato, Vincoli di destinazione sulle intestazioni fiduciarie di titoli e di immobili, in Corr. trib., 2008, 1640 ss. (48) In questi termini G. Corasaniti, Profili impositivi dell’intestazione fiduciaria, op. cit., 557-558. Si veda anche G. Fransoni, Allargata l’imponibilità dei vincoli di destinazione, in Corr. trib., 2007, 649 e 650. (49) Per un’analisi della più recente giurisprudenza di legittimità relativa al trattamento impositivo del trust si rinvia (anche per ulteriori riferimenti bibliografici sul punto) a T. Tassani, La fiscalità dei trust onerosi nella più recente giurisprudenza di legittimità, in Trusts e attività fiduciarie, 2019, 300 ss.; G. Corasaniti, L’imposizione indiretta dei trust liberali: luci e ombre
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Ebbene, nella sentenza in commento la Suprema Corte in premessa richiama, per l’appunto, la più recente giurisprudenza di legittimità formatasi in tema di trust, ritenendo che quest’ultima possa offrire “spunti” utili per l’individuazione del corretto trattamento impositivo della diversa fattispecie negoziale del mandato senza rappresentanza ad alienare un bene immobile. Prosegue poi la Suprema Corte ricostruendo (correttamente) le caratteristiche essenziali del trasferimento della proprietà del bene immobile dal mandante al mandatario, e lo fa non già sulla base di un’analisi atomistica dello stesso, bensì trattandolo (anche) ai fini fiscali quale segmento (50) di una più complessa fattispecie negoziale, (segmento) indispensabile per il compimento dell’attività gestoria di alienazione del bene immobile. In particolare, dai fatti di causa risultanti dal testo della sentenza emerge il seguente dato: il mandante «aveva trasferito a titolo gratuito la proprietà del bene alienando al mandatario» e su questo trasferimento l’Agenzia delle entrate aveva preteso il pagamento dell’imposta sulle successioni e donazioni. Di contro, la Suprema Corte ne ha escluso l’imponibilità dando rilevanza ai vincoli obbligatori incombenti sul mandatario, derivanti dal mandato (stipulato contestualmente al predetto trasferimento), i quali “condizionano” (sia pure solo sotto il profilo obbligatorio, nei rapporti inter partes) il pieno esercizio del diritto di proprietà del bene alienando da parte del mandatario. Sotto il profilo civilistico, la Suprema Corte sembrerebbe non avere dubbi sulla struttura giuridica del mandato senza rappresentanza ad alienare, nel senso che, al di là delle differenti impostazioni della dottrina civilistica poc’anzi sommariamente ricordate, sembrerebbe ammetterne la configurabilità tanto con la struttura senza “doppio trasferimento” quanto con la struttura con “doppio trasferimento”. Difatti, nella sentenza in commento, da un lato, viene riconosciuta la non essenzialità del «trasferimento del bene alienando in capo al mandatario ai fini del perfezionamento del mandato senza rappresentanza per la vendita di un immobile»; dall’altro, esaminando la specifica vicenda controversa (in cui vi era stato l’effettivo trasferimento del diritto di proprietà del bene dal mandante al mandatario), la Suprema Corte lascia intendere che il mandato senza rappresentanza ad alienare possa assumere anche la struttura del “doppio trasferimento”. In tal senso, nella sentenza è chiarito che, sebbene
nella più recente giurisprudenza di legittimità, in Trusts e attività fiduciarie, 2019, 305 ss. (50) Circostanza, questa, che dovrebbe emergere direttamente dal contenuto dell’atto in base alla “nuova” formulazione dell’art. 20, TUR.
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il trasferimento del bene immobile dal mandante al mandatario non sia essenziale ai fini del perfezionamento del mandato, tuttavia, se tale trasferimento è «disposto contestualmente al conferimento del mandato», in questo caso sono incontestabili «i caratteri della strumentalità (sul piano del collegamento tra i negozi)» della «intestazione, meramente formale e interinale, dell’immobile in capo al mandatario (…)». In altri termini, se ben si intende il decisum della Suprema Corte, qualora il mandato senza rappresentanza ad alienare assuma la struttura del “doppio trasferimento” (come nella vicenda ivi esaminata), in tal caso l’esercizio, in capo al mandatario, del diritto di proprietà del bene da alienare (conseguente al “primo trasferimento” di tale bene, quello dal mandante al mandatario (51)) risulterebbe “condizionato” (anche se solo inter partes) dai vincoli obbligatori derivanti dalla contestuale stipulazione del contratto di mandato. È questo il motivo per cui la Suprema Corte (ai fini dell’individuazione del relativo trattamento impositivo) descrive la titolarità, in capo al mandatario, del bene da alienare come “strumentale”, “meramente formale” e “interinale” (ossia temporanea). Del pari, sotto il profilo fiscale, la Suprema Corte dimostra di aver ben chiaro quale sia il (corretto) presupposto applicativo della (re)istituita imposta sulle successioni e donazioni, tanto da affermare che nella vicenda in esame, visti i predetti connotati di strumentalità e provvisorietà del trasferimento del bene immobile dal mandante al mandatario, «sotto il pregnante e decisivo profilo della capacità contributiva il trasferimento in parola risulta (…) meramente neutro in quanto non comporta alcun sostanziale “trapasso di ricchezza” e definitivo arricchimento della sfera patrimoniale del mandatario, atteso che costui è gravato (per l’adempimento del mandato) dalle correlate obbligazioni di trasferire al terzo acquirente il bene (del quale è intestatario meramente formale), e di corrispondere al mandante il prezzo ovvero – qualora il mandato non possa essere adempiuto – dalla obbligazione di retrocedere il bene al mandante». In altri termini, nel negare rilevanza ai fini dell’imposta sulle successioni e donazioni al trasferimento del bene immobile dal mandante al mandatario, perché avente i connotati della strumentalità e della neutralità, la
(51) Riprendendo le brevi considerazioni già svolte esaminando il negozio fiduciario, anche il trasferimento del bene da alienare dal mandante al mandatario non può che avvenire secondo uno schema analogo a quello della c.d. fiducia romanistica, non potendosi ammettere, de iure condito, una scissione tra titolarità effettiva del bene da alienare e relativa legittimazione ad agire (scissione consentita solo se espressamente prevista dalla legge, come nel caso delle società fiduciarie per l’intestazione di titoli e partecipazioni).
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Suprema Corte conferma il presupposto applicativo di tale imposta nei termini poc’anzi descritti, da identificarsi in via esclusiva nello stabile e definitivo arricchimento di un soggetto diverso dal disponente, senza che il primo (beneficiario) sopporti alcuno sforzo economico (area della liberalità e area della gratuità). Il mandato è un contratto che si presume oneroso (ex art. 1709 c.c.), nel senso che il mandatario per il compimento dell’attività gestoria di alienazione ha diritto ad un compenso, salvo che non sia diversamente pattuito tra le parti. Tuttavia, anche nell’ipotesi in cui le parti abbiamo pattuito l’esclusione di un compenso per il mandatario, il mandato ad alienare conserva una struttura onerosa, nel senso che è volto a realizzare un assetto di interessi di tipo oneroso, essendo funzionale alla vendita di un bene. Tutt’al più, l’assenza di un compenso per l’attività compiuta dal mandatario rappresenterebbe un “atto di gratuità” da parte di quest’ultimo nei confronti del mandante per l’attività gestoria compiuta a favore di quest’ultimo. Pertanto, in una fattispecie negoziale tipicamente onerosa, il segmento della stessa costituito dal trasferimento dell’alienando bene immobile dal mandante al mandatario giammai può rappresentare un trasferimento gratuito di tale bene che “arricchisce” il mandatario, rappresentando solo la “provvista” necessaria, messa a disposizione del mandatario, per il compimento dell’attività gestoria di alienazione del bene (52). A fronte di ciò, è ineccepibile l’affermazione della Suprema Corte secondo cui il trasferimento in oggetto (quello dal mandante al mandatario) costituisce ai fini impositivi un trasferimento “neutro”, mero segmento interno di una più articolata fattispecie negoziale a carattere oneroso. Per di più, in un successivo passaggio motivazionale la Suprema Corte sembrerebbe lasciare intendere che il carattere “strumentale”, “meramente formale” e “interinale” della intestazione, in capo al mandatario, del bene immobile da alienare, non solo non rilevi ai fini dell’imposta sulle successioni e donazioni (oggetto della pretesa impositiva impugnata in giudizio), ma non rilevi neppure ai fini dell’imposta di registro. In tal senso, nella parte finale della motivazione della sentenza in commento si afferma che il trasferimento
(52) Il carattere “strumentale” del trasferimento dal mandante al mandatario, di regola, dovrebbe emergere dal contenuto stesso del relativo atto traslativo, ciò in conformità alla “nuova” formulazione dell’art. 20, TUR, che ai fini impositivi esclude la rilevanza di elementi extratestuali.
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dell’alienando bene immobile dal mandante al mandatario si caratterizza per la «carenza di alcun reale “trapasso di ricchezza” suscettibile di imposizione indiretta». Sembrerebbe trattarsi, dunque, di una neutralità fiscale “ad ampio raggio” ai fini dell’imposizione indiretta, nel senso che il trasferimento de quo risulterebbe irrilevante non solo ai fini dell’imposta sulle successioni e donazioni, ma anche ai fini dell’imposta di registro, in quanto mero segmento (53) interno di una più articolata fattispecie negoziale di carattere oneroso (54) che, atomisticamente considerato, non rappresenta un “trasferimento di ricchezza” (55) suscettibile, di per sé, di integrare il presupposto applicativo dell’imposta (proporzionale) di registro (56).
(53) Così come risultante direttamente dal contenuto dell’atto ex art. 20, TUR. (54) Difatti, sarà l’eventuale atto finale di vendita del bene immobile ad essere assoggettato ad imposizione. (55) Trattandosi di un trasferimento meramente strumentale (segmento interno di una più complessa fattispecie negoziale assoggettata ad imposizione), non dovrebbe essere sussumibile neppure nella fattispecie impositiva “residuale” di cui all’art. 9, Tariffa – Parte Prima allegata al TUR («atti diversi da quelli altrove indicati aventi per oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale»). (56) Con riferimento, invece, alle imposte ipotecaria e catastale, se si assume quale relativo presupposto impositivo, rispettivamente, la mera esecuzione della formalità della trascrizione (ex artt. 2643, c.c.) del trasferimento del bene dal mandante al mandatario e la mera esecuzione della corrispondente formalità della voltura catastale, allora tali imposte dovrebbero applicarsi in misura proporzionale sul predetto trasferimento immobiliare. Diversamente, potrebbe sostenersi una loro applicazione in misura fissa qualora si condivida l’impostazione dottrinale (A. Fedele, Sul regime fiscale delle rinunzie nell’imposizione dei trasferimenti della ricchezza, in Riv. dir. trib., n. 3, 2019, 96-97) secondo cui «i fatti determinanti l’an e il quantum delle imposte» ipotecaria e catastale «relative ad atti traslativi di proprietà o altri diritti reali immobiliari ed a successioni mortis causa si identificano con il perfezionarsi degli atti stessi o della vicenda successoria, a prescindere dalla effettiva esecuzione delle “formalità”» della trascrizione e della voltura catastale. «Le fattispecie che determinano la giuridica necessità del concorso alle pubbliche spese consistono dunque nel perfezionarsi degli atti e nell’acquisto di eredità o legati che realizzano tali vicende “traslative”. (…) L’intrinseca correlazione dei presupposti e la necessità di coordinare l’azione attuativa degli uffici inducono ad ipotizzare, nel sistema delle imposte ipotecarie e catastali, una sorta di presupposizione dell’intero assetto normativo dei tributi di registro e sulle successioni e donazioni». Pertanto, seguendo questa impostazione dottrinale, potrebbe ragionevolmente sostenersi che la sopra descritta “neutralità fiscale”, ai fini dell’imposta sulle successioni e donazioni e dell’imposta di registro, del trasferimento del bene dal mandante al mandatario (in ragione della “strumentalità” e “temporaneità” dello stesso e, pertanto, della assenza di un reale “trasferimento di ricchezza”), possa estendersi anche alle imposte ipotecaria e catastale, vista l’“intrinseca correlazione” dei relativi presupposti di imposizione.
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5. Osservazioni conclusive: la rilevanza della neutralità del trasferimento del bene dal mandante al mandatario (anche) ai fini delle imposte sui redditi. – La sentenza in commento, se intesa nel senso di aver “legittimato” il mandato senza rappresentanza ad alienare con la struttura del “doppio trasferimento”, offre lo spunto anche per una breve riflessione conclusiva con riferimento alla differente tematica relativa all’imposizione diretta degli eventuali redditi generati dal bene da alienare nel lasso temporale (che all’atto pratico può essere più o meno breve) in cui è “temporaneamente” intestato al mandatario. Trattandosi nel caso di specie di bene immobile, assumono rilievo, anzitutto, i redditi fondiari. Come noto, ai sensi dell’art. 26, comma 1, T.U. delle imposte sui redditi, approvato con d.p.r. 22 dicembre 1986, n. 917 (“Tuir”), «i redditi fondiari concorrono, indipendentemente dalla percezione, a formare il reddito complessivo dei soggetti che possiedono gli immobili a titolo di proprietà, enfiteusi, usufrutto o altro diritto reale (…)». Pertanto, i redditi fondiari generati dal bene immobile da alienare nel lasso temporale in cui è “temporaneamente” intestato al mandatario (de iure condito) dovrebbero essere imponibili in capo a quest’ultimo perché formalmente titolare del diritto di proprietà del bene. Tuttavia, è evidente l’incoerenza di una simile impostazione impositiva, in quanto la titolarità del diritto di proprietà in capo al mandatario – come detto - non sarebbe piena, ma solo strumentale, meramente formale e interinale; difatti, il mandatario non può liberamente disporre del bene a causa dei vincoli obbligatori derivanti dal contratto di mandato. Pur trattandosi di vincoli obbligatori rilevanti inter partes (e non di vincoli reali opponibili erga omnes), tuttavia, tali vincoli circoscrivono in modo molto significativo le facoltà di godimento e di disposizione del bene in capo al mandatario. Peraltro, se, per ipotesi, l’immobile “temporaneamente” trasferito al mandatario fosse concesso in locazione, è probabile (57) la previsione di un obbligo contrattuale di trasferimento al mandante dell’importo dei canoni di locazione percepiti dal
(57) La mancata restituzione dei canoni di locazione percepiti dal mandatario potrebbe avere una delle seguenti giustificazioni: i) il valore dei canoni di locazione percepiti dal mandatario rappresenta un’attribuzione gratuita o liberale a favore di quest’ultimo da parte del mandante; ii) il valore dei canoni di locazione percepiti dal mandatario rappresenta (tutta o parte) della remunerazione a quest’ultimo spettante per il compimento dell’attività gestoria di alienazione; iii) il valore dei canoni di locazione percepiti dal mandatario rappresenta una forma di datio in solutum per il pagamento di rapporti debitori esistenti tra mandante e mandatario.
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mandatario (in aggiunta all’obbligo finale di trasferire al mandante il prezzo di vendita dell’immobile ovvero di ritrasferirgli l’immobile in caso di mancata vendita). Del pari, l’eventuale plusvalenza immobiliare realizzata dal mandatario (per conto del mandante) a compimento dell’attività gestoria di alienazione, se imponibile, dovrebbe essere assoggettata ad imposizione (de iure condito) in capo al mandatario perché formalmente titolare del diritto di proprietà oggetto di cessione. Più precisamente, la plusvalenza immobiliare così realizzata potrebbe configurare (sussistendone i relativi presupposti) un reddito diverso da tassare in capo al mandatario (58). Peraltro, qualora il bene da alienare costituisse un bene d’impresa, si avrebbe l’ulteriore profilo di criticità rappresentato dal fatto che (de iure condito) il trasferimento (neutrale), dal mandante al mandatario, del bene da alienare sarebbe di per sé idoneo a generare un componente del reddito d’impresa del mandante per “destinazione a finalità estranee all’attività d’impresa”, per poi generare, al momento del compimento dell’attività gestoria di vendita del bene, un eventuale ulteriore reddito in capo al mandatario, questa volta (sussistendone i relativi presupposti) a titolo di reddito diverso (nell’assunto che il mandatario riceva “temporaneamente” il bene da alienare al di fuori dell’esercizio della sua attività d’impresa; in caso contrario genererebbe un componente del reddito d’impresa del mandatario). Ad ogni modo, resta ferma l’incoerenza di una simile impostazione impositiva (anche e soprattutto) a fronte dell’obbligo contrattuale, incombente sul mandatario, di trasferire il prezzo della vendita al mandante. In altri termini, rispetto a tutti i redditi (redditi fondiari e plusvalenza immobiliare) generati dall’immobile “temporaneamente” trasferito al mandatario, la manifestazione di capacità contributiva non è affatto riferibile a quest’ultimo, bensì solo ed esclusivamente al mandante, in quanto è il mandante che ha la disponibilità sostanziale del bene, avendo disposto di tale bene prevedendone la “temporanea” intestazione in capo al mandatario in funzione della realizzazione dell’obiettivo di alienazione del bene.
(58) Chiaramente, un assoggettamento ad imposta in capo al mandatario del reddito diverso impedirebbe di riconoscere rilevanza agli eventuali requisiti di non imponibilità riferibili al mandante, quali il possesso ultraquinquennale dell’immobile da quest’ultimo maturato oppure l’utilizzazione dell’immobile, da parte del mandante, come abitazione principale. Inoltre, si porrebbe l’ulteriore questione relativa alla corretta determinazione del costo fiscalmente riconosciuto del bene immobile alienato in capo al mandatario.
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Pertanto, al di là dell’aspetto formale, sotto il profilo sostanziale l’attitudine contributiva è inequivocabilmente manifestata dal mandante ed è, quindi, in capo a costui che dovrebbero essere assoggettati ad imposizione i redditi generati dal bene immobile nel periodo in cui è oggetto del trasferimento “neutrale” in capo al mandatario. È il mandante, infatti, che sostanzialmente realizza il presupposto del “possesso del reddito”, da intendersi ordinariamente in termini di titolarità giuridica della fonte produttiva del reddito (59), ma che in questa peculiare ipotesi andrebbe inteso nei termini “più elastici” di titolarità sostanziale della fonte produttiva del reddito (60), così come “garantita” sul piano dei rapporti obbligatori.
(59) Sulla nozione di “possesso del reddito” si rinvia, tra gli altri, A. Fedele, Imposte reali ed imposte personali nel sistema tributario italiano, in Riv. dir. fin. sc. fin., LXI, 3, 2002, 450 ss.; Id., “Possesso” di redditi, capacità contributiva ed incostituzionalità del cumulo, in Giur. cost., 1976, I, 2164 ss.; G. Puoti, Imposta sul reddito delle persone fisiche, IRPEF, in Enc. Giur. Treccani, XVI, Roma, 1989, 4 ss.; G. Tinelli, L’accertamento sintetico del reddito complessivo nel sistema dell’Irpef, Padova, 1993, 59 ss. F. Paparella, Possesso dei redditi e interposizione fittizia. Contributo allo studio dell’elemento soggettivo nella fattispecie imponibile, Milano, 2000, passim; G. Falsitta, Il doppio concetto di capacità contributiva, in Riv. dir. trib., 2004, 889 ss.; V. Ficari, Soggettività tributaria e possesso del reddito nella disciplina della «cartolarizzazione» dei crediti e dei «patrimoni destinati», in Giur. imp., 2004, 1359; M. Miccinesi, L’imposizione sui redditi del fallimento e nelle altre procedure concorsuali, Milano, 1990, 89 e 92; L. Tosi, La nozione di reddito, in L’imposta sul reddito delle persone fisiche, a cura di F. Tesauro, in Giurisprudenza sistematica di diritto tributario, Torino, 1998, 47 ss. (60) Sia pure nell’ambito dell’indagine relativa alla tematica del rapporto tra “separazione patrimoniale” e imposizione sul reddito, è stato osservato in dottrina (P. Laroma Jezzi, Separazione patrimoniale e imposizione sul reddito, Milano, 2006, 9 – 10) che «se (…) il giuridico titolare dei mezzi economici costituenti il titolo giustificativo del prelievo fiscale ne può disporre liberamente, ossia può utilizzarli per soddisfare astrattamente tutti gli interessi di cui costui si faccia portatore in un dato momento storico, sembra affatto coerente ritenere che le risorse atte a soddisfare l’obbligazione nella quale il prelievo stesso si risolve debbano essere prelevate, spontaneamente o coattivamente, dal patrimonio di costui; ove, invece, il predetto titolare debba disporre funzionalmente dei mezzi economici in questione, e cioè in vista del soddisfacimento di un nucleo predeterminato di interessi “altrui”, sorge spontanea la domanda di come detto prelievo possa attuarsi nel rispetto del fondamentale principio di capacità contributiva. In particolare, una volta assunto che il criterio per stabilire se una certa forza economica appartiene ad un dato soggetto – e quindi si giustifichi che la prestazione contributiva sia addossata a costui – dovrebbe essere quello della riferibilità a quest’ultimo degli interessi e bisogni giuridicamente suscettibili di essere soddisfatti con detta forza economica, il problema diventa quello di determinare se e, se del caso, con quali effetti “l’altruità” degli interessi e bisogni in questione prevalga sulla titolarità delle risorse economiche vincolate al loro soddisfacimento; ovvero, traslando il ragionamento dal piano dei principi a quello dell’esegesi, si tratta di capire che tipo di rapporto sottintenda, nell’attuale quadro normativo, il concetto di “possesso” di redditi tradizionalmente utilizzato dal legislatore quale (criterio di riferibilità soggettiva dell’e-
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Detto diversamente, a fronte della evidente “neutralità” del trasferimento (perché strumentale, meramente formale e interinale) del bene da alienare dal mandante al mandatario, sarebbe logico e coerente “forzare” il dato testuale della disciplina normativa di riferimento a favore di una lettura costituzionalmente orientata della stessa, consentendo che l’imposizione di tali redditi avvenga (“giustamente”, ex art. 53, Cost.) in capo al mandante e non già in capo al mandatario, ossia in capo al soggetto che realmente manifesta attitudine contributiva perché conserva il potere di disporre del bene, sia pure sulla base di un rapporto obbligatorio con valenza inter partes.
Stefano Zagà
lemento materiale del) presupposto delle imposte sui redditi» (enfasi dell’Autore). Ebbene, questa iniziale premessa dell’indagine compiuta dal citato Autore con riferimento alla peculiare questione del rapporto tra “separazione patrimoniale” e imposizione del reddito può essere ripetuto anche con riferimento alla questione del trattamento impositivo della fattispecie reddituale qui esaminata, in cui, pur non realizzandosi alcun effetto segregativo ovvero non realizzandosi alcuna separazione funzionale del bene dal patrimonio del soggetto che ne ha la titolarità formale (mandatario), tuttavia, è anche vero che quest’ultimo non ha la piena e libera disponibilità di tale bene a causa dei vincoli obbligatori derivanti dal contratto di mandato; pertanto, l’indice di forza economica che giustifica l’imposizione reddituale è sostanzialmente riferibile al mandante e non al mandatario, salvo che il mandante fornisca al mandatario i mezzi economici per farvi fronte.
