14 minute read
Recensioni
by Domenico
ROCCO SALERNO DOLCE, MISTERIOSA ESSENZA DELL’UNIVERSO
Advertisement
Macabor, Francavilla Marittima (CS) 2021, Pagg. 82, €12,00 Prefazione di Claudia
Emanuela Turco, postfazione di Antonio Spanuolo
Di rado si leggono parole affettuose, per un intero libro, colme di amore, specie verso un animale, nello specifico un gatto, come avviene per la silloge di Rocco Salerno, Dolce, misteriosa essenza dell’Universo:Bombolo rappresentato in copertina disteso su pavimento, nell’opera di Anna Venanzi. Il volumetto del poeta calabrese, residente a Fondi in provincia di Latina, senza che sembri esagerato, è paragonabile a un poema, un’unica narrazione interrotta solo per prendere respiro cinquanta volte nelle due sezioni:“Specchio dell’Universo”, anticipata da versi di Papa Paolo VI, Brina Maurer e F.M. Dostoevskij; e “Ma tu vivi per l’eternità”, anticipata da versi di Anatole France, Dario Bellezza. Due note di lettura introducono e concludono la fatica, integrandosi. Opera dedicata“a Rita Agresti e a quanti amano gli animali”.
Claudia Emanuela Turco nella prefazione dichiara di “conoscere Bambolo, il gatto claudicante protagonista di questo libro” amato, ovviamente, dall’Autore, e anche da molti altri che ne condividono spazi e oggetti in modo francescano. Spiega che il felino in oggetto per natura dimostra la sua gratitudine verso chi si cura di lui; ma un giorno, verso Natale, non si fa più vivo lasciando un dolore immenso. Mentre Antonio Spagnuolo nella postfazione afferma che “Rocco Salerno diviene il cantore di una strana inquietudine” proveniente dal rapporto di reciproco corteggiamento, con un gatto randagio. Inoltre, quanto alla struttura del volume vengono alternati componimenti brevi e lunghi “di un afflato prettamente lirico epigrammatico” riuscendo a creare un filo conduttore tra i vari momenti, in cui uomo e gatto hanno stabilito una sorta di comunione, commovente.
Leggiamo l’incipit di Dolce, misteriosa essenza dell’Universo: “Il gatto claudicante/se randagio o padronale-/ salvato dai malanni/ chiamato Bambolo/ ha una casa. //…// Si ritrae, / timoroso ancora/ di farsi accarezzare/ della ferinità degli umani.” Luogo di avvistamento è un cortile, forse condominiale o pubblico, ai piedi di un ulivo. Cortile divenuto un Eden, un loro paradiso, cioè di Rocco Salerno e del gatto azzoppato, indifeso e indeciso. Un luogo condiviso in cui si rivolge direttamente al gatto, il quale, mangiato il pasto, si comportava come se fosse rinato, come una sfinge egiziana, grato ma sempre guardingo, “anima francescana” riferito al felino, ma anche a sé stesso;e pure sotto lo sguardo di Girotto (altro gatto).
“Amato gatto, non allontanarti/ non perderti nelle quotidiane/ meschinità” (p.24). Il gatto intenerisce il poeta e chi lo avvista“acciambellato/ sul tappeto d’ingresso// …// così bello/ come una donna splendida/ o immagine perfetta della Bellezza!” (ingresso, presumo di un edificio condominiale). “Sento vibrare in me quand’io ti carezzo/ la dolce essenza dell’Universo/ nelle vene scorrere” (p.29). Salerno assiste estasiato, in perfetta armonia “Specchio dell’Universo/ innocenza perfetta dell’Intelligenza/ su questa landa deserta” (p.33). Fra i due si è aperto un filo di comunicazione attraverso lo sguardo che dà “vampe sul cuore” di Rocco.
