GOOD LIFE. Ispiring people

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Lorenzo Cogo

Il predestinato


viaggi d’Aut ore

Archivio Il Tucano

in Bhutan


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IL GIORNALE DEL VIAGGIATORE, 72 pagine con articoli curati da studiosi, giornalisti e scrittori, su temi di attualità e di interesse storico, geografico, etnografico e naturalistico, corredati da spunti per viaggi e vacanze.


Editoriale

Milano,

SOGNO INTERMINABILE

I

nizio giugno, il sabato mattina è dolce e piovigginoso, sembra di essere a Glasgow, il riferimento non è casuale. Verso mezzogiorno, come per magia, nell’arco di un paio di minuti, il cielo si libera dalla cappa grigia ed il sole inizia a riempire di luce la città. Contrasti, e forti, come ormai trovi nei piatti degli chef: quasi tutti cercano, e spesso riescono di sorprenderti con dei giochi pirotecnici fra dolce e salato, croccante e morbido, caldo e freddo. Ti svegli con il buio e le gocce d’acqua, il che sa di erotico, romantico e malinconico, poi passi all’altra estremità, che piace, intriga e esalta altrettanto. In quei momenti silenziosi del fine settimana ti passano davanti agli occhi i momenti e gli incontri più frizzanti dell’ultimo periodo, le gioie vissute, i momenti di alta e altissima intensità. Piccolo elenco: l’effervescenza di Taste of Milan, la voglia totale della gente di trovarsi lì e di farsi stupire. Il piatto di Andrea Berton, ovvero i ravioli di anatra con crema di zafferano. Poi quelli di Wicky e Roberto Conti, gli stessi che hanno riempito di languore e piacere anche l’anno scorso: il maialino cotto a bassa temperatura e lo spaghetto cacio pepe ricci. Segue l’intrigante attesa legata all’apertura del nuovo ristorante di Felix Lo Basso, sui tetti della Galleria Vittorio

Emanuele. C’è grande curiosità pure per l’opening di Lume, il regno di Luigi Taglienti, assente da un po’ dalla scena meneghina. Continuando con i piaceri vissuti, eccoci alle storie raccontate da Giuseppe Iannotti e Lorenzo Cogo, due chef che in comune hanno il fatto di non amare troppo la clientela milanese, fredda e distante, mordi e fuggi. E’ una loro opinione, ci sta, anche perché non si tratta del patetico discorso della volpe e l’uva. Sono due ragazzi che non hanno mai chiesto nulla a nessuno, anzi, i loro ristoranti sono di proprietà. Piccola aggiunta: Iannotti lo vediamo vicino alle due stelle, mentre Lorenzo sta per aprire a Vicenza, città ricchissima priva di un ristorante celebrato da Michelin. Stavo pensando a tutto questo, a cosa elencare e cosa raccontarvi nell’editoriale, mentre al Le Vrai, il bistrot francese di Claire Pauze, dietro Piazza della Repubblica, si sfornavano baguette all’ora di pranzo. Al primo piano preparavano il foie gras e aspettavo che fosse pronto per poi prendere sotto braccio il pane caldo e tornare a scrivere. Ecco, oggi Milano ti offre delizie del genere, c’è un entusiasmo e una qualità, una varietà straordinaria. La situazione non può che migliorare. Le nostre giornate saranno ancor più piene di gioie golose, il che ci piace, ci infiamma, ci fa sognare. Un sogno che speriamo sia infinito e interminabile.

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di Dominique Antognoni



Sommario

Good Life FOOD IS ART

Giuseppe Iannotti Il re del sud Italia pag. 06

Giovanni Areniello Mister Baronio pag. 12

Maurizio Pacini L’arte della maglieria pag. 17

Lorenzo Cogo Il predestinato pag. 18

David Chang Vita da chef pag. 23

Felice Lo Basso In vetta al mondo pag. 24

Pierre Gagnaire Il maestro pag. 31

JosĂŠ Avillez Il mago gentile pag. 32

Donald Trump The winner pag. 40

Good Life dominiqueantognoni@yahoo.it


Endorsment LE VRAI I grandi ristoranti, così come le catene del lusso alberghiero ti invitano e ti propongono il loro brunch sfizioso (da provare, perché a parole sono tutti bravi): nel frattempo in città, in pieno centro, dietro il Principe di Savoia, potete andare sul sicuro e assaggiare il foie gras fatto in casa, il pane handmade (delizioso, dalla baguette alla parisienne), la tartare, oppure il salmone marinato. E poi bollicine, formaggi delicati e intensi, dolci strepitosi e tanti piatti della cucina regionale e classica francese. Niente da dire, è uno dei posti cult per i milanesi del gusto sicuro.

KIYO Ristorante giapponese nella benestante zona Pagano, per esattezza in via Ravizza al 4. Detta così non fa volare l’immaginazione e la fantasia, poi però ti siedi e, se hai l’astuzia e la voglia di lasciarti nelle mani dei gestori, scoprirai piatti lontani anni luce dai classici (e sempre buoni) sashimi, sushi e affini. Due esempi? La pasta fredda di grano duro con l’uovo cotto a bassa temperatura, merluzzo marinato e sesamo tostato: abbinato ad un Pinot Noir, incanta. Fresca, intrigante, stuzzicante, elegante: piatto potente, ispirato, ben articolato. Poi il branzino al vapore, che davvero sparisce sul palato, è pura magia. Lo chef, Karsumi Soga, un passato da Nobu, sa il fatto suo.

TRATTORIA TROMBETTA Giancarlo Morelli sbarca a Milano, non ancora con il suo Pomiroeu, bensì con una trattoria chic, in Largo Bellantani, zona Porta Venezia. Impressionante come fin dai primi giorni si è creata una atmosfera coinvolgente, come se fosse aperto da anni e avesse già una clientela affezionata e fidelizzata. Pare un ristorante newyorkese, una specie di ritrovo per le quattro del Sex and the City: il target è trasversale, vedi dalla modella all’imprenditore, dall’architetto alle coppie non giovanissime, dallo studente al professionista. E si mangia bene, dannatamente bene.

PASCAL CAFFET Nella nostra classifica personale, l’eclair al caramello ha superato quello al pistacchio: è l’unica certezza della nostra vita gourmet. Per i cioccolatini non possiamo scegliere, ce ne sono tantissimi, tutti di un livello così alto da farti girare la testa. Ora il pasticciere campione del mondo, presente a Milano in Via San Vittore al 3 e a Torino in Piazza Castello al 51, andrà a gestire e fornire anche la storica pasticceria Taveggia: la rinascita è vicina.

GHE SEM Non siamo dei grandi cultori della cucina cinese, semplicemente perché sa molto di anni ottanta ed è kitch, nonché ripetitiva assai. Niente sorprese, niente guizzi, niente colpi di genio. Però un risto milanese che propone dim sum ripieni di fassona e cocktail testosteronici, in piena zona centrale, è un fatto a dir poco positivo e innovativo. Il connubio ci sta, eccome. Va detto subito, Ghe Sem in Via Vincenzo Monti stra merita: di sicuro saprà fidelizzare la clientela del posto, il che vuol dire il successo assicurato. La zona è super chic, con famiglie ricche e di palato fine. I figli apprezzeranno, senza dubbio. Ambiente minimal, posti dentro e fuori, tanta sostanza, poca fufa. Ideale per un aperitivo gourmet, perfetto per una cena leggera. Solo per intenditori

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Giuseppe Iannotti Il re del sud Italia

“Se provassi a rilassarmi, andrei a pezzi. Ho sempre vissuto così, da tanto tempo e anche adesso è l’unico modo in cui posso vivere. Se una volta mi lasciassi andare, non potrei più tornare indietro. E se andassi a pezzi il vento mi spazzerebbe via”. E’ un paragrafo di Haruki Murakami, scrittore giapponese amatissimo dallo chef di Telese Terme, parole diventate una specie di mantra. Si identifica, si immedesima. Giuseppe Iannotti, ingegnere diventato chef, è nel miglior periodo della sua carriera: si sente pronto per la seconda stella, sa di avere fra le mani un giocattolo pazzesco, è consapevole delle potenzialità del suo ristorante e della sua regione.

