Good
Andrea Berton
Foto: Monica Cordiviola
Sono Berton
viaggi d’Aut ore
HIRAM BINGHAM SCOPRE MACHU PICCHU NEL 1911
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Editoriale
Esquire,
Good Life e lei
A
eroporto di Bruxelles, ore 21.00. Si respira ricchezza e benessere ad ogni passo, è uno dei miei terminal preferiti, assieme allo Schiphol di Amsterdam. Si mescola la clientela business con quella leisure, per utilizzare un linguaggio moderno e corporate (fa un po’ ridere, vero?). E’ davvero bello passeggiare e cercare un posto dove sedersi e sfogliare una rivista patinata, sorseggiando un caffè, anche se la gran parte della gente va spedita verso la birra. Mentre sto cercando la caffetteria più chic, mi colpisce il colore di una cover, esposta fuori dall’edicola (a proposito, le edicole qui sono pazzesche). E’ l’Esquire, il loro numero celebrativo, il numero 1.000. Lo sanno pure i muri che nutro una vera e propria venerazione per il mondo di Esquire, comprese le edizioni internazionali (ce ne sono 24): mi capita di sfogliare perfino quella olandese, pur non capendo mezza parola. Però sa di magia, di ideale editoriale, di sogno nel cassetto, è ipnotica, non importa la lingua, basta vedere il logo e sei in trance, ti senti a casa tua. E’ una grandissima rivista, un maschile a tutto tondo, senza articoli pettinati e buonisti, non leggi alcun sbrodolamento moralistico tipico dei giornali italiani, che abbondano in consigli non richiesti sulla vita (la loro poi è quasi sempre una tragedia, un caso umano). David Granger, editor in chief dell’edizione americana, lo ripete sempre: “Ci svegliamo e veniamo in ufficio con la felicità e la consapevolezza di poter e dover creare qualcosa di originale”. Pare evidente che una rivista del genere non potrà mai avere una versione italica: oltre alla triste e manifesta mancanza di giornalisti all’altezza, lì non funziona la patetica e tediosa pappardella etica, politi-
cally correct e terzomondista. Non ci sono professoroni buoni a nulla che parlano di integrazione e diritti, ovvero nobili e obbligatori argomenti ministeriali, di sicuro non così interessanti per il povero lettore. Il primo numero uscì nel 1933, a quei tempi era l’unica rivista maschile esistente sul mercato. Il publisher si chiamava David Smart, l’editor Arnold Gingrich. Si arrivò al nome Esquire dopo aver scartato Stag, Beau e Trim. Il logo era leggermente diverso, quasi come una scavatura nel legno, con il coltellino (l’attuale risale al 1983). Sì, sto divagando, come sempre. Torniamo al terminal di Bruxelles. Mi siedo da Starbucks (a proposito, in alcuni aeroporti è aperto 24 ore su 24), che a me piace molto per il modo accogliente e per le torte straordinarie e abbondanti, piene di burro e zuccheri. Certo, ho sempre una scossa quando guardo lo scontrino del cappuccino, 4.20 euro, ma passiamo oltre. La sfioro, la sfoglio, la accarezzo, me ne innamoro all’istante, però davanti agli occhi ho solo la mia, di copertina. Sì, “mia”, ma quale? Ne hai tante, direte. Per “mia” intendo la cover con le parole una dietro l’altra (il font si chiama Trixie-Plain), una specie di manifesto di valori, un elenco di concetti che mi accompagnano durante le giornate. E poi lei, il suo nome. Chiarisco una volta per tutte: Giulia in pratica (quasi) non esiste. Non so se mai la vedrò ancora, l’ho conosciuta mesi addietro. Non è servito molto per capire che era tutto quello che un uomo potesse desiderare da una donna. Forse un giorno ricomparirà. Conclusione? Non avrò mai la potenza economica di Esquire, non arriverò mai al numero 1.000 (loro esistono da ottantadue anni), in compenso loro non avranno mai una cover come questa. Tutto sommato, ho vinto io.
No 2
di Dominique Antognoni
Sommario
Good Life Food is art
Felice Lo Basso Il pranzo gourmet pag. 05
Tagliatore Vanity Man pag. 9
Andrea Berton. Uno chef da cover pag. 15
Boglioli Bros Le giacche di Gigi pag. 19
Claudio Miceli Il sognatore pag. 22
AndrĂŠ Chiang Octophilosophy pag. 26
Virgilio Martinez Il genio di Lima pag. 32
Ivy International We love you pag. 38
Bottiglieria  Il mondo di Norie pag. 42
Good Life dominiqueantognoni@yahoo.it
Felice Lo Basso
Il pranzo gourmet
L
o sfogli come se fosse un libro di fotografie di Helmut Newton. Lo accarezzi lentamente, sognante, riempendoti di bellezza, eleganza, sensazioni, ottimismo, nostalgia. Si può definire un contenitore di ricette? No di certo. Intanto è stato concepito e realizzato come un coffee table, una via di mezzo fra una rivista patinata e un libro, ovvero la miglior soluzione per entrare ed arrivare al cuore delle persone. Non troppo impegnativo, però molto attraente. Va detto che non ricordiamo un altro prodotto del genere: è semplicemente straordinario. Certo, i meriti sono di Felice Lo Basso ma non solo, perché le fotografie dei piatti sono difficili, difficilissime da realizzare. Intanto si tratta di un settore assai nuovo, nessuno si prendeva la briga di creare dei capolavori del genere fino a pochi anni addietro. Barbara Santoro ha dimostrato di essere un vero gigante: okei, è tutto soggettivo, quando si parla di libri. Se si tratta di libri di fotografie, ancor di più, però è fuor di dubbio che siamo davanti ad un capolavoro: 255 pagine e soprattutto 87 piatti da favola. “L’abbiamo fatto in un mese”, ci dice raggiante Felice. “Sono felicissimo, davvero”. Da parte sua, Barbara, 39 anni, fotografa “gourmet” da tre, racconta: “E’ stato fantastico, come andare a Disneyland. Ci siamo innamorati all’istante, professionalmente parlando, uno dell’altro. La cucina di Felice è molto elegante, perfezionista, abbiamo avuto un problema solo con i dolci perché si è scattato a luglio, al ventesimo piano, nel suo ristorante: siccome a me piace la luce naturale, appena li avvicinavo al sole si scioglievano. Nel libro mancano alcune immagini del backstage, ma sono davvero contenta di quello che siamo riusciti a fare”. 87 piatti: fosse possibile, pubblicheremmo tutto d’un fiato. Per mancanza di spazio, dobbiamo contenerci, ma forse è meglio così, ce la gustiamo più a lungo. Ne abbiamo scelte tre, per questo numero.
No 5
Risotto alla parmigiana
Qui sotto ecco il risotto alla parmigiana. La descrizione del piatto richiede, impone la spiegazione dello chef, uno che solitamente è assai sbrigativo ma che, suo malgrado, ha dovuto arrendersi alla volontà dell’editor e raccontare per bene. “Per la crema di melanzane si devono realizzare delle incisioni, cuocere e abbrustolire in salamandra prestando attenzione a girarle costantemente. Quando saranno morbide dentro e abbastanza abbrustolite all’esterno, toglierle dalla salamandra e sbucciarle. Frullare aggiustando di sale, pepe e un filo d’olio fin quando non si otterrà una crema liscia e omogenea. Per la polvere di pomodoro: frullarlo a crudo, quindi scolarlo per una notte nell’etamina
fin quando non avrà perso tutta la sua acqua. Rifrullare una seconda volta con un filo d’olio, stendere il composto su un foglio silpat o su carta forno. Far essiccare a 65 gradi per 36 ore. Quando il composto assumerà la consistenza di una cialda croccante, frullarla al bimby, ottenendo la polvere. Per il risotto. Far sudare lo scalogno con un cucchiaio d’olio in una casseruola, quindi tostare il riso fin quando i chicchi non diventeranno traslucidi. Sfumare con il vino bianco, far evaporare e continuare la cottura per altri 16 minuti con acqua e latte precedentemente miscelati. A fine cottura, togliere dal fuoco e mantecare con burro di capra e parmigiano reggiano.
No 6
Agnello, peperoni, fagiolini e crocchetta di patata liquida
Per l’agnello, condire con gli aromi il magret d’agnello, trasferire in una busta sottovuoto da cottura quindi cuocere al roner al 65 gradi per 60 minuti. Per le creme di peperoni, infornare a 190 gradi per 40 minuti i peperoni rossi e gialli interi privati dei semi e del torsolo. Stufare il peperone verde, anch’esso pulito e privato di semi e torsolo, insieme ad un cipollotto in un cucchiaio di olio extravergine d’oliva. Terminata la cottura dei peperoni frullare i tre composti separatamente con g 2 di xantana ognuno e un filo d’olio. Con l’aiuto di stampe quadrati, rettangolari e circolari, dar forma ai composti quindi abbattere. Si otterranno così delle cialde di colore diverso a seconda del tipo di peperone che andranno conservate a meno 18 gradi. Per la presentazione, immergere l’agnello sottovuoto a bagnomaria a 60 gradi per circa 15 minuti per farlo stemperare accuratamente
al cuore. Tagliare dal sacchetto, scolare e cicatrizzarlo solamente dalla parte della pelle in una padella di ferro, partendo da freddo a fiamma dolce. In questo modo la pelle diventerà abbastanza croccante ma al tempo stesso non si porterà la carne oltre la cottura. Procedere all’impiattamento, disporre le tre cialde di peperone di colori differenti e lasciarle stemperare sotto la lampada, posizionare i fagiolini saltati, la crocchetta di patata liquida e infine due tranci di agnello. Ultimare tutto con lo jus d’agnello. Dal libro di Felice Lo Basso Il pranzo gourmet, edizioni Italian Gourmet.
No 7
100 % scorfano
Sfilettare per bene lo scorfano ricavando quattro rettangoli. Con lo scarto, realizzare un fondo facendo stufare lo scalogno, il cipollotto e uno spicchio d’aglio in camicia, aggiungere gli scarti di scorfano e far tostare. Sfumare col vino bianco e aggiungere i pomodori ramati con i Picadilly e infine il basilico. Lasciar cuocere per circa un’ora, poi togliere l’aglio e passare al passaverdure, far ridurre nuovamente per un’ulteriore ora. Per la patata al limone, cuocere al vapore le patate, bucciarle e passarle al passapatate. Condire con un cucchiaio d’olio e la buccia di un limone.
Per la finitura e la presentazione: in una casseruola, scaldare il fondo di scorfano, aggiungere i tranci di pesce e cuocere a fuoco molto basso (circa 65 gradi) per 20 minuti. Passare all’impiattamento, disporre da un lato del piatto lo scorfano, accanto realizzare dei piccoli spuntoni di patata e ultimare con il fondo di pesce. Per dare un tocco acidulo, spargere dell’erba limoncina sopra la patata.
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Tagliatore Vanity Man
Proviamo a fare un gioco: immaginiamo per un attimo di voler scegliere degli hashtag per postare su Instagram le giacche di Pino Lerario. Che parole mettiamo? Dandy, per prima. Poi, in ordine sparso: uomo, vanità, trasgressione, eleganza, frizzante, colori, fantasia, ricercatezza, classe, bellezza, arte, energia, stile, energia, identità, frivolo, glam, distinguersi. Si potrebbe continuare, pero’ l’idea sarebbe questa.
No 9
Al Pitti, quando scendiamo al piatto inferiore del padiglione centrale, lo stand di Tagliatore è assai facile da trovare, laddove vedi un tripudio di colori piacevolmente violenti, di giacche destrutturate e sfoderate, con dei tagli asciutti. La collezione primavera estate 2016 è leggermente diversa, una poesia dedicata al bianco, colore antropologico frutto della sensibilità dell’uomo nei confronti della natura e dell’ambiente, una cromia pura, multitonale ed elegante. I colori sono la base alchemica delle collezioni, che per la collezione primavera estate partono dalla matericità del bianco, toccando il blu in tutte le sue declinazioni, il grano, il verde lime ed il rosso sangria: una carrellata visiva fresca ed estiva. Poi, i tessuti: di origine naturale, cotoni, sete e lini si fanno buclè o creano attraverso trama ed ordito micro fantasie delicate e sofisticate.