Nella seconda parte,le visioni di Rocco Salerno si fanno ancora più tenere, Egli si identifica con l’ulivo dondolante; usa parole d’amore alle quali non siamo abituati, se riferiti ad animali: “Ormai siamo/ la stessa anima/ incarnata, / lo stesso fia- to.” (p.43). Ancora,nel cortile, Grigio e un uccellino fanno da sfondo al paradiso, a “un respiro di Dio”, scoprendosi, lui, un Francesco.Un bel dì, il Poeta, senza farsi scorgere, ha seguito il gatto scoprendo come luogo del domicilio, “le tegole del magazzino”. Fin quando “Pepe è stato trovato addormentato/ all’angolo della strada/ e Grigiotto scomparso/ anche tu sei addolorato. (p.54) e il Poeta si rispecchia nello smarrimento del felino. Un brutto giorno non si è più visto; è rimasto il piatto: “come ai Penati/ un oggetto sacro/ all’interno della casa.” (p.61) divenuto spirito che “guida” la sua anima.
Rocco Salerno usa espressioni antropomorfe,descrive la psicologia comportamentale del gatto: le fusa, l’infilarsi fra le gambe, l’agitare la coda, tutto per mostrare la sua gratitudine; la paura dei tuoni e dei fuochi d’artificio; e la stagione d’amore. Accusa più volte la “ferinità umana”, che forse ha azzoppato Bombolo, che infine non è più ritornato. Sappiamo come purtroppo fra gli esseri umani continua la ferinità primordiale selvaggia; perciò a maggior ragione diventa opera meritoria quella del Nostro che ha dato un esempio sul rapporto fra persona e animale; direi, ha fatto educazione agli affetti.
Tito Cauchi
ANNA AITA – EMILIO
FINA – FABIO AITA
QUESTA VOLTA VINCO
IO
Contributi introduttivi di: Aldo De Gioia, Anna Aita, Fulvio Castellani, Roberto Ferrari, Angelo Calabrese. Cervino Edizioni, 2020, pagg. 118, s. i. p.
Un altro romanzo, un’altra analisi delle tante allarmanti e difficili realtà che ci affliggono e che forse sottovalutiamo; un altro lavoro corale, scaturito dall’amore e dalla collaborazione; altro frutto dell’impegno nel sociale che da sempre ha distinto la vita e le opere di Anna Aita.
Questa volta, a farci riflettere è il problema della ludopatia, la bulimia del gioco d’azzardo, che in Italia e nel mondo colpisce milioni e milioni d’individui, in particolare i giovani, i quali, una volta irretiti, difficilmente ne vengono fuori, rovinando la loro esistenza e quella dei loro cari.
La mania del gioco afferra e condiziona al pari delle droghe, provocando sofferenze e drammi ed è inspiegabile come i media non la considerino alla stregua delle altre dipendenze, dedicandole meno attenzione e meno spazio.
Il giovane Fabio narra in prima persona il suo calvario e se riesce a venirne fuori, è grazie all’abnegazione, all’amore, alla costanza di persone altruiste, come Anna Aita, come il pediatra Emilio Fina, che hanno saputo affiancarlo, convincerlo, aiutarlo a risalire la china. La dimostrazione che, senza queste persone speciali, con la nostra negligenza, la nostra indifferenza, la nostra abitudine a scansarci la coscienza, giovani come Fabio sarebbero destinati sempre inesorabilmente a sprofondare nel baratro e perdere la vita. Ancor più tragico e avvilente – lo accenna nel suo contributo Angelo Calabrese – è che lo Stato, in pratica, assecondi la ludopatia, ricavando da essa miliardi di entrate.
Chi viene investito da questa autentica malattia ha bisogno di amore, di essere coinvolto, compreso; essendo morbo della psiche, ha necessità – come scrive Roberto Ferrari – di <<una multidimensionalità diagnostica insieme ad una terapia di vigilanza e di urgenza sociale>>. Per uscire dal mondo della dipendenza, la sola scienza non basta, essa dev’essere coniugata con molto altro e con l’affetto, affinché il soggetto interessato ritrovi il sé smarrito e la voglia di <<risalire dal mondo delle ombre>> (Ferrari), di riprendere a vivere, di riscoprire Il coraggio dell’amore – tanto per ricordare il titolo di un altro eccellente romanzo dell’Aita.