Rubrica di diritto penale tributario a cura di Ivo Caraccioli
Drawing hands: la (ir)rilevanza penale delle condotte elusive e i ‘nuovi’ confini dei delitti di dichiarazione infedele, indebita compensazione e sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte Sommario: 1. Ambientamento: la criminalizzazione giurisprudenziale dell’elusione,
idealtipo del diritto penale post-moderno – 2. Il legislatore reattivo: l’ultimo comma dell’art. 10-bis Statuto del contribuente quale disposizione manifesto e i suoi corollari nella revisione del sistema penale-tributario – 3. La resistenza invincibile: il paradosso della rilevanza penale dell’abuso innominato dopo gli interventi legislativi del 2015 – 4. Ritorno al futuro: l’atipicità della compensazione di un credito derivante da una condotta abusiva e la questione dell’accollo del debito tributario – 5. Irrilevanza penale delle condotte di abuso e sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte: un nuovo argomento per un’interpretazione ‘classica’ o un cambio di passo verso la valorizzazione della ‘volontà malvagia’? – 6. L’orizzonte della (ir)rilevanza penale dell’elusione fiscale. Lo scritto analizza la rilevanza penale dell’elusione dopo l’introduzione dell’art. 10-bis l. 212/2000 e la revisione dei reati tributari intervenuta con il d.lgs. 158/2015, in particolare in relazione ai delitti di dichiarazione infedele, indebita compensazione e sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte. Lo studio inquadra il tema nella dicotomia postmoderna tra giudice-legislatore e legislatore-giudice. This paper analyses the criminal relevance of tax avoidance following the introduction of art. 10-bis, Law n. 212/2000 and the legal changes consequential to the Tax Crimes reform (Legislative Decree n. 158/2015), with particular reference to unfaithful tax return offences, undue clearance offences and fraudulent abstention from tax payments. This study reframes the topic within the post-modern dichotomy between the ‘giudice-legislatore’ (i.e. the judge taking on the legislative role) and the ‘legislatore-giudice’ (i.e. the legislator taking on the judicial role).
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1. Ambientamento: la criminalizzazione giurisprudenziale dell’elusione, idealtipo del diritto penale post-moderno. – La travagliata relazione tra reati tributari e condotte elusive non sembra mai perdere di vitalità, mostrandosi perennemente come un osservatorio privilegiato delle tensioni che marcano il diritto penale post-moderno (1). Senza voler percorrere tutti gli snodi che hanno segnato il dilemma shakespeariano dell’essere o non essere penalmente rilevante dell’elusione, ampiamente discussi in dottrina (2), sembra necessario – per poter provare a comprendere il diritto che verrà – porre in risalto la dialettica irrisolta sul tema tra i due ‘nuovi’ attori della contemporaneità: il giudice-legislatore e il legislatore-giudice (3).
(1) Per un inquadramento del tema si veda il fondamentale C.E. Paliero, Il diritto liquido. Pensieri post-delmasiani sulla dialettica delle fonti penali, in Riv. it. dir. proc. pen., 2014, 1099 ss. Lo stretto legame tra diritto penale post-moderno e rilevanza penale dell’elusione è stato individuato da P. Aldrovandi, Elusione fiscale e diritto penale nella giurisprudenza: l’eterogenesi dei fini del legislatore nel ‘diritto vivente’ e la crisi del principio di legalità nel diritto penale postmoderno, in Ind. pen., 2016, 159 ss. (2) La bibliografia sul tema è ormai sterminata e non può essere qui richiamata, per brevità, possono essere ricordate le tre opere monografiche sul tema, F. Bruni, Abuso del diritto e rilevanza penale dell’elusione fiscale, Roma, 2016; C. Santoriello, Abuso del diritto e conseguenze penali, Torino, 2017; P. Sorbello, Abuso del diritto e repressione penale, Roma, 2018. Per uno studio pionieristico in materia si veda A. Alessandri, L’elusione fiscale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1990, 1076. Per un’analisi del fondamentale legame tra esercizio del diritto e rilevanza penale dell’elusione, che qui per ragioni di spazio non potrà essere trattato, si vedano, per tutti, F. Mucciarelli, Abuso del diritto, elusione fiscale e fattispecie incriminatrici, in G. Maisto (a cura di), Elusione ed abuso del diritto tributario, Milano, 2009; F. Consulich, Lo statuto penale delle scriminanti. Principio di legalità e cause di giustificazione: necessità e limiti, Torino, 2018, 431, nonché Id., La scriminante sfigurata. Il diritto soggettivo come fonte di incriminazione? Il caso dei reati fiscali, in Riv. trim. dir. pen. eco., 2014, 1. (3) La contrapposizione tra giudice-legislatore e legislatore-giudice è ripresa da E. Tira, Il rapporto tra giudici e legislatore e il ruolo della Corte costituzionale, in A. Apostoli – M. Gorlani (a cura di), Crisi della giustizia e (in)certezza del diritto: atti del Seminario annuale dell’Associazione Gruppo di Pisa, Brescia, 24 novembre 2017, Napoli, 2018, 254 ss. Sottolinea il fenomeno anche J. Luther, Le (in-)certezze del diritto tra legislatore interprete e giudice che aggiusta automatismi, in A. Apostoli – M. Gorlani (a cura di), Crisi della giustizia, cit., 138, per cui «il legislatore si inventa interprete organico delle proprie leggi certificandone il significato giusto (“legislatore interprete”) e aggiustando interpretazioni giudiziarie»
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Il giudice-legislatore, nel labirinto di un sistema di fonti reticolare (4), segnato dai principi più che dalle regole (5), ha acquisito (rectius si è attribuito) sempre maggiori spazi creativi, fisiologici, dovendo garantire il passaggio dalla disposizione alla norma (6), e patologici, ove, muovendosi oltre il tenore letterale delle fattispecie incriminatrici, si è spinto fino a farsi artefice di nuove incriminazioni (7), costantemente orientato da ragioni di politica criminale (8). La cifra dell’azione del legislatore-giudice sta nella reattività rispetto alle sollecitazioni giurisprudenziali e si manifesta nel tentativo di farsi interprete dei propri atti normativi (9), paradigmaticamente ricorrendo (10): (i) a
(4) Un vero e proprio labirinto, secondo la felice immagine di V. Manes, Il giudice nel labirinto: profili delle intersezioni tra diritto penale e fonti sovranazionali, Roma, 2012. Per un’analisi dei sistemi reticolari in chiave penalistica si veda, anche per più puntuali riferimenti bibliografici, C. Sotis, Le “regole dell’incoerenza”. Pluralismo normativo e crisi postmoderna del diritto penale, Roma, 2012. (5) Sulla distinzione tra principi e regole resta fondamentale R. Dworkin, I diritti presi sul serio, Bologna, 2010. (6) Secondo V. Crisafulli, Disposizione e norma (voce), in Enc. dir., XIII, Milano, 1964, 199. «parlando di disposizione, si mette l’accento “sull’atto”, nel suo contenuto prescrittivo; parlando di norma, si mette l’accento, invece, sulla conseguenza dell’atto, il quale è appunto autorizzato a costituire, di volta in volta innovandolo, il diritto oggettivo della comunità statale»; tale distinzione concettuale è poi ripresa per valorizzare il ruolo del formante giurisprudenziale anche in sede penale da M. Donini, Europeismo giudiziario e scienza penale: dalla dogmatica classica alla giurisprudenza-fonte, Milano, 2011, 63 ss. (7) In merito alla dicotomia tra creazione fisiologica (l’applicazione ai casi della disposizione) e patologica (l’analogia e la criptoanalogia) si rinvia alla ricostruzione di M. Donini, Europeismo giudiziario, cit., 80 ss. Sull’inevitabile creatività dell’interpretazione si vedano tra gli altri, G. Fiandaca, Il diritto penale giurisprudenziale tra orientamenti e disorientamenti, Napoli, 2008, 16 ss.; addirittura ritiene sempre necessario il ricorso all’analogia per interpretare la disposizione e distingue tra analogia interna (ammessa e inevitabile) e analogia esterna (vietata in materia penale dal principio di tassatività) O. Di Giovine, L’interpretazione nel diritto penale tra creatività e vincolo alla legge, Milano, 2006, 275-276. (8) Tale profilo è ben sintetizzato dalle parole di A. Manna, Disequilibrio tra poteri dello Stato e riflessi sulla legislazione penale, in Cass. pen., 2011, p. 1253: «la giurisprudenza penale privilegia una sorta di interpretazione teleologica, cioè tendente alla tutela del bene giuridico, con il fondatissimo rischio, però, che l’interpretazione analogica diventi la regola e non l’eccezione»; nonché M. Ronco, Dolo, colpa, responsabilità oggettiva per il delitto di riciclaggio, in Ind. pen., 2013, ora in Id., Scritti patavini, Torino, 2017, 1693: «l’attivismo contra legem del formante giurisprudenziale ha introdotto invero una distonia nel rapporto tra i poteri dello Stato, in particolare tra l’organo democratico di formazione delle leggi e l’autorità giudiziaria, con una innaturale tendenziale dislocazione su quest’ultima del potere legislativo». (9) Da cui l’espressione “legislatore-interprete” di J. Luther, Le (in-)certezze, cit., 138. (10) Sul punto, E. Tira, Il rapporto, cit., 256 ss.
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disposizioni ad hoc, che mirano ad incidere sugli effetti di singole decisioni giurisprudenziali (11); (ii) a leggi di interpretazione autentica o a novelle tese a sovvertire orientamenti giurisprudenziali consolidatisi o anche solo esegesi che si affaccino nel diritto vivente (12). Un esempio paradigmatico di questa dialettica si riscontra proprio in punto di rilevanza penale dell’elusione (13), affermata dalla Cassazione a partire dal 2011 (14), seppur limitatamente alle condotte tipizzate da una specifica norma antielusiva di natura tributaria (15), dopo che la giurisprudenza di merito aveva stabilizzato un insegnamento di segno opposto (16), confortata dalla dottrina maggioritaria (17) e dalle stesse indicazioni offerte dal Legislatore
(11) Paradigmatici gli interventi legislativi volti a gestire la “questione Ilva” (i.e. gli effetti dei sequestri emessi dall’autorità giudiziaria) e sottoposti a più riprese al vaglio della Corte Costituzionale (Corte Cost., 9 aprile 2013, n. 85, in Giust. Cost., 2013, 1424 ss,, con nota di D. Pulitanò, Giudici tarantini e Corte Costituzionale di fronte alla prima legge ILVA; Corte Cost., 7 febbraio 2018, n. 58, in Giur. Cost., 2018, 592 ss., con nota di D. Pulitanò, Una nuova sentenza ‘ILVA’. Continuità o svolta?). (12) A questa categoria di intervento legislativo si inscrive proprio l’ultimo comma dell’art. 10-bis l. 212/2000, di cui si tratterà ampiamente in seguito. (13) Per la bibliografia in punto di rilevanza penale dell’elusione si rinvia alla precedente nota 2. (14) La prima decisione della Suprema Corte in cui si è affermata la possibile rilevanza penale di una condotta elusiva, seppur senza una motivazione approfondita, è Cass. pen., Sez. III, 18 marzo 2011, n. 26723, in Corr. trib., 2011, 2397 ss., con nota critica di P. Corso, Abuso del diritto in materia penale: verso il tramonto del principio di legalità. Il leading case è costituito, però, dalla nota decisione cd. Dolce e Gabbana ovvero Cass. pen., Sez. III, 22 novembre 2011, n. 7739, in Riv. it. dir. proc. pen., con nota di T. Giacometti, La problematica distinzione tra evasione, elusione fiscale e abuso del diritto, 2013, 451 ss. Si vedano inoltre P. Corso, Un’elusiva sentenza della Corte di Cassazione sulla rilevanza penale dell’elusione, in Corr. trib., 2012, 1074 ss.; G. Flora, Perché l’“elusione fiscale” non può costituire reato (a proposito del “caso Dolce & Gabbana), in Riv. trim. dir. pen. eco., 2011, 865 ss.; A. Perini, La tipicità inafferrabile, ovvero elusione fiscale, “abuso del diritto” e norme penali, in Riv. trim. dir. pen. eco, 2012, 731 ss.; P. Veneziani, Elusione fiscale, “esterovestizione” e dichiarazione infedele, in Dir. pen. proc., 2012, 863 ss. (15) Un ruolo chiave nell’affermazione di rilevanza penale dell’elusione in giurisprudenza era attribuito all’art. 37-bis D.P.R. 600/1972, che, tipizzando specifiche condotte ritenute elusive, aveva la funzione di integrare il precetto penale, garantendone la precisione. La norma è stata abrogata dall’art. 1 d.lgs. 128/2015. (16) Si veda la giurisprudenza di merito e di legittimità richiamata in L. Troyer – A. Ingrassia, “Il fatto, in quanto integrante fattispecie di natura elusiva, non è previsto dalla legge come reato”: ovvero dell’irrilevanza penale dell’elusione fiscale. Nota a Tribunale di Catania, sentenza n. 2741/2009, in Riv. dott. comm., 2010, 901 ss. (17) Per comprendere l’impostazione condivisa in dottrina basti considerare le critiche sostanzialmente unanimi formulate alla decisione Dolce e Gabbana (si rinvia agli Autori già
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nella relazione di accompagnamento al d.lgs. 74/2000 (18); a tale orientamento ha offerto una risposta reattiva il Legislatore con i d.lgs. 128 e 158 del 2015. Il problema della rilevanza penale dell’elusione (prima degli interventi normativi del 2015 (19)), peraltro, non ha rappresentato che la punta dell’iceberg di una questione più profonda, attinente all’interpretazione dei concetti chiave per il sistema penale tributario di fittizio ed effettivo, riferiti rispettivamente agli elementi passivi ed attivi indicati nelle dichiarazioni (20). Segnatamente, le nozioni di fittizio ed effettivo si prestavano ad una duplice lettura, per così dire naturalistico-penalistica o normativo-tributaristica (21): mentre la prima prospettiva valorizzava l’“oggettiva” esistenza/inesistenza di costi/attività per così dire in rerum natura, la contrapposta esegesi intendeva l’esistenza/inesistenza degli stessi sul piano tributario. Per usare le parole di Franco Gallo, specificamente riferite alla nozione di fittizietà, essa poteva abbracciare, alternativamente, «l’indicazione di elementi reddituali non effettivi e non reali e, quindi, simulati e inesistenti sia in fatto che in diritto; o invece, più semplicemente, l’indicazione di componenti reddituali negativi, che non concorrono alla produzione del reddito (non solo perché inesistenti, ma anche) perché, pur essendo effettivi, sono tuttavia indeducibili
richiamati alla nota 14). (18) In effetti la Relazione Governativa al d.lgs. 74/2000 specificava che la «semplice elusione d’imposta, quale categoria concettualmente contrapposta all’evasione, rimane priva di ogni riflesso penale». (19) Si tratta dei d.lgs. 128/2015 e 158/2015. (20) Per un quadro delle diverse posizioni espresse in dottrina si vedano L. Imperato, Commento agli artt. 1 e 2 D.lgs. 74/2000 (mod. d.lgs. 158/2015), in I. Caraccioli (a cura di), I nuovi reati tributari: commento al D.lgs. 24 settembre 2015, n. 158, Milano, 2016, 64 ss.; D. Terracina, Il concetto di fittizietà nel diritto penale tributario, in R. Borsari (a cura di), Profili critici del diritto penale tributario, Padova, 2013, 13 ss. (21) Per tale bipartizione si veda G.M. Flick, Abuso del diritto ed elusione fiscale: quale rilevanza penale?, in Giur. comm., 2011, 474, che richiama F. Gallo, Rilevanza penale dell’elusione, in Rass. trib., 2001, 321 ss., nonché più di recente, Id., L’abuso del diritto in materia tributaria tra sanzione amministrativa e repressione penale, in Giur. comm., 2017, pt. I, 177 ss. Volendo ampliare lo sguardo, si veda la fondamentale opera di A. Crespi, L’illegale ripartizioni di utili, II ed., Milano, 1986, in relazione all’interpretazione del concetto di fittizio nel contesto dei reati societari. Infine, sulla dialettica tra la nozione di fittizietà e il concetto di ‘verità’, A. Dell’Osso, Incontro e scontro tra verità e finzione nel diritto penale tributario: dalla nozione di fittizio alla rilevanza penale dell’elusione, in G. Forti – G. Varraso – M. Caputo (a cura di), “Verità” del precetto e della sanzione alla prova del processo penale, Napoli, 2014, 327 ss.
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ai sensi di disposizioni di legge (ad esempio, per la mancanza dei requisiti della competenza o della inerenza)» (22). In concreto ed esemplificando, costi non inerenti andrebbero considerati fittizi solo aderendo all’impostazione tributaria, essendo in effetti costi comunque sostenuti dal contribuente. Al contrario, se «la fittizietà è intesa come mera indeducibilità dei costi, è evidente che “costi fittizi” sono anche quelli che non concorrono a formare il reddito non perché inesistenti, ma semplicemente perché fiscalmente irrilevanti, come può essere il caso dei costi che derivano da una condotta elusiva fiscalmente illecita» (23). Si badi: dietro ad una querelle apparentemente di carattere schiettamente esegetico, si celava la dicotomia tra una tutela a tutto tondo del gettito tributario, che prescindesse di fatto dalle modalità di aggressione al bene giuridico tutelato (24) (i.e. indifferenza tra condotte elusive ed evasive), o una criminalizzazione puntiforme, segnata al contempo dal disvalore di evento (danno o pericolo concreto per gli introiti erariali) e dal disvalore di condotta (difformità tra realtà e dichiarato) (25). Apparendo piuttosto netta la scelta del legislatore per la seconda delle due opzioni (26), mancando nel d.lgs. 74/2000 un’incriminazione per “omicidio fiscale” (27), che punisse ogni difformità tra quanto auto-liquidato e quanto
(22) Alla lettera, F. Gallo, Rilevanza penale, cit., p. 323. (23) Ibidem. (24) L’unico correttivo giurisprudenziale ad un’indiscriminata rilevanza penale dell’elusione era, infatti, segnato dalla necessità di una specifica norma antielusiva, che integrasse il precetto penale; limite, peraltro, di fatto superato dalla decisione Bova (infra nel testo e alla nota 29). (25) Sul diverso ruolo del disvalore d’evento e di condotta nelle fattispecie penali-tributarie si veda A. Lanzi – P. Aldrovandi, Diritto penale tributario, Assago, 2017, 25-26, nonché, volendo, A. Ingrassia, La fedeltà (del contribuente) più importante dell’offesa (al gettito tributario)?, in questa Rivista, 2019, 4, III, 39 ss. (26) Basti sul punto considerare gli argomenti testuali e sistematici spesi a favore dell’irrilevanza penale dell’elusione e la chiara scelta di campo compiuta dal legislatore con i d.lgs. 128 e 158 del 2015, di cui si dirà a breve. (27) L’espressione è tratta da Trib. Milano, GUP dott. Luerti, 29 aprile 2011, n. 828, in Riv. dott. comm., 2011, 441 ss., con nota di L. Troyer – A. Ingrassia, Esclusa nuovamente la tipicità penale dell’elusione. A margine di un noto caso di presunta esterovestizione tra divieto di presunzioni legali nel processo penale e libertà di stabilimento, in cui, acutamente, il decidente osserva: «l’elusione fiscale presenta tratti quasi antinomici, essendo caratterizzata, per un verso, da una concatenazione di atti leciti; per altro verso, da una marcata atipicità, che confligge con il principio di tipicità e determinatezza della fattispecie penale. Diverso sarebbe il caso della previsione espressa da parte del legislatore di una fattispecie penale tributaria a condotta libera e tipizzata solo attraverso l’esatta indicazione dell’evento. Ma
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dovuto dal contribuente, per massimizzare la tutela del bene giuridico e affermare la rilevanza penale dell’elusione, la giurisprudenza non poteva che propugnare un’esegesi in tensione con il principio di riserva di legge, farsi, dunque, giudice-legislatore (28). Esempio fulgido di quanto si sostiene è la decisione della Suprema Corte – in sede cautelare – nota come ‘Bova’ (29), ove, per ricondurre la condotta elusiva dell’indagato nell’alveo della fattispecie di dichiarazione infedele, la Corte di Cassazione ha compiuto un triplice passaggio dalla norma al fatto (30): (i) ha ampliato il concetto di fittizietà al punto di consentirgli di abbracciare nozioni eterogenee come evasione ed elusione (con il solo limite della riconducibilità della condotta concreta ad una specifica previsione tributaria anti-elusiva, che funge da norma integratrice del precetto penale); (ii) ha applicato l’art. 37-bis D.P.R. 600/1973, norma a struttura analogica, al contratto stipulato dall’indagato, ritenendolo privo di valide ragioni economiche, solo dopo, (iii) aver riqualificato le obbligazioni contrattuali assunte dall’indagato in conferimenti societari. Si tratta di un percorso argomentativo estremamente criticabile, che parifica la risposta sanzionatoria di fenomeni eterogenei quali evasione ed elusione fiscale, in tutto assimilabile al triangolo di Penrose (31), un’illusione ottica,
tale norma, una sorta di “omicidio” fiscale, non esiste, né il D.Lgs. 74/2000 ne contempla una simile». (28) Appare assai significativo che la rilevanza penale dell’elusione sia considerata da autorevole dottrina quale esempio plastico del “dominio della prevenzione generale sulla dogmatica” e di “primato dell’interpretazione” giudiziale (V. Manes, Il ruolo ‘poliedrico’ del giudice penale, tra spinte di esegesi adeguatrice e vincoli di sistema, in Cass. pen., 2014, 1939). (29) Si tratta di Cass. pen., Sez. III, 6 marzo 2013, n. 19100, in questa Rivista, 2013, IV, 61 ss. con nota di A. Perini, La “società non necessaria” come nuova frontiera dell’elusione fiscale penalmente rilevante?, 67 ss., e V. Ficari, La rilevanza penale dell’elusione/abuso: quali regole da un caso concreto?, 2013, IV, 81 ss.; si vedano anche, F. D’Arcangelo, Le condizioni per la rilevanza penale dell’elusione fiscale, in Le Soc., 2013, 1388; A.M. Dell’Osso, L’elusione fiscale al banco di prova della legalità penale, in Dir. pen., proc., 2014, 84 ss.; S. Piccioli, Conferimento di servizi professionali in s.r.l. per lo sfruttamento dell’immagine: profili penal-tributari, in questa Rivista, 2014, II, 19 ss. volendo, infine, L. Troyer – A. Ingrassia, La rilevanza penale dell’elusione e il triangolo di Penrose, in Riv. it. dir. proc. pen., 2013, 2081 ss. (30) Per tale ricostruzione si veda L. Troyer – A. Ingrassia, La rilevanza penale, cit., 2092; in senso adesivo, F. Consulich, Lo statuto penale, cit., 443. (31) Il triangolo di Penrose è un oggetto impossibile in cui i lati di un triangolo tridimensionale si intersecano secondo una modalità riproducibile nel reale solo tramite un’illusione ottica, cioè solo creando una figura non realmente a forma di triangolo ma che in tal modo appare da un unico punto di osservazione.
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un oggetto impossibile: ogni passaggio del percorso motivazionale conduce al successivo tramite il ricorso all’analogia o alla cripto-analogia (32); come il triangolo di Penrose è una figura impossibile, creata da una falsa connessione delle parti della stessa (33), così l’esegesi prospettata dalla Suprema Corte è impercorribile in quanto in contrasto con il principio di tassatività. Trattandosi di un’illusione ottica (34), dal punto di osservazione della tutela del bene giuridico il percorso argomentativo appare persuasivo e l’unico possibile: un triangolo tridimensionale con i lati che si intersecano perfettamente; se, però, ci si sposta nella prospettiva del rispetto della riserva di legge e, più in generale, dello statuto delle garanzie costituzionali del diritto penale, il trucco svanisce. Come è stato osservato dalla dottrina, infatti, l’affermazione giurisprudenziale di rilevanza penale dell’elusione si poneva in contrasto (35) con: (i) il principio di precisione, giacché le norme tributarie che dovrebbero integrare i concetti di fittizietà ed effettività non presentano il medesimo standard di chiarezza richiesto per le disposizioni penali (36); (ii) il principio di tassatività, ove si consideri che etimologicamente e semanticamente i concetti di fittizio ed effettivo fanno riferimento all’esistenza/inesistenza materiale di un fatto nella realtà: una diversa interpretazione si pone al di fuori del tenore letterale dell’incriminazione, quale integrazione analogica della fattispecie (37); (iii) il principio di irretroattività, poiché se l’individuazione del carattere elusivo di una condotta non rileva ex ante al momento della
(32) Su tale nozione si rinvia a M. Donini, Europeismo, cit., 109 ss. (33) Il riferimento è allo studio di L.S. Penrose – R. Penrose, Impossible objects: a special type of visual illusion, in British Journal of Psychology, 31 ss., in cui, gli autori descrivono il triangolo da loro ideato, sulla base degli studi di Escher, come «owing to a false connection of the parts, acceptance of the whole figure on this basis leads to the illusory effect of an impossible structure». (34) Una realizzazione scultorea del triangolo di Penrose può vedersi ad East Perth in Australia: dalle foto, facilmente rinvenibili in internet, si comprende perfettamente l’illusione ottica. (35) Tale tassonomia è ripresa da L. Troyer – A. Ingrassia, La rilevanza penale, cit., 2086-2087. (36) Si veda, tra gli altri, F. Fasani, L’irrilevanza penale dell’elusione tributaria, in Le Soc., 2012, 800 e ss. (37) Sul punto, in particolare, F. Mucciarelli, Abuso del diritto, elusione fiscale e fattispecie incriminatrici, in G. Maisto (a cura di), Elusione ed abuso, cit., 443 e ss; A. Mereu, Abuso del diritto ed elusione fiscale: rilevanza penale o mera mancanza di una explicatio terminorum? Alcune riflessioni a margine del caso “Dolce & Gabbana”, in Dir. prat. trib., 2012, 1033.