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Per Pino Lerario rimane inalterato l’intrinseco significato di sartorialità, unito ad innovazione e ricerca: un nuovo concetto di capospalla, capace di trasmettere comfort e leggerezza, senza rinunciare allo stile ed al rigore di una giacca. Dalle giacche alle camicie il passaggio è elementare, logico, intrigante: non a caso Tagliatore inizia a proporre la collezione di una linea sartoriale, con alcuni dettagli handmade, tra cui le maniche applicate a busto chiuso e rifinite con sottopunto a mano, oltre al carrè tagliato. Come in ogni collezione i bottoni sono un peculiare segno distintivo, che possono essere scelti e personalizzati. “Gemme” effetto madreperla verniciata, intarsiate o in metallo anticato e brunito. Chiudiamo con la Capsule Collection Pino Lerario: spalle insellate, giro maniche stretti e ampi revers.
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A chi ancora pensa che la parola dandy sia un retaggio di snobismo elitario suggeriamo di guardare con attenzione i cambiamenti della società, i modi gioiosi e giocosi di vestirsi. Ovvero le collezioni Tagliatore. Certo, non si diventa dandy da un giorno all’altro, è tutta una questione di carattere, di personalità, di vanità e di voglia di mettersi in gioco. Anche perche’ non tutti gli uomini sono uguali: ci sono quelli pronti alla trasgressione, poi i coloro che vorrebbero farlo, però hanno bisogno di un input. Se lo scopo di un dandy è distinguersi puntando su bellezza e raffinatezza, allora ecco le giacche perfette, ammesso che il mondo del dandismo punti alla perfezione e non ad essere l’arbitro dell’eleganza, provocando meraviglie e stupore. Le giacche di Pino sembrano dipinte, a tratti opere d’arte che sprigionano stile e fantasia, ricche di energia, non più l’ostentazione bensì costruzione della propria identità, fatta di classe, bellezza, ricercatezza. Le quattro immagini, le quattro giacche che abbiamo scelto sono di una chicceria e di una eleganza straordinarie. Parlano, raccontano uno stile, raccontano un mondo, quello di Pino Lerario e del suo popolo di seguaci, i dandy, in perenne adorazione.
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Angelo Inglese
Checco, denim e classico
P
rima, non avevamo mai guardato la trasmissione “Che tempo che fa” e probabilmente non la guarderemo in seguito. I motivi sono semplici: la Rai ci pare un rettaggio inutile del passato, e’ un mondo lento e in bianco e nero, per di piu’ intriso di ideologia perdente e livore fino al midollo: transeat. Per onor di cronaca, perfino la puntata con Checco Zalone l’abbiamo vista su You Tube, a giorni di distanza dall’evento. Il motivo dello strappo alla regola sta nel fatto che l’attore indossava una camicia in denim, modello Capri, fattagli su misura dal suo e nostro grande amico, Angelo Inglese. Entrambi pugliesi, entrambi geniali: l’uno batte tutti i record con i suoi film, dove prende per i fondelli i saccentini, gli pseudo intellettuali e professoroni alle vongole, l’altro viene considerato il camiciaio (ok, la parola suona male ed e’ riduttiva assai) migliore al mondo.
Checco e Angelo si conoscono da anni, ma apparentemente hanno poco in comune: l’attore, sempre nei panni di un maschio che bada poco allo stile e all’eleganza, pare il meno indicato a vestire le camicie di Angelo, il re della raffinatezza. Pero’ oltre lo schermo c’è la vita privata dove invece del personaggio Checco esiste Luca Medici, 38enne che ama il jazz e ha studiato giurisprudenza. “Gli piacciono le camicie nere e bianche, le prime le usa quotidianamente, le altre alle serate. Però fondamentalmente lui è uno da t shirt. Nel film indossa sia una nostra camicia che la pochette e il fiorellino sulla giacca beige. Tornando al capo indossato su Rai 3, si tratta di un denim davvero molto particolare, l’evoluzione del denim della tela Genova, chambray, lo si utilizzava molto qualche decennio addietro, per distinguersi, non a caso veniva indossato da Gianni Agnelli. Se avete fatto caso, Ralph Lauren si fa spesso fotografare
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con camicie di jeans lisse, usate: ecco, l’idea sarebbe questa, ricreare un tessuto del genere, però più raffinato. Noi lo proponiamo con un misto seta, lino oppure cotone, sono dei denim straordinari”. Andando oltre, la nuova collezione di Angelo promette meraviglie, come sempre, più di sempre. “E’ un ritorno al futuro, mettiamo l’accento sulla camicia classica, i tessuti ricercati, le lavorazioni deluxe”, racconta Angelo. Paretesi: nelle edizioni precedenti arrivava al Pitti con mille ansie, ora invece viene rilassato, sicuro di sé e del suo prodotto. Sa che piacerà, sa che farà faville, sa che dalla mattina alla sera ci sarà la fila per gli ordini. Concludiamo con una domanda-richiesta: sarebbe interessante vedere Checco (o Luca?) indossare la camicia bianca che abbiamo pubblicato qui, ci piacerebbe capire l’effetto che fa un Zalone patinato.
Sono Berton.
Andrea Berton E’ uno dei Marchesi Boy’s, quella brigata pazzesca di venticinque anni fa: lui, Cracco, Knam, Oldani, Lopriore. Ne ha fatta di strada, eccome: stelle ovunque, una visione colta, solida e cosmopolita della cucina, uno spirito imprenditoriale “rubato” da Alain Ducasse. Ora sogna di aprire un ristorante a New York, convinto di poter primeggiare pure lì. Progetti, segreti, idee e concetti di uno chef che non si ferma mai, in una intervista realizzata nel suo locale alle Varesine. Le fotografie sono di Monica Cordiviola, i capi di abbigliamento portano la firma Eleventy, mentre al polso indossa un modello IWC, altro suo sponsor, così come la BMW. Perché, oggi, i grandi chef sono molto più che semplici cuochi, sono testimonial perfetti, più dei calciatori e degli attori americani.
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P
rima o poi doveva accadere. E infatti, dopo la travolgente corsa sulle montagne russe del gusto e delle sensazioni, non mi ricordavo i primi piatti che mi furono portati. A mia difesa ci sarebbero delle attenuanti, e tante: ero andato da lui per intervistarlo e, al massimo, sognavo di assaggiare un paio di nuove delizie: lo confesso, non pensavo di degustare sette portate. Poi, l’atmosfera era rilassatissima, perché all’ora di pranzo la luce accarezza dolcemente il ristorante, il che ti porta in una sorta di nirvana assoluto. Aggiungiamo la polenta morbida con la fonduta di Grana Padano e tartufo d’Alba, un piatto talmente buono che il suo ricordo mi ha accompagnato per gran parte del tempo passato da lui. Dopo la triglia cotta al vapore ci fu una specie di black out totale. Insomma, ho “cannato” perché ebbro di tanta delicatezza, perché gli aromi unici e irriproducibili regalavano la felicità immediata, vertigini di piacere, emozioni violente. Il suo è un modo di cucinare cosmopolita, la mano decisa, la visione è solida, colta, elegante, raffinata. Se il cibo ci aiuta a capire le persone, allora di Andrea posso dire che è esattamente come i suoi piatti, che vive per il cibo. La cucina di Andrea Berton lascia trasparire un’istintiva consapevolezza delle potenzialità di ciascun ingrediente utilizzato, i piatti sono ricchi, misteriosi, i sapori netti e garbati, le cotture, le consistenze e gli equilibri perfetti. Esci da lui con la voglia di divorare il mondo, il giorno dopo ti svegli con il desiderio di ricordare ogni boccone: certo, sarebbe stato meglio ricordarselo
sul momento ed evitare figuracce, ma ormai il danno è stato fatto. Transeat. Proviamo a recuperare terreno con l’intervista che segue. - Ha superato la quarantina e nonostante questo viene ancora considerato come uno dei Marchesi boys: l’etichetta le sta stretta? - Per nulla, anzi, basta ricordare chi erano i boys, o chi eravamo: Carlo Cracco, Davide Oldani, Paolo Lo Priore, Ernst Knam ed io. Mica male, come brigata: forse la migliore che l’Italia abbia
Da Marchesi ho imparato come rispettare la materia prima, come non rovinarla, capire il senso del prodotto. E soprattutto la tecnica dei risotti. mai avuto. - Lei era il più giovane... - Fu il mio primo lavoro in assoluto, nel ristorante milanese di Via Bonvesin De la Riva: avevo 19 anni, il più “anziano” era Lo Priore. Sono rimasto con il maestro per tanti anni: dal 1989 fino al 1992, poi all’Albereta, fra il 1995 e il 1997 e dal 2001 al 2004, come executive chef. - Cosa ha imparato da lui? - Una miriade di segreti e principi: come
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rispettare la materia prima, come non rovinarla e come capire il senso del prodotto. E soprattutto la tecnica dei risotti. - Perché ha scelto di diventare uno chef? - A quei tempi era una mestiere affascinante, creativo, pareva molto interessante, dava la possibilità di conoscere tanta gente. - Si ricorda la prima stella Michelin? - Ovviamente: a quei tempi non c’erano le mail ed i cellulari, ti chiamavano dalla guida informandoti di averla presa, non c’era nemmeno una cerimonia come adesso. Ricordo poi di aver ricevuto un fax con la conferma dell’assegnazione della stella. - Lavorava alla Taverna di Coloredo di Monte Albano: oltre la stella, cosa ricorda di quel periodo? - Davvero poco. Sorvoliamo. - E invece no. - Io e la proprietà avevamo visioni e ambizioni diverse sulla ristorazione, sul futuro. Andiamo avanti. - Ok. Cosa significa la stella per uno chef? - E’ la dimostrazione che hai svolto bene il tuo lavoro, ti dà credibilità e ti fa imporre all’estero, dove altrimenti il tuo nome rimane sconosciuto ai più. - I ‘rosiconi’ sostengono che Michelin e le stelle non sono poi la verità assoluta. - Hanno saputo creare una guida che tutti considerano la Bibbia del settore, altro che storie. - Ad un certo punto della sua carriera ha scelto l’avventura londinese, al Mossiman. - Una grandissima delusione. Mi incuriosiva
Andrea Berton, testimonial BMW: Sono molto alto, di conseguenza non è facile trovare la macchina ideale. La BMW riesce a soddisfare appieno le mie esigenze, dimostrandosi comoda da guidare. Mi piace da morire la X6: elegante, immediata, linee pulite, rispecchia la mia cucina. Ora, che ho potuto provare la X7, mi sento di poter dire lo stesso. La mia preferita rimane però la loro vettura sportiva, la i8.
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molto, arrivato lì scoprii metodi di lavoro approssimativi, prodotti di scarso livello. - Poi, dopo una parentesi all’Enoteca Pinchiorri, andò da Ducasse. - Tutt’altra storia, la sua cucina era gustosa, mediterranea, pulita, con delle materie prime eccezionali, lontana dai classici piatti francesi. - L’impatto com’è stato? - Durissimo, per il primo mese non ho fatto altro che pulire insalata, però avevo capito fin dall’inizio che l’ambiente mi piaceva. Ero il terzo italiano arrivato alla corte di Alain, dopo Cracco e Oldani, ma la fiducia nei miei confronti pareva assai scarsa per via del paese di provenienza: i pregiudizi nei nostri confronti erano tostissimi, a quei tempi. Poi si infortunò lo chef di partita e mi proposi di sostituirlo: Ducasse non si fidava, chiesi una settimana di tempo per convincerlo. Il risultato? Sono rimasto per quattro anni. - Di Alain cosa ricorda? - Il suo piglio imprenditoriale fuori dal comune. - Capitolo Trussardi, com’è arrivato alla corte del Levriero? - Lavoravo da Marchesi, all’Albereta, volevo confrontarmi con la realtà di Milano. Beatrice Trussardi cercava uno chef e ha chiesto un consiglio a Cracco, dall’altra parte pure Davide Rampello aveva suggerito il mio nome. - E’ rimasto otto anni, conquistando due stelle, nel 2008 e 2009. - Avrei preso perfino la terza, se fossi rimasto: lo scriva, io non me ne sarei mai andato via da Trussardi. Fra l’altro, in piena crisi, nel 2011, abbiamo fatturato l’impensabile, delle cifre da capogiro. Peccato.