Volutamente tralasciamo di soffermarci sulla intera vicenda di Fabio, fare la cronaca delle sue tante sofferenze, gli sbandamenti, la ripresa. Il libro va letto, fa bene a tutti noi, anche a chi non ha mai avuto contatti con la malattia; sprona a interessarci del disagio, ad aiutare disinteressatamente chi ne è colpito, spronandolo all’orgoglio e alla riconquista della dignità di essere umano. Non dimentichiamoci che la società siamo tutti e che, se anche uno solo di noi soffre, se anche un solo tassello viene colpito, tutti quanti siamo destinati a soffrire.
Con la volontà, la determinazione stimolata anche dall’esempio corale degli altri, lo scrutarsi nell’interiore, il guardarsi come si era e come si è, si possono raggiungere risultati e mete impensabili, l’orgoglio di poter gridare finalmente a se stessi e al mondo, ho vinto, non una aleatoria somma di denaro, questa volta, ma il dominio personale e la dignità di essere umano. Pomezia, 2 febbraio 2023
Domenico Defelice
ANNA AITA – MARIA CRISTINA GENTILE QUANDO L’AMORE È NEGATO
Prefazione di Claudio Calvino, Cervino Edizioni, 2022, pagg. 116, € 12,00
Dal disagio della ludopatia di Questa volta vinco io a quello della mancanza d’amore, assai grave specie quando, a negarlo, è una madre nei confronti della propria creatura: un altro scavo nei drammi interiori ai quali ci ha abituati la sensibilità quasi evangelica della scrittrice e poetessa napoletana Anna Aita.
In questo racconto è la vicenda di una bambina e poi di una donna condizionata dalla solitudine – ambientale e più affettiva, la quale vive autentici calvari, che nel suo cervello lavorano come tarme divoratrici, sicché il reale, il conosciuto, il consapevole, contrastano con l’immaginario, il fantastico, l’incognito, il presunto, il fantasma, creando guazzabugli interiori più dolorosi e perniciosi delle sofferenze fisiche, alle quali, spesso, si riesce pure ad assuefarsi, sentendole meno pesanti e dolorose, meno feroci di come sono, mentre, quelle dovute all’inconscio, alla immaginazione, alla semplice elaborazione routinaria del cervello risultano più delittuose e insuperabili, inguaribili, perché scatenano in noi un continuo susseguirsi di angosce.
Tutte le vicende narrate da Anna Aita precedono sempre e sono intrise da una situazione di dolore e disagio, entrambi da lei non solo sperimentati, ma rivissuti, perché a contatto, in anni e anni di lavoro nel sociale e nelle organizzazioni umanitarie che se ne occupano come istituzioni.
Il racconto/romanzo Quando l’amore è negato ha l’inizio di una fiaba (<<C’era un’incantevole aria primaverile quel mattino>>), ma precipita subito nel dramma con quella durezza di madre verso una bambina che lei non voleva e che, pertanto, venendo alla luce, le aveva <<rovinato la vita!>> e quella degli altri che le stanno attorno: <<Lo hai fatto apposta!>>, le urla Marianna davanti a un piccolo incidente involontariamente provocato dalla bambina, frutto di un improvviso, spontaneo, trascinante, incontrollabile impulso d’amore e del cuore.
Aita rileva che, in tutti i generi di disagio, occorre anche la scienza, il professionista, perché non bastano, cioè, a superare i traumi, l’amore e la comprensione di coloro che ci sono vicini. <<L’ingresso dello psicologo nella mia vita fu molto importante>>, confessa Martina. In Questa volta vinco io troviamo Emilio Fina, qui abbiamo il dottor Giancarlo Rolando ad aiutare Martina diventata donna. Confidarsi, scaricare le nostre ambasce confessandole a persone competenti, che riescono anche a spiegarci gli occulti meccanismi che le originano, oltre a darci conforto, ci aiuta a sciogliere il disagio, come avviene a un pezzo di ghiaccio a contatto con la fonte di calore. I nostri comportamenti hanno spesso legami con avvenimenti che ci hanno traumatizzato nell’infanzia, allorché la nostra psiche era una spugna che tutto imbeveva e registrava. Martina se ne rende conto ogni qualvolta impatta in un bivio e sempre dopo stimoli/domande, rivelazioni, rilevazioni, suggerimenti, insinuazioni di qualcuno: l’amico, l’amica, non solo il terapeuta, lo psicologo; c’è sempre, comunque, un impulso che dà origine allo scavo, all’entrare nell’onirico, a conoscere l’origine della depressione. Una domanda, anche impropria, stimola una risposta; una specie di reazione a catena: comando/esecuzione - nuova situazione/soffoco/insicurezzaimpulso/volontà/recupero. Ed è proprio con l’incoraggiamento dell’amico terapeuta che Martina ritrova la forza per andare avanti, riversando sulla sua bambina Vittoria quell’affetto e quell’amore che a lei sono sempre mancati: <<Ora, ero pronta ad iniziare un nuovo viaggio, per ricostruire la famiglia che avevo sempre agognata>>.