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Catalana di astice

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rea, inventa, sperimenta: chi mangia da lui vive momenti di autentica ebbrezza culinaria, i suoi piatti sono decisi, intensi, raffinati, coreograficamente impeccabili, tecnicamente perfetti. E’ un drago, ti stordisce, ti acceca, nel suo Kresios si pulsa dal desiderio, le sensazioni si ammassano una sull’altra, provi dei piaceri sconosciuti. Azzardiamo, ma non tanto: tempo tre anni potrà ambire alla terza stella. E ora torniamo sulla terra, anche se, come dice lui, quelli che predicano umiltà non sono altro che degli egocentrici totali. - Chef, colmiamo subito una lacuna: si sa poco sui tuoi trascorsi, gli studi, la gavetta. - Per forza si sa poco: non ho mai studiato, sono un autodidatta, mai fatto esperienze altrove, tranne uno stage di due mesi da Alinea, a Chicago. - Non male, per uno che ha una stella e ha aperto a Barcellona, A proposito, come vanno le cose dalle parti di Messi? - Benissimo. Siamo all’interno di un albergo di lusso, Mercer, nel Barrio Gotico, spalle alla cattedrale. Posto fantastico, così come l’albergo, ho la piena autonomia: almeno fino a quando

i conti vanno come ora. Ho portato il mio know how, loro mi mettono a disposizione tutto, compreso uffici stampa efficacissimi e il marketing. - Intendi stabilirti lì, o per lo meno sistemarti a lungo? - Il mio scopo è dare visibilità al mio ristorante di Telese. Barcellona è una città straordinaria, piena di turisti e food lover. Lo sono un po’ meno gli spagnoli, inclini a spendere poco per una cena. Difatti si è arrivati a vedere delle situazioni assurde, del tipo 22 portate degustazione a 80 euro. Di media, diciamo che un menu degustazione costa sui 90. - A Milano invece come andò? - Parentesi deludente per mille motivi, tranne che per il fatturato, ma non vorrei parlarne. Semmai mi ha sorpreso in negativo la gente, perché segue le mode ed è poco interessata alla sostanza. Certo, ci sono delle eccezioni, però in grandi linee ho incontrato gente mordi e fuggi, non proprio il mio target. Chi scende a Telese Terme lo fa per me e solamente per me, me vale la pena investire, perché lo fai per i prossimi quarant’anni. Avete presente El Bulli? Ecco, da me si inizia ad attendere come da lui, non sto

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scherzando. Io non sono interessato aprire o lavorare a Taipei, io voglio liste d’attesa come ora, più di ora. Certo, mi piacerebbe un ristorante a Tokyo, nel quartiere Ginza, ma questo è un altro discorso. Tornando al Kresios, ho sette ettari di terra, dove coltivo di tutto: è un vero orto, non due metri sul balcone come tanti altri. Solo oggi le nostre galline hanno fatto 30 uova, per non dire dei pomodorini, dal San Marzano al cuor di bue, da quelli gialli ad altri. - Ricordi quando ti hanno informato di aver conquistato la stella? - Ero fuori, tornai e mi dissero che chiamò un tale Lovrinovich. Mi dissi aia aia, cosa sta succedendo? - Richiamò in serata per dirmi che mi invitava a Milano, ma che non avrei dovuto divulgare la notizia. Era il 4 di novembre: tre giorni dopo nacque mio figlio. - Punti alla seconda? - Ora mi farò dei nemici: per il servizio che diamo, posso assicurare che siamo da due stelle e un quarto. Idem per alcuni piatti. Però se arriva la seconda è come se diventassi il re del sud Italia. - Quanto spendono gli innamorati pazzi dei tuoi piatti?


Come un risotto alle vongole

A tutto sgombro

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- Propongo due menu degustazione, uno da 90 euro, l’altro da 130: con i vini, che sono maestosi, si sale un po’, però ne vale la pena. - Hai dei modelli, dei punti di riferimento? - I Fratelli Alajmo: in silenzio, senza parlare molto, hanno messo in piedi un impero. Poi vanno matti le mie mozzarelle di Vannulo. - Tre piatti che hanno segnato la vita del Kresios. - Lo sgombro a tutto sgombro, i cappelletti al ragù e il katsuobushi di vitello, che noi lo suggeriamo assieme al whisky. Poi i tantissimi snack iniziali, ne proponiamo dodici, quindici a raffica. - Kresios può trainare Telese Terme, diventando un punto di riferimento per l’intera regione? - Kresios è già trainante, pensate che il mese prossimo arriva da me una coppia dal Venezuela, mentre altri sono arrivati dalla Svizzera tramite

il concierge dell’American Express Centurion. C’è perfino una prenotazione per fra nove mesi, gente dalla California: ecco, sono queste le soddisfazioni, la gente attraversa il mondo per mangiare qui, a Telese, da me. Se fai ogni giorno tre, quattro tavoli del genere, con quattro persone felici, hai stravinto. Per il discorso legato all’aiuto della regione e della politica, non so più cosa fare, le ho provate tutte. Sapete una cosa? Siamo in una zona pazzesca, la Falanghina è proprio di fronte a me, siamo a tre minuti. Telese si trova sull’asse Napoli-Bari, a venti minuti dall’A1. Siamo a due ore da Roma, un’ora e mezzo da Bari, tre quarti d’ora da Napoli: possiamo diventare l’ombelico del mondo e invece…. - E invece? - Pensate che il sindaco non è mai venuto qui da me, l’ho pure votato. Scherzo, però guardo alla Festa di Vico e sono sicuro che potremmo farne

una ancor più bella. Verrebbero tutti, da Eugenio Boer a Davide Scabin, da Cristiano Tomei ad Alessandro Negrini, tantissimi altri. Guardate cosa succede con Niko Romito: lo sostiene un’intera regione, tutto l’Abruzzo si dà da fare. - Passiamo oltre: il miglior complimento mai ricevuto? - Bob Noto un giorno venne e mi disse: “Non ho ancora capito se sei un bluff, oppure un geniale figlio di buona donna”. Gli ho fatto assaggiare di tutto, dalla pizza al vapore alle altre diavolerie. Indovinate la sua conclusione…. - Chiudiamo in bellezza, con una domanda marzulliana: un desiderio? - Bob Noto ha fatto sì che ad agosto incontrassi Adrià. Il mio sogno è di portarlo a mangiare a Telese. - Quel giorno scommettiamo che arriverà anche il sindaco.

Anatomia di un piccione

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Taste, my love SUBLIMI FRIVOLEZZE

Sopra, il maialino di Wicky. Sotto, i tortelli di anatra di Berton e l’uovo di Alessndro Buffolino

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osa ci resta dal Taste? Intanto la certezza che è la miglior manifestazione del genere in Italia, e di gran lunga. Tanta concretezza, anzi, solo concretezza, niente interventi pallosi di gente pallosa, niente Bottura che finge di commuoversi per gli sprechi (peggior show mai esistito nel mondo della ristorazione) mentre in realtà pensa a quanto incasserà quella sera stessa. Taste vuol dire un fiume di gente felice di trovarsi lì, alla ricerca spasmodica di un piatto sublime, un’emozione fortissima, un lampo di genio. Gente che si metteva in coda ancor prima dell’ora di apertura, perché la voglia di immergersi in un mondo straordinario era davvero tanta. Ha funzionato benissimo il mix chef famosi-chef emergenti. Alcuni hanno portato al Taste quasi l’intera brigata, dimostrando di rispettare al massimo il cliente: pazzesco l’esercito di Berton, fra l’altro autore di un piatto da cento e lode, i tortelli di anatra con crema di zafferano e spinaci freschi. Applausi, consensi e tantissima vendite per la sua “merendina”, ovvero il panino al vapore con pollo alla paprika e cetriolo in agrodolce.

