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Andrea Piscopo, compagno di viaggio, di Liliana Porro Andriuoli, pag
by Domenico
ANDREA PISCOPO
COMPAGNI DI VIAGGIO
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di Liliana Porro Andriuoli
COMPAGNI di viaggio è il titolo di un volumetto di Andrea Piscopo, un medico che lavora in Hospice, «una struttura di ricovero residenziale per il trattamento delle cure palliative1» di coloro che vengono comunemente definiti «malati terminali». È un medico, Andrea Piscopo, che ha concepito questo suo lavoro come una missione, alla quale si è dedicato con passione e profondo sentimento di umanità, trattando sempre i malati con cui è venuto in contatto, anche se non più destinati a guarire, con estremo rispetto e disponibilità: forse più precisamente con umana partecipazione; oltre che, ovviamente, con la competenza e la
1 Una cura si definisce palliativa quando non è volta a raggiungere l’obiettivo della guarigione completa da una malattia, ma tende a combattere i professionalità richieste da un medico in quelle circostanze.
In questo suo libro Piscopo ci presenta dieci malati che sono stati da lui curati fino al momento estremo della loro vita; fino a quando cioè, come si dice volgarmente, hanno emesso «l’ultimo respiro». E ci racconta, come dice Pasquale Giustiniani nella sua limpida ed esaustiva presentazione, «dieci storie di vita, dieci storie d’intimità, di passioni, di sguardi, di amicizie tra ammalati, famiglie di riferimento e operatori personali, che non soltanto dimostrano come si possa allungare la quantità di vita di persone altrimenti spacciate», ma forse, e soprattutto, ci spiega come si possa dare a quei loro ultimi giorni «una diversa qualità».
Le dieci persone che ci vengono qui presentate sono molto differenti tra loro, ma sono tutte molto ben caratterizzate e schiette nel loro presente come, d’altra parte, anche nel loro passato.
Si inizia con Ciro Russo, un barbone alto 1 metro e 90, dallo sguardo vivace, che è stato raccolto ai margini di una strada da un’ambulanza del 118 e ricoverato in Hospice. Affetto da un grave tumore polmonare, appare tuttora geloso della sua libertà e dimostra ancora una sua indomita fierezza.
Quando gli è possibile: e praticamente quando non è ricoverato in Hospice, mantiene la sua vecchia abitudine di «dormire all’aperto, guardando le stelle: oggi qua, domani là», sempre in luoghi diversi. Vive così con dignità lo stato avanzato della sua malattia, che purtroppo progredisce «in maniera rapida e severa».
Il secondo è Crescenzio, il «venditore di San Giuseppe», un paesino del Monte Somma, dove il giovane si recava ogni mattina per portare i capi di abbigliamento e la biancheria da vendere al mercato. Inizialmente Crescenzio si arrampicava faticosa-
sintomi divenuti ormai refrattari ad altri trattamenti clinici. (Wikipedia)
mente «sulle montagne di Avellino», pedalando con forza sulla sua bicicletta; successivamente si era potuto permettere l’acquisto di un’auto e alla sua attività, che si andava ingrandendo, si era associato anche il fratello. Si era poi sposato ed avevano avuto tre figli.
Quando la malattia lo colse aveva dovuto abbandonare il negozio aperto con il fratello, che costituiva l’unica fonte di reddito familiare. Ora purtroppo si è dovuto arrendere anche al male, ma il dolore odierno gli è mitigato dal ricordo dei giorni felici che un tempo ha vissuto; così come per i familiari il dolore per la sua scomparsa «è mitigato dal ricordo eccezionale della sua tenerezza».
El Said, il guerriero, non è italiano: è un malato albanese, dall’aspetto indomito, che è venuto a morire in Italia, dove si trovano ormai da tempo la moglie e le figlie, le quali, fedeli alle proprie tradizioni, ora intonano in coro per lui una vecchia nenia funebre in albanese. Egli aveva preferito restare da solo in Albania, seguitando a vivere in un paesino non lontano da Tirana; soltanto all’ultimo, allorché le sue condizioni di salute si erano ulteriormente aggravate, è venuto in Italia e si è unito alla famiglia.
La nipotina, che è molto affezionata al nonno, insiste per poterlo vedere per l’ultima volta, ma a causa della pandemia ciò le viene negato. L’unico desiderio del povero Said che invece viene esaudito è quello di poter mangiare ancora una volta un ricco piatto di maccheroni con polpettine. Un desiderio apparentemente inessenziale, ma che pur tuttavia ha rappresentato un momento importante della sua vita in Italia: il momento di inizio di un «dialogo» con il medico che l’aveva in cura nell’Hospice. Anche se, a causa della differenza di lingue esistente fra i due, quel «dialogo» è rimasto sempre un «dialogo» a monosillabi, da quel momento ha avuto inizio fra i due sicuramente un rapporto umano diverso. Said, infatti, non si mostrava più diffidente come i primi tempi, con il medico, ma stava cominciando a mostrargli la sua gratitudine «per le cure e l’assistenza che [da lui costantemente] riceveva».
Un altro degli ospiti della struttura dove lavorava il dottor Piscopo è stato Giuseppe, detto il Califfo (e siamo al quarto incontro). Giuseppe era un grande conquistatore di donne: viveva a Capri, facendo di giorno il piastrellista e distribuendo di notte baci e abbracci alle sue donne, «attratte dal suo fascino latino». Era un grande «affabulatore», arte con la quale incantava le sue prede. In Hospice partecipava assiduamente anche alle attività della palestra, dove era più facile incontrare l’ambiente femminile.