- Con la seconda stella cosa cambia, nella vita di uno chef e di un ristorante? - Cambia radicalmente la clientela, ti arriva gente più esperta, esigente, preparata. - Ora lo chef è Roberto Conti. - L’ho portato io, al Trussardi. Farà tanta strada, è preparato, ha entusiasmo, conosce bene il mestiere, è umile: gli consiglierei di fare un’esperienza importante all’estero, tappa fondamentale per il salto definitivo. Già che ci siamo: una menzione speciale per Luca Cinacchi, persona di una competenza straordinaria, sa
Il mio desiderio? Aprire un ristorante a New York: città tostissima, esigente al massimo, quasi come Milano. gestire la macchina del ristorante come nessuno. Lo scriva: l’ho portato io, pure lui. - I giovani sembrano innamorati dal mestiere di chef, in tanti desiderano aprire dei ristoranti: vuole trasmettere loro un messaggio? - Si fa una grandissima fatica, non ripagata. Devi lavorare tanto e spesso non basta, perché i conti non sempre tornano. Ogni cinque anni, se non fai dei miglioramenti, ti trovi il ristorante sfasciato, servono soldi in continuazione per sostituire tavoli, sedie, posate, bicchieri. Per guadagnare ti devi creare delle nuove situazioni:
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consulenze, catering e via discorrendo. - Lei lo ha fatto aprendo Dry e Pisacco. - Dry è stata un’intuizione geniale: un ristorante che proponesse cocktail, pizze e gelati. Assieme ai miei soci Giovanni, Diego e Tiziano ci siamo messi in gioco ed è andata subito bene. E’ un concept innovativo, da esportare, probabilmente lo faremo. Pisacco invece è un bistrot dove trovi dei vini e una cucina di un certo tenore, un must be. - Ha viaggiato tanto e ovunque: ha mai pensato “avrei voluto inventare io questo piatto”? - Si, appena mi sono seduto da Adrià ricordo di aver pensato che l’utilizzo del sifone in cucina fosse una genialata pazzesca: prima serviva per montare la panna e basta. - Domanda marzulliana: Andrea Berton ha un desiderio, professionalmente parlando? - Aprire un ristorante a New York: città tostissima, esigente al massimo, quasi come Milano. - E’ andato a vedere il film con Bradley Cooper, Il sapore del successo? - Le pare che possa trovare il tempo? - Ad un certo punto si racconta dei metodi degli ispettori Michelin: si narra di una forchetta posata a terra per capire se il personale sia all’altezza. Si può perdere la stella per una forchetta non vista? - Se dopo tre ore il personale non la vede, l’organizzazione di sicuro non è all’altezza della stella. - Da Berton si potrebbero verificare episodi del genere? - Le pare? Dominique Antognoni
Boglioli Bros Le giacche di Gigi
I
l tempo corre, perfin troppo. Siamo ormai nel 2016, The Gigi sta per compiere tre anni e sei collezioni. Sta anche crescendo, alla svelta. I mercati asiatici sono trainanti (Tokyo e Seoul la fanno da padroni) però il nord Europa si difende bene, fra Germania e paesi scandinavi. I numeri sono positivi, il trend anche, l’unico a brontolare è il gran capo, Mario Boglioli: “Potrebbe andare meglio”. Intanto sta raccogliendo i frutti di una filosofia e una scelta sofisticate al massimo, robe per gente premium, per quelli che amano il bello e si amano, che piacciono e sanno di piacere, ovvero il popolo dei nuovi dandy. La nuova avventura della famiglia è eccitante, le giacche disegnate da Pierluigi Boglioli sono emozione pura, sono cultura, qualità, una qualità estrema e non lo diciamo tanto per dire, come i soliti comunicatori tot al chilo, che riempiono righe intere con parole a casaccio, buttando qui e lì aggettivi pomposi senza riscontri nel prodotto. Basta farsi un giro nel loro show room, in Corso Venezia, per capire di cosa stiamo parlando: giacche fiabesche, collezioni straordinarie, qui c’è gente che vive per creare ed entusiasmare. Dovessimo definire il mondo The Gigi sceglieremmo alcuni concetti fondamentali: eleganza, seduzione, cromia spiazzante e intrigante, ebbrezza di alta sartoria. Alcune giacche sono dei veri dipinti, impediscono la conversazione, ti costringono a guardarle, accarezzarle e ammirarle a lungo, regalano la felicità immediata, mettono allegria, creano l’effetto “wow”, oppure quello desiderato da Mario, “la compro subito”. Indossarle è un piacere infinito, inebriante, quasi un desiderio. A proposito di Mario, riportiamo quello che ci diceva agli inizi dell’avventura: “The Gigi porta una nuova visione, disegni optical impercettibili, dei nuovi tessuti, una vera e propria evoluzione, giacche ricamate dove si mescolano concetti di architettura e design, tanta fantasia, fodere interne stampate. Tinture e sovratinture nuove, inediti effetti speciali, slavature, lane bouclé, jacquard, procedimenti di invecchiamento, enzimi per smorzare e creare l’effetto opaco, “mat” che tanto piace alla gente che sa apprezzare gli sforzi creativi, ricami in Principe di Galles di foggia britannica. Abbiamo ripreso dei capi realizzati negli anni quaranta, impreziosendoli, aggiungendo una ricerca quasi spasmodica, siamo andati e andiamo oltre le convenienze. La chiave sta qui, capire che l’uomo è cambiato e non si accontenta più del grigio, del doppiopetto con gilet. Vogliamo stupire, anzi, l’uomo vuole essere stupito, per lo meno l’uomo che noi desideriamo vestire”. Eccome, se stupiscono. Qui vi proponiamo tre giacche: ammettiamolo, nessun’altro si era spinto a tanto e, soprattutto, nessun’altro riuscirebbe a farlo.
GIACCA BLUE BIANCA NERA Giacca due bottoni sartoriale Klimt in lino e cotone jacquard, interamente ricamata con motivi geometrici. Bottoni in madreperla e ticket pocket.
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GIACCA DOPPIOPETTO NERA BEIGE BLUE Giacca decostruita doppiopetto Degas in lino e cotone jacquard, decorata con moti ispirati dai colori del deserto nordamericano. Bottoni in madreperla.
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GIACCA BIANCA E NERA: Morbida giacca decostruita Angie in lino e cotone rigato, interamente ricamata con motivi geometrici. Bottoni in madreperla.
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Il sognatore
Foto: Francesco Campo
Claudio Miceli
“V
engono da tutta la Sicilia. Siamo in una zona turistica, fra Taormina e il mare, ai piedi dell’Etna. Confesso, sono felice e soprattutto fiero del mio e del nostro lavoro, ho 32 dipendenti che in pratica considero i miei soci, un negozio di tre piani dove trovi dallo sportswear all’abito su misura, una clientela fidelizzata, di target medio alto, che ci regala delle soddisfazioni enormi. Fatturare sette milioni di euro a Zafferano Etnea è qualcosa di incredibile, di pazzesco: siamo davvero bravi”. La passione di Claudio Miceli la si percepisce subito, seppur al telefono. E’ istrionico, coinvolgente, un imprenditore sognatore: non sbaglia un colpo, indovina e intuisce le mosse da fare, sa guardare lontano e allo stesso tempo stare con i piedi per terra. Lungimirante fin dagli inizi, però qui noi ci fermiamo, lasciandolo raccontare.
– Facciamo un passo indietro, molto indietro: come hai cominciato? – Nel 1981, era un progetto di mia madre, la boutique aveva una trentina di metri, una vera bomboniera. Prima lavoravo in una grossa azienda, però già avevo chiaro in mente cosa fare da grande. Sapevo esattamente a cosa puntare, ovvero sull’eccellenza assoluta, avevo ben chiaro in mente il target, la clientela, i capi di abbigliamento, il fatto che si doveva tenere aperto la domenica. Tempo tre anni e ho aperto il reparto uomo, staccandomi un po’ da lei. – Dopo quasi 35 anni pare evidente, hai visto giusto e hai avuto ragione. – Lo ammetto, sono molto fiero di quello che ho costruito e di quello che stiamo facendo, d’altronde non si fatturano sei milioni di euro a Zafferano Etnea se non si hanno le carte in regola. Non esistono segreti, tranne il fatto che puntiamo e investiamo tantissimo sui rappor-
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ti, sulle risorse umane. Quando parlo dei miei collaboratori mi emoziono: non è retorica, per davvero fanno parte della mia famiglia. Vuoi saperla tutta? A fine anno, se ci sono degli utili, il 20 per cento lo distribuisco a loro, a cominciare dalle donne delle pulizie fino ai capi reparto. Senza l’apporto dei miei collaboratori oggi non sarei qui: siamo più forti di tutto, non abbiamo sentito la crisi perché il progetto era ed è valido, perché loro sono validissimi. – Breve elenco delle aziende che vanno per la maggiore nel vostro negozio. – Brunello Cuccinelli, Loro Piana, Brioni Zegna, Cornelianie, ovviamente, Eleventy. Però qui trovi dal capo sportivo fino al su misura. – I capi che vanno per la maggiore? – Lo sportswear raffinato, di gusto, elegante: le felpe e l’abbigliamento da trekking lo acquistano a scatola chiusa, qui Eleventy la fa da padrona, propongono un rapporto qualità prezzo
eccezionale. – A proposito di Eleventy, Marco Baldassari tesse sempre le vostre lodi. – Troppo buono, un vero amico:fra di noi c’è stata subito empatia umana e professionale, tanto che ora stiamo progettando insieme alcune aperture. – Proviamo a inquadrare e targetizzare la vostra clientela, seppur detta così si rischia di semplificare troppo. – Quello che mi piace è vedere la seconda generazione di una famiglia che si veste da noi. Li abbiamo visto crescere, prima venivano con i genitori e ora arrivano in veste di padri di famiglia. Gente di livello medio alto, che possano essere professionisti oppure imprenditori. – Capitolo clientela straniera, chi prevale? – I russi, tanti. Prima della situazione legata all’Ucraina venivano con i pullman, ora sono leggermente meno, però si tratta ancora di numeri importanti. Cresce la clientela americana, mi sorprende il numero dei cinesi e dei giapponesi, ma qui ha influito l’Expo: in molti si sono organizzati delle vacanze in Italia, pensando di passare alcune giornate a Milano e poi di fare un giro della penisola. Arrivano qui e si sentono in paradiso, li portiamo a cena nel nostro ristorante, sempre qui a Zafferana Etnea: viene considerato uno dei migliori della zona. – Domanda marzulliana: un sogno del cassetto? – Più che sogni, dei progetti: ora parto per Malta, dove incontrerò dei personaggi di spicco algerini, si tratta di gente molto importante, stiamo cercando di mettere in piedi un nuovo brand, ovviamente si chiamerà Claudio Miceli. Sono gasatissimo, perché mi vedo ad un passo dal mio grande sogno. – Come saranno le collezioni del brand Claudio Miceli? – Un misto fra Brunello Cuccinelli ed Eleventy. Io mi vesto così, io sono così. Pure il mio brand lo sarà. La clientela apprezzerà. E tanto.
Claudio assieme alla moglie Mimma, il figlio Stefano e il cane Dante
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Palazzo Versace, Dubai
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vete fatto caso? Dubai non lascia mai indifferenti: lo ami, oppure ti scagli contro. Lo adorano i capitalisti, perché vedere tante gru ti fa sentire vivo. Lo adorano tutti i coloro che si esaltano per lo sfarzo, la qualità, il nuovo. Si oppongono invece alcune categorie che forse sarebbe meglio lasciar fuori dal nostro articolo: non meritano attenzioni e ancor meno dello spazio. Per restare nella categoria degli ammiratori dell’emirato, c’è una divisione fra i coloro che preferiscono i grattacieli e chi invece va per i palazzi vecchio stile, che si sviluppano in orizzontale. Ancora oggi uno degli alberghi più apprezzati resta il Mirage, mentre ad Abu Dhabi continua a impressionare l’Emirates Palace. Quasi identico (torniamo a Dubai) è il Palazzo Versace, situato nel nuovo Cultural Village: 215 stanze di cui 65 suites, più 169 residenze private, da una a sei stanze, esclusivamente progettate sotto la direzione artistica di Donatella. Soffitti dipinti a mano con decori in oro, marmi e mosaici preziosissimi, motivi iconici (la Medusa e la Greca più le stampe): il marchio della maison è riconoscibile ad ogni passo. I ristoranti sono otto, a cominciare dal Vanitas, tipicamente italiano, specialità pesce. E’ il più esclusivo e romantico dell’albergo, davvero di alto livello, sia come arredamento che per la cucina. Enigma va forte con le tecniche moderne, d’avanguardia, sofisticate, Giardino (notevole il design) propone invece dei piatti internazionali, mentre Gazebo punta su prelibatezze marocchine, turche e libanese. Gli altri sono dei lounge bar: La Vita viene considerato un “after work chic and vibrant”, Amalfi è il bar accanto alla piscina centrale, Mosaico splende nella lobby dell’hotel (vista sulla costa e una delle piscine). Molto particolare il Q’s, il primo bar di Quincy Jones, in pratica un supper club dove si suona dal vivo. Quello di Dubai è il secondo Palazzo Versace al mondo. Il primo è stato aperto in Gold Coast in Australia, mentre un terzo Palazzo sorgerà a Macao.