Roberto Conti ha riproposto ancora una volta il suo piatto magico, spaghetti cacio pepe ricci, più un canederlo intenso come se fosse nitroglicerina. Pure loro, Trussardi alla Scala, hanno sbancato e impressionato per entusiasmo e voglia di stupire. Sorridenti, contagiosi, allegri, desiderosi di far assaggiare le ricette di Roberto, uno che, si vede ogni giorno di più, sa tenere saldo il commando. Diventerà un generale gentile. Tanto interesse attorno alla cucina e persona di Luigi Taglienti, il quale sta per aprire il suo primo ristorante, Lume: vista la segretezza assoluta legata al menù, i suoi fan hanno potuto assaggiare alcune ricette che, probabilmente, verranno riproposte al locale di via Watt. Due esempi? La mandorla e doppio pomodoro e poi il dessert, tartufo nero e tiramisù. Wicky ha sbancato, come l’anno scorso: sold out, nonostante avesse portato una quantità infernale di maialino. Un piatto impensabile e impossibile da raccontare per delicatezza, sapori, morbidezza e gusto. File lunghissime per il suo sushi con l’osso buco e per i suoi carpacci realizzati con delle salse mirabolanti, frutto di anni di studio e ricerca. Volto altissimo per Andrea Provenzani: il sugo

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bruno dei suoi ravioli ripieni di coda di vitello prometteva scintille. Lui è davvero uno che merita tanti applausi, per il modo nel quale gestisce la sua attività e per come fidelizza la clientela. Prima apparizione per Alessandro Buffolino, il nuovo chef del ristorante Acanto, all’interno dell’hotel Principe di Savoia. L’uovo Bio con spuma di stracciatella di Bufala e Chips di patate viola si è venduto tantissimo (giusto così, perché davvero molto delicato), mentre il branzino marinato a cime di rapa con accanto la gelatina di Crodino è stato uno dei piatti più sorprendenti. Suo anche il dolce più venduto: tartelletta al pistacchio con fragole al cardamomo e mousse allo yogurt di bufala. Molto intriganti le mezzemaniche al brodo di prosciutto crudo di Terry Giacomello, uno dei pochi chef a poter vantare quattro anni nella cucina di Adrià. A dire il vero, il suo piatto migliore è stato il tagliolino al bianco d’uovo con crema di parmigiano e caviale di tartufo. Sublime la triglia di Giuseppe Iannotti: seta pura e tecniche superlative, tenendo conto delle condizioni a disposizione, ovvero cucine di livello, ma non proprio idonee per piatti del genere.


Giovanni Areniello

Mister Baronio Ambizioso, dinamico e innovativo, Giovanni Areniello è la mente e l’anima del brand Baronio, collezioni di pantaloni menswear rigorosamente made in Italy, dal fascino fresco e moderno pensati per uomini dal gusto ricercato e contemporary-chic, desiderosi di apparire impeccabili e disinvolti in ogni momento della giornata. Amministratore delegato di un’azienda in forte ascesa in Italia e all’estero, Giovanni è il motore propulsivo del successo del marchio, businessman dal cuore orgogliosamente partenopeo ma proiettato verso un futuro di grandi traguardi, oltre i confini nazionali.

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pirito intraprendente, manager modello con forti capacità imprenditoriali, sin dai primissimi anni si è impegnato fianco a fianco del padre per captare i segreti di un’esperienza ultratrentennale nel settore dell’abbigliamento, studiando e lavorando, per acquisire così maggiore consapevolezza delle dinamiche quotidiane e quel pragmatismo fondamentale per vincere le sfide e superare gli ostacoli. Ancora oggi discute con il padre per ogni decisione importante da assumere, ispirandosi sempre ai valori assoluti ricevuti in famiglia: serietà, rispetto dei principi e grande senso di responsabilità. Strategicamente ha una visione ampia e di lungo periodo, è fattivo e concreto perché fermamente convinto che nella vita occorra agire, mettersi in gioco, sperimentare e lavorare sodo. Ogni giorno. Ha trasformato un sogno in realtà, un progetto apparentemente piccolo e basato su una sola categoria merceologica –l’azienda produce esclusivamente pantaloni- guardando sempre avanti, con ottimismo e tenacia. Avrebbe potuto esportare a Milano parte dell’headquarter racchiuso oggi in un’area industriale ai piedi del Vesuvio, puntando sulla metropoli italiana del fashion per eccellenza dove magari il successo sarebbe stato immediato, ma ha preferito privilegiare sempre le origini e la qualità prioritaria delle Collezioni Baronio, con il background inestimabile della napoletanità sartoriale per conoscenze ed abilità qualificati sotto ogni profilo. Ha una visione chiara e avanguardista perché sa perfettamente dove andare e come arrivare, è cosciente di definire sempre le priorità d’azione, condividendo con i suoi collaboratori progetti e tempistiche di realizzazione, perché tutti conoscano la strada da percorrere. Insieme. Del resto è un team

leader, aperto e disponibile al dialogo con il suo preziosissimo staff. Giovanni – perché per tutti è semplicemente Giovanni, per arginare imbarazzi e inutili formalità- coinvolge i propri dipendenti generando entusiasmo e voglia di fare, misurando bene le parole, il tono di voce, le critiche costruttive che possano favorire la crescita professionale. Stimolando attenzione minuziosa nelle attività e collaborazione reciproca, ogni giorno si accerta che tutti abbiano i propri compiti da svolgere prima di dedicarsi in autonomia a ciò che attiene al suo ruolo, terminando ogni serata programmando sempre la to do list del giorno seguente. Globetrotter cosmopolita sempre in viaggio, amante di ristoranti ed hotel stellati in giro per il mondo all’insegna di uno stile di vita high-class, non si mostra mai senza indossare le sue camicie sartoriali, con una passione irrefrenabile per lo shopping di scarpe ed orologi. Essenziale e risoluto, il suo motto è: “Non essere mai arrivato e non arrendersi mai”, il che spiega come proceda oggi e come intenda continuare a farlo puntando all’espansione del brand. Ammira Brunello Cucinelli, per le notevoli capacità imprenditoriali e l’immensa umiltà mostrata in qualsiasi contesto. Crede nella creatività, nella proattività e nel desiderio di costruire step by step un progetto solido e vincente, basando tutto su doti straordinarie di costanza e fermezza. Riservato, di indole perfezionista e workaholic, si fida del proprio istinto e laddove fiuta un’opportunità, è pronto a coglierla, mirando al traguardo senza mai darsi per vinto: basti pensare che una vacanza rilassante a Miami si è poi tramutata nell’occasione di svolta della sua carriera, un momento personale che non dimenticherà mai. Preferisce circondarsi solo di professionisti

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competenti ed energici, confrontandosi per conoscere pareri ed opinioni differenti, per condividere dubbi e sensazioni sino a trarne le scelte finali, in primis con l’amatissima sorella Alina, Finance & Administration Manager del brand. L’equilibrio tra lavoro e vita privata non è certamente facile, ma in questo momento di crescita e sviluppo aziendale si dedica con operosità alla sfera del business, ispirandosi sempre alle parole del nonno il cui ricordo custodisce gelosamente: “Nipote mio sappi che alla tua età non esiste domenica”. I suoi luoghi del cuore sono Capri, Miami e Montecarlo, ma non svelerà mai alcun aneddoto relativo. Per ogni modello Baronio proposto, ha come riferimento costante se stesso e le proprie preferenze di stile, di comfort e di vestibilità. Per rompere la routine si dedica allo sport, svelando una particolare inclinazione per il tennis. In occasione della futura partecipazione alla 90esima edizione del Pitti Uomo, in programma dal 14 al 17 giugno a Firenze, mentre a gennaio al Premium di Berlino, rivela un’anticipazione sul tessuto che la farà da padrone: la lana e le sue mille declinazioni. Non è incline a far promesse, piuttosto favorisce stimoli, impegno e motivazione, apprezzando tutti i collaboratori che perseguano tali principi. Guardando al domani, a se stesso augurerebbe “soltanto” di raggiungere le vette più alte della moda, restando sempre con i piedi per terra. Ha un sogno ambizioso: inaugurare gli showroom direzionali nelle principali Capitali della moda. Inutile domandarsi se riuscirà nell’intento prefisso: di certo, per nulla al mondo rinuncerà. Seduto in business class sul prossimo volo intercontinentale, Giovanni pensa e pondera nuove decisioni, plasmando così un destino senza dubbio invidiabile.