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dichiarazione, ma solo ex post in virtù del disconoscimento ad opera dell’amministrazione degli effetti tributari favorevoli, il rischio è la creazione di fattispecie penali “a formazione progressiva” (38); (iv) il principio di materialità, giacché la condotta elusiva consta di atti, fatti o negozi giuridici leciti, i cui effetti sono disconosciuti – solo sul piano tributario – in quanto posti in essere esclusivamente per ragioni di risparmio fiscale: ma se così è, la rilevanza penale della condotta elusiva si appunterebbe «sulla mera “cattiva volontà” del contribuente piuttosto che su di una condotta intrisa di un disvalore davvero meritevole di risposta punitiva» (39); (v) il principio di determinatezza giacché il discrimine tra lecito e illecito risiede nella prova dell’esistenza/inesistenza di ragioni economiche extrafiscali a sostegno degli atti compiuti, ovvero un accertamento che «finirebbe con il sospingere l’attività del giudice penale (o del suo perito!) verso una deriva difficilmente controllabile», caratterizzata da «un grado di arbitrarietà che sarebbe destinato ad inficiare qualsiasi valutazione» (40); (vi) il principio di legalità ex art. 7 CEDU per come interpretato dalla Corte Edu (41), giacché non poteva
(38) Segnatamente, G. Flora, Perché l’“elusione fiscale”, cit., 873 e F. Fasani, L’irrilevanza penale, cit., 802. (39) In questi termini A. Perini, La tutela penale della dichiarazione fiscale, in C. Santoriello (a cura di), La disciplina penale dell’economia, Vol. II, Torino, 2008, 108. Si veda anche G. Flora, Perché l’“elusione fiscale”, cit., 870. (40) Sul punto A. Perini, La tipicità inafferrabile, cit., 746. (41) Come noto, il Giudice di Strasburgo ritiene rispettato il principio di legalità convenzionale ove il precetto sia accessibile (accessibility) e prevedibile (predictability) per il cittadino, anche grazie al contributo interpretativo offerto dalla giurisprudenza. In particolare, la Corte Edu «muove dalla sostanziale equiparazione – sul piano delle fonti del diritto penale – del formante giurisprudenziale alla legge, frutto della “fusione di orizzonti” tra universo di civil law e di common law, tipica del sistema convenzionale» (in questi termini, V. Manes, Commento sub art. 7, in S. Bartole – P. De Sena – V. Zagrebelsky (a cura di), Commentario breve alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, Padova, 2012, 274; sul tema la bibliografia è sterminata, senza pretesa di completezza alcuna, si vedano, A. Bernardi, Il principio di legalità dei reati e delle pene nella Carta Europea dei diritti: problemi e prospettive, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2002, 690 ss.; A. Esposito, Il diritto penale flessibile, Torino, 2008, 322 ss.; E. Nicosia, Convenzione europea dei diritti dell’uomo e diritto penale, Torino, 2006, 65 ss.; M. Scoletta, Il principio di legalità penale europea, in F. Viganò (a cura di), Europa e diritto penale, Milano, 2013, 223 ss.; V. Valentini, Diritto penale intertemporale. Logiche continentali ed ermeneutica europea, Milano, 2012, passim.; F. Viganò, Diritto penale sostanziale e Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2007, 52 ss.; V. Zagrebelsky, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo e il principio di legalità nella materia penale, in V. Manes – V. Zagrebelsky (a cura di), La Convenzione europea dei diritti dell’uomo nell’ordinamento penale italiano, Milano, 2011, 88 e ss.. Il corollario fondamentale
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dirsi accessibile (accessibility) e prevedibile (predictability) per il cittadino l’esegesi proposta dalla giurisprudenza di legittimità in punto di rilevanza penale dell’elusione fino all’overrulling contra reum del 2011 (42). A fronte di tale quadro, la reazione del legislatore non si è fatta molto attendere. 2. Il legislatore reattivo: l’ultimo comma dell’art. 10-bis Statuto del contribuente quale disposizione manifesto e i suoi corollari nella revisione del sistema penale-tributario. – È stato osservato (43) come, proprio in seguito al mutamento giurisprudenziale della Suprema Corte intervenuto nel 2011, i progetti di legge tesi ad affermare – meglio a riaffermare, stante l’originaria esplicita voluntas legislatoris – l’irrilevanza penale dell’elusione hanno avuto un’accelerazione. L’esito del percorso legislativo, come noto, si sostanzia dapprima nell’art. 5 della legge delega n. 23/2014 e, infine, nell’art. 10-bis l. 212/2000, rubricato proprio “disciplina dell’abuso del diritto o elusione fiscale”, introdotto dall’art. 1 del d.lgs. 128/2015, attuativo della predetta delega. Per ciò che qui interessa e procedendo a larghe falcate (44), l’art. 10-bis, offre per la prima volta nel nostro ordinamento una definizione legislativa generale di abuso del diritto, valida per tutti i tributi: possono ricondursi alla suddetta nozione “uno o più operazioni prive di sostanza economica che, pur
di tale impostazione è l’applicazione dell’irretroattività anche al diritto giurisprudenziale, specie nei casi di mutamento in malam partem imprevedibile (cd. overruling) (in argomento, tra gli altri, A. Balsamo, La dimensione garantistica del principio di irretroattività e la nuova interpretazione giudiziale “imprevedibile”: una “nuova frontiera” del processo di “europeizzazione” del diritto penale, in Cass. pen., 2007, 2202 e ss.; V. Manes, Commento sub art. 7, cit., 274; V. Valentini, Diritto penale intertemporale, cit., 136 e ss.; V. Zagrebelsky, La Convenzione europea, cit., 101 e ss.). (42) Tale argomento è sviluppato da L. Troyer – A. Ingrassia, La rilevanza penale, cit., 2088 ss. (43) Per una ricostruzione dei disegni di legge reattivi rispetto alla decisione Dolce & Gabbana si rinvia a L. Troyer, La rilevanza penale dell’elusione tra Suprema Corte e legislatore dopo la sentenza D&G, in Le Soc., 2012, 701 ss. (44) Sul novellato art. 10-bis l. 212/2000, la bibliografia è già amplissima. Solo per citare alcune opere monografiche e curatele, senza pretesa di completezza, si vedano, E. Della Valle – G. Ficari – G. Marini, Abuso del diritto ed elusione fiscale, Torino, 2016; C. Glendi – C. Consolo – A. Contrino, Abuso del diritto e novità sul processo tributario. Commento al D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128 e al D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 156, Assago, 2016, 3 ss.; F. Gallo – G. Scognamiglio, L’abuso del diritto in materia tributaria e gli istituti del diritto civile e commerciale, Milano, 2019.
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nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti”. Tale definizione è poi meglio precisata nella medesima disposizione, attraverso l’enucleazione dei concetti di operazioni prive di sostanza economica – ovvero “i fatti, gli atti e i contratti, anche tra loro collegati, inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali” – e di vantaggi fiscali indebiti – ossia “i benefici, anche non immediati, realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario” – (art. 10-bis, comma II); specularmente e conseguentemente, specifica il legislatore, “non si considerano abusive, in ogni caso, le operazioni giustificate da valide ragioni extrafiscali, non marginali, anche di ordine organizzativo o gestionale, che rispondono a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa ovvero dell’attività professionale del contribuente” (art. 10-bis, comma III). Parallelamente all’introduzione della generale nozione di abuso del diritto, l’art. 1 d.lgs. 128/2015 ha abrogato l’art. 37-bis D.P.R. 600/1973, che era stata considerata dalla giurisprudenza di legittimità, come si è visto più sopra (45), la norma integratrice del precetto della dichiarazione infedele che apriva la strada alla rilevanza penale dell’elusione. Permangono, invece, tutte le altre disposizioni tributarie che tipizzano specifiche condotte elusive (si pensi paradigmaticamente alla disciplina sul transfer pricing) e che consentono all’amministrazione finanziaria di disconoscere deduzioni, detrazioni, crediti d’imposta o altre posizioni soggettive altrimenti ammesse. Sul piano della risposta sanzionatoria, il legislatore specifica che le operazioni abusive non sono opponibili in sede di accertamento e sono soggette esclusivamente a sanzione amministrativa, non già penale. Segnatamente, il comma XIII dell’art. 10-bis l. 212/2000, afferma nettamente: “le operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie”. La norma ha i tratti di una causa di esclusione del tipo (46) sui generis: il legislatore, preso atto del diritto vivente, che ha riconosciuto rilevanza penale alle condotte elusive, purché tipizzate da specifiche norme tributarie,
(45) Si veda supra, nota 15. (46) Per una definizione di cause di esclusione del tipo si veda M. Romano, Teoria del reato, punibilità, soglie espresse di offensività (e cause di esclusione del tipo), in E. Dolcini – C.E. Paliero (a cura di), Studi in onore di Giorgio Marinucci, Milano, 2004, 1737, per cui le clausole di esclusione del tipo sarebbero ipotesi di “autocorrezione del legislatore” relative a specifiche fattispecie incriminatrici.
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‘corregge’ la giurisprudenza (47), affermando l’atipicità delle condotte riconducibili alla generale previsione antiabuso ed eventualmente sussumibili in fattispecie incriminatrici penali-tributarie. L’intervento normativo sembra più affine ad un’interpretazione autentica (48) di un legislatore-giudice (49) che ad un’abolitio criminis parziale (50): infatti, l’art. 10-bis l. 212/2000 non mira a modificare una precedente scelta politico-criminale di matrice legislativa (51), quanto piuttosto a «rimediare ad interpretazioni giurisprudenziali divergenti con la linea di politica del diritto perseguita dal legislatore» (52). A voler ulteriormente ambientare l’intervento, si è di fronte ad una legge di interpretazione autentica tipica della post-modernità, in cui «è la libertà – cioè l’area di liceità penale – che sussiste in virtù di specifiche eccezioni, di specifici privilegi. Mentre l’illiceità penale diventa il prius» (53).
(47) Parafrasando la felice espressione di M. Romano, Teoria del reato, cit., 1737, per cui con le cause di esclusione del tipo il legislatore ‘autocorregge’ il perimetro delle fattispecie: la parafrasi si rende necessaria giacché il legislatore non ‘autocorregge’, non avendo mai inteso dare rilevanza penale all’elusione, ma ‘eterocorregge’, mirando a modificare un orientamento giurisprudenziale. (48) Tale accezione della disposizione era già stata formulata da A. Lanzi, Gli attuali aspetti penali dell’elusione fiscale e dell’abuso del diritto, in Boll. Trib., 22/2017, 1637. (49) Sullo stretto legame tra legge di interpretazione autentica e legislatore che si fa interprete delle proprie stesse norme si veda per tutti J. Luther, Le (in-)certezze, cit., che sottolinea: «succede in pratica che (…) il legislatore si inventa interprete organico delle proprie leggi, certificandone il significato giusto (“legislatore interprete”) e aggiustando interpretazioni giudiziarie» (138). Uno dei principali strumenti del legislatore interprete è proprio la legge di interpretazione autentica, categoria cui vanno ricondotti secondo l’A. «gli atti legislativi aventi per funzione principale l’attribuzione di un significato di norma a una o più disposizioni di una fonte dello stesso rango e ambito di competenza, contrapposte alle interpretazioni giurisdizionali e dottrinali» (145). (50) In questo senso si è espressa la giurisprudenza sin dalla prima decisione successiva all’introduzione dell’art. 10-bis l. 212/2000 (Cass. pen., Sez. III, 1 ottobre 2015, n. 40272, Mocali, in CED RV 264951, in Dir. pen. cont., 9 ottobre 2015, con nota adesiva di F. Mucciarelli, Abuso del diritto e reati tributari: la corte di cassazione fissa limiti e ambiti applicativi). (51) Come sottolineato, tra gli altri, da G.L. Gatta, Abolitio criminis e successione di norme integratrici: teoria e prassi, Milano, 2008, 145, «l’abolitio criminis è sempre espressione di una scelta politico-criminale del legislatore (esattamente opposta a quella che porta alla configurazione di nuove e più ampie figure di reato»: rispetto alla rilevanza penale dell’elusione manca, tuttavia, una scelta di criminalizzazione a monte del legislatore. Sull’istituto si veda inoltre E.M. Ambrosetti, Abolitio criminis e modifica alla fattispecie, Padova, 2004. (52) Secondo la felice espressione di J. Luther, op. cit., 145. (53) Il riferimento è alla fondamentale opera di F. Sgubbi, Il reato come rischio sociale. Ricerche sulle scelte di allocazione dell’illegalità penale, Bologna, 1990, 12; più di recente, Id.,
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Ma se, come si è detto, la questione dell’elusione non era che la punta dell’iceberg di una problematica più profonda, legata alla dicotomia tra esegesi normativa-tributaria e naturalistica-penale degli elementi attivi e passivi rilevanti ai fini dell’integrazione dei delitti dichiarativi, l’art. 10-bis l. 212/2000 non poteva ritenersi bastevole a risolvere il vero nodo problematico. Non è un caso, allora, che il legislatore, in sede di revisione dei delitti tributari, abbia compiuto una pluralità di interventi tesi, (i) in generale, a rendere penalmente irrilevanti tutte le fattispecie concrete in cui il contribuente abbia dichiarato quanto effettivamente – in rerum natura – compiuto e, rispetto al tema qui d’interesse, (ii) a confermare l’esclusione dalla cittadella penalistica delle condotte di abuso del diritto. (i) Segnatamente, il legislatore ha modificato con il d.lgs. 158/2015 il delitto di dichiarazione infedele, mutando l’aggettivazione degli elementi passivi indicati in dichiarazione, sostituendo ‘fittizi’ con ‘inesistenti’, e, soprattutto, includendo ai fini del calcolo dell’imposta evasa e, dunque, del superamento delle soglie di punibilità, quei costi che, per ragioni tributarie (competenza, inerenza, deducibilità, classificazione) non possano essere presi in considerazione nel computo dell’imposta dovuta in sede amministrativa, ma che, nondimeno, siano stati effettivamente sostenuti dal contribuente (54). In altre parole e semplificando, se un costo è stato effettivamente sostenuto, questo deve essere considerato nel calcolo dell’imposta evasa nel giudizio criminale, indipendentemente dalle valutazioni che dello stesso costo potrebbero compiersi in sede tributaria.
Il diritto penale totale. Punire senza legge, senza verità, senza colpa. Venti tesi, Lavis, 2019, 49: «la libertà perde il suo primato e tende a diventare eccezione a fronte del vasto e indefinito campo dell’illiceità». (54) Per un approfondimento, senza pretesa di completezza: E.M Ambrosetti, I reati tributari, in E.M. Ambrosetti – E. Mezzetti – M. Ronco, Diritto penale d’impresa, Bologna, 2016, 516 ss.; G. Andreazza, La dichiarazione infedele, in A. Scarcella (a cura di), La disciplina penale in materia di imposte dirette e IVA, Torino, 2019, 151 ss.; F. Cingari, La dichiarazione infedele, in R. Bricchetti – P. Veneziani (a cura di), I reati tributari, in F. Palazzo – C.E. Paliero, Trattato teorico-pratico di diritto penale, Torino, 2018, 234; A. Lanzi – P. Aldrovandi, op. cit., 346 ss.; G.L. Soana, I reati tributari, Milano, 2018, 216 ss.; E. Musco – F. Ardito, Diritto penale tributario, Bologna, 2016, 193 ss.; A. Perini, La riforma del delitto di dichiarazione infedele, in I. Caraccioli (a cura di), I nuovi reati tributari: commento al d.lgs. 24 settembre 2015, n. 158, Milano, 2016, 124 ss.; nonché, volendo, A. Ingrassia, Ragione fiscale vs ‘illecito penale personale’. Il sistema penale-tributario dopo il d.lgs. 158/2015, Santarcangelo di Romagna, 2016, 84 ss.
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L’opzione legislativa in punto di elementi passivi ha ovvie ricadute esegetiche sullo speculare sintagma di “elementi attivi” e, segnatamente, sull’interpretazione dell’aggettivo “effettivi” che lo definisce: anche le voci che concorrono positivamente alla determinazione del reddito o della base imponibile dovranno essere intese in senso naturalistico-penalistico (55). Tale conclusione è dovuta non solo all’ossequio alla chiara voluntas legis (56), ma soprattutto a ragioni di razionalità ed equilibrio punitivo: non avrebbe alcun senso e condurrebbe ad ingiustificabili disparità di trattamento una lettura schizofrenica della norma, per cui per gli elementi passivi valga un criterio interpretativo ontologico (in rerum natura) e per quelli attivi uno deontologico (giudizio normativo-tributario). (ii) Per (provare a) togliere ogni tentazione alla giurisprudenza di criminalizzare condotte elusive, abbandonando la dichiarazione infedele a favore della dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, il legislatore ha chiarito che non rientrano tra le operazioni simulate, che integrano una delle modalità di aggressione di cui all’art. 3 d.lgs. 74/2000, le condotte di abuso del diritto descritte dall’art. 10-bis Statuto del contribuente (57). Si tratta di una specificazione che dovrebbe essere – ma, come si vedrà oltre, così non è affatto – pleonastica: in effetti, nelle ipotesi descritte dall’art. 10-bis l. 212/2000, così come in generale in tutte le condotte elusive, le parti
(55) Per la ricostruzione delle ragioni di tale parallelismo si consenta il rinvio ad A. Ingrassia, Ragione fiscale, cit., 84 ss. (56) La voluntas legislatoris è inequivocabile e risalente, come può leggersi nella relazione governativa al d.lgs. 158/2015, per cui: «le risultanze dei lavori parlamentari relative alla legge delega appaiono univoche nel senso che la prefigurata revisione di detta disciplina deve attuarsi nella direzione dell’“alleggerimento” della situazione attuale. Dalla stessa relazione alla proposta di legge n. 282/C (e, prima ancora, dalla relazione al disegno di legge n. 5291/C della scorsa legislatura, che ne costituisce il diretto antecedente) emerge, in particolare, come il legislatore delegante abbia visto con sfavore il fatto che l’attuale descrizione del fatto incriminato – la quale, per un verso, prescinde da comportamenti fraudolenti e, per altro verso, rende penalmente rilevanti non solo le omesse o mendaci indicazioni di dati oggettivi, ma anche l’effettuazione di valutazioni giuridico-tributarie difformi da quelle corrette – comporti la creazione di una sorta di “rischio penale” a carico del contribuente, correlato agli ampi margini di opinabilità e di incertezza che connotano i risultati di dette valutazioni». (57) Per un’analisi di tale modifica legislativa si vedano, tra gli altri, E.M. Ambrosetti, op. cit., 495; V. E. Falsitta – M. Faggioli, La normativa tributaria di riferimento e le definizioni legali, in R. Bricchetti – P. Veneziani, op. cit., 101 ss.; A. Lanzi – P. Aldrovandi, op. cit., 235 ss.; G. Lunghini, Commento sub art. 1, in C. Nocerino – S. Putinati, La riforma dei reati tributari. Le novità del d.lgs. n. 158/2015, Torino, 2015, 19-20; G.L. Soana, op. cit., 172.
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vogliono esattamente il negozio che pongono in essere, seppur per ragioni esclusivamente fiscali, senza alcuna controdichiarazione tra le stesse (58). Come è stato efficacemente notato, «l’elusore, allorquando pone in essere il proprio disegno aggiratorio, si guarda bene dal celare un qualcosa di esistente o appalesare un quid di non fidefacente, tutt’altro. Seppure per finalità chiaramente strumentali al proprio disegno di violazione obliqua del dettato normativo, egli intende concludere esattamente quei negozi che risultano per tabulas, mirando proprio alla realizzazione degli effetti giuridici connessi a siffatti negozi» (59). Inoltre, con la revisione del sistema penale-tributario il Legislatore ha abrogato anche l’art. 16 d.lgs. 74/2000 (60), norma che escludeva la punibilità di chi si fosse attenuto al parere espresso dal Comitato per l’applicazione delle norme antielusive, ma da cui si era tratto un – discutibile – argomento per sostenere la rilevanza penale di operazioni elusive (61). A seguito delle novelle del 2015 non dovrebbe, allora, più dubitarsi dell’irrilevanza penale delle condotte meramente elusive, nemmeno ove tipizzate da specifiche norme tributarie, giacché la rinnovata formulazione della dichiarazione infedele esclude la tipicità della dichiarazione in cui il contribuente abbia ostentato al fisco le operazioni rilevanti effettivamente compiute, indipendentemente dalla valutazione che delle stesse può essere compiuta sul piano erariale. Tuttavia, la questione della rilevanza penale delle condotte elusive non può dirsi affatto chiusa con la reazione del Legislatore, e, in particolare, due sembrano i profili che restano meritevoli di attenzione e che si approfondiranno oltre: (a) la contro-reazione giurisprudenziale agli interventi legislativi appena descritti; (b) la forza espansiva (probabilmente preterintenzionale) della
(58) Sulla controdichiarazione come momento caratterizzante la simulazione e la difformità tra reale e apparente resta fondamentale R. Sacco, Le controdichiarazioni, in R. Sacco – G. De Nova, Obbligazioni e contratti, tomo II, in P. Rescigno (diretto da), Trattato di diritto privato, Torino, 2002, 255 ss. (59) Così M. Di Siena, Brevi considerazioni sulla criminalizzazione dell’elusione fiscale, in Il Fisco, 2003, 3118. (60) Articolo abrogato dall’articolo 14, comma 1, lettera a), del D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158. (61) In dottrina ipotizzavano la rilevanza penale dell’elusione, valorizzando proprio l’art. 16 d.lgs. 74/2000, F. Gallo, Rilevanza penale dell’elusione, in Rass. trib., 2001, 322; G. Pezzuto, L’esclusione della punibilità in caso di adeguamento al parere del Comitato consultivo per l’applicazione delle norme antielusive, in Rass. trib., 2001, 1623 ss.
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norma di cui all’art. 10-bis l. 212/2000 oltre le fattispecie dichiarative e, in particolare, in relazione ai delitti di indebita compensazione e di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte. 3. La resistenza invincibile: il paradosso della rilevanza penale dell’abuso innominato dopo gli interventi legislativi del 2015. – L’analisi della giurisprudenza successiva all’introduzione dell’art. 10-bis l. 212/2000 e alla revisione del sistema penale-tributario appare ricca di implicazioni, sia rispetto ai principi di diritto che si sono cristallizzati, sia quanto alla loro applicazione, che riserva non poche sorprese. Le massime consolidatisi in giurisprudenza e sempre richiamate nelle decisioni in cui sia evocato l’abuso del diritto sono quelle espresse dalla sentenza Mocali (62): la peculiarità è che tale arresto è intervenuto sì dopo l’introduzione dell’art. 10-bis l. 212/2000, ma prima delle modifiche occorse al delitto di dichiarazione infedele, che hanno ulteriormente – e significativamente – mutato lo scenario. Due i fondamentali principi, trasposti nelle massime ufficiali, enunciati dalla sentenza: il primo, per così dire, apparentemente allineato all’intervento legislativo, per cui «non è più configurabile il reato di dichiarazione infedele, in presenza di condotte puramente elusive ai fini fiscali, in quanto l’art. 10-bis [l. 212/2000] esclude che operazioni esistenti e volute, anche se prive di sostanza economica e tali da realizzare vantaggi fiscali indebiti, possano integrare condotte penalmente rilevanti» (63); il secondo, di per sé non cristallino se letto isolatamente, per cui «l’istituto dell’abuso del diritto di cui all’art. 10bis (…) ha applicazione solo residuale rispetto alle disposizioni concernenti comportamenti fraudolenti, simulatori o comunque finalizzati alla creazione e all’utilizzo di documentazione falsa di cui al D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74,
(62) Si tratta di Cass. pen., Sez. III, 1 ottobre 2015, n. 40272, cit. Per un commento, oltre al già richiamato F. Mucciarelli, Abuso del diritto e reati tributari: la Corte di cassazione, cit., S. Treglia, Il “nuovo” abuso del diritto o elusione fiscale ex art. 10 bis, l. 212 del 2000, c.d. statuto del contribuente, in Riv. trim. dir. pen. eco., 2015, 657 ss.; F. Urbani, Elusione fiscale alla luce del nuovo art. 10-bis: qualche margine residuo di rilevanza penale?, in Cass. pen., 2016, 941 ss.; nonché, volendo, A. Ingrassia, La rilevanza penale dell’elusione: nuovi capitoli di una saga (forse non) infinita, in Le Soc., 2016, 494 ss. (63) Si tratta della massima ufficiale CED Rv. 264949.