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André Chiang Octophilosophy
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ecnica francese. Tocchi mediterranei. Basi asiatiche. Il risultato? Pioggia di stelle Michelin. Benvenuti nel mondo pirotecnico di André, uno che a due mesi dall’apertura in Singapore si è visto includere dal New York Times fra i dieci ristoranti per i quali vale la pena farsi un viaggio. Metti insieme una meta come il Singapore, un locale stellato, uno chef con una storia intrigante ed eccoli al check in, i lettori del quotidiano democratico (ovvero di sinistra, ammesso che negli Stati Uniti possa esistere qualcosa del genere): biglietto aereo ben in vista e pronti per l’avventura gourmet suggerita dal loro giornale preferito. “Penso che avere un ristorante a Singapore sia un privilegio perché è un paese davvero unico, con tante culture che si incrociano e convivono, con gente molto aperta alle novità, che ama la cucina francese, indiana e giapponese, di conseguenza puoi proporre loro dei piatti
internazionali, di ampio respiro. Non ho mai avuto la sensazione di dovermi adattarmi ai gusti locali”, racconta lo chef nato in Taiwan e cresciuto in Giappone, prima di volare in Francia quando aveva appena compiuto 15 anni. “La mia idea era quella di fare esperienza per poi prendere le redini del ristorante di mia madre, mi serviva conoscere altri mondi che mi permettessero di essere creativo”, confessa. In poche parole, la sua cucina la potremmo considerare un misto di tecnica francese, tocchi mediterranei e basi asiatiche, sofisticata e sorprendente. Se lo chiedete a lui, vi parlerà della Octaphilosophy, ovvero un manifesto in otto punti, otto idee e concetti semplici: unico, puro, testura, memoria, sale, sud, artigiano, territorio. Il menu lo sceglie di giorno in giorno, in base ai prodotti che gli arrivano, specialmente dai pescatori. C’è un solo piatto da sempre presente: Memory (dal 1997), ovvero jelly di foie gras
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con una salsa densa al tartufo. Per tornare alla sua esperienza francese, durata quindici anni, ecco un piccolo elenco dei ristoranti dove ha lavorato: Pierre Gagnaire (tre stelle), L’Astrance di Pascal Barbot (pure qui tre), La Maison Troigros (idem) L’Atelier di Robuchon (due), Le Jardin des Sens (una), Maison Blanchein. Ha iniziato in quest’ultimo, a Montpellier, senza sapere nemmeno mezza parola della lingua transalpina: poi è rimasto per nove anni, fino a quando è diventato executive chef. I due patron e cuochi, Jacques e Laurent Pourcel, sono ancora oggi i suoi punti di riferimento, nonché grandi amici. Conclusa l’esperienza francese è volato al Maia Luxury Resort, alle Seychelles, dove scopre davvero se stesso (culinariamente parlando): “Era per la prima volta che mi stavo chiedendo quale fosse il mio tipo di cucina. Mi trovavo in un posto senza distrazioni, cercando di scoprire cosa amavo per davvero”.
Per lui, l’identità viene al primo posto. Dopo, il piacere dei clienti: difatti non vuole più di 30 posti, perché, sostiene, “cambierebbe tutto e io preferisco vedere i miei ospiti gustarsi appieno la cena, con calma, piuttosto che incassare, nel caso raddoppiassi il loro numero. Certo, lo ammetto, siamo una macchina da soldi, abbiamo lo spazio necessario per aumentare il numero dei tavoli, però va bene così”. Dopo l’apertura di André è seguita, sempre in Singapore, il Burnt Ends, ristorante dove puoi trovare un barbecue di primo livello: poi è stato il turno del Bincho. Ha deciso di provare anche a Taipei: pure lì, al Raw, si fa una gran fatica trovare un tavolo disponibile. Idem a Parigi, al Porte 12, aperto l’anno scorso (ambiente luminoso, contemporaneo, arredi sofisticati, cucina che ti spiazza, spontanea, 30 posti in tutto, André ha dato carta bianca a Vincent Crepel, da anni assieme a lui). Ovviamente, andare senza una prenotazione sarebbe un azzardo. Non andarci però sarebbe una follia.
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Ruth Reichl
Un circo a Le Cirque
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’ uno dei pezzi cult di Ruth: ebbe l’idea di scrivere sullo stesso ristorante, peraltro famosissimo, in due situazioni completamente diverse, anzi, opposte. La prima, andando con una parrucca, senza farsi riconoscere. La seconda, andando come Ruth Reichl. Il risultato? Sconvolgente. Leggere per credere. Per un critico di ristoranti che si trova da poco in città i problemi sono numerosi: ad esempio esistono moltissimi locali nei quali non ha mai mangiato. Il che è anche un vantaggio: per la maggior parte dei ristoranti io sono semplicemente uno dei tanti clienti che ha prenotato con settimane di anticipo e a cui tocca aspettare il suo turno mentre gente più importante di me viene accompagnata al tavolo con una specie di balletto cerimonioso. Rimango a osservarli con invidia nel momento in cui a loro vengono proposti i piatti particolari dello chef e mi rassegno a ordinare dalla carta come i comuni mortali. Ho desiderato da subito recensire la cucina di Sylvain Portay, chef di Le Cirque dalla fine dell’anno passato. Nel giro di cinque mesi l’ho sperimentata cinque volte. E solo alla quarta Sirio Maccioni, il proprietario, ha scoperto chi ero. Dal momento in cui l’ha scoperta il cambiamento è stato sbalorditivo. Tutto è migliorato: la posizione del tavolo, il servizio, la dimensione delle porzioni. Eravamo già arrivati ai dolci, quando il piattino di petit four è stato fatto sparire per essere sostituito da un vassoio più grande e più
spettacolare. Sul mio tavolo si è abbattuta una valanga di dolci e ho visto con meraviglia i lamponi dei nuovi dessert diventare tre volte più grandi di quelli precedenti. La cucina è importante e Sylvain Portay è dotato di un talento eccezionale. Ma nessuno va a cena a Le Cirque solo per mangiare. Ci si va per provare l’esperienza di trovarsi in un grande ristorante. Qualche volta vi riuscirà. Dipende da chi siete.
La cena del cliente sconosciuto
“Ha prenotato?”. La domanda mi viene rivolta con un tono di sfida che mi fa sentire un’intrusa capitata per caso nel ristorante sbagliato. Annuisco docilmente e dico il nome della mia compagna di avventura. Vengo mandata ad aspettare al bar. Dove aspettiamo mezz’ora buona, due donne che bevono bicchieri d’acqua cari come il sangue. Alla fine ci accompagnano a un tavolo nella zona fumatori, cosa che avevamo esplicitamente chiesto di evitare. Alla domanda se non sia possibile averne un altro, il capocameriere si limita a un gesto in direzione della sala e a una rapida alzata di spalle. Non c’è bisogno di chiedere la lista dei vini: sulla mia destra si trova un tavolinetto di servizio dove i camerieri gettano i menu. A intervalli di pochi minuti passa un cameriere e lancia nella mia direzione il menu appena utilizzato. Cerco di disinteressarmene concentrandomi sulla lista dei vini ma, appena arrivata a pagina tre, torna a materializzarsi il capocameriere. “Mi serve quella lista”, dice perentoriamente al-
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lungando la mano. Consegno la lista e non la vedrò tornare prima di venti minuti. (Donne e vino formano un’accoppiata incompatibile a Le Cirque: in una visita successiva il capocameriere sostiene di avere in cantina solo mezze bottiglie del riesling che ordino. Quando gli dimostro che si sbaglia, lui mi guarda in cagnesco). Ma la tenacia viene premiata. La lista è ampia e di buona qualità e al lettore paziente riserva non poche ricompense. Nel giro di poco scopro un delizioso Chambolle-Musigny del 1985 a quarantasei dollari. Sorseggiamo il vino e ascoltiamo senza difficoltà quello che viene proposto ai tavoli a fianco al nostro. La privacy per chi siede ai margini della sala non esiste. Rimaniamo in fremente ascolto mentre il capocameriere illustra ai nostri vicini il menu degustazione a novanta dollari proposto dallo chef (“Come certamente saprete, il signor Portay è stato aiuto cuoco di Alain Ducasse al Louis XV di Montecarlo”). Ma come scopriremo presto, ordinare il menu degustazione non viene considerato elegante. Siamo a metà giugno e il nostro “menu di stagione” si rivela ricco di piatti scuri. Le verdure sono soprattutto carote, rape, ravanelli e le patate compaiono in tre portate su cinque. E tuttavia la prima portata, foie gras sauté con pesca bianca, è talmente buona che il suo ricordo ci accompagna per gran parte della cena. La delicata dolcezza della pesca si sposa a meraviglia con la personalità robusta del foie gras. Apprezzo anche il piatto successivo, una tartare
di tonno al curry. Intorno al morbido trito di pesce, perfettamente speziato, un delizioso mosaico di ravanello tagliato sottile. Ma un ristorante davvero “grande” non dovrebbe servire fette di pane tostato così pallide e flosce. Siamo impegnate in queste riflessioni quando compare il capocameriere e ci informa che si è liberato un tavolo e possiamo allontanarci dalla zona fumatori. Il trasloco dovrebbe rendermi felice, ma quando l’addetto al trasporto ci pilota alla nuova postazione ficcandoci in mano i tovaglioli pieni di briciole e piazza sul tavolo i bicchieri usati, non riesco a impedire al disappunto di prevalere. Una buona cena. E abbondante. Eppure, al momento di pagare il conto mi ritrovo a pensare che quando il maitre mi ha chiesto se avevo prenotato avrei fatto meglio a rispondere di no e ad andarmene.
La cena del cliente privilegiato
“Il re di Spagna sta aspettando al bar, ma il suo tavolo è pronto”, dice il signor Maccioni, nel suo incedere maestoso che ci apre la via fra la folla in attesa. Alle nostre spalle una signora non più giovane tutta ingioiellata piagnucola: “Noi è da mezz’ora che aspettiamo”, ma nessuno se la fila. Il signor Maccione ci sorride. “Posso offrirvi un po’ di champagne?”, dice mentre uno dei suoi assistenti si precipita al nostro tavolo con un paio di flute gorgoglianti di bollicine. Possibile non sentirsi gratificati? Non ha neppure controllato se abbiamo prenotato (come in effetti abbiamo fatto, anche se siamo in anticipo di venti minuti). Io e il mio accompagnatore ci sentiamo d’un tratto eleganti, ammirati, importanti, il tutto prima ancora di renderci conto che ci aspetta un lussuoso tavolo da quattro, isola di pace in una sala affollata. “Questa sera ci rimettiamo nelle sue mani”, dico. Il signor Maccioni annuisce felice e va a organizzare i suoi miracoli.
Xacus
Indossare il baccalà
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iamo arrivati prima noi, di GOOD LIFE. L’alta moda e l’alta cucina, insieme, sono il nostro credo, pagina dopo pagina, parola dopo parola. Chi ci segue lo sa. Stiamo parlando dello stesso mondo, fatto di passione, di voglia di sognare e far sognare, idee e colori. Chef e stilisti vivono con il desiderio spasmodico di emozionare e creare quell’effetto “wow”, quel battito di cuore, quella sensazione di volare e di sentirsi e farti sentire in paradiso. E’ un mondo che ci piace e ci coinvolge, ci trascina, ci emoziona. Vedi quella luce nei loro occhi e ti spingi oltre, ti lasci portare lontano, fra profumi e idee, sapori e colori. Stessso mondo a parole, stesso mondo anche con i fatti, perchè le nostre pagine sono piene con abbinamenti fra piatti stellati e capi di abbigliamento attinenti. E’ un giochino assai semplice e allo stesso tempo intrigante, vincente, scintillante, frizzante. Sfogliando Il Giornale abbiamo scoperto che pure l’azienda veneta Xacus la pensa come noi: sul quotidiano si parlava della nuova collezione, ispirata a dei piatti realizzati espressamente per loro da quattro chef stellati. Noi ne abbiamo scelti due, quelli di Massimo Bottura e Antonino Cannavacciuolo, lasciando in disparte le creazioni di Pietro Leemann ed Ernesto Iaccarino: ci dispiace, però le esigenze di spazio ce lo impongono, nostro malgrado. Lo chef napoletano ha creato per l’azienda vicentina un piatto intitolato “Gnochetti di baccalà, alghe marine e tartufo di mare, mentre Bottura ha “prestato” a Xacus il suo “Lepre nel bosco”. Ecco qui, accanto, le immagini delle meraviglie e poi le camicie con i disegni. Un’idea pazzarella che ci piace. Da seguire.