Inglese. Angelo Inglese THE ARTIST

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e per tanti anni vi siete regalati momenti di piacere assoluto acquistando le opere d’arte create in maniera artigianale da Angelo Inglese, sapete di cosa stiamo

parlando. Semplificando, finora sull’etichetta trovavate il nome G.Inglese, che sarebbe il papà di Angelo, il fondatore dell’azienda che tanto fa sognare gli amanti della bellezza. Ora il mercato pretende e spinge per una linea più contemporanea e sartoriale, il top del top per i clienti che arrivano a Ginosa da tutte le parti del mondo. L’esigenza nasce anche da un fatto pratico: chi acquista online pensa che si tratti di camicie che si trovino in magazzino, tipo stock, poi inviate al destinatario. E invece no, è tuto personalizzato al massimo, realizzato da zero in base alle esigenze di ogni amante dell’alta sartoria. “Per questo”, racconta Angelo, “ci sarà anche una specie di mappatura della camicia, che aiuterà i compratori a rendersi

conto di quello che stiamo facendo. Chi acquista camicie realizzate con i cotoni più pregiati, vedi i tessuti 300/2, oppure 300/3, ovvero cotone prodotto ai piedi del Nilo (come qualità superiore perfino al Riva), è un cliente davvero particolare e merita di avere un resoconto dettagliato

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del processo di produzione. Non deve minimamente pensare che si tratti di un prodotto standardizzato, la mappatura serve a questo, far capire la totale dedizione e personalizzazione. Tutto ciò li avvicinerà ancor di più a Ginosa. Tornando alla linea Angelo Inglese, sarà Made in Puglia e Made in Basilicata, perché la farò assieme a dei laboratori locali, straordinari laboratori con maestranze favolose. Già che ci siamo, al Pitti porterò una linea creata per Karl Edwin Guerre, blogger chic e influente che negli Stati Uniti è secondo solo a Scott Schuman, ovvero The Sartorialist. Ebbene ho creato una capsule collection, quattro giacche e sei camicie in tessuto di denim, del vecchio denim di qualità. Verrà venduto tutto online, con un prezzo più accessibile rispetto ai prodotti di G.Inglese. Il target è medio alto, mentre come età penso si tratti di gente che parte dai 18 anni, andando fino ai 50: per il fit, l’impostazione e i colli svuotati la clientela sarà senz’altro assai giovane”.


Maurizio Pacini L’ARTE DELLA MAGLIERIA

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nissime lane Merinos, la seta, i cotoni ed il prestigioso cashmere. - Quali sono state e quali sono tuttora le sue ispirazioni? - Ogni luogo e ogni oggetto sono fonte di ispira-

- Partiamo dall’inizio: chi è Maurizio Pacini? - Classe 1972, sono un piccolo imprenditore nato e cresciuto nella terra dei magliai. - Come è nato tutto? - Fin da piccolo vedevo a lavorare a maglia la mia zia paterna. Tutte le volte che andavo a casa sua e la trovavo nel suo piccolo scantinato dove aveva la macchina da maglieria, rigorosamente manuale, rimanevo affascinato e incuriosito da quel movimento destra-sinistra, la rocca di filato che alimentava quello strano dispositivo e prendeva forma. Dopo gli studi ho fatto qualche anno di formazione nel settore maglieristico ed è nata la passione per la moda, per i colori nella loro totalità e ampiezza. Il colore ha una grande forza, una grande capacità: quella di farci sentire meglio. - La scelta dei filati si può ritenere fondamentale per il suo lavoro. Quali sono i suoi preferiti, quelli che adora utilizzare per confezionare i suoi capi, quelli che più rappresentano la sua maglieria? - Senza dubbio i filati naturali rappresentano al meglio la mia interpretazione nella maglieria: i Lambswool Inglesi, gli Shetland, l’Alpaca, le fi-

zione per me. Amo osservare e pensare come trasformare tutto quello che mi circonda, affinando ogni dettaglio. - Qual’è l’indumento a maglia che secondo lei non può mancare nell’armadio di un uomo?

ittà di Castello, nella profonda Umbria, cuore pulsante di tradizioni ed artigianato. Ci accoglie tra le sue mura cinquecentesche e la valle del Tevere, là dove i romani avevano stabilito il Municipio di Tifernum Tiberinum. Nel nostro viaggio incontriamo Maurizio Pacini, nuova promessa nel mondo della maglieria italiana.

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- Indispensabile il maglione a collo alto con lavorazione a coste o magari un punto links, uno con tonalità nel colore Blu Navy e un terzo colorato. - Dopo il successo di Pacini Uomo è arrivata anche la collezione femminile. A che tipo di donna rivolge la sua attenzione? - Abbiamo tanto da dare, e l’armadio dell’uomo è ancora ampio. Ci piace pensare che la donna Maurizio Pacini è una donna sicura della propria femminilità, sempre alla ricerca di dettagli dal giusto equilibrio. - Le sue collezioni sono totalmente Made in Italy, nella regione “culla” dei più grandi stilisti di maglieria: l’Umbria. Quanto la tradizione italiana influisce sulla sua arte? - Le maestranze umbre nel settore dell’arte della maglia hanno una forte connotazione qualitativa, sia che si tratti di un capo basico o che sia una capo da sfilata. E’ fondamentale interpretare al meglio i passaggi di lavorazione: un capo basico fatto bene con il giusto fitting può diventare “moda”. D: - Le sue collezioni sono raffinate, ci colpiscono i particolari in un insieme di estrema semplicità. Scelta stilistica che si è rivelata vincente. Quali sono le sue aspirazioni e i suoi progetti per il futuro? R: - La nostra piccola realtà lavora quotidianamente, passo dopo passo diamo seguito alle nostre idee. Riteniamo fondamentale la cura quasi maniacale con la quale seguiamo tutti i processi di produzione: dal disegno alla consegna del prodotto. Abbiamo ancora tanto da lavorare e vogliamo crescere in modo sano ampliando sempre di più il nostro progetto imprenditoriale.


