Pomezia Notizie 2021_12

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Dicembre 2021

pesare il senso della sofferenza. Forse nemmeno lui ci crede, così che preferisce affidare il suo pensiero totalmente in inglese, non a tutti comprensibile (Poesia 23, Drawing the end). La mente, si sa, corre veloce, annulla tempi e distanze, decostruisce e ricostruisce a proprio desiderio, fin quando non si prenda consapevolezza delle proprie illusioni e poi riprende a sognare. Il Poeta dentro di sé tiene a freno i suoi “demoni”, vuole cantare della vita degli altri. Così, dopo la prima metà del percorso poetico, aggiunge sapore in versione parzialmente romanesca, alla maniera del mordente Trilussa, con le frecciatine al Potere e al malcostume, per esempio nel “fammi grattare” (Poesia 43). Ma è molto tenero nell’abbandono ai sentimenti intimi, così: “Quando le mani tremano, / senti ogni battito del cuore, / i pensieri non si sentono. / Ecco, quello è amore.” (Poesia 54). Ricorda il genitore per dirgli “ancora, ti voglio bene, papà.” (Poesia 55); volge un pensiero ai caduti in guerra; eleva un inno all’arte nelle sue molteplici espressioni; e riesce a spogliare il tragico dei fatti di cronaca nera con toni leggeri. Carlo Trimarchi lo vediamo crescere sotto i nostri occhi attraverso la lettura. Usa frequente la ripetizione nelle diverse forme retoriche; a volte usa la rima (baciata, alternata, interna); generalmente scrive poesie di ampio respiro, metrica a organetto. Spiega: “Leggendo capirai, caro lettore, / che col passare del tempo, / v’è stata un’evoluzione. / Nella scrittura… In quella che sento.” (Poesia 72, eponima). Così sperimenta la composizione geometrica con la forma piramidale di un albero (Poesia 69); e, congedandosi, compone un tautogramma, consistente in parole che iniziano tutte con la stessa lettera. In chiusura abbiamo pagine destinate a quattro indirizzi del web che invitano ad alcune sue riflessioni, basti prendere a caso un titolo qualunque. Tito Cauchi

IMPERIA TOGNACCI VOLLI, E VOLLI SEMPRE… La speculazione estetica e simbolica nella poesia di Vincenzo Rossi Postfazione di Francesco D’Episcopo; Genesi Editrice, 2021, pagg. 84, € 15,00 Un saggio agile, incentrato solo su alcune delle tante opere poetiche di Vincenzo Rossi (Cerro al Volturno, 7 giugno 1924 – ivi, 6 novembre 2013), limitato, in particolare, a I giorni dell’anima (1995) e Respiro dell’Erba/Voce delle Rocce (2001). I giorni dell’anima, è vero, racchiude ben cinque precedenti lavori del poeta molisano, ma

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l’investigazione risulta sempre parziale, sia perché non abbraccia tutta la poesia, sia perché ignora completamente la prosa. Vincenzo Rossi è poeta narrativo ed egli stesso riconosceva che nei suoi romanzi esiste più poesia che nei suoi stessi versi: “sono convinto che in molte pagine della mia narrativa c’è poesia più alta di quella che ho espresso nei versi”, confessava, in una intervista, ad Amerigo Iannacone. Molti i temi cantati da Rossi, anche se tutti ancorati al mondo agricolo-pastorale e ai monti del suo Molise, sicché potremmo definirlo un poeta e uno scrittore fermentato dalla ecologia. ”Nelle sue sillogi non c’è un filo conduttore – afferma la Tognacci -, ma una unità tematica divisa in nuclei: la memoria, l’amore per la terra e per tutte le creature, l’amore per la donna, il senso del mistero della vita e della morte, il tema del distacco”; e la “unità tematica” è proprio l’intimo trasporto verso la Natura. Per Vincenzo Rossi la poesia è libertà e non soltanto dello spirito e gli esseri più vicini alla vera libertà sono gli animali; da ciò la loro difesa nel lottare contro tutti coloro che gli animali oltraggiano e uccidono (“detesto – scrive rivolgendosi a Garcia Lorca – il clamore delle tue corride”) e il circondarsi di loro, il considerarli come figli; i suoi cani Lola, Ercole, Garibaldi, per esempio, vengono assunti a veri protagonisti dei suoi romanzi, dando a essi la parola, gli atteggiamenti, i pensieri, le meditazioni che sono prerogativa dell’uomo. Siamo in presenza, cioè, di ciò che la Tognacci definisce giustamente antropomorfismo. Negli ultimi anni, Vincenzo Rossi s’era praticamente asserragliato nella sua casa di Cerro al Volturno, quasi ritornando all’origine, a quando, fanciullo, aveva vissuto portando al pascolo gli animali; ma poi ha studiato, è stato per anni a contatto con gli allievi, ha frequentato città, ha partecipato alle lotte per rendere più giusto e civile il consorzio umano, con gli scritti e l’azione, “convinto che la poesia e l’arte debbano orientare positivamente l’uomo nel magma degli attuali eventi e nei rapidi cambiamenti della vita sociale”. Sebbene, come afferma la Tognacci, Rossi non sia “ascrivibile a nessuna corrente letteraria”, innegabile in lui è l’ascendenza dannunziana: “Quale fiume/mi porta stasera belati/tra macchie di giunchi/muggiti…”; “Ho risentito le tortore/nel bosco di tigli colorato/dai venti dell’aurora/e un’altra pietra scendere/sulle mie curve spalle”. Inutile nasconderlo: è lo stesso virente canto, quasi lo steso panico, anche se la Tognacci non è d’accordo. Quello del Rossi è un invito continuo “a rallentare i ritmi frenetici causati anche dal progresso


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