Lardini
Eleganza, sempre
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volte, un’immagine può bastare. Guardi il capo spalla della nuova collezione e ti sei già fatto un’idea chiara sul mondo Lardini: tessuti all’avanguardia, linee raffinate, eleganza totale e informale, filati pregiati, sfumature particolari. Andando oltre la giacca, allargando l’immagine, possiamo raccontare la nuova collezione che verrà presentata al Pitti: evidente l’ispirazio-
ne militare ed aeronautica, affrontata con una rivisitazione delle cromie che abbandonano i classici verdi per abbracciare tutte le nuance dell’azzurro. La ricerca stilistica dà vita nel particolare a cinque modelli straordinari: il cappotto dell’aviazione americana (AviationCoat), il peacoat dei cadetti (CadetPeacoat), il capo ispirato l’alta uniforme dei marines (Marines Corps), il bla-
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zer militare dell’esercito inglese (Army Blazer) e infine la camicia ispirata all’esercito russo (MoscowShirt). Concludiamo con interpretazione dell’evento sera: giacca smoking in lana e seta realizzata con l’inserimento di un bouclé in ciniglia contrastato dal rever a scialle in seta. L’abito doppiopetto in jacquard si arricchisce di rever e bottoni rivestiti in mohair.
Lo sbarco
S.W.O.R.D 6.6.44
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iker, chiodo, bomber, montone, pelliccia: chi di noi non porta o ha portato uno di questi capi? Da anni i fashion designer si divertono a reinterpretare i vari modelli, dal mood più classico a quello più estroso. Nel mondo della pelle, eccelle la S.W.O.R.D 6.6.44: i fondatori dell’azienda, i fratelli Matteo e Giacomo Zanellati, due che da piccoli giocavano a vestire i loro soldatini, ci fanno entrare nel loro universo. - Cosa significa il nome S.W.O.R.D 6.6.44? - Il nome del brand è denso di significato: “Sword Beach” è stato il nome in codice alleato di una delle cinque spiagge in cui avvenne lo sbarco in Normandia, nelle prime ore di martedì 6 giugno 1944 (6.6.44). Lo sbarco in Normandia fu una delle più grandi invasioni marittime della storia, messa in atto dalle forze alleate durante la seconda guerra mondiale per aprire un secondo fronte in Europa, dirigersi verso la Germania nazista e mettere fine al conflitto. Ecco, la creazione del brand è stato il nostro D-Day: lo sbarco nel mondo della Moda. - Passo indietro, torniamo agli inizi, ai primi
giorni. - La nostra storia inizia ben 40 anni fa quando, da bambini, ammiravamo nostro padre che lavorava le pelli: inconsiamente ci ha trasmesso la sua passione. Abbiamo cominciato quasi per gioco fino a quando, quindici anni fa, i nostri capi sono stati notati e richiesti sul mercato. In quel momento è nata la nostra azienda. - Quali sono le creazioni cult del vostro marchio e quali i modelli imperdibili da avere nell’armadio? - i due capi che piu’ ci rappresentano e sui quali ci concentriamo maggiormente nelle nostre collezioni sono il biker e il chiodo, in mille varianti e in pieno stile Sword. Le nostre collezioni spaziano dal classico chiodo al biker, alla giacca, al montone, alla pelliccia. - Proviamo a definire lo stile Sword. - Ci ispiriamo allo stile punk-rock, gli anni ‘70. In poche parole: il periodo d’oro dei capi che produciamo. Riprendiamo i modelli base e li rinnoviamo, li reinterpretiamo, li facciamo nostri. - Piccolo elenco delle star che indossano i vostri prodotti: Jennifer Aniston, Jorge Lorenzo, Kate
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Moss, DJ Ashba dei Guns ‘n Roses, Madonna, Ben Harper, Jennifer Lopez. Cosa trovano di cosi’ irresistibile? - La prima caratteristica che ci riferiscono sempre i nostri clienti e sulla quale siamo molto forti è la vestibilità, il “perfect fit”. I nostri capi sono confezionati in modo tale da adattarsi al fisico maschile e femminile, accompagnandone i profili e mantenendo la comodità. Semplicemente, lo stile si accompagna al comfort. In ultimo, ma non come importanza, il buon rapporto qualità-prezzo. - Proviamo a targetizzare il vostro cliente tipo. - Vestiamo persone della fascia d’età che va dai 18 ai 50 anni. Il ragazzo che compra Sword è un giovane grintoso, al passo con i tempi e aggiornato alle ultime tendenze; il nostro cliente di mezza età è un uomo che è avanti di pensiero, in grado di indossare con sicurezza i capi più avvolgenti. La donna Sword sa essere moderna e trasgressiva con il chiodo in pelle ma allo stesso tempo raffinata ed elegante con le nostre pellicce più classiche. Insomma, cerchiamo di creare dei capi adatti a tutti.
Virgilio Martinez Il genio di Lima
“S
oy un obsesivo del sabor. Non so se sono un genio, ma di sicuro con le materie prime andine riesco a realizzare dei piatti geniali”. Firmato Virgilio Martinez, la star di Lima, il primo chef del suo paese ad aver ottenuto una stella Michelin. E’ giovane, bello, sexy, bravissimo a tal punto da destare stupore e ammirazione non solo in patria, ma anche a Londra dove ha appena aperto il suo secondo ristorante. Viene considerato uno dei pionieri e degli artefici dell’alta cucina peruviana, diventando famoso per via degli ingredienti a dir poco rari che ama utilizzare e proporre: il cushuro, la patata che si trova solamente a 5.000 metri di altezza è un must, così come i sali particolari (ne ha più di 130 nel suo ristorante a Lima). Ha creato più di 500 piatti, 70 dei quali imprescindibili per il suo percorso. E pensare che niente presagiva un suo futuro da chef: cresciuto sulla spiaggia di Lima, da
piccolo impazziva per il skateboard, poi ha studiato legge, insomma tutto tranne che amore per la cucina. Appena finiti gli studi, il click: va in giro per il mondo a curiosare e a lavorare nei ristoranti, iniziando in Canada, ad Ottawa, al Cordon Bleu. Seguono tappe un po’ ovunque, da Londra al Singapore, dall’Italia a New York (al Lutece) per poi mettersi alla prova nel famoso Astrid e Gaston, il ristorante dell’idolo dei peruviani, Gaston Acurio. E’ stato il suo executive chef sia a Bogota che a Madrid: pare che non sia andata come avrebbe sperato, comunque meglio che in Francia dove un suo capo gli ha morso l’orecchio dopo una lite furibonda. Un pellegrinaggio che lo ha forgiato ma allo stesso tempo lasciato un grande interrogativo: non riusciva capire che strada seguire, non aveva uno stile proprio, si sentiva confuso, gastronomicamente parlando. Decise così di intraprendere una strada nuova, puntando su
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ingredienti rarissimi abbinati a delle tecniche moderne. Quando apre il suo primo ristorante, Central, nel quartiere chic di Miraflores, la sua cucina è una miscela non proprio ideale di culture diverse: poi, l’illuminazione. Avviene per via dei viaggi a Cuzco, antica capitale Inca, dove si stava costruendo un nuovo albergo cinque stelle, Palacio Nazarenas: volevano lui come chef (lo è tuttora, il ristorante si chiama Senzo) e così è venuto a contatto con i contadini locali. Nasce in questo modo la cucina andina: la sua moglie Maria Pia Leon come aiuto, materie prime del Pacifico e dintorni, destando l’interesse della critica mondiale. Il risultato è sfavillante, tanto da essere incluso fra i cinquanta migliori ristoranti al mondo. Per la cronaca, il menu degustazione costa 89 dollari più 75 nel caso si aggiungesse anche il vino (le birre sono artigianali e provengono dalle Ande). Ora le sue intenzioni vanno verso un altro tipo
di menù, quello sorpresa: ogni giorno qualcosa di diverso, in base alla stagionalità e all’ispirazione del momento. D’altronde chi varca la porta del suo ristorante desidera, esige di essere stupito, possibilmente sempre. Due anni dopo (siamo nel 2012) eccolo aprire Lima, a Londra, zona Fitzrovia, in Rathbone Place 1: i patron del locale sono due fratelli venezuelani, Gabriel e José Luis Gonzalez. Il progetto è costato cinque milioni di sterline ma ne é valsa la pena: tecniche hi tech e stessa cucina tradizionale peruviana gli portano la prima stella Michelin (da non perdere l’octopus brasato con quinoa bianca, il beef sudado, l’orata e il pesce dall’Amazonia, il tiradito, una specie di sushi peruviano, più il Café Peruano). Matthew Norman del Telegraph scrisse: “Perfect amalgam of taste and aesthetics, every dish marrying dramatic colour combinations to clear, precise and equally vibrant flavours”. Non dobbiamo tradurre, il senso delle sue parole é assai chiaro e coinvolgente. Per la cronaca, i prezzi vanno dai 90 ai 100 euro, mentre in cucina troverete quasi sempre Robert Ortiz, il fido di Virgilio. Due parole anche sulla seconda apertura londinese: Lima Floral, in Floral Street angolo Covent Garden. Sempre assieme ai due fratelli e sempre straordinario, 70 posti, diviso in due (il ristorante in sé e poi il bar dove si servono specialmente delle tapas). E’ stato disegnato dallo studio B3, assai famoso nella capitale londinese per i progetti Gymkhana, Bubbledogs e Roka. Gli ingredienti, i piatti e il resto appartengono invece a Viriglio e Robert.
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Dani Garcia Cocina contradition
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piaggia di Marbella, il mare davanti. Dani Garcia, figlio dell’Andalusia, è nato, vive e crea qui, prima al Calima (ristorante dell’hotel Sol Melia, il meglio del meglio), ora nel locale che porta il suo nome. Durante gli anni, si sono sprecati titoloni elogiativi: “L’artista”, “Il Mago della cucina d’autore”, “Il re del nitrogeno liquido e delle fritture impossibili”, “L’artigiano dei sapori”. Racconta la sua cucina come “di contrasto, andalusa, saporita, di mare e mediterranea”. E’ arrivato all’apice dieci anni addietro, quando era considerato il nuovo mago della cuisine creativa andalusa, allievo prediletto di Berasategui e premiato come miglior chef spagnolo per due volte di fila. Calima veniva eletto il migliore dell’intero paese, lui prendeva la stella, poi sempre mantenuta: fu una storia con botto fin dall’inizio. Ha sempre cercato di innovare, di creare dei nuovi sapori, mantenendo un equilibrio fra la tradizione culinaria andalusa che sa riaccendere nelle persone la memoria del gusto e l’innovazione, utilizzando dei processi all’avanguardia, come la cottura all’idrogeno liquido (-196°), o le fritture a temperature altissime (180° circa). Permettono, sostiene, di raggiungere consistenze e sapori inusuali, impossibili da ottenere in altri modi. Solo lui, assieme a Blumenthal e Adrià,
utilizzarono il nitrogeno in cucina: erano i tempi delle follie molecolare, tempi assai confusi per la clientela e per l’intero modo della ristorazione. C’erano i geni e poi le decine di chef che cercavano di scimmiottare i geni: un disastro, ma lui faceva prima della categoria dei geni. Finita la sbornia molecolare, si è concentrato sui sapori e le materie prime locali, inventando la così detta cocinacontradition, profumi classici e tecniche moderne: è il periodo nel quale, assieme a Juan Carlos Garcia e Angel Leon, viene considerato lo chef andaluso più creativo del momento. “Il complimento che preferisco”, confessa, “è quando un cliente, andandosene, mi dice che ciò che ha mangiato gli ricordava sapori e sensazioni dell’infanzia, o dimenticate”. Fra i tanti piatti al limite della genialità da citare assolutamente la semola d’olio d’oliva con prosciutto crudo. Oggi vive con la più semplice delle motivazioni: vedere i suoi clienti felici. “Quando il locale è pieno, la fine della serata è il momento più bello e soddisfacente. Ha deciso di diventare chef all’età di 16 anni: prima sognava un futuro come calciatore. Si è iscritto alla scuola di catering Consula Hospitality, appassionandosi subito dal mondo della cucina, sorprendendo in qualche maniera anche se stesso. Poi riuscì a entrare a far parte della
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brigata di Martin Berasategui: il dado era tratto. La prima grande follia culinaria l’ha compiuta al Tragabuches (ristorante rinomato a Ronda), nel 1998, quando aveva solo 23 anni: mise nel menu il gazpacho e gazpachuelo, a quei tempi quasi una bestemmia per un ristorante di alto livello: erano i tempi del caviale e dei tartufi, del foie gras e della cucina classica francese. Va matto per il calcio, soprattutto per il Barcellona di Messi. Nei pochi momenti liberi ama cucinare il pesce fritto e lo ajoblanco, tipico piatto malagueno. Viaggia molto (soprattutto in Giappone), in cerca di ispirazione per i suoi piatti: fra i colleghi, stravede per Manuel De La Osa, Rubuchon e ovviamente Berasategui e Adrià, con i quali ama parlare di cucina e ristorazione. Ora, conclusa l’esperienza con il Calima (alla fine del 2013), lo chef gestisce un altro bel po’ di ristoranti, a partire dal Dani Garcia, all’interno dell’Hotel Puente Romano, a Marbella. Poi Uno, a Madrid, Calima Palacio alle Canarie, Lamorga, a Malaga: ha aperto uno con lo stesso nome a New York, dove possiede pure un bar di grido, modernissimo, che serve tapas (Manzanilla, aveva aperto prima a Malaga). In più, detiene il BiBo, brasserie andalusa con piatti favolosi: zuppe fredde, un tonno strepitoso proveniente da Almadraba. La sua Andalusia è ovunque.