Un bel romanzo, in cui non manca la poesia, compresa quella del linguaggio: <<L’aria era tiepida in quei primi giorni di uno strano mese di marzo. Pareva primavera inoltrata e un intenso profumo di mimose già invadeva…>>. Con la primavera ha inizio il racconto, con la primavera termina: una vicenda circolare, compiuta: una vita.
Pomezia, 3 febbraio 2023
ANTONIO CRECCHIA
Domenico Defelice
AL MARTIRE VENERABILE JUAN GERARDI CONEDERA. NEL CENTESIMO ANNIVERSARIO DELLA NASCITA
Ed. Autonoma, 2022, pagg. 72, s. i. p.
Un libro creato leggendone un altro; una testimonianza che ne trascina un’altra; un volume in prosa (Juan Conedera – Nunca Más, di Anselmo Palini, donato all’autore da Vincenzo Di Sabato) e un altro in poesia di Antonio Crecchia, doni, frutti di amore entrambi, il primo il seme, il secondo la pianta/poemetto: <<Senza la lettura appassionata e approfondita del libro appena citato e dell’incontro con il suo autore – Crecchia confessa -, i versi che seguono non sarebbero mai nati>>.
L’opera, con una nota introduttiva dell’autore, si compone di due parti: il poemetto in versi e un’appendice con la prosa d’intervento dello stesso Crecchia alla presentazione, a Guardialfiera (CB), del libro di Palini, il primo settembre 2022. Juan Conedera – Nunca Más non è l’unico saggio di Palini sui tanti martiri dell’America
Latina che hanno difeso i diritti e la dignità della povera gente e dei nativi di quelle nazioni spesso angariate, oppresse da <<violenze e sventure,/d’aggressioni, stupri e saccheggi,/di mattanze e bagni di sangue>>, massacrate da dittatura, gente disonesta, oppressiva, dalle <<sacrileghe mani,/sanguinanti per avidità di ricchezza/e cupida volontà di padroneggiare>>, esseri privi di scrupoli, assassini, che spesso si professano pure cristiani; di Palini ricordiamo ancora, per esempio, il libro da lui dedicato a Oscar Romero, dallo stesso Crecchia ottimamente presentato sulle pagine di Pomezia-Notizie del dicembre 2022.
Analizzando e meditando il libro di Palini, Crecchia analizza e medita il venerabile Conedera; si compenetra nelle sue dolorose vicende fino all’esplodere, dal suo animo esacerbato, centinaia di versi sentiti e commossi: <<Era sera quando il lampo della morte/aggredì e distrusse la fragile essenza/del tuo corpo fremente di vita>>.
La storia del martire Conedera narrata dal Palini si intreccia, così, a quella di Crecchia e viceversa: <<Venisti al mondo nella terra dei Maya>>, <<terra di perpetue razzie/per branche di predatori>>. Crecchia non si limita all’augusto personaggio, ma accenna – com’è della poesia che va per immagini – agli esodi in massa in ogni tempo (<<emigranti/giunti dall’Italia in Guatemala>>), alle colonizzazioni (terra <<usurpata da brutale violenza coloniale>>, <<da voraci cavallette d’oltremare>>), alla violenta cancellazione d’intere etnie (<<sterminio tra i popoli>>)
Il vescovo Gerardi Conedera ha combattuto tutto questo e altro con la <<spada della Parola>> e per questo è stato assassinato il 26 aprile del 1998, sicché la sua esistenza <<esce aureolata di martirio e santità, come quella di Cristo>>. Egli non ha avuto <<paura/di alzare dito e voce>> per condannare con <<l’energia del santo>> un autentico genocidio; cercò sempre di sanare le tante strazianti ferite, a volte inferte pure dalla Natura, come il terremoto, durante il quale il presule si prodigò <<a dare consolazione/e sostegno al popolo prostrato/da immane rovina e malasorte>>.