Ci informa Piscopo che negli ultimi giorni il respiro di Giuseppe «cominciava a diventare sempre più corto e faticoso. E lui, con lo sguardo smarrito, sembrava chiederci di stargli vicino, sicuro della nostra amicizia».
Giancarlo era un ex funzionario comunale affetto da una grave neoplasia. Veniva assistito dalla moglie, che aveva ricevuto il dottor Piscopo a casa e gliel’aveva affidato. Giancarlo era una persona mite e riservata: «sembrava immobile nella sua ormai rassegnata contezza di essere un malato perso e senza speranza». Gli avevano asportato una grossa neoplasia allo stomaco, ragione per cui gli avevano aperto la pancia, che ora sembrava un cratere.
Ma una mattina, allorché il dottore era entrato nella sua stanza aveva manifestato un desiderio: poter fumare una sigaretta. Era stata quella la prima volta che il dottor Piscopo aveva sentito parlare Giancarlo e l’interpretò come un buon segno! A quella richiesta fece infatti dopo poco seguito un’altra: quella di un «caffè preparato dalla moglie». Sentiva il desiderio di riprendere una sua vecchia abitudine: quella che gli aveva permesso di sbrigare il suo lavoro anche durante le ore pomeridiane.
«La speranza e la voglia di vivere erano tornate nella testa di Giancarlo», così come erano ritornate in quella degli altri componenti della famiglia, tutti alleggeriti dal minor numero di impegni che, grazie all’intervento dell’hospice, non gravava più ora sulle loro spalle.
Estroverso era invece il sesto degente, Pasquale, l’amico di tutti, sempre attorniato da molte persone che gli volevano bene e che lo chiamavano Lillo. Aveva uno sguardo dolce ed era sempre gentile con tutti. Lillo gestiva un ristorante nella zona flegrea, cui aveva badato sino all’ultimo. Sempre simpatico e spontaneo dava a tutti l’impressione di parlare con un amico di lunga data: «Era un uomo di altri tempi, che aveva fatto dell’accoglienza il valore aggiunto della sua vita».
È deceduto in una fredda notte di febbraio, ma pochi giorni prima era riuscito a comunicarci il suo senso di gratitudine per le nuove terapie antidolorifiche che praticavamo nel nostro Hospice e che lo liberavano dalla sofferenza del dolore che lo aggrediva costantemente.
Matteo faceva il camionista e guidava i grandi Tir. A causa delle sue precarie condizioni di salute, in seguito allo stato avanzato della malattia, aveva ormai smesso da anni di viaggiare sul suo «Tigre». Ora doveva trascorrere molte ore della giornata collegato ad una macchina dal momento che i suoi polmoni, ormai asfittici, non gli consentivano più di scambiare ossigeno: «anche pochi passi lo facevano cadere in una grave crisi respiratoria».
Di animo gentile, aveva sempre parole di gratitudine per tutti coloro che lo assistevano. Aveva avuto ancora un anno di vita, ma «a marzo», scrive il dottor Piscopo, «nella coda dell’inverno, una telefonata concitata della moglie mi comunicò che Matteo se ne era andato».
Giunto all’Hospice quando mancavano pochi giorni al Natale, Nandino (e siamo all’ottavo ospite) era ancora giovane e tutto dedito alla famiglia. Era gracile di costituzione ed aveva «un volto smunto» ed «un torace esile». Cercava di dare il minor fastidio possibile. Se ne andò in punta di piedi, così come era venuto, lasciando per ricordo a ciascuno di coloro che l’avevano assistito, un «gadget di metallo».
Olimpia aveva lo sguardo provocante di una vamp e «sembrava camminare sul set di un film di Fellini». Era stata un’insegnante di inglese e si ravvivava tutta se qualcuno le si rivolgeva parlando in questa lingua. Ricordava nel portamento la «Gradisca» di Amarcord. Collaborava attivamente alle cure che le venivano proposte. È uno dei malati dell’Hospice che si ricordano più volentieri.
Da ultimo conosciamo Tobia, il poeta, dai «grandi occhioni su un viso scavato», con un corpo tanto esile da poter contare le ossa dello scheletro. Faceva il fioraio e parlava con entusiasmo del suo lavoro: era lui a consigliare i clienti nella scelta dei fiori da comprare a seconda dell’occasione e della persona a cui erano destinati. Aveva un animo gentile e tutti lo avevano in simpatia. Ha lasciato di sé un grato ricordo.
Qui termina la serie dei malati di cui parla il dottor Piscopo nel suo libro, tutti emergenti con la loro netta individualità che li contraddistingue e che ce li fa amare: uomini tra gli uomini. E chiara emerge anche la meritoria attività dell’Hospice, nel quale Andrea Piscopo lavora (Hospice Villa Arianna Hospital) per rendere meno doloroso il distacco dal mondo di coloro che di volta in volta gli vengono affidati. Ed è certo un lavoro che si contraddistingue per il sentimento, grandemente meritorio, di alta umanità che lo conduce.
Liliana Porro Andriuoli
ANDREA PISCOPO: Compagni di viaggio (La Valle del Tempo editrice, Napoli 2022, pagg. 50, € 6,00)
CENERENTOLA
Cenerentola può ritenersi soddisfatta, ha trovato il suo principe partendo dalla cenere. Io non ho fate che mi sfiorino con bacchette magiche, non contatti col potere. Ho soltanto questi versi che l'anima scolpisce. Mi allaccio bene le scarpe per non rimanere a piedi nudi.
Lucio Zaniboni
Lecco