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cosicché esso non viene mai in rilievo quando i fatti in contestazione integrino le fattispecie penali connotate da tali elementi costitutivi» (64). Entrambe le massime devono, per essere realmente comprese, essere lette alla luce dell’intero ordito motivazionale. Quanto all’irrilevanza penale delle condotte di abuso del diritto, la Suprema Corte chiarisce che il perimetro di operatività dell’ultimo comma dell’art. 10-bis l. 212/2000. è limitato alle condotte di cd. abuso innominato, rimanendo «impregiudicata la possibilità di ravvisare illeciti penali – sempre, naturalmente che ne sussistano i presupposti – nelle operazioni contrastanti con disposizioni specifiche che perseguano finalità antielusive». Di fatto, per come inteso nella decisione Mocali, l’art. 10-bis non avrebbe spostato di un millimetro il perimetro di criminalizzazione delle condotte elusive, segnato dall’overrulling contra reum del 2011 (65): tipiche le condotte elusive descritte da specifiche norme tributarie, atipiche quelle riconducibili al generale divieto di abuso del diritto. Per vero, come si è altrove già segnalato (66), non è chiaro da dove la Suprema Corte tragga la limitazione di operatività dell’ultimo comma dell’art. 10-bis l. 212/2000. che, per formulazione, appare affermare (rectius riaffermare) un generale principio di atipicità delle condotte elusive, descritte o meno da singole norme tributarie (67). Non è un caso, in questa prospettiva, che la dicotomia tra abuso innominato e codificato (rectius, tra abuso e “specifiche disposizioni tributarie”) si rinvenga nel comma XII dell’art. 10-bis, che si apre con una chiara limitazione del proprio campo di efficacia: “in sede di accertamento”. Sotto altro profilo, l’ampio richiamo compiuto dalla Cassazione a «disposizioni specifiche che perseguano finalità antielusive» rischia di adombrare lo spettro di un medesimo trattamento per condotte puramente abusive così come di vera e propria evasione dell’imposta: si pensi,
(64) Alla lettera la massima ufficiale CED Rv. 264950. (65) Si tratta delle decisioni Ledda e Dolce e Gabbana di cui si è detto al par. 1. Per i riferimenti, anche bibliografici, si rinvia alla nota 16. (66) Si perdoni l’inelegante rinvio ad A. Ingrassia, La rilevanza penale dell’elusione: nuovi capitoli, cit., 495. (67) Si era sostenuta tale impostazione già in A. Ingrassia, Ragione fiscale, cit., 92 ss.; in senso adesivo, G. Andreazza, op. cit., 159.
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rispettivamente, agli eterogenei fenomeni del transfer pricing (68) e dell’esterovestizione (69). Quanto alla seconda massima, se calata nel percorso motivazionale, essa si limita a segnalare la alternatività (70) ontologica tra condotte elusive, da un canto, e «comportamenti fraudolenti, simulatori o comunque finalizzati alla creazione e all’utilizzo di documentazione falsa», dall’altro; per di più la Corte precisa – a scanso di equivoci – come sia necessario non confondere il carattere “artificioso” dell’elusione, consistente nella mancanza di sostanza commerciale delle operazioni, finalizzate prevalentemente a consentire un vantaggio fiscale per il contribuente, ma non una falsa rappresentazione all’erario degli elementi attivi e passivi del reddito e delle operazioni economiche da cui essi scaturiscono, con le condotte fraudolente proprie degli illeciti contenuti nel d.lgs. 74/2000. Tuttavia, la giurisprudenza pressoché unanime successiva alla decisione Mocali ha attribuito a condotte di abuso del diritto, anche non tipizzate da specifiche norme con finalità antielusiva, lo stigma della simulazione, fondando tale conclusione proprio sulla presunta ‘artificiosità’, caratterizzante qualsiasi comportamento elusivo, e incorrendo nell’errore che la sentenza Mocali aveva provato a scongiurare. Segnatamente, il Giudice di legittimità (71) ha ritenuto “simulata” una effettiva cessione infragruppo di beni, avvenuta sottocosto per consentire alla controllata (in difficoltà economica e in credito d’imposta) di rivendere i beni e, nella prospettiva di gruppo, di azzerare il tributo dovuto in relazione alla plusvalenza connessa alla cessione, attraverso la compensazione tra il
(68) Sulle interazioni tra incriminazioni penali-tributarie e transfer pricing – quale fenomeno schiettamente elusivo – si vedano L. Troyer, Il transfer pricing tra elusione ed evasione, in Riv. dott. comm., 2006, 1279 ss.; L. Ramponi, ‘Transfer pricing’ e categorie penalistiche. La selettività dell’illecito penale tributario tra disvalore d’azione e disvalore d’evento, in Riv. trim. dir. pen. eco., 2009, 193 ss. (69) Per una puntuale esplicazione del punto si veda A. Mereu, op. cit., 1036. (70) La decisione Mocali sotto questo profilo va letta unitamente ad altra decisione, avente il medesimo relatore, (Cons. Alessio Scarcella), ovvero Cass. pen., Sez. III, 8 aprile 2019, n. 24152, in Leggi d’Italia, che chiarisce: «i rapporti fra il campo di applicazione dell’abuso del diritto e quello coperto dal presidio penalistico debbono essere improntati alla mutua esclusione». (71) Si tratta di Cass. pen., Sez. III, 20 novembre 2015 (dep. 5 ottobre 2016), n. 41755, in Leggi d’Italia.
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debito sorto con l’alienazione e il credito già maturato dalla controllata con l’amministrazione finanziaria. Secondo la Suprema Corte si sarebbe in presenza di «una vera e propria macchinazione priva di sostanza economica il cui unico scopo, anche attraverso il sapiente utilizzo di strumenti negoziali fra loro collegati, sarebbe quello di raggiungere un indebito vantaggio fiscale» (72): riecheggia proprio la ‘artificiosità’ tipica dell’abuso del diritto, illuminata nell’art. 10-bis l. 212/2000 (73), totalmente eterogenea rispetto alla ‘artificiosità’ propria della simulazione. Si registra così, quella pericolosa nebbia concettuale, temuta dalla decisione Mocali, e che la dottrina aveva già da tempo puntualmente dipanato, chiarendo che «l’artificiosità dell’elusione è tutta giuridica e non ha nulla a che fare con la frode in senso penalistico, distinguendosi per la mancanza di divergenze tra quanto voluto e quanto dichiarato. In particolare, l’artificiosità nell’elusione non va confusa con quella della simulazione, che è invece manipolazione della realtà, col tentativo di mostrarne una diversa da quella effettiva; se si vuole la simulazione è questione di fatto, mentre l’elusione è questione di diritto, con una distinzione concettuale nitida» (74). Ugualmente simulata è stata qualificata (75) l’operazione con cui una società Alfa, invece di cedere direttamente alcuni immobili, ha conferito i predetti in una società Beta, creata a seguito di scissione, completamente detenuta da Alfa e inserita nelle immobilizzazioni finanziarie, le cui quote sono state poi cedute ad un terzo acquirente (in realtà interessato esclusivamente
(72) Alla lettera Cass. pen., Sez. III, 20 novembre 2015 (dep. 5 ottobre 2016), n. 41755, cit. (73) Basti ricordare la definizione di abuso del diritto quale «una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti», ove, per prive di sostanza economica si intendono «i fatti, gli atti e i contratti, anche tra loro collegati, inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali. Sono indici di mancanza di sostanza economica, in particolare, la non coerenza della qualificazione delle singole operazioni con il fondamento giuridico del loro insieme e la non conformità dell’utilizzo degli strumenti giuridici a normali logiche di mercato» (74) Alla lettera, R. Lupi, Elusione e sanzioni penali, in R. Lupi (a cura di), Fiscalità d’impresa e reati tributari: gli effetti della riforma sulle medie e grandi imprese: approfondimenti e riflessioni critiche, Milano, 2000, 154. (75) Si tratta di Cass. pen., Sez. III, 21 aprile 2017, n. 38016, Ferrari, in Cass. pen., 2017, 4486, con nota di A. Viglione, Applicazione residuale dell’abuso del diritto e l’involuzione della Cassazione in materia di elusione fiscale e reati tributari.
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agli immobili), così da ‘lucrare’ i vantaggi fiscali della PEX di cui all’art. 87 TUIR (76) sulla plusvalenza derivante dalla cessione. In sintesi: il risultato economico-patrimoniale è la cessione degli immobili contro il pagamento del loro valore; la forma giuridica, finalizzata a lucrare un vantaggio fiscale (PEX), non è la loro diretta alienazione, ma la cessione delle quote di un ente neo-costituito in cui sono stati conferiti i predetti immobili, che rappresentano l’intero patrimonio della società. Si tratta, ancora una volta, a tutto voler concedere, di una condotta elusiva, il cui tratto asseritamente simulatorio si rinverrebbe, secondo la Cassazione, «nei negozi collegati tra loro apparentemente finalizzati a cessione di partecipazione societaria» (77), a fronte della volontà di «tacere al fisco la reale natura della cessione (non relativa ed effettiva a partecipazione societaria bensì sostanzialmente a beni immobili appartenenti alla società originaria ed appositamente scissa)» (78). Ugualmente simulata (79) è stata considerata l’operazione di cessione di un compendio immobiliare, realizzata attraverso il trasferimento di quote societarie, secondo lo schema già più sopra analizzato, accompagnata dall’acquisto da parte del medesimo contribuente delle quote di altra società, poi posta in liquidazione dopo averne venduto tutti i beni, al fine di azzerare con una minusvalenza la plusvalenza ottenuta con la vendita dei predetti immobili/quote societarie. Nell’arresto in parola la Suprema Corte, oltre a giudicare non corretta la classificazione data alle quote dell’ente acquisito (inserite nell’attivo circolante, invece che nelle immobilizzazioni finanziarie (80)), definisce
(76) È appena il caso di rilevare che nell’economia della decisione della Suprema Corte pare avere inciso anche la contestazione che non ricorressero tutti i requisiti per applicare il regime PEX: tale rilievo appare, però, inconferente, da un lato perché tale aspetto non incide sulla qualificazione della cessione di quote come elusiva, dall’altro giacché, anche mancasse uno dei requisiti di cui all’art. 87 TUIR, in assenza delle condotte tipiche previste dall’art. 3 d.lgs. 74/2000, l’eventuale errata classificazione della partecipazione resterebbe atipica, stante il chiaro disposto dell’art. 4, comma I-bis, d.lgs. 74/2000. (77) In questi esatti termini la massima ufficiale in CED Rv. 270551. (78) Alla lettera la decisione Cass. pen., Sez. III, 21 aprile 2017, n. 38016, cit. (79) Si tratta di Cass. pen., Sez. III, 27 settembre 2017 (dep. 20 febbraio 2018), n. 8047, in Leggi d’Italia. (80) Tuttavia, come già sottolinato in relazione alla decisione Ferrari (nota 76) l’errata classificazione, se non sorretta dalle condotte proprie delle dichiarazioni fraudolente, risulta estranea al perimetro della dichiarazione infedele sulla base del chiaro disposto del comma I-bis dell’art. 4.
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“dissimulatoria” non solo la cessione delle quote, ma l’intera iniziativa economica, valorizzando la presenza di operazioni di pari significatività tributaria e di segno opposto, tali da portare a zero il debito del contribuente con l’amministrazione finanziaria. Anche in questa ipotesi è evidente il carattere prettamente abusivo dell’operazione: il contribuente, per lucrare l’indebito vantaggio fiscale, realizza una pluralità di operazioni, tutte correttamente rappresentate all’erario, e finalizzate esclusivamente a garantire l’abbattimento dell’imponibile oggetto di tassazione. Una volta attribuito lo stigma della simulazione, in tutte le decisioni ora analizzate la Corte riconduce le condotte contestate nell’alveo della dichiarazione infedele e, dunque, al di fuori del perimetro dell’abuso del diritto penalmente irrilevante, richiamando il principio di residualità espresso dalla sentenza Mocali. Sostiene, in particolare, la Cassazione che «in presenza di comportamenti simulatori preordinati all’immutatio veri del contenuto della dichiarazione reddituale di cui al d.lgs. 74/2000 art. 4, l’istituto dell’abuso del diritto, (...), che esclude la rilevanza penale delle condotte ad esso riconducibili, avendo applicazione solo residuale, non può venire in considerazione quando i fatti integrino gli elementi costitutivi del delitto di dichiarazione infedele» (81). Il percorso argomentativo della Suprema Corte non persuade affatto e mostra tutti i suoi limiti ove si consideri la sua intrinseca contraddittorietà: infatti, se veramente si fosse in presenza di condotte simulate, allora non potrebbe certo parlarsi di elusione e la ineludibile conseguenza sarebbe la sussunzione delle stesse nella dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, che ricomprende tra le modalità di aggressione tipiche proprio i negozi simulati (82); tuttavia, è evidente che le operazioni sopra descritte non si appalesano affatto rispondenti alla definizione contenuta nell’art. 1, lett. g-bis, d.lgs. 74/2000, non essendo “poste in essere con la volontà di non realizzarle in tutto o in parte” né essendo “riferite a soggetti fittiziamente interposti”: conseguentemente, la Cassazione ritiene integrato il delitto di dichiarazione infedele, come soluzione compromissoria, creando una inedita forma di “simulazione” – senza i tratti caratterizzanti la simulazione e in tutto
(81) In questi termini, Cass. pen., Sez. III, 21 aprile 2017, n. 38016, cit. (82) Perviene a tale condivisibile conclusione P. Aldrovandi, Elusione fiscale, cit., 174.
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sovrapponibile al concetto di elusione – idonea a fagocitare qualsiasi condotta abusiva e attrarla all’area di rilevanza penale. Anche la sussunzione delle predette condotte dal carattere asseritamente simulatorio nell’alveo della dichiarazione infedele non appare corretta. Infatti, la dichiarazione dei redditi, che tenga conto delle condotte elusive, non comporta alcuna “immutatio veri”, giacché il contribuente ostenta all’erario le operazioni effettivamente compiute e volute, seppur con la finalità – unica o principale – di ottenere un trattamento fiscale economicamente meno gravoso. Nella prospettiva della Suprema Corte l’immutatio veri si radicherebbe, perciò, non tanto nel rapporto tra operazioni compiute e dichiarate, quanto piuttosto tra operazioni che il contribuente modello avrebbe compiuto e quelle invece dichiarate da chi elude; per questa via il delitto di infedele dichiarazione finirebbe per punire non già l’ipotesi di discrasia tra ciò che è e ciò che viene dichiarato, ma, piuttosto, la difformità tra ciò che dovrebbe essere normativamente e ciò che viene indicato dal contribuente. Si consenta: si punirebbe una discrasia non ontologica ma deontologica (83). In definitiva, si sarebbe in presenza di una inedita “simulazione della cattiva volontà”: l’operazione è falsa e falsa è la dichiarazione, perché diversi sarebbero stati i negozi realizzati e dichiarati se il contribuente avesse agito senza l’intenzione malvagia di sottrarre materia imponibile. Un tale esito interpretativo è proprio ciò che il legislatore ha voluto escludere con la riformulazione del delitto di dichiarazione infedele, con cui ha chiarito la diversa prospettiva penale e tributaria della nozione di imposta evasa e la necessità di una falsa rappresentazione di quanto naturalisticamente realizzato in dichiarazione per integrare il delitto di cui all’art. 4 d.lgs. 74/2000. Del resto, lo stesso concetto di residualità formulato dalla sentenza Mocali può essere condiviso fin tanto che si interpreti correttamente l’alternativa tra condotte di abuso, in cui il contribuente rappresenta esattamente al fisco i negozi che ha posto in essere, seppure con il fine di pagare meno imposte, e i comportamenti “fraudolenti, simulatori o comunque finalizzati alla creazione e all’utilizzo di documentazione falsa”, tipizzati nelle due declinazioni della dichiarazione fraudolenta, e che implicano una discrasia tra quanto effettivamente compiuto e quanto dichiarato e autoliquidato.
(83) Cfr. sul punto, L. Troyer – A. Ingrassia, La rilevanza penale, cit., 2087.
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In quest’ottica senz’altro vi è una alternatività assoluta tra condotte penalmente rilevanti ex artt. 2 e 3 d.lgs. 74/2000 e condotte elusive (84) e può apparire condivisibile l’affermazione per cui se un fatto è attratto nelle predette fattispecie incriminatrici non può essere coperto dalla causa di esclusione del tipo (sui generis) di cui all’art. 10-bis l. 212/2000. Se, invece, si modifica la tipicità del delitto di dichiarazione infedele, ritornando alla concezione normativa contro il chiaro tenore letterale della norma e la indiscutibile voluntas legis, e si riconducono a tale fattispecie le condotte abusive, attraverso la creazione di un monstrum vel prodigium quale “la simulazione della cattiva volontà”, allora non ha alcun senso parlare di residualità, perché di spazi per l’applicazione dell’ultimo comma dell’art. 10bis l. 212/2000 proprio non ve ne restano. L’effetto paradossale è che non solo l’introduzione dell’art. 10-bis l. 212/2000, unitamente all’abrogazione dell’art. 37-bis D.P.R. 600/1973 e, volendo, alle modifiche al d.lgs. 74/2000, non hanno condotto al risultato sperato dal Legislatore (i.e. l’irrilevanza delle condotte elusive e la concezione naturalistico-penalistica della dichiarazione infedele), ma, addirittura, attraverso la disposizione antiabuso si è pervenuti nel diritto vivente a ritenere penalmente rilevanti anche condotte elusive non tipizzate da alcuna norma tributaria, superando persino le Colonne d’Ercole poste dalle decisioni apripista emesse dalla Cassazione nel 2011 (85). In questo contesto merita di essere segnalato un unico precedente (86), in controtendenza rispetto alla giurisprudenza fin qui analizzata, in cui, sempre valutando la rilevanza penale di una cessione di immobili, compiuta attraverso una scissione parziale con successiva cessione di quote della società scissa, partendo dai principi della decisione Mocali, la Corte di cassazione ha correttamente ritenuto la condotta contestata prettamente elusiva e, conseguentemente, penalmente irrilevante. Si legge nel fondamentale precedente Anghileri (87) (non massimato ufficialmente) che «attraverso la limitazione della rilevanza penale alle sole operazioni poste in essere con la volontà di non realizzarle in tutto od in parte, o riferite a soggetti fittiziamente interposti [art. 1, lett. g-bis, ndr], il legislatore
(84) In linea con tale impostazione G. Andreazza, op. cit., 159. (85) Ovvero le più volte richiamate sentenze Ledda e Dolce e Gabbana, su cui si rinvia, per i riferimenti anche bibliografici, alla nota 14. (86) Cass. pen. Sez. III, Sent., 16 novembre 2016, n. 48293, Anghileri, in Leggi d’Italia. (87) Cass. pen. Sez. III, Sent., 16 novembre 2016, n. 48293, cit.
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ha escluso la rilevanza penale delle operazioni meramente elusive, nelle quali, come nella specie, venga adottato uno schermo negoziale articolato (quale quello descritto) allo scopo di conseguire un indebito vantaggio fiscale, in relazione, però, ad una operazione economica realmente verificatasi e che ha dato luogo a flussi finanziari effettivi ed al trasferimento di diritti» (88). Conferma dell’irrilevanza penale delle condotte elusive si ha – sempre secondo la decisione Anghileri – volgendo lo sguardo all’ultimo comma dell’art. 10-bis l. 212/2000 che, come sostenuto dalla sentenza Mocali, ha comportato una abolitio criminis parziale del delitto di dichiarazione infedele, nella parte in cui puniva, appunto, condotte abusive. Il quadro del diritto vivente è, dunque, poco chiaro e tutt’altro che prevedibile pare il perimetro del delitto di dichiarazione infedele, specie rispetto alla possibile rilevanza penale di condotte elusive: da un canto, le decisioni Mocali e Anghileri che, in linea con le ragioni del legislatore, certificano una contrazione del perimetro d’intervento del diritto penaletributario; dall’altro, la giurisprudenza maggioritaria che, dietro un apparente ossequio ai principi espressi dalla sentenza Mocali, perviene al sostanziale annichilimento delle novelle del 2015 e a riconoscere persino rilevanza criminale a condotte di abuso innominato, ricondotte ad un inedito e indefinito concetto di “simulazione della cattiva volontà”. 4. Ritorno al futuro: l’atipicità della compensazione di un credito derivante da una condotta abusiva e la questione dell’accollo del debito tributario. – Se la sedes materiae elettiva delle questioni in punto di rilevanza penale dell’elusione sono i delitti dichiarativi e, in particolare, la dichiarazione infedele, tuttavia, non deve essere affatto sottovalutata la portata dell’affermazione di generale atipicità penale delle condotte abusive, contenuta nell’art. 10-bis l. 212/2000. Pare a chi scrive che tale norma possa avere una duplice capacità espansiva, incidendo sui confini di intervento penale: (i) in via diretta, in relazione al delitto di indebita compensazione mediante crediti non spettanti, nella misura in cui l’art. 10-bis l. 212/2000 opera come vera e propria causa di esclusione del tipo; (ii) in via indiretta, con riferimento alla sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, costituendo l’affermazione del generale principio
(88) Ibidem.
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di irrilevanza penale-tributaria delle condotte di abuso un ulteriore argomento a favore di un’interpretazione oggettivista (89) dell’incriminazione in parola. Prendendo l’abbrivio dalla prima delle due fattispecie appena richiamate, l’art. 10-quater d.lgs. 74/2000 (90) è legato a doppio filo all’istituto della compensazione tributaria, disciplinata dall’art. 17 d.lgs. 241/1997, che consente di compensare, in sede di pagamento mediante cd. modello F24, crediti e debiti di natura fiscale, previdenziale e assistenziale (91). La compensazione tributaria trova alcuni limiti, identificati puntualmente nel predetto art. 17: per ciò che qui interessa, deve essere sottolineato che è possibile il ricorso all’istituto solo ove debiti e crediti siano riferibili al medesimo soggetto. Tornando all’incriminazione, questa punisce due distinte forme di indebita compensazione, a seconda che il reo ricorra a crediti non spettanti (reclusione da sei mesi a due anni), oppure inesistenti (reclusione da un anno a sei mesi a sei anni), sottraendosi per tale via al pagamento del proprio debito, in misura superiore alla prevista soglia di punibilità. Elemento discretivo tra le due declinazioni dell’illecito è la tipologia di credito utilizzato dal contribuente, che, secondo l’insegnamento giurisprudenziale, condiviso dalla dottrina, è: inesistente, ove «non sussistono gli elementi costituitivi e giustificativi» (92), ovvero è «totalmente disancorato dalla situazione fiscale del contribuente», restando irrilevante «se l’inesistenza sia o meno supportata da documentazione ideologicamente falsa ovvero materialmente falsa» (93); è non spettante qualora «pur certo nella sua esistenza e nell’ammontare, sia, per qualsiasi ragione normativa,
(89) Sulla dicotomia oggettivismo-soggettivismo in materia penale, G. Marinucci, Soggettivismo e oggettivismo nel diritto penale. Uno schizzo dogmatico e politico-criminale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2011, pp. 1 ss.; A. Manna, La giustizia penale fra otto e novecento: la disputa tra soggettivismo e oggettivismo, in Ind. pen., 2006, pp. 509 ss. (90) Per un’esegesi della norma in questione, si vedano, tra gli altri e senza pretesa di completezza, E.M. Ambrosetti, op. cit., 547 ss.; S. Cavallini, L’indebita compensazione, in R. Bricchetti – P. Veneziani, op. cit., 357 ss.; A. Lanzi – P. Aldrovandi, op. cit., 461 ss.; D. Badodi, Commento sub art. 10 quater, in C. Nocerino – S. Putinati, op. cit., 237 ss.; E. Musco – F. Ardito, op. cit., 317 ss.; G.L. Soana, op. cit., 393 ss. (91) Per un elenco completo e puntuale dei crediti e dei debiti oggetto di possibile compensazione mediante mod. F24 si rinvia all’art. 17, comma II, d.lgs. 241/1997. (92) Così Cass. pen., Sez. III, 26 giugno 2014, n. 3367, cit.; aderisce, Cass. pen., Sez. III, 7 luglio 2015, n. 36393, cit. (93) Così E. Musco – F. Ardito, Diritto penale tributario, cit., 298. In termini molto simili, tra gli altri, A. Rossi, Omesso versamento IVA ed indebita compensazione: artt. 10 ter e 10 quater, d.lgs. 74 ex d.l. 223/2006, in Il fisco, 2006, 4879.