Crecchia enumera le angherie, gli stupri, le nefandezze, gli efferati delitti perpetrati nei confronti dei nativi e della povera gente, le schiavitù, le prigionie, le violenze continue da parte di disonesti venuti da fuori o discendenti degli antichi colonizzatori. Auspica, infine, che l’umanità maturi e cessino, così, per sempre e in ogni luogo, odio e violenza: <<Mai più stenti e fame ove la dispensa/è stata saccheggiata da ingordi ladri>>; <<Mai più ombre sinistre di angustie,/tirannide, persecuzioni e mattanze>>; <<Mai più teatri aperti a recita di tragedie/sul palco della corruzione umana>>; <<Mai più pianti e lacrime di vedove/sopra sepolture senza croci, sopra fosse/esalanti odori orridi di carne bruciata>>; <<Mai più nelle cupe caverne della politica/retori dalla lingua biforcuta>>. <<Nunca más>> e la certezza, ancora, che il venerabile Conedera sia ben presto innalzato agli Altari. Pomezia, 28 gennaio 2023
Domenico Defelice
Si affastellano poesie d’amore e di richiami sottaciuti, di corrispondenze parallele e di vera passione, giungendo in alcuni casi al più puro ardore emotivo: “le rapide / rugiade del piacere / e le tue mani candide e cattive / le tue ricerche audaci intimidite” (67). Il verso, pur richiamando un ambito che è quello del sentimento vissuto, del rapporto intimo tra gli amanti (ma anche del pensiero assiduo verso la concretizzazione fisica della relazione amorosa), s’inserisce in quella che potremmo definire una tradizione casta – mai licenziosa – di un dire (di un rivelare) l’erotismo tra desideri malcelati, incontri ardimentosi e fuggiaschi tra esseri legati da un desiderio che è divampante, continuo, che si autoalimenta e cresce ed è in quanto tale reale quanto il foglio di carta che contiene le singole poesie.
VITO DAVOLI
CARNE E SANGUE, Tabula Fati, Chieti, 2022, pp.128, € 11,00
Dopo la silloge Contraddizioni (Edizioni Leucò, Molfetta, 2001) il poeta, scrittore e critico letterario pugliese Vito Davoli (è nato a Bari e vive tra Bisceglie e Molfetta) ritorna con una nuova pubblicazione poetica dal titolo Carne e sangue (Tabula Fati, Chieti, 2022). Il volume è prefato da Daniele Giancane che, in pochi righi, ben si approssima alla sensibilità di questa nutrita e densa pubblicazione di poesia. L’ampia banda di colore rosso profondo disposta in chiave orizzontale nella parte bassa della copertina ben si annoda al titolo del volume che ha a che vedere con la “carne” e il “sangue”, elementi chiave e immagini ricorrenti all’interno del pregiato volume.
Davoli, che è un apprezzato critico del quale si possono leggere validi contributi sulla nota rivista barese «La Vallisa» con la quale da anni collabora attivamente, ci consegna un volume profondamente intimo, radicato in una sensualità di visioni mai trite e di grande suggestione anche per l’anonimo lettore impostato su di una catartica (e quasi mistica, nel senso di “arcana”) evocazione: “Lo sai che questo è il tempo / in cui meno si parla e più si dice” (46).
Sia detto per inciso – per sfatare un’idea mendace, becera quanto ampiamente diffusa – l’erotico (dal greco erotikos ovvero derivato di Eros, dio dell’amore e dal latino eròticus ovvero “desiderio appassionato” o “desiderio travolgente”) non ha nulla a che spartire con il licenzioso, l’osceno e il pornografico, riferimenti quest’ultimi che – sono certo di credere – nulla hanno da comunicare nella dimensione poetica.