Lorenzo Cogo IL PREDESTINATO

Risotto alla genziana con peperone rosso e amoli

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anni. Però a sentirlo parlare, a guardare le sue esperienze passate ed i risultati ottenuti ti pare di avere davanti un cinquantenne. Di sicuro siamo davanti ad un predestinato, uno che ha già il suo posto nella storia e che ora sta bussando con insistenza alle porte nell’Olimpo. Esageriamo? Ovviamente no, leggere per credere. Piccolo elenco dei risultati ottenuti finora: è stato il più giovane italiano ad aver conquistato la stella Michelin, quando aveva soltanto 25 anni (poi il suo record lo ha battuto il 23enne Augusto Valzelli). Ha già lavorato da Shannon Bennet, Mark Best, Heston Blumenthal, Seiji Yamamoto, Victor Arguinzoniz e da Rene Redzepi. Sta per trasferirsi nel centro di Vicenza, città ricchissima però senza stella Michelin: lui viene per conquistarla e per regalargliela, motivo per il quale ha dovuto dire addio al suo primo ristorante di proprietà, a Marano Vicentino. In mezzo, tantissimi eventi, show cooking, incontri con imprenditori che a parole sembravano dei numeri uno ma che poi, quando si è arrivato ai fatti, si sono dimostrati dei chiacchieroni e basta. Sa il fatto suo come pochi, va avanti spedito,

senza perder tempo e prestar attenzione a dicerie, commenti e analizzi impostate sul nulla. A naso, non ha un buon rapporto con la critica e non ci tiene nemmeno: lui sta in cucina e fattura con il ristorante, per il resto ognuno può blaterare, tanto i numeri lo premiano e non c’è molto altro da dire. Alza sempre l’asticella, proponendosi dei traguardi sempre più prestigiosi: viaggia senza pesi, si sente leggero, ha la testa solo al suo ristorante, al menu, alle novità, a come far felici i suoi clienti. Prima forse spendeva troppe energie in situazioni ambigue, dove lo tiravano per la giacca un po’ contro la sua volontà. Ora ha capito alcuni meccanismi, che racconterà qui, adesso. - Lorenzo, si legge che stai chiudendo El Coq. - Detta così pare un fallimento: solita stampa scandalistica, alcuni sanno fare solo questo. Semplicemente mi trasferisco dal Marano Vicentino a Vicenza, in centro. E’ la sfida della mia vita: nessuno aveva preso la stella qui, un po’ manca la grande ristorazione e vorrei capire il motivo. Chiudo El Coq di Mariano dopo averlo fatto conoscere al mondo intero, sono assai combattuto, perché sono nato lì e ho seminato benissimo. Andava divinamente, lavoravamo tanto e bene, non c’è alcun dubbio che mi

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trovavo nel momento più alto, professionalmente parlando, però sento che un capitolo della mia vita si deve concludere per continuare altrove. Lo so, in molti dicono le stesse frasi per nascondere un fallimento, i miei conti sono invece in ordine. Pensate che ho rilevato l’attività pagando 120.000 euro, so che pare tutto un controsenso, però d’altronde a me piace provocare. Ho l’età giusta per andare incontro a delle nuove sfide, dai 20 ai 30 anni ho fatto di tutto, ora penso sia arrivato il momento per lo step successivo. Però una cosa non mi torna. - Sentiamo. - Ci sono chef che fanno fallire uno, due, tre ristoranti. Nonostante questo, trovano sempre imprenditori che continuano ad aprire per loro dei locali, che li supportano. Mi pare una follia: ecco, apro per conto mio anche per questo, è una specie di schiaffo ai coloro che sanno solo incassare, senza rischiare nulla in prima persona. Voglio dimostrare che si può essere dei giovani cuochi ma anche imprenditori. Basta sacrificarsi un po’ di più e si riesce a farlo. Perché noi siamo dei commercianti, non artisti: conta il bilancio, non il bla bla bla. Certo, oltre ai conti devi aggiungere qualcosa di tuo, lasciare il segno.


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Trota, patata dolce, finocchio e mela verde

Comunque alcuni si sopravvalutano o vengono sopravvalutati: lo dicono i numeri, non io. - Tornando al nuovo El Coq… - Centro Vicenza, Piazza dei Signori, di fronte alla basilica, dove ora si trova il Caffè Garibaldi, luogo storico del ‘800. Al primo piano ci sarà il bistrot, la caffetteria e si serviranno dei cocktail, al primo piano il ristorante. Sarà un concept non replicabile in una città diversa. Se a Marano avevo cinque tavoli, qui ne avrò otto, forse dieci. C’è coerenza fra i due locali, mentre altri saltano da un posto all’altro senza un filo conduttore. Non ho nulla contro i coloro che inseguono solo i soldi, però non fa per me. - Non a caso hai abbandonato l’idea di mettere radici a Milano. - Esatto. Non vorrei essere frainteso: non ho nulla contro la città, ma non è il mio ambiente, non mi ci trovo in una metropoli fredda e asettica, che insegue le mode e non ha radici. Mi ci ritrovo di più in un percorso come il mio, partendo dal paesino natale e andando in una città con un grande

potenziale, per ora priva della grande ristorazione. Ora è il momento giusto per rischiare, lo so che vado controcorrente. Mi dicono che sbaglio, pazienza: sostenevano le stesse cose quando aprì a Marano. Rischio, creo una nuova società con me a capo di tutto, non ci sono sicurezze, però sono stra convinto di quello che sto facendo. A Milano non avevo le stesse sensazioni: è una città che manca di identità, io inseguo una certa umanità, legarmi a qualcosa e a qualcuno. Voglio andare in profondità, per il territorio, magari con i produttori locali, perfino con quelli che realizzano sedie di design, tavoli, posate. - Agli inizi la tua cucina era molto istintiva, ora come la possiamo inquadrare? - I valori sono gli stessi, certo che durante il mio cammino ho aggiunto alcuni elementi, sono più esperto. L’imprinting è quello, però diciamo che ho uno stile meno provocatorio e più adulto. - La nuova esperienza ti carica, ti fa paura, ti frena? - Mi carica a mille. Diciamo che negli ultimi

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cinque anni ho sprecato e sperperato tante, tantissime, troppe energie: viaggi, eventi, show cooking, progetti mai realizzati. Quanta perdita di tempo, quante giornate e settimane buttate al vento. - Visto che hai lavorato per i più grandi in assoluto, possiamo azzardare dei paragoni? - In breve, senza presunzione, diciamo che oggi El Coq è come il ristorante di Mark Best, mentre un domani sogno diventasse come quello di Heston Blumenthal. - Ovvero? - Best è un ristorante familiare, un po’ come me adesso. Heston invece ha una organizzazione straordinaria, è una macchina da guerra: schemi perfetti, una vera industria. Ambisco a questo, come ambisco al rigore di Yamamoto, uno chef che è fra i più talentuosi in assoluto. Una tale passione e un tale rigore non ho mai incontrato altrove. E’ allucinante, sa fare tutto. E, sorpresa sorpresa, sa anche cucinare. Cosa che in tanti non fanno più. E non fattemi far nomi.


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London View DUCK AND WAFFLE

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iamo il ristorante più alto del Regno Uniti, per di più aperto ventiquattro ore al giorno. Siamo aperti a colazione, lunch, cena e durante la notte”. Sul profilo twitter, il ristorante Duck and Wafle si presenta in maniera semplice e concisa, sarebbe difficile essere più esaurienti e aggiungere altro in 140 caratteri. Semmai, lo possiamo dire noi: è di gran lunga il luogo da dove si può ammirare la più bella panoramica della città, un posto non prettamente turistico nel senso che è lontano dai soliti giri, anche se, ovviamente, i vacanzieri lo

prendono d’assalto (attenzione, non arrivate in scarpe da ginnastica, ancor meno con infradito, perché vi negano l’ingresso ed è giusto così). Il nome del ristorante proviene dal piatto che è diventato un cult: waffle con sciroppo d’acero, sopra un uovo all’occhio di bue, completato da coscia d’anatra arrosto (e croccante). In una parola, delizioso. Al 40imo piano della Heron Tower (vicina a Liverpool Street), si sale con un ascensore che pare di un film da fantascienza: poi le porte si aprono ed ecco vecchi chandelier di cristallo e pareti di vetro, lo skyline di Londra a 360 gradi,

cocktail intriganti e stuzzichini irresistibili. Parlando del menu in sé, va dato atto ai proprietari di aver indovinato appieno la formula: si ha la possibilità d assaggiare tanti piatti e di dividerli, l’idea é quella di proporre una versione inglese delle tapas spagnole. Funziona, eccome. Qualche consiglio? Tonno giallo, crispy pig ears e foie gras creme brûlé, octopus alla griglia, polipo con patate, melanzane con salsa yogurt, polpettine di pesce. Per gli amanti gourmet e per gli innamorati della capitale economica del vecchio continente, è un must.