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ancora non utilizzabile (ovvero non più utilizzabile) in operazioni finanziarie di compensazione nei rapporti fra il contribuente e l’Erario» (94). Si comprende come, differentemente da quanto avviene rispetto alla dichiarazione infedele, nel delitto in parola l’esistenza in rerum natura del credito non è bastevole ad escludere la rilevanza penale del suo utilizzo; da un punto di vista dogmatico, il giudizio normativo prevale su quello naturalistico, tanto che il diritto penale perde in autonomia rispetto alla disciplina tributaria, che integra il precetto senza alcun filtro selettivo, caratterizzando l’incriminazione come meramente sanzionatoria di violazioni tributarie (95), qualificate solo sul piano quantitativo e del dolo (96). In questa prospettiva, un credito derivante da un’operazione abusiva, in quanto non opponibile al Fisco, può definirsi senz’altro non spettante. Si tratta di una prima classe di casi in cui incide direttamente la previsione contenuta nell’ultimo comma dell’art. 10-bis l. 212/2000, limitando i confini di enforcement penalistico e assumendo i tratti caratteristici della causa di esclusione del tipo: se le condotte abusive non danno luogo a responsabilità penale, l’indebita compensazione realizzata con un credito non spettante in quanto frutto di operazione elusiva – perciò non opponibile al fisco – viene sottratta allo spettro di tipicità del delitto di cui all’art. 10-quater d.lgs. 74/2000. Di tale conclusione si trova conferma in un recente e pregevole precedente di merito (97), in cui il Tribunale, pur riconoscendo il carattere abusivo dell’operazione che aveva generato il credito IVA portato in compensazione (98), ha ritenuto il fatto atipico rispetto al delitto di indebita
(94) Si tratta di Cass. pen., Sez. V, 25 giugno 2018, n. 40100, in Leggi d’Italia; in senso conforme, Cass. pen., Sez. III, 7 luglio 2015, n. 36393, Ghirlandini, in CED Rv. 265014. (95) Addiviene a tale condivisibile conclusione, L. Ramponi, op. cit., 227 ss. (96) In effetti, ciò che differenzia il delitto di cui all’art. 10-quater d.lgs. 74/2000 dall’illecito amministrativo di cui all’art. 13, commi IV e V, d.lgs. 471/1997 è, sul piano della tipicità, esclusivamente la soglia di punibilità; elemento ulteriore di distinzione è il criterio soggettivo d’imputazione (il cd. dolo generico richiesto per la fattispecie incriminatrice). (97) Si tratta di Trib. Milano, Giud. Mon., dott. Roberto Crepaldi, 29 marzo 2019, n. 4355, inedita. (98) Nello specifico oggetto del processo era una cessione di immobili infra-gruppo, ritenuta dal Tribunale priva di valide ragioni economiche extrafiscali, finalizzata esclusivamente a traslare un credito IVA da una società, che avrebbe dovuto riportare il credito nelle annualità fiscali successive, ad altra che, invece, avrebbe potuto portarlo immediatamente in compensazione.
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compensazione contestato, proprio richiamando l’ultimo comma dell’art. 10bis l. 212/2000 nella sua funzione di causa di esclusione del tipo (99). Una seconda classe di ipotesi abbraccia i casi in cui l’abuso non si radichi nella genesi del credito, ma bensì nelle modalità di compensazione: si pensi, paradigmaticamente, all’accollo del debito tributario, con estinzione dell’obbligazione assunta mediante compensazione (100). Come noto, l’istituto dell’accollo ex art. 1273 c.c. prevede che un soggetto terzo (accollante) si impegni nei confronti di un creditore (accollatario) ad eseguire l’obbligazione di un debitore (accollato): se il creditore aderisce all’accordo, l’accollo è liberatorio, per cui l’accollante assume su di sé il debito, surrogandosi all’originario debitore; se, al contrario, il creditore non vi aderisce, l’accollo è cumulativo, tanto che accollante e accollato divengono debitori solidali (101).
(99) Si legge nella sentenza Trib. Milano, Giud. Mon., dott. Roberto Crepaldi, 29 marzo 2019, n. 4355: «Il credito generato mediante un’operazione reale, debitamente documentata e annotata in contabilità, ancorché realizzata al solo scopo di traslare il credito da una società all’altra e senza una reale logica commerciale, non può dirsi certo “inesistente”, in quanto lo stesso non è frutto della fantasia del compensatore ma è generato da un fatto ben preciso e non disconosciuto dallo stesso pubblico ministero. Neppure può dirsi non spettante, dovendosi intendere per tale, come detto, quello utilizzato in misura esorbitante un limite normativo. Nel caso di specie, l’unica norma che preclude l’utilizzazione del predetto credito è proprio il citato art. 10-bis dello Statuto del contribuente. Ed è proprio in relazione al richiamo al divieto di abuso del diritto e alla conseguente inopponibilità all’amministrazione finanziaria del vantaggio indebitamente conseguito dall’operazione genericamente elusiva, che deve darsi conto della corretta esegesi del comma 13 della predetta norma che, come si è detto, prevede che “le operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie. Resta ferma l’applicazione delle sanzioni amministrative tributarie”. La semplice lettura del dato testuale appare, sul punto, illuminante: la disposizione, infatti, si riferisce, quale oggetto della predicata irrilevanza penale, alle “operazioni abusive”, da intendersi nel loro complesso ed in relazione a tutte le conseguenze (sul piano tributario) indebite che dovessero generare. Ne consegue che tanto il vantaggio immediato (vale a dire mediante la riduzione della base imponibile in conseguenza dell’abbattimento degli elementi attivi o dell’artificioso aumento di quelli passivi che determini un carico tributario inferiore di quello legittimo) quanto quello mediato (realizzato, cioè, mediante la generazione di un credito d’imposta maggiore di quello realmente conseguito, utilizzato poi in compensazione) non possa dar luogo ad incriminazione». (100) Sull’istituto dell’accollo tributario si veda, anche per i riferimenti bibliografici, l’ampia trattazione monografica di F. Paparella, L’accollo del debito d’imposta, Milano, 2008. (101) Sull’istituto dell’accollo si vedano, anche per ulteriori riferimenti bibliografici, B. Grasso, Delegazione, espromissione e accollo, Milano, 2011, 99 ss.; P. Rescigno, Studi sull’accollo, Milano, 1958.
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Rispetto alla generale disciplina civilistica, l’art. 8 l. 212/2000 esclude la declinazione liberatoria dell’accollo, ammettendo, invece, in via generale, l’accollo cumulativo, che si realizza con il deposito presso l’Agenzia delle Entrate dell’accordo tra debitore originario e terzo. La possibilità per l’accollante di estinguere il debito dell’accollato mediante un proprio credito d’imposta, pur invalsa nella pratica tributaria quale strumento per eludere le norme che limitano il rimborso dell’imposta per l’accollante e la cessione dei crediti tributari, è stata dapprima esclusa da un documento di prassi (102): le ragioni risiederebbero nel numero chiuso delle ipotesi di compensazione e nella mancanza in capo all’accollante della qualità di contribuente o soggetto passivo del rapporto debitorio tributario e, dunque, difetterebbe il requisito dell’identità tra creditore e debitore richiesto dall’art. 17 d.lgs. 241/1997 per consentire la compensazione. In seguito e ancor più di recente, l’art. 1 d.l. 124/2019 (conv. con l. 157/2019) ha esplicitamente vietato il pagamento del debito dell’accollato mediante compensazione con un credito dell’accollante: si tratta a tutti gli effetti di una disposizione anti-elusiva. Tuttavia – e qui risiede l’aspetto d’interesse – la Cassazione penale, prima dell’intervento legislativo da ultimo richiamato, ha mostrato un’apertura nel ritenere operante la causa di esclusione del tipo di cui all’art. 10-bis l. 212/2000 nell’ipotesi di ricorso combinato agli istituti dell’accollo e della compensazione, qualora il credito dell’accollante sia certo nell’esistenza e nell’ammontare. Segnatamente, la Suprema Corte, in una pluralità di decisioni di identico contenuto e relative al medesimo procedimento penale (103), ha ritenuto tipico ex art. 10-quater, comma II, d.lgs. 74/2000 il ricorso in compensazione a crediti inesistenti da parte dell’accollante per estinguere il debito tributario dell’accollato. Tuttavia, nella ricostruzione della Cassazione è proprio il carattere inesistente dei crediti utilizzati che comporta l’integrazione del delitto
(102) Si tratta della Risoluzione dell’Agenzia delle Entrate n. 140/E del 15 novembre 2017; per un’analisi del documento si veda S. Cannizzaro, L’Agenzia delle Entrate dice no alla compensazione se si tratta di un debito accollato, in Corr. trib., 2018, 443 ss. (103) Il riferimento è a: Cass. pen., Sez. III, 30 novembre 2017, n. 55794, in GT – Riv. giur. trib., 2018, 433 ss., con nota di C. Consorti, Punibile l’accollante che compensa il debito tributario con crediti inesistenti; Cass. pen., Sez. III, 5 dicembre 2017, n. 56451, in Leggi d’Italia; Cass. pen., Sez. III, 1 dicembre 2017 (dep. 3 luglio 2018), n. 29870, in Leggi d’Italia; Cass. pen. Sez. III, 18 dicembre 2017 (dep. 13 febbraio 2018), n. 6945, in Leggi d’Italia.
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contestato, vertendosi diversamente, ove il credito sia certo nell’esistenza e nell’ammontare, in un’operazione prettamente abusiva e, dunque, penalmente irrilevante ex art. 10-bis l. 212/2000. Il Giudice di legittimità ha ritenuto, infatti, che il terzo, assumendosi il debito del contribuente originario, diventi a sua volta debitore e possa, conseguentemente, procedere alla compensazione con un proprio credito ex art. 17 d.lgs. 241/1997. Di poi, sempre secondo la Corte, nel momento in cui l’accollante ha assunto il debito altrui, cedendo contestualmente a titolo oneroso un proprio credito, ha eluso sia la disciplina della compensazione che quella della cessione dei crediti d’imposta. Fin tanto che, però, l’accollante ricorra ad un proprio credito esistente, non integra la fattispecie incriminatrice, in quanto ‘coperto dallo scudo’ dell’art. 10-bis l. 212/2000; al contrario, se il credito compensato è inesistente, come nel caso sottoposto al giudizio della Cassazione, ciò basta a far scattare – in questa ipotesi correttamente – il principio di residualità formulato dalla decisione Mocali. È, tuttavia, da sottolineare ulteriormente che tale orientamento si è formato prima dell’introduzione dell’art. 1 d.l. 124/2019, cioè antecedentemente alla previsione di uno specifico divieto per l’accollante di compensare il debito altrui con il proprio credito. Proprio in questa prospettiva e volendo guardare al futuro, i nodi problematici riguarderanno le ipotesi di condotte schiettamente abusive tipizzate in norme tributarie antiabuso e le modalità di compensazione vietate esplicitamente da norme anti-elusive, stante il perimetro di operatività limitato riconosciuto dalla sentenza Mocali al principio espresso dall’ultimo comma dell’art. 10-bis l. 212/2000. Per questa via, se nel diritto vivente si radicasse l’idea che l’affermazione generale di irrilevanza delle condotte elusive valga solo per l’abuso innominato, si perverrebbe ad una evidente distonia di sistema, difficilmente giustificabile, inerente ai perimetri di incriminazione dei delitti di dichiarazione infedele e di indebita compensazione. Exemplum docet: si pensi al credito IVA generato attraverso cessioni infragruppo in violazione delle disposizioni in materia di transfer pricing. Se il credito viene portato in detrazione in sede dichiarativa il fatto è atipico,
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trattandosi di elemento passivo esistente (104); se, invece, lo stesso credito viene utilizzato in compensazione mediante modello F24, il fatto dovrebbe assumere rilevanza penale, trattandosi – nella prospettiva dell’insegnamento Mocali – di un credito non spettante, derivante da un’operazione tipizzata da una specifica norma antielusiva, cui non si applica per ciò solo la disciplina ‘residuale’ dell’abuso del diritto. Volendo chiosare: l’art. 10-bis l. 212/2000 appare poter assumere, già nell’attuale diritto vivente, un ruolo decisivo nella riperimetrazione dei confini del delitto di indebita compensazione, importando la irrilevanza penale delle forme di compensazione elusive e del ricorso a crediti generati da operazioni abusive, purché si tratti di condotte non descritte da specifiche norme antielusive; rispetto a quest’ultima classe di ipotesi, si giocherà, invece, una duplice partita, inerente alla capacità espansiva dell’affermazione di irrilevanza penale delle condotte abusive contenuta nell’art. 10-bis l. 212/2000, nonché in punto di ragionevolezza dell’incriminazione di indebita compensazione, riguardata nella relazione con il delitto di dichiarazione infedele (105). 5. Irrilevanza penale delle condotte di abuso e sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte: un nuovo argomento per un’interpretazione ‘classica’ o un cambio di passo verso la valorizzazione della ‘volontà malvagia’? – Un’ulteriore prospettiva di interazione tra l’affermazione di irrilevanza penale delle condotte di abuso del diritto e i reati tributari si innerva nell’identificazione dei confini di tipicità del delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte e, in particolare, in ordine alla nozione di “altri atti fraudolenti”.
(104) Deve essere segnalato al lettore che la dottrina è divisa sulla possibilità che il ricorso alla detrazione di crediti o ritenute inesistenti rientri nel perimetro della dichiarazione infedele, mancando un riferimento puntuale a tale modalità di aggressione nella descrizione delle soglie di punibilità di cui all’art. 4, riferimento, invece, contenuto nel novellato delitto di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici. Per un approfondimento sul punto, tra coloro che ritengono tipico ex art. 4 D.lgs. 74/2000 il ricorso a crediti e ritenute fittizie, non supportato da documenti falsi, operazioni simulate o altri mezzi fraudolenti, si inscrivono A. Ingrassia, Ragione fiscale, cit., 90 ss.; L. Imperato, Commento, cit., 58; contra C. Nocerino, Dichiarazione infedele, in C. Nocerino – S. Putinati, op. cit., 90; A. Perini, La riforma del delitto di dichiarazione infedele, in I. Caraccioli (a cura di), op. cit., 129 ss. (105) Sui dubbi di ragionevolezza ex art. 3 Cost. che emergono dal confronto la dichiarazione infedele e l’indebita compensazione si conceda il rinvio ad A. Ingrassia, Ragione fiscale, cit., 136 ss.
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Come noto, l’art. 11 d.lgs. 74/2000 (106) punisce – in estrema sintesi – il contribuente che, al fine di sottrarsi al pagamento delle imposte dirette e sul valore aggiunto e degli eventuali interessi e sanzioni maturati sulle stesse, per un importo complessivo superiore alla soglia di punibilità, attraverso l’alienazione simulata o altri atti fraudolenti sui propri beni, rende in tutto o in parte inefficace una procedura esecutiva dell’erario. Il punto d’interesse, su cui l’ultimo comma dell’art. 10-bis l. 212/2000. può incidere – come anticipato – in via indiretta, è l’esegesi del sintagma “altri atti fraudolenti”. Rispetto a tale modalità di aggressione il nodo interpretativo più difficile da sciogliere attiene al carattere fraudolento degli atti, potendosi prospettare due diverse soluzioni. Una prima impostazione, definita generalmente come soggettivista, ricomprende nel fatto tipico tutti gli atti pregiudizievoli per il fisco, purché posti in essere con una sorta di “volontà malvagia” (107): al di là delle espressioni icastiche, sarebbe tipico qualsiasi negozio che impoverisca il patrimonio del contribuente e sia orientato a danneggiare l’erario. Altra parte, maggioritaria, della dottrina (108) opta, invece, per un’interpretazione oggettivista: violano il precetto solo gli atti che importino un fittizio depauperamento del patrimonio del contribuente, attraverso un’immutatio veri.
(106) Per un commento della fattispecie incriminatrice in parola si vedano, senza pretesa di completezza; E.M. Ambrosetti, op. cit., 536 ss.; A. Lanzi – P. Aldrovandi, op. cit., 461 ss.; E. Musco – F. Ardito, op. cit., 329 ss.; C.M. Pricolo – A. Trabacchi, Commento sub art. 11, in C. Nocerino – S. Putinati, op. cit., 259 ss.¸ G.L. Soana, op. cit., 427 ss.; nonché, volendo A. Ingrassia, Le diverse forme di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, in R. Bricchetti – P. Veneziani, op. cit., 377 ss. (107) Per tale impostazione E. Lo Monte, Gli aspetti problematici del delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, in Rass. trib., 2000, 1145; A. Marcheselli, Abuso del diritto e penale-tributario: il caso della sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, in GT – Riv. giur. trib., 2011, 575; E. Mastrogiacomo, Il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, in Il Fisco, 2000, 10280; U. Nannucci, Il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, in U. Nannucci – A. D’Avirro (a cura di), La riforma del diritto penale tributario (d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74), Padova, 2000, 299. (108) P. Aldrovandi, Commento sub art. 11, in I. Caraccioli – A. Giarda – A. Lanzi (a cura di), Diritto e procedura penale tributaria. Commentario al decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, Padova, 2001, 369; E.C. Leoni, Il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte: il caso della cessione di azienda, in Rass. trib., 2016, 417; V. Napoleoni, I fondamenti del nuovo diritto penale tributario, Milano, 2000, 203.
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All’impostazione oggettivista ha aderito la giurisprudenza della Suprema Corte, sottolineando che una diversa esegesi, che prescinda dalla verifica dell’immutatio veri, si porrebbe in tensione con il diritto di proprietà presidiato dall’art. 42 Cost. e con il principio di necessaria offensività dei reati, pure garantito dalla Carta fondamentale (109). Dunque, per la Cassazione (110) il carattere fraudolento degli atti è «da intendersi come comportamento che, sebbene formalmente lecito – come peraltro lo è l’alienazione di un bene – sia però caratterizzato da una componente di artificio o di inganno». La necessità di un’immutatio veri per integrare il fatto tipico ha condotto la giurisprudenza a lasciare fuori dal perimento di enforcement penalistico le condotte di mero abuso del diritto: così la costituzione effettiva di un trust per rendere più difficile l’esecuzione dell’erario sui beni del contribuente debitore, assume rilevanza penale solo ove l’operazione economica sia rappresentata falsamente, ad esempio sotto il profilo dei soggetti interessati (settlor of trust, trustee, beneficiary owner) o delle regole di funzionamento. Più puntualmente: caratterizzandosi le condotte di abuso per la corretta rappresentazione di quanto compiuto, esse non potrebbero dirsi tipiche rispetto al delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte. In questa prospettiva, in cui l’immutatio veri costituisce il vero elemento discretivo tra le due opposte opzioni interpretative del concetto di atti fraudolenti, l’esegesi dell’art. 10-bis l. 212/2000. può costituire, al contempo, argomento a conferma della conclusione oggettivista adottata nel diritto vivente, così come inatteso strumento per virare verso l’opzione soggettivista. La conferma dell’esegesi oggettivista deriva dalla chiara formulazione del più volte evocato ultimo comma dell’art. 10-bis l. 212/2000: se le condotte di abuso sono sottratte alla eventuale rilevanza delle fattispecie penalitributarie, a fortiori sarà da ritenersi necessario il connotato di fittizietà del depauperamento del patrimonio del contribuente per integrare il delitto di cui all’art. 11 d.lgs. 74/2000. Al contrario, però, ove nella nozione di “altri atti fraudolenti” venisse trapiantata la “simulazione della cattiva volontà”, emersa nella giurisprudenza
(109) Si vedano Cass. pen., Sez. III, 5 luglio 2016 (dep. 20 gennaio 2017), n. 3011, in Leggi d’Italia, Cass. pen., Sez. III, 24 febbraio 2016, n. 13233, in Leggi d’Italia; Cass. pen., Sez. III, 8 aprile 2015, n. 15449, in Leggi d’Italia. (110) Il riferimento è a Cass. pen., Sez. III, 16 maggio 2012, Caneva e altri, in Leggi d’Italia.
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quasi unanime successiva alla decisione Mocali, la svolta verso l’esegesi soggettivista sarebbe facilmente compiuta: un negozio giuridico potrebbe considerarsi uno strumento di puro artificio per il solo fatto di essere compiuto per sottrare risorse all’erario e non già – solo o prevalentemente – per la causa che gli è propria. Per questa via, le modalità di aggressione definite nella disposizione (alienazione simulata e altri atti fraudolenti) sarebbero obliterate, con l’effetto di mutare geneticamente i tratti della norma incriminatrice, fino a creare un reato a forma libera, in cui qualsiasi depauperamento del patrimonio del contribuente, se realizzato con la volontà di sottrarre risorse esecutabili dall’erario, assumerebbe rilevanza penale. L’intervento del legislatore del 2015, diretto a negare ogni cittadinanza alle condotte di abuso del diritto, si potrebbe rivelare – per una paradossale eterogenesi dei fini di politica criminale – un argomento a favore di un’espansione cripto-analogica anche dei confini del delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte. 6. L’orizzonte della (ir)rilevanza penale dell’elusione fiscale. – Voler trarre delle conclusioni sulla rilevanza penale dell’elusione appare compito impercorribile, specie se si inscrive e si guarda la questione nella prospettiva della dialettica tra giudice-legislatore e legislatore-giudice: quando uno degli attori prova a scrivere la parola fine, di fatto offre l’incipit all’altro per stendere nuove pagine. Come nella famosa litografia del 1948 intitolata “Drawing hands”, dell’indiscusso Maestro degli oggetti impossibili, Maurits Cornelis Escher, ciascuno dei protagonisti della modernità penalistica cerca di tratteggiare i confini della responsabilità penale-tributaria, senza riuscire mai ad offrire un’immagine nitida all’osservatore, che vede solo due mani che finiscono per disegnarsi l’un l’altra, in un gioco di specchi senza soluzione di continuità. L’effetto ultimo – in senso esclusivamente cronologico, non certo in termini di fissità dell’esito – di questa dinamica è che una disposizione manifesto, che afferma l’irrilevanza penale delle condotte di abuso del diritto quale l’art. 10-bis l. 212/2000, muta di significato fino a divenire norma chiave per l’affermazione giurisprudenziale della rilevanza penale delle condotte di abuso del diritto. Per l’interprete provare ad individuare quale insegnamento si consoliderà in giurisprudenza appare un esercizio di pura preveggenza, tanto più ove si guardi in controluce quali problemi si stagliano all’orizzonte; è, evidente,
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d’altronde, la necessità di un intervento della Sezioni Unite della Cassazione per chiarire se quella che è stata qui definita la “simulazione della cattiva volontà”, istituto di pura creazione giurisprudenziale, vettore insostituibile per ampliare i confini della dichiarazione infedele così da inscriverci le condotte di abuso del diritto innominato, abbia cittadinanza penalistica o sia stato un errore esegetico da non ripetere. Si tratta della più immediata delle esigenze: interrompere – salvo e fino ad ulteriore intervento legislativo – il pendolo della rilevanza-irrilevanza criminale dell’elusione, garantendo la prevedibilità del precetto penale. Tuttavia, la soluzione della questione interpretativa ha implicazioni sistematiche di più ampia portata, che possono essere enucleate attraverso tre dicotomie: (i) disvalore di intenzione vs disvalore di condotta; (ii) funzione meramente sanzionatoria delle norme tributarie vs autonomia delle fattispecie incriminatrici; (iii) diritto penale (giurisprudenziale) di lotta vs diritto penale delle garanzie. (i) In primo luogo, la scelta se ricondurre alla dichiarazione infedele le condotte di “simulazione delle cattiva volontà”, di fatto l’abuso innominato del diritto, implica l’opzione tra un sistema penale tributario che privilegi il disvalore di intenzione piuttosto che il disvalore di condotta; si tratta, in altre parole, di colorare l’immutatio veri, necessaria per integrare la dichiarazione infedele, in senso soggettivo-deontologico, obbligando il contribuente ad indicare in dichiarazione le operazioni che avrebbe compiuto se fosse stato fedele alla lettera e allo spirito della legge (111), o in termini oggettivoontologici, ponendo al centro la discrasia tra quanto realmente compiuto e quanto dichiarato all’amministrazione finanziaria. (ii) La seconda dicotomia è strettamente connessa alla prima. Se, infatti, si legge in chiave soggettivo-deontologica l’immutatio veri, il diritto penale assume funzione meramente sanzionatoria delle violazioni tributarie: le nozioni di evasione in campo tributario e penale finiscono per sovrapporsi e l’unico criterio realmente selettivo tra sanzione amministrativa e criminale diviene il superamento della soglia di punibilità. In altre parole,
(111) È frequente in dottrina l’individuazione delle condotte elusive sulla base della violazione dello spirito della legge: per tutti, R. Lupi – D. Stevanato, Elusione fiscale tra anomalia dei comportamenti civilistici e frode allo spirito della legge tributaria, in Dial. trib. 2006, 617.