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www.gerlach.it Unici al mondo
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n breve, i fatti. Siamo negli anni settanta, un operaio di nome Peter Gerlach ha una intuizione geniale e capisce come si potrebbe rivoluzionare il mondo dei macchinari tessili. Inizia in un capannone di Saronno, nelle ore libere. Un bel giorno va dai suoi superiori (stiamo parlando di una azienda tedesca) e propone l’innovazione. Invece di apprezzare lo licenziano, perché lo considerano un concorrente. Nonostante tutto questo, tenta di vendere le sue idee, però gli ridono in faccia e lo invitano a uscire dall’ufficio. “Vi ricorderete questo giorno per tutta la vita”, disse Peter, incupito. A distanza di anni, nel 1999 il signor Peter Gerlach incontra i suoi ex datori di lavoro in un albergo di Dusseldorf, stacca un assegno di 2,8 milioni di dollari, acquista l’azienda tedesca e, pochi giorni dopo, la chiude. La vendetta è stata servita. Come trailer non è male, vero? Certo, nel mezzo ci sono 25 anni di genio e fatica, però ne è valsa la pena, eccome. Ora la Gerlach è l’unica azienda del genere in Europa, creando da zero assolutamente tutti gli impianti che servono al finissaggio e agli altri passaggi. “Una camicia Aglini realizzata con un cotone Albini non sarebbe la stessa senza le nostre pinze e catene. Siamo noi quelli che costruiamo l’impianto che permette al tessuto di essere di qualità. Mio padre ha iniziato nel 1972, quando ha capito che la parte critica dei macchinari fossero le pinze
e le catene. “Da domani le produco io”, si disse. Andò fiero in Germania, pensando di poter lavorare con loro: invece lo mandarono via in malo modo. “Ricordatevi che vi ricorderete di me”, furono le sue ultime parole prima di tornare nella cantina di Saronno, dove già prendeva forma il suo macchinario: in pratica, oggi chi non segue il processo Gerlach perde in dimensioni, forma e colori. Tradotto in maniera ancor più semplice,
Prima o poi la sceneggiatura arriverà sulla scrivania di qualche pezzo grosso di Hollywood: la storia merita di essere vista e rivista al cinema. se lavi per dieci volte una camicia realizzata con un tessuto non trattato da noi, la potrai anche buttare via, di sicuro non potrai vendere un prodotto del genere come eccellenza”, ci racconta David, uno dei due figli. “Mio padre non ha scoperto nulla, a parte affinare la precisione. Se prima potevi stendere sul macchinario un pezzo di tessuto di 140 centime-
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tri, ora siamo arrivati ai 3,60 metri. Per questo vengono tutti da noi, il 98,4 per cento del mercato dell’alta moda passa da Saronno: esportiamo le nostre pinze e catene in 75 paesi. La situazione è cambiata radicalmente nel 1990, quando mio fratello ha scoperto una tecnologia innovativa che permette ai macchinari di durare fino ai dieci anni in più rispetto alla concorrenza cinese che, ovviamente, ha sempre tentato di copiarci”. David, 36 anni, è pieno di orgoglio mentre ci racconta i successi dell’azienda di famiglia: d’altronde non potrebbe accadere diversamente. Leggere per credere. - Siete dei veri geni: nessuno riesce a capire il vostro segreto. - Lo so. Badi bene che l’anno scorso sono venuti dagli Stati Uniti e dal Giappone, si tratta di un colosso della telefonia: forniamo loro le nostre pinze per produrre i touch screen dei telefonini. Erano in undici e, ovviamente, al loro arrivo abbiamo coperto i macchinari. Sono ripartiti con l’idea che si, siamo bravissimi, i test che hanno voluto sulle tolleranze ci hanno premiati. Però volevano capire se si trattava di un caso, oppure di una costante, così che sono tornati: stavolta la tolleranza è stata addirittura migliore, 0,86 millimetri rispetto allo 0,9 della prima volta. In pratica siamo sotto le dimensioni di un capello. - Tornando al mondo tessile e ai macchinari…. - Senza di noi un tessuto Loro Piana, oppure Zegna, non riuscirà mai ad avere la stessa qualità.
- Chi è oggi l’azienda Gerlach? - Siamo ancora una srl a gestione familiare: mio fratello e io, poi i nostri genitori. Abbiamo una cinquantina di agenti in giro per il mondo e una sede di 3.000 metri, a Saronno, dove lavorano 50 persone. Alberto, il mio fratello, ingegnere meccanico, ora cinquantenne, è il cuore dell’azienda, ci lavora 12 ore al giorno e ha sempre le mani piene di grasso. Io invece, avendo studiato marketing e comunicazione, seguo la parte finanziaria, il contatto con le banche ed i clienti, gli agenti e le fiere. Sono entrato qui per la prima volta quando avevo 14 anni, iniziando col fare delle fotocopie. Poi piano piano sono passato alle fatture e il resto. Sono sempre a stretto contatto con la nostra madre, Wilma, il grande capo amministrativo, visto che ha una laurea in economia e commercio. Lavoriamo come dei matti, tutto l’anno, due turni. - Dove vendete, maggiormente? - In Sud America, soprattutto: Messico in primis. Poi Turchia, un produttore di camicie pazzesco, così come l’India e il Pakistan. Le fabbriche rumene, polacche e della Repubblica Ceca sono invece costruite dagli italiani, per cui hanno preso direttamente da noi. - C’è ancora mercato? - Siamo quasi unici al mondo, di conseguenza sì. Ogni settimana abbiamo una ventina di richieste. I nostri agenti scelgono i partner in base alle qualità umane, prima della componente industriale e commerciale. - Quanto si fattura producendo pinze e catene? - 8 milioni di euro. Prima dell’idea del mio fratello eravamo sui 200 milioni: di lire, però. - I concorrenti come se la passano? - Malissimo, così come le aziende che cercano di spendere meno senza capire che alla lunga spenderanno di più. Spesso la situazione è al limite dell’assurdo: investono 2.940.000 per un macchinario, contenti di aver risparmiato 60.000 euro. Poi scoprono che alla lunga hanno speso di più, perché i nostri prodotti, le pinze e le catene, durano da 7 a 11 anni, mentre quelli della concorrenza cinese non più di uno. Alcuni guardano all’immediato, sperando di guadagnare, tranne poi rendersi conto di aver fatto un errore di valutazione. Noi vendiamo a 100.000 euro e dura undici anni, i cinesi a 40.000 e dura un anno: che dire. Tornando alla concorrenza, ci hanno provato in tanti, soprattutto in Cina e India, tranne poi chiamarci per risolvere il problema: le loro pinze si sono staccate, mentre l’impianto è andato a fuoco. - Non temete mai che una azienda concorrente riuscirà a carpire il segreto delle pinze? - No, perché noi siamo a saremo sempre un passo avanti, d’altronde partiamo con 30 anni di vantaggio rispetto a loro. In tanti hanno cercato di copiarci, però tutte le volte è finita allo stesso modo: li abbiamo acquistati. - Si tramanderà il segreto alle nuove generazioni della famiglia Gerlach? - Abbiamo con noi un ragazzo che ha iniziato qui a 16 anni, ora ne ha 32: è lui il custode dei segreti. Se viene un raffreddore al mio fratello, conosce tutti i dettagli. E’ come nella cucina di uno chef stellato: se è via, i piatti escono uguali. - Come concludiamo l’intervista? - Dicendo che pur essendo tedeschi di origine – mio padre è di Amburgo – crediamo nel Made in Italy e vogliamo dimostrare al mondo intero che l’italiano è creativo come nessuno. Continuiamo a credere che siamo i migliori. www.gerlach.it
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Ivy We love you
International.
Inga Verbeeck, CEO di Ivy International
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D
omanda: quanto vi costa un matrimonio sbagliato? Risposta: impossibile quantificare, fra avvocati, fegato, mantenimento e soprattutto vita tempo gettate dalla finestra. Ecco, prima di sbraitare e gridare allo scandalo leggendo la somma di iscrizione all’agenzia Ivy International, pensateci bene bene (ma proprio bene bene) a quello che vi abbiamo chiesto all’inizio. Certo, nessuno vi augura di separarvi, però capita ogni santo giorno. I motivi sono infiniti e non staremo qui ad analizzarli: semmai vale la pena parlare di quello che si può fare per trovare una persona attinente ai nostri valori, sociali ed economici. Perché è inutile girarci attorno al problema: vivere con qualcuno, per più di un breve periodo, è impresa assai ardua, proprio per le differenze di ceto, valori, provenienza, ambizioni, reddito e lavoro (lasciamo da parte per un attimo il carattere e la passione). Sarebbe un altro discorso sfiancante: per esigenze di spazio dobbiamo sorvolare. Ci possiamo però fermarci su un aspetto che spesso passa in secondo piano: la mancanza di tempo di alcuni per trovare un partner. Detta così pare una boiata, però fateci caso: manager, avvocati, chirurgi, banchieri e altre categorie professionali passano gran parte del tempo al lavoro. Si inizia presto e non si sa quando si finisce, quando potranno incontrare qualcuno. Si cena tardi, poi si va a letto. Volendo, una escort la si può trovare: per una notte, non per una vita. Ed eccoci al punto: Inga Verbeeck ha avuto un’idea geniale, fondando Ivy International. Una specie di club per professionisti, per gente con poco tempo a disposizione ma tanta voglia di trovare un partner. Se c’è qualcosa che vi sembra stonato, facciamo l’esempio della giovanissima imprenditrice svizzera, 28 anni, che lavora in una multinazionale a Zug: “Esco dall’ufficio verso le 22,30, anche più tardi. A quel punto dove dovrei andare, per trovare un compagno? In un pub? In una discoteca? Che poi a Zug è tutto chiuso a quell’ora”. Giusto. Se nella tua cerchia di persone non trovi una persona che ti possa andare a genio (e, ovviamente, viceversa), hai poche speranze, diciamo nessuna. È un problema di tanta, tantissima gente. Sono quelli che viaggiano sempre, che hanno orari pazzi ma che vogliono anche una vita familiare. Certo, la domanda più lecita sarebbe “Chi starebbe con loro, se sono sempre in giro?”. Alcuni però desiderano un matrimonio e una vita in due. Una donna, sempre svizzera, sempre bellissima, raccontava a Inga che lei sarebbe pronta per una relazione e un matrimonio, anche per un figlio, però non ha davvero la possibilità di uscire. “Trovami uno disponibile e io prometto che dedicherò del tempo alla mia futura famiglia”. Ecco a cosa serve Inga con i suoi 3.000 clienti sparsi per il mondo, gente di un alto livello sociale ed economico. Altro tasto sensibile, gli opportunisti. Perché se hai soldi, ereditati oppure guadagnati, avrai sempre attorno persone pronte a fingere interesse per attaccare il cappello, come si dice. Ivy li esclude, semplicemente perché non li fa entrare nel club.
Per essere ammessi ci vogliono ore di interviste, poi una ricerca accurata (in tanti si fingono single solo per avere delle avventure), spesso si avvalgono di un investigatore privato. Le storie e gli aneddoti sulla clientela sono infinite, ci torneremo sull’argomento, per ora limitiamoci a dire che le donne italiane vogliono quasi sempre uomini anche loro italiani, mentre i maschi nostrani evitano come la peste le femmine della penisola.