David Chang VITA DA CHEF

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ou Work, You Eat, You Go to Bed’ Lavori, mangi e poi vai a letto. Si, forse è una versione meno romantica del “Mangia, prega, ama”, il film con Julia Roberts in giro per il mondo, fra Italia, India e Thailandia. Però il titolo del Wall Street Journal voleva scandire i ritmi di vita di David Chang, lo chef che meglio di tutti gli altri interpreta la cucina newyorkese. Il fondatore del Momofuku (ora un impero) aveva letto la storia di André Soltner, cuoco e patron del ristorante Lutece, il quale abitava sopra il proprio locale e che, in tutta la sua vita, avrà mancato quattro o cinque servizi. David voleva fare la stessa identica cosa, tanto che acquistò un appartamento sulla First Avenue, sopra l’appena nato Momofuku Noodle Bar. “Ero semplicemente terrorizzato”, raccontava. “Avevo firmato i due contratti nello stesso giorno, quello della casa e

del mio primo ristorante. Correva l’anno 2004, è stato così difficile quel periodo, il lavoro mi consumava tantissimo. Mio padre, nato in Corea del Sud, continuava a dirmi che se avessi lavorato vicinissimo alla mia casa, il successo sarebbe garantito. Era un open space, una specie di studio dove il sole non si vedeva mai. In pratica lo usavo anche come ufficio, perché giù nel ristorante non ne avevo uno. A dire il vero c’era anche una cucina, ma non ci mettevo mai piede, visto che mangiavo di sotto. Quello che la gente fatica a capire è che se lavori in un ristorante, allora tu ci vivi dentro. Oggi invece vivo più negli alberghi, pensate che solo a Toronto ho aperto quattro nuovi locali, di conseguenza sono stato qui per più di novanta giorni. Aggiungo che negli ultimi 14 mesi ho speso più di 150 giorni in Australia, abitando nel casinò dove abbiamo aperto il risto. Alcune persone che lavorano assieme a me dico-

Il locale Momofuku a New York

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no di non farcela più ad avere una vita del genere, rispondo sempre che da almeno nove anni la mia esistenza è questa. Conosco ragazzi che non hanno nemmeno una casa, dormendo da amici oppure nei corridoi. Il mio frigo è sempre vuoto, tranne qualche food bag che mi porto a casa dagli eventi. Cerco di cambiare, perché mi avvicino alla quarantina e sono ancora single, mentre la gran parte degli amici è sposata con figli, ha case a San Francisco e Hoboken. Io invece vivo come un 18enne, ordinando cibo cinese a mezzanotte. Ora vivo a venti minuti di distanza dal ristorante perché ho capito che se fossi sempre lì, gli altri non avrebbero mai preso delle decisioni, così invece se la devono sbrigare da soli. Le uniche distrazioni che mi concedo sono delle brevi vacanze in Montana, dove avevo vissuto per un periodo quando avevo 21 anni e dove torno per sciare, pescare e fare snowboard”.



Felice Lo Basso IN VETTA AL MONDO

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’uomo è impaziente. La sua brigata, ancora di più. E’ da capirli, un ristorante del genere non si era mai visto: ultimo piano della Galleria Vittorio Emanuele, Piazza Duomo davanti, la città ai tuoi piedi. Felice Lo Basso se lo merita, una location del genere. Ha fatto la gavetta, ha sgobbato e ha imparato in giro per il mondo, per poi iniziare la sua corsa verso la consacrazione: prima la stella all’Alpen Royal, poi l’esperienza all’Unico, ora eccolo dominare la metropoli meneghina. Lo scopo è chiaro, puntare alla seconda stella, anche se la tarda apertura potrà mettere in pericolo la conferma della prima: lo si sa, le guide chiudono verso luglio, Felice fa giusto in tempo per far sedere gli anonimi ispettori i quali sono già in allerta. D’altronde, pure loro sono curiosi di vedere e analizzare le novità, ancor di più quando si tratta di uno come Lo Basso. Qualche mese immaginava il suo ristorante quasi identico al locale di Alain Ducasse a Parigi: sfarzoso, opulente. Poi ha dovuto cambiare idea, perché in Piazza Duomo la metratura e le dimensioni spingono per un altro tipo di impostazione. A dire

il vero è meglio così: il terrazzo vale più dello sfarzo pomposo. I muri saranno in bianco e nero, i posti una sessantina, 25 fuori (la più bella vista di Milano, in assoluto), 35 all’interno. I tavoli saranno da grande ristorante, ovali e rotondi, le sedie eleganti, i piatti francesi e tedeschi (Bernardaud, Hering, Stockmans), mentre i bicchieri saranno stile retrò. Cosa si mangerà, però? “Farò assaggiare una cucina molto pugliese con qualche tocco milanese, metterò l’accento come sempre sulla materia prima, lavorata il meno possibile. Poco futurismo, tanta sostanza”, racconta con entusiasmo. “I piatti forti? Sicuramente la cotoletta rivisitata, ovvero alleggerita, elegante, impanata con il pane del tramezzino, fatto a cubetti. Poi ci sarà lo spaghetto con pomodoro infornato, ricotta salata pugliese, più semplicemente la ricetta di mia madre. Non mancherà un grande classico, il risotto alla parmigiana, con sotto la crema di melanzane e sopra la polvere di pomodoro”. Ecco, il riso: è così buono da pensare che Felix abbia persuaso ogni chicco di riso a impregnarsi di profumi indimen-

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ticabili. Pare velluto scuro, è carnale, eccitante, è come il seno ricco e maturo di una donna tormentata dal desiderio. Accanto a lui Nino Ferreri, braccio destro e non solo, palermitano dall’animo gentile e dalla mano decisa, ragazzo silenzioso con un grande talento e un futuro da protagonista. L’arrivo di Lo Basso sui tetti milanesi è solo l’inizio, il primo tassello di un progetto ambiziosissimo, il più intrigante e folle d’Europa e non solo, un progetto targato Alessandro Rosso, colui che ha aperto, ormai otto anni addietro, il primo albergo sette stelle nel vecchio continente, all’interno della Galleria Vittorio Emanuele. Ora l’intenzione è di proporre avventure gastronomiche straordinarie agli ospiti delle costosissime suites all’interno della Galleria stessa. “Sette stelle Michelin per sette stelle alberghiere”, questa l’idea che farà diventare Milano il centro di gravità della cucina mondiale, una specie di sogno interminabile in pochi metri quadrati. Chef stellati in ogni suo spazio preso in gestione dal Comune: dopo Felice arriveranno altri, la lista è assai lunga. Intanto assaggiate le diavolerie di Lo Basso. Per il resto ci sarà tempo.