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introducendo la prospettiva deontologica, ogni giudizio normativo tipico del sistema tributario viene introiettato nelle norme incriminatrici. Al contrario, l’impostazione oggettivo-ontologica garantisce una separazione tra i due binari punitivi, a partire proprio dalla distinzione della definizione di imposta evasa, che in sede penale è calcolata prescindendo da qualsiasi giudizio normativo. In questa prospettiva, le fattispecie dichiarative, richiedendo uno specifico disvalore di condotta, consistente nel dichiarare qualcosa di diverso da quanto effettivamente accaduto, estraneo all’illecito tributario, acquisiscono una piena autonomia, tanto che la quantificazione dell’imposta evasa in misura differente nel processo amministrativo e criminale dovrebbe assumere i caratteri della regola più che dell’eccezione. (iii) Infine, come si è visto, non può dubitarsi che il legislatore con la novella del 2015 abbia optato per una valorizzazione del disvalore di condotta – paradigmatica la riformulazione della dichiarazione infedele – e per una divaricazione tra le nozioni di imposta evasa in sede tributaria e penale; si è anche sottolineato che l’indebita compensazione con crediti non spettanti, quale eccezione a tale linea politico-criminale, trova una mitigazione nell’art. 10-bis l. 212/2000 e resta fattispecie incriminatrice non scevra da possibili frizioni con l’art. 3 Cost., sotto il profilo della ragionevolezza, specie se la si confronta con il perimetro di incriminazione della dichiarazione infedele, portabandiera della nouvelle vague legislativa. L’opzione percorsa con i d.lgs. 128/2015 e 158/2015 è, dunque, nel segno della sussidiarietà: il diritto penale è chiamato ad intervenire solo per sanzionare particolari forme di evasione di imposta, caratterizzate su un duplice piano qualitativo (immutatio veri ontologica) e quantitativo (superamento delle soglie di punibilità). Tale presupposto spiega la terza e conclusiva dicotomia: la scelta tra un diritto penale giurisprudenziale di lotta o delle garanzie. Riprendendo la concettualizzazione di autorevole dottrina (112), il diritto penale di lotta affonda le proprie radici nelle politiche criminali di matrice
(112) Sul concetto di “diritto penale di lotta”, anche al fine di tracciare una linea di confine con il diverso paradigma del “diritto penale del nemico”, resta fondamentale M. Donini, Diritto penale di lotta. Ciò che il dibattito sul diritto penale del nemico non deve limitarsi a esorcizzare, in Studi quest. crim., 2007, 55 ss.; per una critica a tale impostazione, tra gli altri, A. Cavaliere, Diritto penale “del nemico” e “di lotta”: due insostenibili legittimazioni per una differenziazione, secondo tipi d’autore, della vigenza dei principi costituzionali, in Crit.
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europea, in cui i testi normativi fanno costantemente riferimento alla “lotta” a “fenomeni” criminali, e si distingue nettamente dal diritto penale come forma di giustizia e di garanzia per il reo (113). Segnatamente, il diritto penale di lotta «costituisce una radicalizzazione delle concezioni strumentali del diritto» (114), in cui «lo scopo, però, oltre a quello specifico della singola incriminazione (…), è nello stesso tempo la vittoria contro un “fenomeno” dannoso o pericoloso» (115); in questa prospettiva, «l’autore dei fatti, il trasgressore, è l’avversario che esprime o rappresenta in modo contingente il fenomeno contro il quale gli organi pubblici useranno le armi del diritto. Il “diritto” è dunque per gli organi pubblici, mentre i trasgressori sono destinatari di un’azione di contrasto» (116). Uno strumento chiave per il diritto penale di lotta è l’ermeneutica giuridica: «è tutta la storia dell’interpretazione estensiva e di quella analogica in malam partem a insegnarcelo. Si fa analogia per combattere un fenomeno, e in modo più elegante si dice di “colmare una lacuna” o meglio di “non creare una lacuna”, di “prestare una tutela efficace, effettiva, coerente” a certi interessi o di “ubbidire al dovere di fedeltà comunitaria”» (117). Nella nozione di diritto penale giurisprudenziale di lotta possono inscriversi le decisioni creatrici della “simulazione della cattiva volontà”, in cui viene tradito il principio cardine del garantismo penale, ovvero il principio di legalità: «utilizzare il diritto come un’arma contro un fenomeno significa che la regola è uno strumento per neutralizzare situazioni ad essa esterne, e, dunque, al di fuori della sua portata definitoria» (118). Del resto, i concetti di “lotta all’evasione” o di “lotta all’elusione” sono di uso comune non solo nel linguaggio politico e legislativo (119), ma anche
dir., 2006, 4, 295 ss.; M. Pavarini, La giustizia penale ostile: un’introduzione, in Studi quest. crim., 2007, 14 ss. (113) M. Donini, Diritto penale di lotta, cit., 55. (114) Ivi, 59. (115) Ivi, 60. (116) Ibidem. (117) M. Donini, Diritto penale di lotta, cit., 76. (118) Ivi, 61-62. (119) È frequente ritrovare l’espressione “lotta all’evasione” nei discorsi in Parlamento oltre che in documenti ufficiali: a mero titolo esemplificativo si consideri da ultimo il documento di studi pubblicato dall’omonimo Servizio della Camera dei Deputati lo scorso 27 settembre 2019, intitolato proprio “Lotta all’evasione” (consultabile alla pagina https://www.camera.it/ temiap/documentazione/temi/pdf/1104478.pdf
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nei discorsi di esponenti di spicco della magistratura (120) e trovano spazio persino in dottrina, proprio nel tentativo di legittimare la rilevanza penale di condotte elusive (121). Al contrario, il rispetto delle fondamentali garanzie del diritto penale, fortemente poste in tensione dalle forzature ermeneutiche cui è ricorsa la giurisprudenza in relazione ai confini della dichiarazione infedele, richiede una compressione del raggio d’azione della sanzione criminale e una rinuncia ad una “guerra” a tutto campo a forme di diminuzione dell’imposta autoliquidata. Così, anche sotto questo aspetto, la rilevanza penale dell’elusione si dimostra solo la punta dell’iceberg al di sotto della quale si celano alcuni snodi cruciali della post-modernità penalistica.
Alex Ingrassia
(120) Basti considerare che il Procuratore della Repubblica di Milano, dott. Francesco Greco, ha individuato nell’evasione fiscale la prima emergenza criminale per l’Italia (https:// www.ilfattoquotidiano.it/2019/08/31/versiliana-2019-greco-sulla-lotta-allevasione-200miliardi-nelle-cassette-di-sicurezza/5421251/). (121) Un esempio fulgido si ritrova in S. Finocchiaro, L’elusione fiscale nella riforma dei reati tributari: i nuovi soliti sospetti, in A. Gullo - F. Mazzacuva (a cura di), Ricchezza illecita ed evasione fiscale. Le nuove misure penali in prospettiva europea, Bari, 2016, 168; in senso critico, in generale, sull’idea di un diritto penale di lotta all’evasione, G. Flora, Le recenti modifiche in materia penale tributaria: nuove sperimentazioni del “diritto penale del nemico”?, in Dir. pen. proc., 2012, 16 ss.; per una critica specifica al diritto penale di lotta all’elusione, per tutti, F. Consulich, Lo statuto penale, cit., 444.
Rubrica di diritto europeo a cura di Piera Filippi
Corte Giustizia UE, sentenza 10 luglio 2019, causa C-26/18; Pres. J.-C. Bonichot, rel. Safjan Obbligazione doganale – Iva all’importazione – Differente fatto generatore – Differente luogo di insorgenza dell’obbligazione – Introduzione irregolare nel territorio doganale europeo – Ingresso del bene nel circuito commerciale
L’obbligazione doganale all’importazione sorge nel Paese membro in cui si realizza la sottrazione al controllo doganale e l’irregolare introduzione del bene estero nel territorio dell’Unione europea. Tale violazione non è sufficiente per l’insorgenza dell’Iva all’importazione, ove sia accertato che il bene ha fatto ingresso in uno stato, per essere immediatamente trasportato a destinazione in un altro paese europeo; in tale ipotesi, l’obbligazione inerente l’Iva all’importazione sorge in tale ultimo Stato. (1) (Omissis) Sentenza 1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’articolo 2, paragrafo 1, lettera d), e dell’articolo 30 della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto (GU 2006, L 347, pag. 1; in prosieguo: la «direttiva IVA»). 2 La domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia sorta tra la Federal Express Corporation Deutsche Niederlassung (in prosieguo: la «FedEx») e lo Hauptzollamt Frankfurt am Main (Ufficio principale delle dogane di Francoforte sul Meno, Germania; in prosieguo: l’«Ufficio principale delle dogane tedesco»), in merito all’obbligo di assolvimento dell’imposta sul valore aggiunto (IVA) in Germania in seguito alla nascita di un’obbligazione doganale all’importazione dovuta a violazioni della normativa doganale commesse sul territorio di tale Stato membro. Contesto normativo Diritto dell’Unione Il regolamento (CEE) n. 2913/92
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3 Il regolamento (UE) n. 952/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 ottobre 2013, che istituisce il codice doganale dell’Unione (GU 2013, L 269, pag. 1, e rettifica in GU 2013, L 287, pag. 90), ha abrogato e sostituito il regolamento (CEE) n. 2913/92 del Consiglio, del 12 ottobre 1992, che istituisce un codice doganale comunitario (GU 1992, L 302, pag. 1), con effetto a decorrere dal 1o maggio 2016. Tuttavia, tenuto conto della data dei fatti del procedimento principale, il regolamento n. 2913/92, come modificato dal regolamento (CE) n. 1791/2006 del Consiglio, del 20 novembre 2006 (GU 2006, L 363, pag. 1; in prosieguo: il «codice doganale»), resta applicabile nella specie. 4 L’articolo 40 del codice doganale così recitava: «Le merci che entrano nel territorio doganale della Comunità sono presentate in dogana dalla persona che le introduce in tale territorio o, se del caso, dalla persona che assume la responsabilità del trasporto delle merci ad introduzione avvenuta, fatta eccezione per i beni trasportati su mezzi di trasporto che si limitano ad attraversare le acque territoriali o lo spazio aereo del territorio doganale della Comunità senza fare scalo all’interno di tale territorio. La persona che presenta le merci fa riferimento alla dichiarazione sommaria o alla dichiarazione in dogana precedentemente presentata al riguardo». 5 Ai sensi del successivo articolo 50: «In attesa di ricevere una destinazione doganale, le merci presentate in dogana acquisiscono la posizione, non appena avvenuta la presentazione, di merci in custodia temporanea. Queste merci sono denominate in seguito “merci in custodia temporanea”». 6 Il successivo articolo 91, paragrafo 1, lettera a), così disponeva: «Il regime di transito esterno consente la circolazione da una località all’altra del territorio doganale della Comunità: a) di merci non comunitarie, senza che tali merci siano soggette ai dazi all’importazione e ad altre imposte, né alle misure di politica commerciale». 7 A termini dell’articolo 202, paragrafi 1 e 2, del codice medesimo: «1. L’obbligazione doganale all’importazione sorge in seguito: a) all’irregolare introduzione nel territorio doganale della Comunità di una merce soggetta a dazi all’importazione, oppure b) quando si tratti di merce collocata in zona franca o in deposito franco, alla sua irregolare introduzione in un’altra parte di detto territorio. Ai sensi del presente articolo, per introduzione irregolare s’intende qualsiasi introduzione effettuata in violazione degli articoli da 38 a 41 e dell’articolo 177, secondo trattino. 2. L’obbligazione doganale sorge al momento dell’introduzione irregolare». 8 Il successivo articolo 203, paragrafi 1 e 2,così disponeva: «1. L’obbligazione doganale all’importazione sorge in seguito:
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– alla sottrazione al controllo doganale di una merce soggetta a dazi all’importazione. 2. L’obbligazione doganale sorge all’atto della sottrazione della merce al controllo doganale». La direttiva IVA 9 Ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 1, lettera d), della direttiva IVA: «Sono soggette all’IVA le operazioni seguenti: (…) le importazioni di beni». 10 L’articolo 30 della medesima direttiva stabilisce quanto segue: «Si considera “importazione di beni” l’ingresso nella Comunità di un bene che non è in libera pratica ai sensi dell’articolo 24 del trattato. Oltre all’operazione di cui al primo comma, si considera importazione di beni l’ingresso nella Comunità di un bene in libera pratica proveniente da un territorio terzo che fa parte del territorio doganale della Comunità». 11 Il successivo articolo 60 così dispone: «L’importazione di beni è effettuata nello Stato membro nel cui territorio si trova il bene nel momento in cui entra nella Comunità». 12 A termini del successivo articolo 61: «In deroga all’articolo 60, se un bene che non è in libera pratica è vincolato, al momento della sua entrata nella Comunità, ad uno dei regimi o ad una delle situazioni di cui all’articolo 156 o ad un regime di ammissione temporanea in esenzione totale dai dazi all’importazione o ad un regime di transito esterno, l’importazione del bene è effettuata nello Stato membro nel cui territorio il bene è svincolato da tali regimi o situazioni. Analogamente, se un bene che è in libera pratica è vincolato al momento della sua entrata nella Comunità ad uno dei regimi o ad una delle situazioni di cui agli articoli 276 e 277, l’importazione del bene è effettuata nello Stato membro nel cui territorio il bene è svincolato da tali regimi o situazioni». 13 L’articolo 70 della direttiva de qua prevede quanto segue: «Il fatto generatore dell’imposta si verifica e l’imposta diventa esigibile nel momento in cui è effettuata l’importazione di beni». 14 Ai sensi del successivo articolo 71: «1. Quando i beni sono vincolati, al momento della loro entrata nella Comunità, ad uno dei regimi o ad una delle situazioni di cui agli articoli 156, 276 e 277, o ad un regime di ammissione temporanea in esenzione totale dai dazi all’importazione o di transito esterno, il fatto generatore dell’imposta si verifica e l’imposta diventa esigibile soltanto nel momento in cui i beni sono svincolati da tali regimi o situazioni. Tuttavia, quando i beni importati sono assoggettati a dazi doganali, prelievi agricoli o imposte di effetto equivalente istituiti nell’ambito di una politica comune, il
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fatto generatore dell’imposta si verifica e l’imposta diventa esigibile nel momento in cui scattano il fatto generatore e l’esigibilità dei predetti dazi o prelievi. 2. Qualora i beni importati non siano assoggettati ad alcuno dei dazi o prelievi di cui al paragrafo 1, secondo comma, gli Stati membri applicano le disposizioni vigenti in materia di dazi doganali, per quanto riguarda il fatto generatore dell’imposta e la sua esigibilità». Normativa tedesca 15 L’articolo 1 dell’Umsatzsteuergesetz (legge relativa all’imposta sulla cifra d’affari), del 21 febbraio 2005 (BGBl. 2005 I, p. 386), nel testo applicabile ai fatti del procedimento principale (in prosieguo: l’«UStG»), intitolato «Operazioni imponibili», così dispone al suo paragrafo 1, punto 4: «Sono soggette all’imposta sulla cifra d’affari le operazioni seguenti: (…) 4. le importazioni di beni sul territorio nazionale (…) (imposta sulla cifra d’affari all’importazione); (…)». 16 L’articolo 13 dell’UStG, intitolato «Nascita dell’imposta», al paragrafo 2 così recita: «All’imposta sul valore aggiunto all’importazione si applica l’articolo 21, paragrafo 2». 17 Il successivo articolo 21, intitolato «Norme particolari per l’imposta sulla cifra d’affari all’importazione», al paragrafo 2 prevede quanto segue: «Ai fini dell’imposta sul valore aggiunto all’importazione si applicano per analogia le norme sui dazi». 18 L’articolo 14 della EinfuhrumsatzsteuerBefreiungsverordnung (regolamento federale relativo all’esenzione dall’imposta sulla cifra d’affari all’importazione), dell’11 agosto 1992 (BGBl. 1992 I, pag. 1526), nel testo applicabile ai fatti del procedimento principale, intitolato «Rimborso o sgravio», così prevede, al suo paragrafo 1: «L’imposta sulla cifra d’affari all’importazione è rimborsata o rimessa nei casi previsti dagli articoli 235-242 del codice doganale, e le dette disposizioni nonché le relative disposizioni di applicazione sono applicabili per analogia». Procedimento principale e questioni pregiudiziali 19 Nel gennaio 2008 la FedEx provvedeva al recapito di beni provenienti da Israele, Messico e Stati Uniti (in prosieguo: i «beni in questione»), soggetti a dazi all’importazione, a diversi destinatari situati in Grecia, la loro destinazione finale. Tali beni venivano trasportati per via aerea in 18 partite distinte (in prosieguo: i «18 lotti»), fino a Francoforte sul Meno (Germania), dove venivano collocati su altro aeromobile ai fini del trasporto in Grecia. 20 Con lettera 23 ottobre 2008, l’ufficio doganale dell’aeroporto di Atene (Grecia) informava l’ufficio doganale principale tedesco che le 18 partite erano state trasportate in Grecia in violazione della normativa doganale.