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Perché si può scegliere: per 15.000 euro hai diritto a 10 incontri con persone del tuo paese, per 25.000 hai la possibilità di cercare un partner nell’intera Europa. Si, perché Ivy (sede centrale ad Anversa, stupenda città a mezzora da Bruxelles) ha uffici e clienti ovunque, da Parigi ad Amsterdam, da Ginevra a Milano e tante altre città ancora. La prima puntata si conclude qui. Per altre info, www.ivy-international.eu
Magic moments Castello di Gussago
O
k, non bevo, lo sanno tutti. I gin tonic ed i mojito mi piacciono, ammesso che possano essere considerati alcool puro. Per il resto, buio totale, tranne alcune bollicine che mi incuriosiscono, soprattutto quelle pas dosé. Assaggio, provo a capire e a carpire dei segreti, tento di appassionarmi, anche se i risultati sono assai modesti, almeno fino ad oggi. Quello che posso dire è che alcuni champagne si prestano, eccome, ad accompagnare i sigari: sai che novità, direte. Di sicuro mi piace ascoltare i produttori, sebbene alcuni, ebbri di passione, non riescano a fermarsi e ti raccontino per ore tutti i dettagli, perfino quelli meno interessanti. Perdo il filo, non essendo un intenditore, però riconosco loro la voglia di conquistare con i fatti e non vendendo fumo. Poi ve ne sono alcuni che, appena incontrati, riescono a toccarti l’anima: Sabrina Gozio è una di loro. Ti ammalia, ti seduce, si entusiasma e ti entusiasma. Parla del suo Franciacorta come se fosse il suo figlio preferito, percepisci subito che è follemente innamorata delle sue bollicine. E’ gentile, felpata, allegra, morbida, preparata, scatenata, sprizza un entusiasmo irrefrenabile. Vive per i suoi millesimati e rosé, per i satin e pas dosé: la immagini scendere in cantina, nel ventre della terra, alla ricerca del complemento perfetto, dell’abbinamento che esalti la sua cena. E’ una numero uno assoluto, lo si capisce appena inizia a raccontarti del suo millesimato, quando decanta abbinamenti essenziali, come con il foie gras fatto a mano al Bistrot Le Vrai,
marinato con porto bianco, pepe di Sichuan e vaniglia di Tahiti: “In questo caso si sposerebbe divinamente il mio millesimato quaranta mesi sui lieviti, ha delle note di vaniglia”. Stessa storia da Trussardi alla Scala, quando abbiamo assaggiato uno dei piatti più affascinanti dell’anno, un piatto che emoziona più della schiena arcuata della donna dei miei sogni, ti eccita più dei suoi seni innocenti e delle sue labbra di seta, deliziose, dischiuse ed ebbre di piacere. La pizza non pizza di Roberto Conti va annusata in maniera profonda, ampiamente, è un piatto pittorico, amoroso, perfetto, un’onda inebriante di desiderio, i profumi ti avvolgono come una sinfonia, il sapore ti sboccia sul palato. In breve, la ricetta: pomodoro pelato marinato in sottovuoto con origano, poi nel piatto terra di olive nere capperi di Pantelleria, foglie di origano e basilico, crema di mozzarella di bufala e gamberi di Mazara, infine pane rustico bruciato in forno. Abbinato al Brut del Castello di Gussago di Sabrina Gozio è lussuria pura: non è un caso che non riesca più a gustarla senza il suo Franciacorta. Concludo con un altro binomio epocale, perché era quasi impossibile trovare l’abbinamento perfetto per il piatto dell’anno, ovvero lo spaghetto cacio pepe ricci dello stesso Roberto Conti, piatto che, solo a sentirne il profumo, fa quasi perdere i sensi. Fantastica la sensazione di svegliarsi con la voglia di ricordare ogni singola forchettata e ogni singolo sorso del rosé millesimato 2011, cento per cento pinot nero di Castello di Gussago. Perché mangiare è godere.
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Bottiglieria Il mondo di Norie
“P
unto sul whisky giapponese, è molto più puro rispetto a quello classico. In Giappone tutto è più puro. I miei abbinamenti preferiti? Foie gras con vino rosso, un amarone o in alternativa un prodotto francese, Bourgogne di Ghislaine Barthod. Oppure champagne, diciamo Cote, con acciughe. E il prosciutto di Osvaldo, leggermente affumicato, assieme ad un bicchiere di Nikka, ovviamente un whisky del mio paese.”. Norie Harada, otto anni assieme e accanto ad Alain Ducasse, ha il fuoco dentro: potrebbe continuare all’infinito, proponendo abbinamenti provocatori, intriganti e seducenti. Non resistiamo neppure noi, così che vi presentiamo un altro: salmone con Miyagikyo servito
con ghiaccio. Inutile aggiungerlo, Miyagikyo è un whisky nipponico. Ed un altro ancora: Yoichi, molto aromatico, con del cioccolato artigianale, anche se l’abbinamento più stuzzicante e dissacrante sarebbe quello fra lo champagne e il toast: si, il semplice toast. Dovete passare almeno una volta nella sua enoteca chic, aperta in via Spartaco: è pieno di chicche, quel genere di vini e liquori che gli amanti del settore adorano. Si intende, poi diventerete ospiti fissi, ve lo assicuriamo. Il posto è assai inconsueto per via delle dimensioni e delle pareti, perfino il colore dominante (giallo giallissimo) spiazza. Si vede che lo sente suo, si percepisce subito che La Bottiglieria è lei, Norie, ragazza originaria di Kobe poi diventata la clas-
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sica giramondo. “Non ero una grande amante del vino e ancor meno del whisky”, racconta. “Avevo iniziato a lavorare per l’hotel Hilton di Osaka, facevo semplicemente la cameriera. Mi piaceva molto il lounge bar, dove la sera venivano avvocati che sorseggiavano dei costosissimi liquori. Fu il primo contatto con il mondo dell’alcol pregiato. Poi, nel 1995, un sommelier giapponese vinse il titolo mondiale: iniziai ad appassionarmi, assaggiando dei vini, ricordo benissimo il primo, fu un Chambertin. Sapeva di frutta e caffè, lo ricordo come se fosse oggi. Da lì è partito tutto: corsi, libri, fino a quando mandai il mio cv al ristorante di Alain Ducasse di Tokyo. Mi presero, ma nel 2000 andai a Parigi, volevo sapere
e studiare sempre di più sul mondo del vino e della ristorazione. Non volevo nemmeno dormire la notte, lavoravo e leggevo tutti i giorni: abitavo in una mansarda, rimasi per un anno e mezzo. Poi New York, come assistente sommelier in uno dei ristoranti dello stesso Ducasse e il ritorno a Tokyo, al Beige, uno dei posti più belli aperti dallo chef, nel quartiere Ginza. Furono anni fantastici ma anche intensi, stressanti, faticosi, tant’è vero che per un po’ mi sono allontanata dall’ambiente, tornando nella mia Kobe.
Riprese le energie mi sono trasferita a Monte Carlo, andando a lavorare da Robuchon: periodo splendido, convivevo con un uomo di cui ero innamoratissima. Poi la storia finì e decisi di venire a Milano. Ecco tutto”. No, non tutto, perché, come dicono gli anglofoni, the best is yet to come, il meglio deve ancora venire. Difatti eccola qui, in una città che sente sua come nessun’altra, prima: “Rispetto a Parigi qui la gente è più aperta, si veste meglio e beve più aperitivi”, ci confida sorridendo. “La
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Bottiglieria vuole essere un posto cosmopolita, con una clientela internazionale. Punto sui migliori vini e anche su piccole cantine: della prima categoria fa parte il Chateau Ausone, il miglior grand cru mai assaggiato. Della seconda, faccio un solo nome, Lorenzo Accomasso: fa un Barolo e un Barbera da sogno”. Se le chiedi i ristoranti preferiti, ha una lista infinita che va dal Pont de Ferr (“molto divertente”) fino a Il Pellicano (“tutto è perfetto”). Però non sono i suoi, Bottiglieria invece sì.
Affligem,
birra belga e segreti italiani
H
istory in a Bottle, ovvero parole e immagini che ci portano lontano con l’immaginazione, scatenando sogni, emozioni e desideri. Pare il titolo di un film hollywoodiano e per certi versi lo è, basta ricordare Message in a bottle, con Kevin Costner e Robin Wright. Romanticismo puro, una storia intensa, come quella di Affligem, birra belga nata in una abbazia benedettina nelle Fiandre, nel 1074, quando sei cavalieri hanno deciso di abbandonare il loro stile di vita guerrigliero e abbracciare una nuova fede. Storia intensa, millenaria, piena di passione, fra tradizioni e scoperte, alla spasmodica ricerca dell’eccellenza, oggi raccontata proprio grazie al progetto History in a Bottle, che rivelerà i percorsi e i segreti dei migliori artigiani d’Italia, aziende storiche che tramandano arti millenarie di generazione in generazione: la Coltelleria Saladini, la Manifattura Orafa Torrini, Fabio Chiari Liutaio, Panizza, l’Antica Corte Pallavicina, la Tessitura Luigi Bevilacqua, l’Azienda Orsoni e l’Azienda Venini ospiteranno gli shooting del fotografo Giovanni Gastel, donando un nuovo bouquet di valori da ammirare e condividere. Un percorso che si snoda attraverso le botteghe dell’eccellenza italiana, raccontato grazie alle immagini di Gastel, le cui prospettive ar-
tistiche sposano alla perfezione la ricerca di Affligem alla dedizione senza tempo. Le migliori immagini scelte saranno pubblicate su History in a Bottle Social Hub e andran-
no a comporre assieme alla sua raccolta un inedito archivio virtuale, una “macchina del tempo” fotografica, da scoprire e condividere. Dicevamo: é dal 1074 che Affligem viene prodotta a ridosso del campanile dell’abbazia, prima al suo interno e ora nel piccolo birrificio
Ramazzotti vintage
U
na passione vintage che intriga e non poco. Complimenti alla storica azienda italiana: sono riusciti a farci tornare indietro nel tempo, quando solitamente si guarda solo avanti, com’è giusto e normale che sia. Per un attimo invece eccoci nel 1926 assieme a Leonetto Cappiello, nel 1936 con Luciano Mauzan e nel 1947 con Gino Boccasile, dei veri pionieri del marketing italiano. Certo, è sempre meglio sognare al domani e gustarsi il presente, però ogni tanto possiamo concederci qualche istante per sfogliare le pagine del passato, un passato glorioso, perché l’amaro Ramazzotti, due secoli di vita, ha regalato innumerevoli momenti di immenso piacere a intere generazioni di italiani. Per di più, le scelte retrò hanno un appeal non
indifferente: commercialmente si tratta sempre di successi clamorosi, di numeri notevoli e cifre d’affari da capogiro. Una scelta che vogliamo condividere appieno, pubblicando le bottiglie e le iconiche locandine. La nostra preferita è l’opera di Luigi Struzza (la prima a destra, nella foto): Ramazzotti è il primo a riscoprire questo artista, emarginato alla liberazione perché accusato di collaborazionismo. La Struzza è un’opera d’arte con la potenza della sintesi poetica. Siamo nel dopoguerra e l’approccio al piacere cambia: si ha bisogno di sognare, di investire l’oggetto di emozione. La bottiglia di Amaro Ramazzotti è abbracciata da una leggiadra ragazza, che viaggia sulla groppa di uno struzzo.
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di Opwijk, a pochi passi dalle mura, su licenza dell’ordine religioso e secondo i dettami della ricetta monacale benedettina. Affligem è una delle poche birre d’abbazia certificate dall’Unione delle Birrerie Belghe (Unie der Belgische Brouwerijen), un ambito riconoscimento che rende onore al lavoro, alla disciplina e al gusto della nostra birra. Questa certificazione è riconosciuta solo se esiste una connessione con una abbazia e se parte dei profitti vengono utilizzati per finanziare opere di carità e altre opere culturali che contribuiscono alla conservazione del patrimonio culturale dell’abbazia stessa. Ciò che rende speciale ciascuna bottiglia di Affligem è la rifermentazione in bottiglia che ricorda il metodo Champenoise applicato allo Champagne: dopo un primo processo di fermentazione infatti, vengono aggiunti in ciascuna Affligem lieviti e zuccheri che danno vita al “miracoloso” processo della doppia fermentazione, trasformando la nostra birra in un vero e proprio nettare, più vivo al palato, più robusto e ricco negli aromi. Nella foto di Gastel, assieme all’Affligem, la magia del vetro delle Fornace Venini, una delle realtà coinvolte nel progetto per promuovere le eccellenze italiane, aziende che hanno una storia lunga e che si tramanda da generazioni. Proprio come Affligem.