Joe Bastianich

Foto: Kate Previte

DEL POSTO

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estaurant Man è davvero un libro meraviglioso. L’autore, Joe Bastianich, racconta i meccanismi che portano al successo, oppure al fallimento di un locale. A leggerlo pare tutto elementare, poi nella pratica il gioco diventa più duro. Proponiamo qui un brano che ci riporta all’apertura di Del Posto, il risto che ha consacrato Joe e Babbo nel mondo newyorkese. Del Posto cominciò con un contratto immobiliare, proprio dopo l11 settembre 2001. Il corridoio di West Chelsea dove lo aprimmo faceva parte dell’estensione del Meatpacking District, una specie di terra di nessuno vicina alla West Side Highway, infestata da cespugli. Conoscevamo un tizio che si chiamava Irwin Cohen, che aveva sviluppato il Chelsea Market come un’idea da far-West Side cinque anni prima, e poi aveva acquistato l’edificio del forno Nabisco all’85 della Decima Strada, che è dove è nato Del

Posto. C’era uno che lavorava per lui, Jim Somoza, un cliente del Babbo, con cui stava cercando di mettere su un’attività al dettaglio al pianoterra, e venne da noi con un contratto generosissimo. Era stato un bar per lesbiche hardcore negli anni ottanta, totalmente industriale, un’estensione molto rozza del West Village. Ed è così cominciò: ancora una volta avevamo il locale prima di avere un’idea del locale stesso. Era un’occasione troppo buona per lasciarsela sfuggire: era impossibile che quella posizione non sarebbe diventata fantastica. Quindi ricavammo ottomila e cinquecento metri quadri, che è uno spazio enorme, in quell’angolo, e poi affrontammo la questione di come lo avremmo riempito di gente. La mia idea era quella di una trattoria italiana retrò: volevo ricreare il Buonavia, il primo ristorante dei miei genitori nel Queens degli anni Settanta. A giudicare dal film dell’orrore in cui stavamo per entrare, avrebbe potuto essere la strada giusta. Un’enorme trattoria italiana nel West Side pro-

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babilmente avrebbe avuto successo. Avevo intenzione di riportare in auge i piatti fantasia di mio padre: il pollo scarpariello, la parmigiana di gamberi e la parmigiana di melanzane, che è il motivo per cui mia madre salì a bordo. Le piaceva l’idea perché lei era il Buonavia. Questa era la prima attività avremmo condotto insieme dopo il Becco e lei era fantastica, prontissima per la gara, anche se la concezione del locale continuava a cambiare. Quando realizzammo il Babbo, mia madre era un po’ scettica sulla creatività di Mario, ma adesso tra loro c’è quasi una storia d’amore, sono completamente pazzi l’uno dell’altra, e a volte sono io quello che rimane fuori a guardarli, ma mi sta benissimo. Poco a poco la concezione del locale passò dalle tovaglie a scacchi a qualcosa di più autenticamente italiano, e poi da non so dove emerse l’ambizione di fare qualcosa di molto esclusivo. Quando il ristorante cominciò a delinearsi e ci rendemmo conto di quanto sarebbe stato fanta-


testo autentico. Ma dal momento che non c’era una tradizione preesistente, in un certo senso ce la stavamo inventando in corso d’opera. Ci sono delle aspettative normali rispetto a un ristorante a quattro stelle. Interagisci con Daniel, mangi degli amuse bouches, quella merda che ti danno gratis quando ti siedi. Ma noi non potevamo chiamarli amuse bouches, e non c’è un corrispettivo nella lingua italiana. Così dovremmo inventare un nome, che fu primo assaggio, che non esiste in Italia perché in Italia non hanno dovuto dargli un nome. Ma noi sì. Adesso ogni ristorante che aspira a essere italiano lo fa passare come un elemento della tradizione: ovunque vai, primo assaggio, regalo dello chef. Inventammo noi quel nome e convincemmo tutti che appartenesse alla tradizione. All’inizio, la gente ci bastonava dicendo: “Ehi, questo non è un locale di Mario e Joe. Il Babbo ci piace, il Lupa ci piace…che roba è questa?”. Non solo dovevamo creare un ristorante italiano che potesse competere a livelli altissimi, non solo dovevamo convincere il mercato della ristorazione che una cosa del genere era possibile, dovevamo anche dissuadere i nostri estimatori dal considerarlo una stronzata, e questo non era facile. Non c’era una categoria in cui potesse rientrare Del Posto, almeno non qui da noi. Ecco perché Del Posto, inizialmente, ebbe molto più successo con brasiliani, messicani, europei, gente che davvero frequentava i ristoranti di tutto il mondo. Del Posto somiglia molto di più a un locale di Parigi,

Londra o Roma, piuttosto che dell’Upper East Side. E ovviamente la gente che cena nei quartieri alti non sempre scende a Downtown, e i giovani non mangiano nei quattro stelle tradizionali, punto e basta. Quindi ci accingemmo a trasformare Del Posto in un ristorante transgenerazionale. Lidia era una socia a pieno titolo perché era già inclusa nella concezione originaria, ma a parte questo noi tre insieme eravamo il massimo per creare un’esperienza gastronomica a quattro stelle. Lidia portò un po’ di storia e un po’ di serietà a Del Posto, Mario l’elemento creativo dello chef e io un sacco di idee. A volte penso che creare un ristorante è come mettere su uno spettacolo in teatro: costruisci la scenografia, la arredi, ci metti dentro gli interpreti e poi va da sé. E per me un grande ruolo da Del Posto era quello dello scenografo. Quando stavo ancora chiarendo a me stesso la concezione di quel ristorante, vidi molti film di Fellini. Se guardate “8 e mezzo” o “I vitelloni”, sentite quel connubio di marmo e legno, il Vecchio Mondo, l’atmosfera maschile, ma in realtà c’è un incrocio fra il Vecchio Mondo e il design degli anni sessanta e settanta. Ci sono molte scene al ristorante in “E la nave va”. Mi colpì moltissimo. C’è un po’ di modernismo, ma allo stesso tempo anche classico. Rispetto a qualsiasi cosa intrapresa prima d’allora, Del Posto ci mise del tempo a svilupparsi, più di cinque anni, e il lavoro è culminato con una recensione a quattro stelle.

Foto: Kate Previte

stico e grandioso quello spazio, lasciammo che la nostra ambizione per la quarta stella si insinuasse dalla porta di servizio, perché il sogno era sempre fare qualcosa che arrivasse in cima alla piramide italiana. Avevamo sempre avuto la sensazione che saremmo stati noi a realizzare quel sogno. Pensavamo di poter costruire il ristorante italiano più favoloso e più opulento del mondo. “Quattro stelle italiano” è una categoria che abbiamo creato noi. Il nostro impegno, portato avanti in maniera intransigente, è sempre stato quello di non diventare l’ennesimo ristorante francese quattro stelle: tutto quello che facevamo doveva essere riconoscibile per la sua italianità. Una cena di lusso italiana, nella cultura della tavola italiana. Volgevamo lo sguardo indietro nella storia per fondere tutte le grandi caratteristiche dei ristoranti italiani, dello stare a tavola e del cibo italiano in un unico ristorante contemporaneo. La nostra sarebbe stata l’esperienza emblematica della cena italiana. Prendemmo tutto, anche il servizio del cameriere che completa i piatti a vista, tutti i cliché della cena francese, e li reinterpretammo per adattarli al dialetto italiano e alla sensibilità degli italiani. Una cena italiana in un ristorante a quattro stelle è diversa da una cena francese nel senso che, si, è opulenta, lussuosa, curata nei particolari, ma è anche un po’ più familiare, più calda, più casalinga, un po’ più interattiva, non così fredda. Eliminate lo snobismo e fate appello al desiderio della gente di mangiare una cucina schietta in un con-

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Amelie Lombard LA MIGLIORE

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ell’ambiente è conosciuta come la più brava di tutti. Lo ammettono i colleghi, il che la dice lunga. Confessiamo e un po’ ci vergogniamo, ma prima che Bob Noto ci raccontasse dei suoi scatti, non sapevamo chi fosse. Ora siamo felici di aver colmato la lacuna e promettiamo di deliziarvi con le sue immagini per i numeri avvenire. Sul suo sito sta scritto: “artiste photographe”. La prima reazione è di scherno, perché ti vien subito da dire “ma guarda questi francesi, con quella aria da intellettuale prezioso e noioso, che sta antipatico anche a se stesso”. Poi inizi a guardare le sue foto e ti ricredi, perché Amelie è davvero straordinaria, a tal punto da poter “giustificare” la nomea di artista. Sempre sul sito trovi scritto “photographe de campagnes de publicitè pour les grandes marques”, ovvero qui non si lavora gratis, anzi, il compenso è alto però ne vale la pena, astenersi perditempo. Breve elenco dei suoi clienti: il caviale Petrosian, Fauchon, Illy e via discorrendo. Ha vinto premi dietro premi, mista tecniche e

ispirazioni, audacia e malizia, sensualità ed eleganza, il tutto con una sicurezza e padronanza da applausi. Gli inizi a 12 anni, quando rubò la macchina fotografica al papà, poi si è iscritta ad una scuola di fotografia: fu subito affascinata dal bianco e nero, da quel modo magico del laboratorio che sviluppava le immagini, facendole emergere pian piano. Amante anche della cucina, il resto è venuto di conseguenza: “Era il mio parco giochi, le prime foto le ho scattate ai miei piatti”. E’ seguito un periodo come assistente di un fotografo esperto in natura morta, oppure still life, come si dice per sembrare più interessanti. “Lì ho imparato tantissimo, perché il ruolo delle luci è fondamentale, così come le tecniche di scattare. A 27 anni ho deciso di mettermi in proprio e concentrarmi sulla photo culinaire”, racconta. “Cosa ci vuole? Tanta pazienza, la creatività, la capacità e la volontà di rinnovarsi sempre, l’ossessione per il dettaglio, poi un amore infinito per il cibo perché sennò fai fatica a trasmetterlo agli altri. Mi piace molto dipingere, il che mi aiuta a immaginare dei