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21 A fronte di tali informazioni, l’ufficio doganale principale tedesco rilevava che per 14 delle 18 partite non era stata effettuata, in Germania, la presentazione in dogana prevista dall’articolo 40 del codice doganale e che, conseguentemente, le partite medesime erano state introdotte nel territorio doganale dell’Unione europea in modo irregolare. Esso riteneva quindi che, in applicazione dell’articolo 202 del codice doganale, l’irregolare introduzione di tali partite avesse fatto sorgere un’obbligazione doganale all’importazione. 22 Per 3 delle 18 partite, l’ufficio principale delle dogane tedesco considerava che i beni in questione si trovassero in custodia temporanea al loro arrivo all’aeroporto di Francoforte sul Meno, che fossero stati trasportati ad Atene senza essere stati sottoposti al regime di transito comunitario esterno e che, di conseguenza, fossero stati rimossi dal luogo di deposito senza autorizzazione. Quanto all’ultima partita, veniva rilevato che l’invio dei beni ad Atene era stato preceduto da un regime di transito esterno debitamente verificato da Parigi (Francia) a Francoforte sul Meno, ma che tali beni erano stati parimenti rimossi dal luogo di deposito senza autorizzazione. Per questi quattro lotti, l’ufficio doganale principale tedesco riteneva che il mancato rispetto della normativa doganale avesse fatto sorgere un’obbligazione doganale all’importazione, ai sensi dell’articolo 203 del codice doganale. 23 Di conseguenza, per i 18 lotti, il 30 novembre e il 1o dicembre 2010 l’ufficio principale delle dogane tedesco emanava, nei confronti della FedEx, cinque avvisi di liquidazione di dazi doganali all’importazione. L’ufficio medesimo rilevava che, per tali lotti, l’IVA all’importazione, qualificata in Germania come imposta sulla cifra d’affari all’importazione, era dovuta in quanto, conformemente all’articolo 21, paragrafo 2, dell’UStG, le norme applicabili ai dazi doganali si applicano a tale imposta per analogia. 24 La FedEx provvedeva al versamento dei dazi doganali all’importazione e dell’imposta sulla cifra d’affari all’importazione risultante dai cinque avvisi. Tuttavia, nel mese di novembre 2011, la società medesima ne chiedeva il rimborso sostenendo, in particolare, che essi sarebbero stati oggetto di una doppia riscossione, contraria al diritto dell’Unione. A tal riguardo, la FedEx affermava che i beni in questione, dopo essere arrivati ad Atene, sono stati immessi in libera pratica e che i dazi all’importazione, ivi compresa l’imposta sulla cifra d’affari greca all’importazione, erano stati riscossi. Con avvisi del 9 e del 10 aprile 2013, l’ufficio doganale principale tedesco respingeva le domande di rimborso. 25 A seguito delle procedure di reclamo avviate dalla FedEx avversi i detti avvisi, l’amministrazione finanziaria modificava le aliquote fiscali applicate in due dei cinque avvisi del 30 novembre e 1o dicembre 2010 procedendo al parziale rimborso dell’imposta sulla cifra d’affari all’importazione relativa agli avvisi medesimi. 26 Il 13 giugno 2014 la FedEx impugnava i cinque avvisi di liquidazione dinanzi allo Hessisches Finanzgericht (Tribunale tributario dell’Assia, Germania). All’udienza la FedEx desisteva dalla domanda con riguardo ai dazi doganali all’importazione,
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insistendo peraltro sulla domanda relativa al rimborso dell’imposta sulla cifra d’affari all’importazione. A tal riguardo, sosteneva che tale imposta è un’imposta sul consumo che grava solo sui beni che vengono effettivamente consumati sul territorio nazionale. Poiché i beni in questione sarebbero stati trasportati in Grecia senza essere stati inseriti nel circuito economico tedesco, essi non potrebbero essere considerati importati nel territorio tedesco e non potrebbero essere oggetto di un’operazione imponibile a tal titolo. 27 Il giudice del rinvio s’interroga conseguentemente se, a seguito delle violazioni della normativa doganale menzionate supra ai punti 21 e 22, i quali hanno generato un’obbligazione doganale all’importazione, l’IVA all’importazione sia sorta in Germania per quanto riguarda i beni in questione. 28 A tal riguardo, il giudice del rinvio si richiama al punto 65 della sentenza del 2 giugno 2016, Eurogate Distribution e DHL Hub Leipzig (C226/14 e C228/14, EU:C:2016:405), che fa riferimento alla nozione di «rischio» di ingresso nel circuito economico dell’Unione europea. Il giudice medesimo rileva che, sebbene tale nozione debba essere applicata, nei casi in cui i beni introdotti nel territorio dell’Unione non siano stati assoggettati ad un regime doganale o siano usciti dal regime al quale siano stati sottoposti, occorrerebbe esaminare unicamente se sussista il rischio che i beni stessi facciano ingresso nel circuito economico dell’Unione nel territorio d’imposta dello Stato membro considerato. Nel caso di specie, si dovrebbe ritenere che tale rischio esistesse, in quanto i beni in questione, per effetto della loro irregolare introduzione o della loro sottrazione al controllo doganale, non erano o non erano appunto più soggetti a tale vigilanza. In particolare, i beni irregolarmente introdotti nel territorio doganale dell’Unione avrebbero potuto essere rimossi in modo inosservato e costituire oggetto di un consumo non tassato. 29 Tuttavia, alla luce delle sentenze della Corte del 1o giugno 2017, Wallenborn Transports (C571/15, EU:C:2017:417), e del 18 maggio 2017, Latvijas Dzelzceļš (C154/16, EU:C:2017:392), il giudice del rinvio si chiede se l’IVA all’importazione, per quanto riguarda lo Stato membro nel cui territorio fiscale siano stati introdotti beni nell’Unione, sorga soltanto quando i beni stessi entrino nel circuito economico dell’Unione anche nel territorio di giurisdizione fiscale di detto Stato membro. In tale ipotesi, tale ingresso nel circuito economico si verificherebbe solo quando i beni siano stati immessi in libera pratica in applicazione della legislazione doganale, o quando una violazione della normativa doganale induca a presumere che i beni siano entrati nel circuito economico stesso e abbiano potuto essere oggetto di consumo o di uso. Solo queste due situazioni sarebbero costitutive di un’«importazione» ai sensi della direttiva IVA. 30 In tale contesto, lo Hessisches Finanzgericht (Tribunale tributario dell’Assia) ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
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«1) Se un’importazione ai sensi degli articoli 2, paragrafo 1, lettera d), e 30, della direttiva [IVA] presupponga che il bene introdotto nel territorio dell’Unione entri nel circuito economico della stessa o se sia sufficiente il mero rischio che ciò accada. 2) Qualora un’importazione presupponga l’entrata del bene nel circuito economico dell’Unione: Se un bene introdotto nel territorio dell’Unione entri nel circuito economico della stessa già per il fatto di non essere stato vincolato, in violazione della normativa doganale, ad alcun regime ai sensi dell’articolo 61, primo comma, della direttiva o – pur essendo stato in un primo momento vincolato a tale regime – di essere stato successivamente svincolato per effetto di una condotta doganale erronea o se, a fronte di una condotta erronea, si debba poter presumere, ai fini dell’entrata nel circuito economico dell’Unione, che, per effetto della condotta medesima, il bene sia entrato nel suddetto circuito economico nel territorio fiscale dello Stato membro in cui sia stata commessa la condotta de qua e che esso abbia potuto essere consumato o utilizzato». “omissis” Sulla seconda questione 38 Con la seconda questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 2, paragrafo 1, lettera d), e l’articolo 30 della direttiva IVA debbano essere interpretati nel senso che, laddove un bene venga introdotto nel territorio dell’Unione, sia sufficiente che il bene sia stato oggetto di violazioni alla normativa doganale in un determinato Stato membro, da cui sia derivata un’obbligazione doganale all’importazione, per considerare che il bene medesimo sia entrato nel circuito economico dell’Unione in tale Stato membro. 39 Al riguardo, va osservato che, a termini dell’articolo 60 della direttiva IVA, l’importazione di beni è effettuata nello Stato membro nel cui territorio si trova il bene nel momento in cui entra nella Comunità. Il successivo articolo 61, primo comma, prevede che, in deroga all’articolo 60, se un bene che non è in libera pratica è vincolato, al momento della sua entrata nella Comunità, ad uno dei regimi o ad una delle situazioni di cui all’articolo 156 della direttiva medesima o ad un regime di ammissione temporanea in esenzione totale dai dazi all’importazione o ad un regime di transito esterno, l’importazione del bene è effettuata nello Stato membro nel cui territorio il bene è svincolato da tali regimi o situazioni. 40 L’articolo 70 della direttiva IVA stabilisce il principio per cui il fatto generatore si verifica, e l’imposta diventa esigibile, nel momento in cui è effettuata l’importazione di beni. Così, il successivo articolo 71, paragrafo 1, prevede in particolare, al primo comma, che, quando i beni sono vincolati, sin dalla loro entrata nell’Unione, al regime di deposito doganale, il fatto generatore e l’esigibilità dell’imposta si verifichino soltanto nel momento in cui i beni sono svincolati da tale regime. Tuttavia, il secondo comma di tale articolo disciplina il caso particolare in cui, per i beni importati assoggettati a dazi doganali, prelievi agricoli o imposte di effetto equivalente istituite nell’ambito di una politica comune, il fatto generatore dell’imposta si verifica, e l’im-
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posta diventa esigibile, nel momento in cui scattano il fatto generatore e l’esigibilità dei dazi medesimi. 41 Secondo costante giurisprudenza della Corte, l’IVA all’importazione e i dazi doganali presentano caratteristiche essenziali comparabili, in quanto traggono origine dal fatto dell’importazione nell’Unione e della susseguente introduzione nel circuito economico degli Stati membri. Questo parallelismo trova, tra l’altro, conferma nel fatto che l’articolo 71, paragrafo 1, secondo comma, della direttiva IVA autorizza gli Stati membri a collegare il fatto generatore e l’esigibilità dell’IVA all’importazione a quelli dei dazi doganali (sentenze del 28 febbraio 1984, Einberger, 294/82, EU:C:1984:81, punto 18, e dell’11 luglio 2013, Harry Winston, C273/12, EU:C:2013:466, punto 41). 42 Nel caso di specie, dalla decisione di rinvio emerge che, nel corso del 2008, diversi beni provenienti da Stati terzi, soggetti a dazi all’importazione, sono stati trasportati fino in Germania, per essere poi trasportati in Grecia, la loro destinazione finale. Alcuni di questi beni non sono stati presentati alle autorità doganali tedesche e, di conseguenza, sono stati introdotti illegalmente nel territorio doganale dell’Unione. Gli altri beni sono stati introdotti regolarmente nel territorio doganale dell’Unione, in Germania, ma sono stati successivamente trasportati in Grecia sottraendoli al controllo doganale, in violazione della normativa doganale. 43 È pacifico che, nel procedimento principale, tali violazioni della normativa doganale hanno fatto sorgere in Germania un’obbligazione doganale all’importazione a carico della società che ha introdotto i beni in questione nel territorio dell’Unione, sul fondamento, rispettivamente, dell’articolo 202, paragrafo 1, lettera a), e dell’articolo 203, paragrafo 1, del codice doganale. 44 Secondo la giurisprudenza della Corte, l’esigibilità dell’IVA può aggiungersi all’obbligazione doganale qualora si possa ritenere, sulla base della condotta illecita da cui è sorta l’obbligazione, che le merci in questione siano entrate nel circuito economico dell’Unione e possano quindi essere state oggetto di consumo, configurandosi pertanto l’assoggettamento all’IVA (sentenze del 2 giugno 2016, Eurogate Distribution e DHL Hub Leipzig, C226/14 e C228/14, EU:C:2016:405, punto 65, nonché del 1o giugno 2017, Wallenborn Transports, C571/15, EU:C:2017:417, punto 54). 45 In particolare, la Corte ha dichiarato che, qualora i beni soggetti a dazi all’importazione siano sottratti al controllo doganale all’interno di una zona franca e non si trovino più in tale zona, si deve presumere, in via di principio, che essi siano entrati nel circuito economico dell’Unione (sentenza del 1o giugno 2017, Wallenborn Transports, C571/15, EU:C:2017:417, punto 55). 46 Nel caso di specie, da un lato, per quanto riguarda i beni in questione che non sono stati regolarmente introdotti nel territorio doganale dell’Unione, alla luce della giurisprudenza richiamata supra ai punti 44 e 45, occorre presumere, in linea di principio, che essi siano entrati nel circuito economico dell’Unione nel territorio dello Stato membro nel quale sono stati introdotti nell’Unione, vale a dire in Germania.
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47 D’altra parte, quanto ai beni in questione sottratti al controllo doganale, essi sono svincolati, in Germania, dal regime doganale in cui erano collocati. Pertanto, tenuto conto della giurisprudenza richiamata supra ai punti 44 e 45, occorre altresì presumere che essi siano entrati nel circuito economico dell’Unione in tale Stato membro. 48 Tuttavia, come rilevato dall’avvocato generale ai paragrafi 56 e 68 delle proprie conclusioni, tale presunzione può essere confutata se è dimostrato che, pur in presenza delle violazioni della normativa doganale, con conseguente nascita di un’obbligazione doganale all’importazione nello Stato membro in cui le violazioni stesse sono state commesse, un bene sia stato introdotto nel circuito economico dell’Unione nel territorio di un altro Stato membro, nel quale tale bene era destinato al consumo. In tal caso, il fatto generatore dell’IVA all’importazione si verifica in tale altro Stato membro. 49 Orbene, dalla decisione di rinvio risulta che, se è vero che i beni in questione sono stati oggetto di violazione della normativa doganale sul territorio tedesco, essi sono stati unicamente trasbordati da un aereo all’altro su tale territorio. 50 È pur vero che, a causa di tali violazioni della normativa doganale, i beni in questione, che si trovavano materialmente nel territorio dell’Unione, non erano più sotto la sorveglianza delle autorità doganali tedesche, le quali erano private della possibilità di controllare la circolazione dei beni medesimi. 51 Tuttavia, nel caso di specie, dalla decisione di rinvio risulta che è stato accertato che i beni in questione sono stati trasportati in Grecia, la loro destinazione finale, dove sono stati consumati. 52 Pertanto, in una causa come quella principale, le violazioni della normativa doganale verificatesi sul territorio tedesco non costituiscono, di per sé, un elemento sufficiente per ritenere che i beni in questione siano entrati nel circuito economico dell’Unione in Germania. 53 Ciò detto, si deve rilevare che, in una fattispecie del genere, i beni sono entrati nel circuito economico dell’Unione nello Stato membro della loro destinazione finale e che, di conseguenza, l’IVA all’importazione relativa a tali beni è sorta in tale Stato membro. 54 Alla luce delle suesposte considerazioni, occorre rispondere alla seconda questione posta dichiarando che l’articolo 2, paragrafo 1, lettera d), e l’articolo 30 della direttiva IVA devono essere interpretati nel senso che, qualora un bene venga introdotto nel territorio dell’Unione europea, non è sufficiente che il bene sia stato oggetto di violazioni della normativa doganale in un determinato Stato membro, da cui sia derivata in tale Stato un’obbligazione doganale all’importazione, per ritenere che il bene sia entrato nel circuito economico dell’Unione nello Stato membro medesimo, qualora sia accertato che lo stesso bene è stato trasportato in un altro Stato membro, la sua destinazione finale, ove è stato consumato, ragion per cui l’imposta sul valore
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aggiunto all’importazione relativa al bene de quo sorge allora solo in detto altro Stato membro. Sulle spese 55 Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione. Per questi motivi, la Corte (Prima Sezione) dichiara: L’articolo 2, paragrafo 1, lettera d), e l’articolo 30 della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, devono essere interpretati nel senso che, qualora un bene venga introdotto nel territorio dell’Unione europea, non è sufficiente che il bene sia stato oggetto di violazioni della normativa doganale in un determinato Stato membro, da cui sia derivata in tale Stato un’obbligazione doganale all’importazione, per ritenere che il bene sia entrato nel circuito economico dell’Unione nello Stato membro medesimo, qualora sia accertato che lo stesso bene è stato trasportato in un altro Stato membro, la sua destinazione finale, ove è stato consumato, ragion per cui l’imposta sul valore aggiunto all’importazione relativa al bene de quo sorge allora solo in detto altro Stato membro. (Omissis)
(1) Dazi doganali e Iva all’importazione: presupposti impositivi distinti secondo la Corte di giustizia europea. Sommario: 1. Inquadramento nella normativa internazionale. – 2. Immissione in libera pratica. – 3. Immissione al consumo: l’Iva all’importazione. – 4. L’evoluzione nella giurisprudenza della Corte di Cassazione. – 5. La sentenza in commento.
Se l’obbligazione doganale all’importazione sorge nel Paese membro in cui si è realizzata la sottrazione al controllo doganale, il presupposto dell’Iva si realizza nel Paese da cui il bene è entrato nel circuito economico dell’Unione, sue destinazione finale, ove è stato consumato. The customs debt arises in the Member State where the goods entered in the economic network of the European Union, which is supposed to be the State where the infringement was committed, whereas the VAT is due in the State where they were intended for consumption.
La sentenza in commento offre l’opportunità di svolgere alcune riflessioni sull’autonomia giuridica dei dazi rispetto all’Iva dovuta all’atto dell’importazione, evidenziando come tali tributi siano connotati da presupposti impositivi distinti e dunque da tempi e luoghi di realizzazione differenti.
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L’affermazione di principio che merita di essere approfondita riguarda la scissione tra il presupposto dell’obbligazione doganale, per cui è sufficiente la violazione delle norme sulla vigilanza doganale, e il fatto generatore dell’Iva, che si verifica invece con la concreta immissione nel circuito economico. Il caso esaminato dal giudice remittente si incentra su beni che sono stati introdotti nell’Unione, accedendo in un primo momento al territorio tedesco per via aerea, per poi essere successivamente trasferiti in Grecia a bordo di un altro aereo, in partenza dallo stesso aeroporto. Il quesito posto alla Corte di giustizia intende chiarire il luogo in cui è sorto il presupposto dell’Iva all’importazione, in considerazione del fatto che l’amministrazione doganale tedesca si riteneva legittimata all’esazione dell’imposta, posto che la normativa tedesca prevede che all’Iva all’importazione si applichi, per analogia, la normativa doganale. Poiché identica richiesta dell’Iva veniva avanzata anche dall’amministrazione doganale greca, la contribuente ha eccepito una doppia imposizione. Il giudice del rinvio illustra le due possibili soluzioni interpretative: la prima, che si richiama alla sentenza Eurogate distribution (1) collega il presupposto impositivo al “rischio” di ingresso del bene nel circuito economico, come sufficiente a determinare l’insorgenza dell’Iva. La seconda soluzione interpretativa, che si richiama ad altre due recenti pronunce della Corte di giustizia (2) si incentra, invece, sull’effettivo ingresso del bene estero nel circuito economico, di talché l’Iva all’importazione sorgerebbe soltanto quando i beni entrano concretamente nel territorio di giurisdizione fiscale di uno stato membro. Secondo il principio di diritto espresso dai giudici europei, se l’obbligazione doganale all’importazione sorge nello stato membro in cui è avvenuta l’introduzione irregolare, ma è dimostrato che il bene è stato introdotto nel circuito economico dell’Unione nel territorio di un altro paese membro, il fatto generatore dell’Iva all’importazione si verifica in quest’ultimo.
(1) Corte Giustizia, 2 giugno 2016, causa C-226/14, in www.curia.europa.eu. (2) Corte Giustizia, 1° giugno 2017, causa C-571/15, Wallenborn Transports; Corte Giustizia, 18 maggio 2017, causa C-154/16, Latvijas Dzelzceļš, in www.curia.europa.eu.
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Parte quarta
1. Inquadramento nella normativa internazionale. – Occorre muovere, per l’inquadramento della nozione di “obbligazione doganale”, dalla sua definizione nella disciplina internazionale. Una nozione ampia di fiscalità doganale ricomprende sia tutti i tributi che lo stato ha il potere di esigere, in forza di una legge, in rapporto a operazioni doganali che, più in generale, “gli oneri di qualunque natura imposti o comunque connessi con l’importazione o l’esportazione” (art. I, Accordo Wto). Secondo tale generalissima accezione, i tributi doganali possono avere a oggetto prestazioni pecuniarie di natura tributaria e obbligazioni di natura diversa, dovute anche come corrispettivo per un servizio specifico reso all’operatore doganale dall’amministrazione, quale, ad esempio, il magazzinaggio, l’apposizione di contrassegni sulle merci importate, nonché i rimborsi di spese di vigilanza o di imballaggi (3). Inoltre, tra gli oneri fiscali dovuti in corrispondenza di un’operazione doganale, vi sono, oltre i dazi, l’Iva, le accise, i diritti di monopolio e ogni altra imposta o sovrimposta di consumo a favore dello stato (4). L’Accordo Wto non fornisce una definizione di dazio doganale, contenuta invece all’interno del Wto Dictionary of trade policy terms (5). Quest’ultimo indica i dazi come quegli oneri riscossi al confine su merci che entrano o che, meno di frequente, lasciano il paese. Distinte dal dazio sono le ’“imposte interne riscosse in dipendenza di un’operazione doganale”, definite quali “oneri statali applicati alla vendita di beni e servizi all’interno di un territorio doganale” (6). Rientrano, pertanto,
(3) Tali oneri, che sono imposti dagli stati all’atto o in dipendenza di un’importazione o di un’esportazione, devono essere limitati all’ammontare del costo del servizio reso e non possono mai rappresentare una protezione indiretta dei prodotti nazionali o una imposizione di natura tributaria (art. VIII, Accordo Wto). (4) Sulla distinzione fra diritti doganali, diritti di confine e dazi doganali, si vedano: G. Falsitta, Corso istituzionale di diritto tributario, Padova, 2019, 569ss; S. Fiorenza, Dogana e tributi doganali, in Dig. IV, disc. priv. sez. comm., V, Torino, 1990, 117; ci si permette di rinviare anche a S. Armella, Note sulla nozione di dazio doganale nella disciplina interna e internazionale, in Riv. dir. trib., 2001, 27; Id., Diritto doganale dell’Unione europea, Milano, 2017. (5) “Customs duties: charges levied at the border on goods entering or, much less often, leaving the country”, v. W. Goode, World trade organization: dictionary of trade policy terms, 4th ed, CUP 2003, 90. (6) Wto ibidem. Nulla, invece, è riportato per la voce “other internal charges”, i quali potrebbero essere ricompresi, secondo alcuni autori, nel concetto di “para-tariffs”, che ricomprenderebbe sia i dazi doganali che le imposizioni fiscali interne. Wto, Negotiation group on
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nella nozione di “imposte interne” riscosse all’atto dell’importazione, i tributi di natura generale, applicati in relazione al consumo di beni e servizi all’interno del territorio doganale. È chiaro il richiamo alle imposte generali sul consumo, gravanti (a differenza dei dazi) anche sui servizi, definizione che, in ambito europeo, si attaglia perfettamente all’Iva. 2. Immissione in libera pratica. – Tutti gli elementi essenziali dell’obbligazione doganale (presupposti, soggetti passivi, base imponibile, aliquote) sono disciplinati in maniera uniforme dal legislatore europeo (art. 28 Trattato sul funzionamento dell’Unione europea). L’immissione in libera pratica rappresenta un regime doganale definitivo, che determina l’attribuzione della posizione di merce unionale ai beni di origine extraeuropea, modificandone lo status doganale (art. 201, codice doganale dell’Unione europea, regolamento UE n. 952/2013, in prosieguo CDU). L’obbligazione sorge in relazione all’immissione in libera pratica di beni non unionali, ossia di quei beni che non hanno le caratteristiche proprie delle merci di origine europea ovvero hanno perduto tale posizione doganale (7) (art. 5, n. 24, CDU). L’immissione in libera pratica si realizza, nelle operazioni svolte secondo i parametri legali, con la presentazione della merce in dogana accompagnata dalla relativa dichiarazione, il completamento delle procedure di svincolo e l’assolvimento dei dazi doganali: soltanto attraverso tali adempimenti, i prodotti esteri acquisiscono lo status di merce unionale (8). Il realizzarsi del presupposto determina una serie di conseguenze giuridiche: la nascita dell’obbligazione doganale e il debito del soggetto passivo; il credito dell’Amministrazione e il contestuale obbligo, per lo stato membro esattore, di riscuotere il dazio e riversarlo all’Unione, nonché il corrispondente diritto dell’Unione alla riscossione delle risorse proprie.
market access, table of contents of the inventory of non-tariff measures–Note by the Secretariat, TN/MA/S/5/Rev.1, 28 novembre 2003, 44, e B.M. Hoekman, M.M. Kostecki, The political economy of the world trading system, Oxford, 2001, 151. (7) Sono merci unionali quelle ottenute nel territorio doganale dell’Unione, quelle introdotte nel territorio doganale dell’Unione e già immesse in libera pratica, nonché le merci ottenute o prodotte nel territorio comunitario, esclusivamente da merci originarie (o da estere, ma già immesse in libera pratica, art. 5, n. 23, CDU). (8) Tale concetto è espresso dall’art. 201 CDU, secondo il quale le merci non unionali destinate al mercato dell’Unione, o al consumo privato nell’ambito del territorio doganale, sono vincolate al regime di immissione in libera pratica.
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Parte quarta
I dazi doganali non costituiscono, come in passato, oneri dovuti per il mero superamento di un confine politico, ma si ricollegano a una fattispecie complessa, connotata anche dall’immissione in libera pratica, ossia dalla volontà di destinare, al circuito commerciale europeo o all’uso finale interno, beni originari di paesi terzi. Ciò consente di comprendere la ratio dell’esenzione di determinate movimentazioni che avvengono nell’ambito del territorio doganale (transito esterno) e di determinati servizi (deposito e trasformazione dei prodotti in regime di perfezionamento attivo) relativi a beni fisicamente presenti nel territorio doganale, ma, con una fictio iuris, considerati come merci allo «stato estero», relativamente alle quali difetta il presupposto di applicazione dei dazi. Coloro che introducono merci non unionali nel territorio doganale europeo hanno l’obbligo di condurle presso l’ufficio doganale (art. 135 CDU) dove i beni rimangono sotto vigilanza per tutto il tempo necessario a determinare la loro posizione doganale e non possono essere rimossi, senza l’autorizzazione dell’ufficio competente (art. 134 CDU). La volontà di immettere in libera pratica la merce deve risultare da apposita dichiarazione da trasmettere in dogana. Il presupposto impositivo sorge al momento dell’accettazione della dichiarazione in dogana (art. 77, par. 2, CDU); nelle operazioni svolte secondo la procedura legale descritta, la nascita dell’obbligazione doganale è collegata al perfezionamento della procedura di svincolo, che consente l’immissione in libera pratica (9). Il caso esaminato dalla sentenza in commento si inquadra, invece, nel perimetro delle “introduzioni irregolari” di merce non unionale nel territorio doganale europeo. Il mancato rispetto della procedura legale descritta, senza che sussista una causa di forza maggiore o una situazione di caso fortuito, integra una “introduzione irregolare” di merce estera e comporta anch’essa la nascita dell’obbligazione doganale (art. 137 CDU). La Corte di giustizia europea ha, in più occasioni, definito l’introduzione irregolare come l’importazione di merci che non rispetta le fasi previste dal codice doganale e dunque, essenzialmente, la
(9) Si veda A. Pezzinga, La legge doganale, Milano, 1992, 80, dove l’autore chiarisce che «il presupposto dell’obbligazione doganale è determinato in relazione alla destinazione delle merci al consumo entro o fuori del territorio doganale, introducendo così un’importante innovazione al principio fondamentale sul quale si basava il precedente sistema della legge, il sorgere cioè del diritto dello stato alla percezione dell’imposta, al passaggio della linea doganale».
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presentazione in dogana, obbligo che incombe sul responsabile dell’introduzione e ha per fine di assicurare che le autorità doganali siano informate, non solo dell’arrivo delle merci, ma anche «di tutti i dati pertinenti relativi al tipo di articolo o di prodotto di cui trattasi, nonché alla quantità di tali merci» (10). L’introduzione di beni esteri nel territorio doganale in violazione delle norme inerenti la vigilanza e l’obbligo di preventiva dichiarazione di immissione in libera pratica integra, di per sé, un autonomo presupposto impositivo dei dazi. La ratio dell’imponibilità delle ipotesi di sottrazione al controllo è di evitare che merci extra-Ue finiscano per essere introdotte, senza essere sdoganate, nel circuito economico degli stati membri, rischio che (ad esempio nel caso di transito, ove vi sia l’omessa presentazione dei beni all’Ufficio doganale di destinazione) non può dirsi escluso (11). Il codice doganale dell’Unione fornisce una definizione di obbligazione doganale, come «l’obbligo di una persona di corrispondere l’importo del dazio all’importazione o all’esportazione applicabile a una determinata merce in virtù della normativa doganale in vigore» (art. 5, n. 18, CDU). I dazi sono prestazioni patrimoniali imposte, stabilite dall’Unione europea secondo la tariffa doganale comune, la quale prevede la classificazione dei prodotti in circa 13.000 voci distinte, catalogate in base alle loro caratteristiche oggettive. La liquidazione dei dazi secondo la tariffa comune, adottata con regolamento dell’Unione europea, assicura un trattamento daziario uniforme da parte di tutti gli stati membri. L’obbligazione doganale rappresenta una risorsa propria dell’Unione europea ed è accertata, liquidata e riscossa, secondo regole comuni, dalle autorità doganali di ciascuno stato membro.