Luca Coslovich
The Cybartender
A
ognuno il suo Martini. E se James Bond nell’ultimo Spectre si converte al “Dirty Martini”, ovviamente “shaken, not stirred”, la mia proposta ha un tocco mediterraneo in più. I profumi, innanzitutto, del sud, delle spiagge siciliane e calabresi, di donne dalla carnagione scura e forme prorompenti, come la Bond girl Bellucci, di sensazioni forti e carattere da vendere. Piccanti, come il peperoncino che arriva da quei posti incantevoli. La dolcezza del miele che dà equilibrio e amabilità ad una miscela indicata ad uomini e donne, in momenti di intimità e confidenza, in cui raccontarsi ed ascoltare i sentimenti e le pulsioni più profonde La vodka invece raffredda e riscalda contemporaneamente. Distillato glaciale, il mio preferito e amato da Bond, va bevuto ghiacciato, ma scalda immediatamente da dentro. Gli animi, le anime, i corpi. I fiori di sambuco profumano ed addolciscono ulteriormente, subito equilibrati dal succo di lime fresco, spremuto al momento. Piacerebbe a 007, questo Pepper Martini, bevuto subito prima di una scena d’azione, o una d’amore. Si prepara con: Vodka miele e peperoncino (si trova in commercio e arriva dall’Ucraina), St. Germain (liquore ai fiori di sambuco), succo di lime. La decorazione prevede un oliva verde ripiena ed un paio di frutti del cappero
Green Chi l’ha detto che i cocktail analcolici devono essere dolci? Il rimando alle diciannove buche non è casuale. Dopo aver vagato per le dolci colline dei campi da golf, il modo migliore per dissetarsi, se proprio insistete nell’essere astemi, è decisamente quello di buttarsi sull’amaro. In fondo la vita non regala sempre momenti dolci, e questo è un buon modo per stabilire che una punta di amaro può essere piacevole. E allora pompelmo e acqua tonica vengono
Charles Edwards
Green
stemperati, ma solo un pò, da limone e sciroppo di kiwi. “Senza l’amaro, amico mio, il dolce non è tanto dolce” (Jason Lee in Vanilla Sky)
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Charles Edward Curiosa la storia di questo nobile... nato a Roma e vissuto in Italia per gran parte della sua vita, si autoproclamò re di Scozia. Le vicissitudini lo portarono a legare il suo nome al Drambuie, liquore a base di whisky e miele (ed a sposare una donna di 32 anni più giovane di lui, ma questa è un’altra storia). Questo liquore, dicevamo, ha sentori di zafferano, anice e noce moscata, oltre al miele. Unito ad un buon gin profumato ed alla crema di menta bianca regala profumi ed aromi ricchi e persistenti. Perfetto per un dopocena in relax, da gustare lentamente ed in buona compagnia. Per aumentarne i profumi e regalare sensazioni ancora più complesse, si può azzardare un gin affumicato, come quello prodotto dalla italianissima Bordiga di Cuneo. Questo cocktail lo considero ufficialmente il mio primo cocktail, e continuo a proporlo con soddisfazione Drambuie, gin e crema di menta bianca Foto di Janez Pukšič, ricette tratte da “il cocktail ben vestito” , ed. Bibliotheca culinaria
Pepper Martini
Playboy, the end Suicidio perfetto
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gnuno ha il sacrosanto diritto di suicidarsi e di scegliere perfino il modo. Playboy lo ha scelto alla grande, alla grandissima. “Non pubblicheremo più foto di nudo integrale”. La domanda è ovvia: ci date un solo motivo per il quale dovremmo acquistarla ancora, la rivista ideata dal geniale Hugh Hefner, ormai 89enne e fuori dai giochi (ricopre solo una carica simbolica)? La risposta, ancor più ovvia, é: non esiste nemmeno uno, di motivi. E’ come se da domani Topolino iniziasse a parlare di politica. Come se le lasagne venissero fatte con il cioccolato. Come se a Punta Cana nevicasse ogni dì. Un’idiozia grande come una casa, però dietro si nasconde la fine di un’epoca, sempre da loro aperta. Se Hugh fosse ancora giovane, non avrebbe gradito e, forse, avrebbe licenziato Scott Flanders, l’attuale amministratore delegato, il quale, dotto e sbrodolone come un intellettuale italiano qualsiasi, dichiarò che “la nostra battaglia è stata combattuta e vinta: ora siamo tutti a un clic di distanza da qualsiasi atto sessuale immaginabile, e gratis”. Senti Cicci: intanto la battaglia lo ha vinto Hugh, non tu. Poi, va detto, sei un grande: passerai alla storia come l’ad che ha affossato una leggenda. Dietro la decisione sta la preoccupazione, o meglio la disperazione per la perdita evidente di copie e di fatturato. Le aziende non vogliono vedere il proprio nome affiancato a Playboy, temendo ritorsioni e allontanamenti dalla parte dei clienti (non accade mai, però hanno una gran paura delle lamentele). Fino a quando non esisteva la rete dovevi comprare la rivista di Hugh per vedere un
nudo: ora basta un click. Certo, i tempi cambiano, ma il signor Scott ha scelto la strada peggiore. Gongola invece Steve Shaw, considerato da molti il nuovo Hugh, per via della sua creatura, Treats Magazine: “Invece di concentrare tutti gli sforzi per farla tornare ai fasti di una volta, invece di prendere i migliori fotografi e le donne più belle, hanno alzato bandiera bianca. Peggio per loro, meglio per me”. Già. Aurora Marchesani, “playmate nel cuore, e orgo gliosa di esserlo, sempre”, considera che “da un po’di tempo a questa parte si è arrivati ad un graduale processo di snaturalizzazione delle cose per quello che sono. Prendi il cibo ad esempio: si è partiti dai biscotti senza zucchero alla coca cola light arrivando al latte senza lattosio fino agli estremi più paradossali e bizzarri. Levare l’essenza. Che a volte é più un vizio che una reale necessità. Cosa penso di Playboy senza il nudo? Che è un paradosso, un ossimoro. Un antitesi di opposti. Playboy esiste in quanto nudo di classe, per la maggior parte di tutte le sue edizioni. Che Playboy America abbia deciso di non pubblicare più scatti di nudo mi auguro sia solo un’astuta provocazione, per portare l’attenzione all’origine di ciò che ora é fruibile liberamente su internet. E non parlo di pornografia, perché Playboy non é pornografia. E’ solo un bellissimo sogno a cui, forse, si vogliono chiudere gli occhi”. Adolfo Valente, uno dei fotografi che più ammiriamo (e pubblichiamo), rincara la dose: “Già è più o meno sull’orlo del fallimenti (magari l’edizione americana no, per carità, ma in Europa mi risulta sia ai minimi termini ormai...), ora dopo decenni cosa credono di fare? Di rifarsi una verginità e diventare un magazine di cultura? Assur-
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do. Avevano una strada, se volevano cambiare e diventare davvero un giornale di qualità dedicato alla donna e al nudo potevano farlo con foto di qualità, di bravi autori, abbandonando lo stile playmate distesa sul letto col il sedere per aria e il dito in bocca”. Foto che lui non ha mai nemmeno minimamente pensato di fare. Eddie Tone, direttore di Playboy Romania, non può sbilanciarsi, per ovvi motivi. “Negli Stati Uniti sanno e conoscono meglio la piazza, se hanno preso una decisione così drastica avranno fatto le loro valutazioni. Secondo me, agendo in tale maniera, si perde la quintessenza del Playboy stesso. Mi fa piacere che non impongono la stessa filosofia alle edizioni internazionali”. Già, perché ci sono ancora paesi dove la rivista ha un suo seguito, anche notevole: a dire il vero pure negli Stati Uniti, dove oggi vende 800.000 copie. Comunque meno che in Brasile (un milione) e, pare, Filippine, che rimane il paese con il budget più alto. Ci sono poi situazioni come quella russa e ucraina, dove addirittura si paga per ottenere la cover (si favoleggiano cifre da capogiro, dai 10.000 ai 15.000 euro, di mezzo ci sono le agenzie di modelle). Hugh Hefner fondò la rivista nel 1953, pubblicando un primo numero sulla cui copertina c’era una fotografia di Marilyn Monroe, accompagnandolo con un editoriale in cui diceva che “se sei un uomo tra i 18 e gli 80 anni,Playboyè quello che fa per te”. Speriamo solo che dall’anno prossimo non si vedrà una copertina con un saccentino che ci tedia severo sull’alimentazione e affini. A quel punto, l’editoriale dovrebbe aggiornarsi: “se sei un uomo intelligente, Playboy non fa per te”.
Irina Brodescu Show girl
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ono passati più di due anni da quando abbiamo parlato di lei per la prima volta. L’intro dell’articolo resta attuale e di conseguenza ve lo riproponiamo. “Tutte le volte che la vediamo ci viene in mente Demi Moore in un film che ha già fatto la storia, sua e di Hollywood: Striptease. Essendo dei cultori del genere possiamo allargare il discorso, nominando altre pellicole che hanno sbancato al botteghino, dal Burlesque con Christina Aguilera fino al Showgirls con Elizabeth Berkley.” Riproponiamo e ribadiamo parola per parola. Nel frattempo tante cose sono però cambiate: lei splende molto di più, è diventata una presenza quasi obbligatoria ai grandi eventi, i fotografi se la contendono, è desiderata come le star (o presunte tali). Raramente abbiamo visto un corpo e uno sguardo più intenso ed elettrico: se aggiungiamo che è di una sensualità devastante avete un quadro più completo sul soggetto Irina Brodescu, 25enne originaria di Chisinau. Fare un elenco delle discoteche dove si esibisce sarebbe compito assai arduo, ve ne suggeriamo solo alcune. Prendete nota: Villa Bonin, Number One. “Per il resto, vado a divertirmi con le amiche, non per lavorare”, racconta. Che poi l’esaltazione pura è vederla a due passi da te, non sul cubo, inarrivabile. Se a qualcuno il paragone fra Irina, Demi e Aguilera sembra una forzatura, andate a guardarla e poi ne riparliamo. Ride tanto, scherza sempre, ma di se racconta poco, i concetti sono laconici: “Sono una sognatrice, solare e piena di ottimismo, amo mangiare bene, adoro Gisele Bundchen. Fra i stilisti preferisco Martin Margiella, aggiungi pure che a volte mi comporto come una stronza”. Aggiunto.
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Payper Colori, sogni e profumi
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’ diventato una specie di must, come assortire la camicia, oppure la cintura al colore delle scarpe e dei pantaloni: un esercizio di stile quasi quotidiano. A tratti si diventa esigenti perfin troppo, come le signore che non trovano le scarpe adatte per un abito appena acquistato. La differenza e il vantaggio stanno nel fatto che noi non abbiamo alcuna fretta, non incombono eventi e serate mondane: possiamo fantasticare all’infinito, fino a quando non compare l’abbinamento perfetto. Qui nella pagina è un pò come abbinare un capo semplice ad uno sofisticato, forse la situazione migliore. Avete presente la ragazza acqua e sapone che si può permettere di indossare una t shirt semplicissima e brilla come nessun’altra? Ecco, é il tipo di persona che ci piace di più ed è a lei che stiamo dedicando la pagina che state guardando. I piatti sono sempre di Felice Lo Basso, perchè il numero che state sfogliando è, in qualche modo, un omaggio a lui e alle sue creazioni. Lo ammiriamo in maniera esagerata, nel senso positivo della parola: la sua idea di cucina marina e terrena, saporita come un bacio, ci manda in visibilio, ci piace portare da lui le donne che sanno apprezzare le prelibatezze, ci piace svegliarci con la voglia di ricordare ogni singolo morso assaggiato nel suo ristorante, Unico, al ventesimo piano del grattacielo milanese WJC, zona Portello. Quasi sempre i suoi piatti impediscono la conversazione, il primo boccone é una emozione violenta, il sapore ti sboccia sul palato, quasi sempre le labbra “di lei” sono ebbre di piacere: al termine della cena ti ritrovi al tempo stesso eccitato e sereno. Vive per il cibo, come noi viviamo per farvi sognare. I capi scelti per gli abbinamenti sono di Payper, azienda ascolana nata in seguito all’incontro dell’allora giovane patron con un altrettanto giovane pilota. E’ nata una linea sportiva ed elegante, frizzante e casual.
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mimicocodesign_photo M.Mionetto