Il volume è articolato in tre sezioni: la parte eponima “Carne e sangue” che si apre con un esergo tratto dalla (cara a Davoli) Anna Achmatova (citata anche altre volte nel volume); i “Sonetti claudicanti” (dieci testi in tutto) e “Capitano, quel Capitano” di whitmaniana memoria, all’interno del quale troviamo anche un apprezzabile testo storico-sociale, “Cantami Sarajevo”, dedicato al ricordo della città balcanica negli anni Novanta, doloroso scenario di mirati attacchi bellici e disperazione collettiva per odi esacerbati e recriminazioni politiche e religiose: “tu cantami Sarajevo, / quella di mezzo secolo prima nelle fosse / e cinquant’anni dopo nelle sete / di cravatte severe e banconote effervescenti. / […] / Dio non è che un brandello in coma” (103). Riflessioni sul tempo (e il suo imperterrito fluire) e sul senso della vita non mancano nel volume, ingredienti che danno un tocco filosofico quando non addirittura vagamente enigmatico. Davoli colloquia con gli atomi dell’invisibile, pone sfide a limiti, riflette e domanda sé stesso, ce ne rendiamo conto da alcuni versi che, forse più di altri, richiamano l’interesse del lettore per la loro nebulosità e potenza al contempo: “Nessun coccio / s’incastra esattamente con un altro. / Né resta fermo” (11); “Sopra una linea di confine / rientro ed evado / e sono lì finché la vedo” (14); “Il mio tempo è liturgia di segmenti / che serpeggiano eccitati / dai calori e dall’arsura” (21); “Eppure vedo solo se mi tieni la mano / se il tuo soffio mi sussurra l’invisibile” (25).
Le tonalità del rosso, a loro volta collegate a immagini-isotopie, metafore e richiami automatici del cuore e del sangue (del suo ribollire) ma anche del fuoco (del suo divampare) si offrono al lettore come un continuum appassionato di travasi, nella poesia, di un’apoteosi intima, di un’esaltazione sensoriale indescrivibile, di un’estasi da puro godimento (dell’atto) e di evasione (nel pensiero). Per tale ragioni crediamo che siamo ben oltre la poesia d’amore comunemente intesa, quella di neoplatonica foggia o di richiamo esaltato a un’utopistica condivisione d’intenti tra gli amanti. Ben oltre. Il poeta è così abile da rendere le trame del sentimento quali fibre del tessuto carnale, i versi si susseguono non con la cadenza neniosa e dolce di una poetica arcadica, ma con il balzo –più o meno sincopato – delle sistole, dell’eccitazione e della successiva euforia. Non un canzoniere d’amore, semmai un diario lirico di approcci e godimenti nei cortocircuiti della ragione, lì dove la forza del sangue s’impone decisiva e, come in un richiamo arcaico di difficile origine che non siamo capaci di dominare razionalmente, porta il singolo ad agire animato dalla foga e dal desiderio. Un libro, questo di Davoli, in cui il rosso della passione esorbita dai versi, tra nuances di carminio e porpora, tra squarci di luce che intervengono a rischiarare versi e situare l’io lirico nell’oggettivo contesto abituale e sociale al quale appartiene.
L’esplosione del rosso è, dopotutto, l’elogio della carne, l’esaltazione di tutto quel che vive e pulsa, ma anche l’ascolto attento e compartecipe del desiderio dell’altro che si compie unicamente con un atto esplicito e voluto, con l’ardore opprimente che fa dimenticare tutto del mondo esterno e conduce, sia pure un congedo momentaneo e breve, a una piccola morte
Questo libro di Davoli – come ciascun libro di vera poesia – non fornisce risposte né tenta di proporre soluzioni, vie edificanti o più praticabili da prendere rifiutandone altre. Al contrario, cavalca l’enigma e l’inespresso, interloquisce con l’assoluto. È, dopo tutto,un libro di materia fatto di “parole scintillanti d’arsura, / di carne e sangue” (43).
Jesi, 25/01/2023