(10) Corte Giustizia, 3 marzo 2005, causa C-195/03, Ministerie van Financiлn contro Merabi Papismedov e altri, in Racc., 2005, 1667. Si vedano anche Corte Giustizia, 20 gennaio 2005, causa C-300-03, Honeywell Aerospace, in Racc., 2003, 689; Corte Giustizia, 29 aprile 2004, causa C-222/01, British American Tobacco, in Racc., 2001, 4683; Corte Giustizia, 11 luglio 2002, causa C-371/99, Liberexim BV contro Staatssecretaris van Financiлn, in Racc., 2002, 6227. Come affermato dalla Corte Giustizia, la presentazione delle merci introdotte nella Comunità (art. 5, punto 12, CDU), riguarda tutte le merci, comprese quelle occultate in un nascondiglio creato a tale scopo. L’obbligo di presentazione grava sia sul conducente principale che sul secondo conducente di un autotreno che abbiano introdotto tali prodotti, anche qualora questi ultimi siano stati occultati nel veicolo a loro insaputa. Corte Giustizia, 4 marzo 2004, cause riunite C-238/02, Hauptzollamt Hamburg-Stadt contro Kazimieras Viluckas e C-246/02, Ricardas Jonusas, in Racc., 2004, 2114. Nello stesso senso, Corte Giustizia, 1° febbraio 2001, causa C-66/99, D. Wandel, in Racc., 2001, 873. (11) Corte Giustizia, 29 ottobre 2015, causa C-319/14, B & S Global Transit Center, in www.curia.europa.eu.
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3. Immissione al consumo: l’Iva all’importazione. – Di interesse non solo teorico è l’individuazione del confine che distingue i dazi doganali rispetto alle imposte generali sul consumo, anch’esse riscosse al momento dell’importazione, in relazione ai beni provenienti da paesi terzi. L’operatore può scegliere che determinati prodotti rappresentino oggetto soltanto di immissione in libera pratica, ma non anche di immissione al consumo, intesa come ingresso delle merci nel circuito economico. Tipici esempi sono l’introduzione dei beni esteri in un deposito Iva, per cui viene effettuata l’immissione in libera pratica, ma non l’immissione in consumo o l’ipotesi di utilizzo del c.d. “regime 42”, che si realizza in presenza di un’immissione in libera pratica con successiva accensione del regime di trasferimento intra Ue e assolvimento dell’Iva a destinazione. In tale ultima ipotesi, l’esenzione dall’Iva all’importazione è subordinata all’attuazione, da parte dell’importatore, di una cessione intracomunitaria, a sua volta esente, ai sensi dell’articolo 138 della direttiva Iva (12). Secondo la giurisprudenza della Corte, l’Iva, essendo per sua natura un’imposta sul consumo, si applica ai beni e ai servizi che entrano nel circuito economico dell’Unione e che possono essere oggetto di utilizzo (13). Com’è noto, l’Iva all’importazione è parte dell’imposizione generale sui consumi e garantisce la neutralità del sistema comune rispetto all’origine dei beni, al fine di sottoporre le merci importate ai medesimi oneri fiscali dei prodotti nazionali analoghi (14). Come sottolineato dalla Corte di Cassazione, la natura di tributo interno non ne consente l’assimilazione ai dazi, anche se l’Iva all’importazione condivide con essi la caratteristica di trarre origine dall’importazione nell’Unione e dalla successiva introduzione nel circuito economico degli stati membri. Il fatto generatore e l’esigibilità dell’Iva all’importazione sono collegati a quelli dei dazi, ma rimangono distinti (15). È soltanto con l’assolvimento dell’Iva che il prodotto estero, immesso in libera pratica, può essere inserito nel circuito commerciale nazionale. Con il versamento dell’Iva all’atto dell’importazione (con le stesse aliquote previste
(12) Corte Giustizia, sentenze 14 febbraio 2019, C-531/17, Vetsch Int. Transporte GmbH e 20 giugno 2018, Enteco Baltic, causa C-108/17, punto 47, in www.curia.europa.eu. (13) Corte Giustizia, 18 maggio 2017, C-154/16 cit., punto 69. (14) Corte Giustizia, 25 febbraio 1988, causa C-299/86, Rainer Drexl, in Racc., 1988, 1213, punto 9. (15) Cass., 5 agosto 2016, n. 16509, in www.cortedicassazione.it.
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per le cessioni interne) è garantita la parità di trattamento prevista sui prodotti esteri rispetto a quelli nazionali (16) e l’attuazione del principio di tassazione nel paese di destinazione. 4. L’evoluzione nella giurisprudenza della Corte di Cassazione. – La giurisprudenza europea, fin dalle prime pronunce, ha rimarcato la distinzione tra dazi e Iva, stabilendo che “i dazi all’importazione non includono l’Iva da riscuotere per l’importazione dei beni” e che l’Iva all’importazione è “parte integrante di un regime generale di tributi interni” (17). Grande risonanza ha avuto l’ormai celebre sentenza della Corte di giustizia nel caso Equoland (18), con cui i giudici europei hanno chiarito che l’Iva all’importazione – pur essendo liquidata e riscossa con modalità operative analoghe a quelle dei diritti doganali – non rappresenta un dazio, bensì un tributo interno. Meno nota, ma parimenti importante, è poi la sentenza con cui la Corte di giustizia ha escluso che il rappresentante indiretto in dogana possa essere considerato debitore dell’Iva all’importazione, non rientrando la stessa nel concetto di obbligazione doganale (19). Negli ultimi anni, la Corte di Cassazione ha superato un contrasto interpretativo imputabile alla definizione contenuta nel Testo unico della legge doganale (20) – che ascrive alla nozione di “diritto di confine” l’Iva assolta all’atto dell’importazione – e che ha spesso condotto a un’assimilazione del tributo ai dazi doganali veri e propri (21). Per alcuni anni si è assistito a una
(16) L’art. 3, par. 2, Wto stabilisce che i prodotti provenienti dal territorio di uno stato contraente, importati nel territorio di altro stato, non sono soggetti, direttamente o indirettamente, a imposte o ad altri oneri interni di qualsiasi natura, superiori a quelli applicati, direttamente o indirettamente, ai prodotti domestici. (17) Corte Giustizia, 5 maggio 1982, causa C-15/81, Schul; Corte Giustizia, 17 maggio 2001, cause C-322/99 e C-323/99, Fischer e Brandenstein; Corte Giustizia, 25 febbraio 1988, causa C-299/86, Drexl. (18) Corte di Giustizia, 17 luglio 2014, causa C-272/13, Equoland scarl; nello stesso senso, anche 29 luglio 2010, causa C-248/09, Pakora Pluss. (19) Corte di Giustizia, 2 giugno 2016, cause C-226-228/14, Eurogate, cit. (20) L’art. 34 Tuld (Testo unico della legge doganale, d.p.r. 43 del 1973), indica che, tra i «diritti doganali», ossia quelli che la dogana è tenuta a riscuotere in forza di una legge, in relazione alle operazioni doganali, si distinguono come «diritti di confine» i dazi di importazione, i prelievi e le altre imposizioni all’importazione previsti dai regolamenti comunitari, i diritti di monopolio, le sovrimposte di confine e ogni altra imposta o sovrimposta di consumo a favore dello stato. (21) E invero, ancora nel 2010, la Corte di Cassazione ha definito l’Iva all’importazione come un tributo distinto e autonomo rispetto all’Iva interna, affermando che «è dato ricavare
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chiara divergenza esegetica tra la sezione tributaria della Corte di Cassazione e la sezione penale, che già dal 2010 (22) riconosceva l’autonomia dei dazi rispetto all’Iva, come peraltro già sostenuto da una parte della dottrina (23). A seguito del dibattito successivo alla sentenza Equoland, tale conflitto interpretativo è stato superato e attualmente l’indirizzo della Suprema Corte è chiaro nell’affermare che “l’Iva all’importazione, richiesta dallo Stato italiano, ha natura di tributo interno” (24). La riconosciuta autonomia dei due tributi (dazio e Iva) determina anche rilevanti conseguenze sul perimetro della responsabilità solidale del rappresentante indiretto e sulla competenza all’accertamento. Sotto il primo profilo, com’è noto, la complessità e il tecnicismo delle procedure internazionali rendono necessaria la figura del rappresentante doganale, al fine di consentire alle imprese di delegare il rapporto con la Dogana a professionisti qualificati ed esperti nelle operazioni di importazione ed esportazione. In ambito doganale la rappresentanza può essere diretta, se il rappresentante agisce in nome e per conto di terzi, oppure indiretta, se il rappresentante agisce per conto dell’importatore, ma in nome proprio. Mentre in caso di rappresentanza diretta il rappresentante non è responsabile dei maggiori diritti dovuti all’importazione, in caso di rappresentanza indiretta è prevista, in via generale, una responsabilità solidale del dichiarante con il soggetto per conto del quale è effettuata l’operazione doganale (art. 77 CDU). L’importatore è legato al rappresentante indiretto da un obbligo di solidarietà passiva paritetica, secondo il quale, nell’ipotesi in cui, per una medesima ob-
una chiara scelta del legislatore nel senso di configurare l’Iva all’importazione come un diritto doganale nell’ampia accezione prevista dall’art. 34, d.p.r. 43 del 1973», sovrapponendo la nozione di “dazio doganale” a quella di il “diritto doganale” o “tributo doganale” e ritenendo applicabile la disciplina propria del primo all’Iva all’importazione. Cass., 8 ottobre 2001, n. 12333; Cass., 19-21 maggio 2010, nn. da 12262 a 12581. (22) Cass. pen., sez. III, 4 maggio 2010, n. 16860; nello stesso senso, Id., 9 gennaio 2013, n. 1172; 15 gennaio 2013, n. 1863; 12 luglio 2012, n. 34526, in www.cortedicassazione.it. (23) A. Comelli, Iva comunitaria e Iva nazionale. Contributo alla teoria generale dell’imposta sul valore aggiunto, Padova, 2000, p. 779; G. Gaffuri, Lezioni di diritto tributario, Padova, IV ed., 463; G. Falsitta, Manuale di diritto tributario, parte speciale, Padova, 2008, p. 705; ci si permette di rinviare anche a S. Armella, I dazi doganali, in Corso di diritto tributario internazionale, coordinato da V. Uckmar, III ed., Padova, 1055; Id., L’Iva all’importazione è distinta e autonoma rispetto all’Iva interna?, in Corr. trib., 2010, 2824. (24) Cass., 24 luglio 2019, n. 19987; Cass., 17 maggio 2019, n. 13384; Cass., 10 maggio 2019, n. 12506; Cass.,13 luglio 2018, nn. 18654 e 18652; Cass., 6 giugno 2018, n. 14548; Cass., 6 aprile 2018, n. 8473, tutte in www.cortedicassazione.it.
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bligazione, esistano più debitori, essi sono responsabili in solido al pagamento dell’importo dovuto (art. 84 CDU). Una volta chiarita la natura dell’Iva all’importazione e la sua esclusione dal perimetro dei “dazi doganali”, ne discende, come rilevante conseguenza, l’assenza dell’obbligo di responsabilità solidale del rappresentante indiretto in dogana, che è circoscritto ai soli dazi doganali. Con la sentenza 24 settembre 2019, n. 23674, la Corte di Cassazione ha affermato, sulla base delle considerazioni sopra esposte, l’illegittimità della pretesa dell’Iva, avanzata nei confronti dello spedizioniere doganale. La Suprema Corte ha dunque chiarito che la responsabilità solidale del rappresentante indiretto in dogana può operare soltanto per l’obbligazione doganale in senso proprio, ossia con riferimento ai dazi all’importazione, nozione che non include l’Iva da riscuotere per l’immissione in consumo. Un secondo profilo di interesse è correlato alla competenza all’attività di accertamento doganale e dell’Iva. Nella recente pronuncia del 24 settembre scorso, la Corte di Cassazione, avanzando in tale distinzione, sottolinea che, nell’ipotesi di irregolare utilizzo dell’istituto del deposito Iva, la competenza all’accertamento dell’Iva inerente l’immissione in consumo di beni esteri fa capo all’Agenzia delle entrate, trattandosi di merce ormai immessa in libera pratica e che ha già esaurito le verifiche di competenza dell’Agenzia delle dogane. 5. La sentenza in commento. – Nella stessa linea di approfondimento è la pronuncia in commento, in cui la Corte di giustizia sottolinea la divaricazione tra i due presupposti, ove sia dimostrato che, pur in presenza della violazione della normativa doganale con conseguente nascita dell’obbligazione daziaria nello Stato membro in cui è realizzata l’introduzione, il bene sia poi introdotto nel circuito economico dell’Unione per il tramite di un paese membro diverso. Si è rilevato che, per le merci soggette ai dazi, l’obbligazione sorge in seguito all’inosservanza di uno degli obblighi stabiliti dalla disciplina doganale, in relazione all’introduzione di merci estere nel territorio dell’Unione o alla loro sottrazione alla vigilanza di confine (artt. 202-204 codice doganale comunitario, ora recepiti nell’art. 79 CDU). In precedenti pronunce, i giudici europei hanno chiarito che, qualora i beni siano sottratti al controllo doganale all’interno di una zona franca o non si trovino più in tale area, si presume che
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siano entrati nel circuito economico dell’Unione, di talché si realizza il presupposto dei dazi (25). La sentenza in commento, esaminando i presupposti d’imposta, più esplicitamente scinde l’obbligazione doganale dal fatto generatore dell’Iva rilevando che, mentre per la prima assume rilievo la mera possibilità astratta di un’irregolare immissione in libera pratica, per l’Iva il fatto generatore si verifica, e l’imposta diventa esigibile, nel momento in cui si realizza la concreta introduzione dei beni nel circuito economico (art. 70 della direttiva Iva) (26). La nozione di “importazione”, ai fini dell’Iva, non coincide con l’omonima nozione doganale, giacchè in campo doganale il legislatore ha assimilato, con presunzione legale assoluta, il rischio di introduzione nel mercato comune all’effettiva immissione in libera pratica, di guisa che l’obbligazione viene a esistenza anche per la mera sottrazione dei beni alla vigilanza. Nel settore Iva, invece, la definizione del legislatore europeo è significativamente diversa: ai sensi dell’art. 70 della direttiva Iva “Il fatto generatore dell’imposta si verifica e l’imposta diventa esigibile nel momento in cui è effettuata l’importazione dei beni”. Secondo la specifica definizione contenuta nella direttiva Iva, si considera “importazione di beni” l’ingresso nell’Unione di un bene che non è in libera pratica ai sensi dell’art. 24 del Trattato (art. 30 direttiva Iva). La nozione di “ingresso” (la sesta direttiva Iva similmente parlava di “entrata”, ex art 7, paragrafo 1, lett. a) implica un reale ed effettivo inserimento dei beni nel circuito commerciale interno e non la semplice sottrazione al controllo, cui non consegua un concreto consumo. Anche l’articolo 60 della direttiva presta rilievo a circostanze fattuali, nello stabilire che “l’importazione di beni è effettuata nello stato membro nel cui territorio si trova il bene nel momento in cui entra nella Comunità”. La normativa tedesca, già oggetto della sentenza Eurogate (27) e Wallenborn Transports (28) non traspone in maniera puntuale la direttiva Iva, giacché
(25) Corte Giustizia, 1° giugno 2017, causa C-571/15, punto 55. (26) Per un approfondimento sul presupposto dell’Iva si rimanda a P. Filippi, I profili oggettivi del presupposto dell’Iva, in Dir. prat. trib., 2009, II, 199; P. Filippi, A. Di Pietro, Imposta sul valore aggiunto, Bologna, 1979; P. Filippi, Valore aggiunto (imposta sul), in Enc. dir., vol. XLVI, Milano, 1993; F. Gallo, Profili di una teoria dell’imposta sul valore aggiunto, Roma, 1974; J. Lang, I presupposti costituzionali dell’armonizzazione del diritto tributario in Europa, in Trattato di diritto tributario, diretto da A. Amatucci, vol. I, 1994; B. Terra, P. Wattel, European tax law, New York, 2008, p. 293. (27) Corte Giustizia, sentenza 2 giugno 2016, cit. (28) Corte Giustizia, 1° giugno 2017, Wallenborn Transports, cit.
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semplicisticamente dispone che, ai fini Iva, si applicano per analogia le norme sui dazi, le quali attribuiscono rilievo non al concreto ingresso nel territorio del paese membro, bensì alla più ampia situazione di sottrazione al controllo doganale. Secondo la giurisprudenza della Corte, l’esigibilità dell’Iva può aggiungersi all’obbligazione doganale qualora si possa ritenere, sulla base della condotta illecita da cui è sorta l’obbligazione, che le merci in questione siano effettivamente entrate nel circuito economico dell’Unione e possano quindi essere state oggetto di consumo, configurandosi solo in tale ipotesi l’assoggettamento all’imposta (29). La divergenza più significativa tra i due presupposti va ravvisata nel fatto che, in materia doganale, il legislatore europeo ha stabilito una presunzione assoluta, dunque non suscettibile di prova contraria, disponendo che, in caso di inosservanza della normativa doganale sulla vigilanza le merci si considerano inserite nel circuito economico dell’Unione. Diversamente, in ambito Iva, il legislatore europeo ha stabilito una presunzione soltanto relativa, dunque superabile con prova contraria, che i beni sottratti a vigilanza doganale si considerino effettivamente introdotti nel mercato comune. Tale presunzione può essere superata, com’è avvenuto nel caso esaminato dalla Corte, dimostrando che le merci non sono entrate in tale circuito. Nella fattispecie oggetto della sentenza in commento, i beni esteri sono stati introdotti nello spazio europeo – in violazione della normativa doganale – attraverso il territorio tedesco, ove sono stati soltanto trasbordati da un aereo a un altro, senza possibilità di essere integrati nel circuito economico. La ricostruzione svolta dalle autorità doganali ha consentito di appurare che, dalla Germania, i beni in questione sono stati trasportati in Grecia, loro destinazione finale, dove sono stati consumati. La sentenza in esame inquadra di conseguenza anche il tema della competenza territoriale all’accertamento, tra il Paese in cui i beni sono soltanto transitati e quello in cui sono stati consumati, mettendo così in luce la distinzione dei due presupposti impositivi.
(29) Corte Giustizia, 2 giugno 2016, Eurogate Distribution e DHL Hub Leipzig, cause C-226/14 e C-228/14, punto 65; 1° giugno 2017, Wallenborn Transports, causa C-571/15, punto 54.
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Parte quarta
Poiché il fatto generatore dei dazi è dato dall’immissione in libera pratica (30) di merce estera, è a tale momento e in tale luogo che nasce l’obbligazione doganale. Nelle operazioni sorte a seguito di inosservanza, il CDU stabilisce che il momento in cui sorge il debito è quello in cui non è soddisfatto l’obbligo, la cui inadempienza fa sorgere l’obbligazione doganale (31). Il luogo in cui sorge l’obbligazione doganale e in cui si incardina la competenza all’attività di accertamento è quello in cui si verifica il fatto che la fa sorgere (art. 87, par. 2, CDU) (32). Come ha chiarito la pronuncia che si annota, l’esatta determinazione, nello spazio, del luogo in cui è sorta l’obbligazione assume rilievo ai fini dell’individuazione della legittimazione attiva all’azione di accertamento. Ove l’importazione coinvolga più stati membri, legittimata all’azione di accertamento, anche a posteriori, è l’autorità “competente per il luogo in cui è sorta, o si ritiene che sia sorta” l’obbligazione, ai fini dell’art. 101 CDU. Sulla base di tali regole, la Corte di giustizia ha chiarito che il fatto generatore dell’obbligazione doganale è venuto a esistenza in Germania, in quanto luogo in cui si è realizzata la sottrazione al controllo doganale della merce, che avrebbe dovuto essere presentata in dogana prima di essere introdotta nel territorio europeo. La competenza a contabilizzare l’importo dei dazi spetta, pertanto, al paese nel cui territorio è sorta l’obbligazione doganale (33). Facendo seguito ad alcuni precedenti meno argomentati, con la pronuncia in esame la Corte di giustizia fornisce un corretto inquadramento dei differenti
(30) Sul tema R. Portale, Iva – imposta sul valore aggiunto 2019, Milano 2019, 1926, definisce l’immissione in libera pratica come una prima fase dell’introduzione dei beni all’interno dell’Unione europea e afferma che l’Iva viene assolta successivamente con l’effettiva importazione. Immissione in libera pratica ed immissione in consumo sono, pertanto, istituti tra loro diversi, come già rilevato da A. Fantozzi, Il diritto tributario, 2004, 949 ss.; F. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario, vol. II, Torino, 232 ss. (31) In proposito B. Terra, P. Wattel, op. cit., 224 ss. (32) La norma attuale riprende la previgente, applicata dalla sentenza ratione temporis (art. 215 cdc), secondo cui la competenza all’azione di accertamento va individuata in relazione al luogo in cui è sorta l’obbligazione doganale. La norma, infatti, stabiliva che, in caso di introduzione irregolare, la competenza per l’azione di accertamento fosse individuata nel luogo in cui la merce è stata introdotta nel territorio doganale (33) Sul punto, v. anche Cass., 16 novembre 2018, n. 29535, che ha recentemente affrontato il tema della competenza territoriale all’accertamento, in relazione a merce sottratta al controllo doganale, stabilendo che l’obbligazione doganale sorge nello stato in cui è stata commessa la “prima infrazione” (art. 215 codice doganale comunitario), in www.cortedicassazione. it.
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presupposti d’imposta, ricordando che l’Iva all’importazione e i dazi doganali presentano caratteristiche essenziali comparabili (in quanto traggono origine dal fatto dell’importazione nell’Unione e dalla susseguente introduzione nel circuito economico degli Stati membri) ma non coincidenti (34). Si ha coincidenza del luogo e del tempo dei due presupposti, soltanto qualora si possa ritenere, esaminando la condotta illecita da cui è sorta l’obbligazione, che le merci in questione siano materialmente entrate nel circuito economico dell’Unione e possano quindi essere state oggetto di consumo, configurandosi pertanto anche l’assoggettamento all’Iva (35). Tuttavia, la presunzione di coincidenza tra il fatto generatore dei dazi e dell’Iva può essere confutata se è dimostrato che, pur in presenza della violazione doganale, i beni siano introdotti nel circuito economico dell’Unione dal territorio di un altro stato membro. L’introduzione irregolare nel territorio europeo non è sufficiente a determinare il fatto generatore dell’Iva, se è accertato che in tale paese è avvenuto solo un temporaneo ingresso fisico, senza il concreto consumo del bene o il suo inserimento nel circuito economico. In tal caso, il fatto generatore dell’Iva all’importazione si verifica in tale altro Stato membro. La sentenza in questione stabilisce, pertanto, che gli artt. 2, par. 1, lett. d), e 30 della direttiva Iva devono essere interpretati nel senso che, qualora un bene venga introdotto nel territorio dell’Unione europea, non è sufficiente che esso sia stato oggetto di violazione della normativa doganale in un determinato Stato membro. Se l’obbligazione doganale all’importazione sorge nel Paese membro in cui si è realizzata la sottrazione al controllo doganale, il presupposto dell’Iva si realizza nel paese da cui il bene è entrato nel circuito economico dell’Unione, sua destinazione finale, ove è stato consumato.
Sara Armella
(34) Sul tema F. Tesauro, Compendio di diritto tributario, Milano, 2016, 455, ribadisce che l’Iva non è un diritto di confine, ma un tributo interno. Nello stesso senso G. Falsitta, Manuale di diritto tributario, parte speciale, Padova, 2008, 705. (35) Corte Giustizia, 2 giugno 2016, cit., punto 65; nello stesso senso Corte Giustizia, 1° giugno 2017, cit., punto 54.