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mondi diversi: vado matta per i pittori fiamminghi e per gli espressionisti. Per me è importante sentirmi libera mentre scatto.”. Grande fan del Nikon D300 e dei suoi 35 e 70 mm, ci spiega anche il suo modo di agire: “Faccio un vero e proprio casting dei prodotti, vengono scelti quelli con più appeal fotografico. Perché il colore rimanga puro e vivo, devi cuocerli poco poco. Oppure puoi dare una pennellata di olio, per rendere tutto più scintillante e appetibile. Solitamente mi avvallo dell’aiuto di un assistente o di uno chef, altrimenti non riuscirei a fare tutto, pensate che spesso riesco a fare una sola foto al giorno. Mi piacerebbe lavorare con e per Pierre Gagnaire, Rene Redzepi, Massimo Bottura, Yannich Allenò ed Enrico Crippa, per nominare alcuni. Il mio mondo grafico e la loro creatività, quanto vorrei accadesse! Fotografi che ammiro? Edward Weston, Edward Steichen e Imogen Cunningham: le immagini still life di quest’ultimo sono state un’illuminazione, ai tempi della scuola”.


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Pierre Gagnaire IL MAESTRO

Dall’alto a sinistra: un piatto di Pierre, poi lui, il ristorante di Parigi e quello di Seoul

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’ un personaggio da film. Da film hollywoodiano, di successo. Un successo di pubblico, non di critica, perché sono due cose ben diverse. A dire il vero, sarebbe il miglior interprete di se stesso, con quel viso greve e vissuto. Il personaggio è straordinario, i suoi piatti ancor di più. La gran parte della clientela rimane sbalordita dalle combinazioni di Pierre e soprattutto dalla sua genialità. Il commento più diffuso è che mai ci saremmo aspettati che da ingredienti così lontani uno dall’altra si potesse ottenere un tale risultato. Hanno ragione, però dall’altra parte la cucina di Pierre è assai rischiosa e non sempre la gente lo ha capito: il fallimento del 1996 lo dimostra. Però partiamo con calma. Ha iniziato a 14 anni e già nel 1968, appena maggiorenne, ebbe l’occasione di lavorare con Paul Bocuse: parliamo di 48 anni addietro, vi rendete conto?

Lui, adolescente, già faceva lo stagista da Bocuse. Nel 1974 era a Parigi da Alain Senderens, poi da Lucas Carton. Passano due anni e prende le redini del ristorante di famiglia, Le Clos Fleury, a Saint-Etienne, nello stesso periodo nel quale inizia a brillare la stella di Michel Platini, nella stessa città. Mantiene la stella Michelin già ottenuta dal padre e poi, quando apre il proprio ristorante, arriva ad averne due in tre anni. Poi cambia la location e riesce anche ad avere la terza, nel 1993. Morale della favola: avere un ristorante del genere in una città industriale porta al fallimento, per mancanza di clienti. Incredibile ma vero, nel 1996 ha dovuto chiudere. Fu un vero choc per l’intero ambiente: ma come, un ristorante del genere può davvero chiudere i battenti? Nessuno pensava fosse umanamente possibile. E invece… Possibile a Saint Etienne, non a Parigi, dove apre e ottiene di nuovo le sue tre stelle. Ora il suo risto

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è davvero una vera e propria meta per gli amanti della guida e non solo: è quasi un pellegrinaggio, chi viene è al settimo cielo per poter spendere 400 euro (minimo). Situato in Rue de Balzac, al piano terra dell’hotel che porta lo stesso nome, a due passi da Champs Elysee, è un vero gioiello. Per arrivarci attraversi la hall e il bar, poi ti trovi davanti una sala che pare la miglior scenografia per un film di successo, come dicevamo all’inizio. Non sempre si può avere la fortuna di incontrarlo, visto che ormai è una star planetaria: ristoranti a Tokyo, Dubai, Hong Kong, Dubai, Las Vegas e Mosca. Troverete comunque i suoi fidi soci e collaboratori Thierry Mechinaud e Michel Nave. 350 il menu degustazione, 110 il lunch menu e 180 quello intermediario. Se invece desiderate ordinare alla carte, i primi si aggirano sui 170, i secondi arrivano a 200 euro, mentre i dolci 50. Bon apetit.


José Avillez IL MAGO GENTILE

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ue stelle Michelin nel centro storico, nel quartiere Chiado, a pochi passi dal teatro San Carlos e dalla movida lisboeta, nell’ex casa di Fernando Pessoa, prima un club per gentleman e ora ristorante con fiocchi, ma davvero con fiocchi. Sublime la cucina di José Avillez e non si accettano discussioni: per una volta sono tutti d’accordo, dai clienti alla critica, dai colleghi agli addetti ai lavori. Cucina che nello stesso tempo è all’avanguardia e tradizionale, contemporanea e popolare, un misto di radici e visioni con un tocco leggero di viaggi altrove. José è un mago gentile, garbato e delicato nelle movenze e ovviamente in cucina. Il ristorante ha mantenuto l’atmosfera di una

volta: sedie in pelle, legno pesante ovunque, mancano le meninas, ovvero le ragazze che decenni fa intrattenevano i banchieri, gli uomini d’affari ed i politicanti. Si narra che il gentleman club fondato da Jaime Gonzalez fosse di altissimo livello, ora qui si viene per altre emozioni, altrettanto forti. José è una autentica star, nel suo paese: programmi tv, libri, perfino una catena di ristorazione, ovviamente non legata al Belcanto. Poi un’azienda che si occupa di catering (JA) e due vini che portano il suo nome. Sui social fa man bassa di contatti: la sua pagina Facebook annovera 17.000 likes, qualsiasi cosa volesse dire l’apprezzamento virtuale (probabilmente è solo un indice di popolarità, vendibile agli sponsor,

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che tradotto significa soldi). Prima di aprire Belcanto (2011) aveva lavorato con i migliori in assoluto: Ducasse, Frechon, Adrià. La prima stella l’ha ottenuta al Tavares, posto illustre nella capitale, nel 2008. Splendide notizie per gli amanti dei sigari e per i cultori della sigaretta fra i pasti, perché uscire a cena vuol dire convivialità e sentirsi bene: qui si può fumare, i talebani anti tabacco si devono fare una ragione, scegliere simpaticamente un altro ristorante, oppure restare, anche perché c’è un’ottimo sistema di aspirazione e ricambio dell’aria. Ci siamo dilungati, lasciandovi in attesa dei racconti dei piatti: vi suggeriamo il menu degustazione Desassosego, dedicato al


capolavoro di Pessoa (Il libro dell’inquietudine, una specie di diario esistenziale). Piccolo elenco delle meraviglie: oliva fritta in tempura e dry Martini inverso (sfera al cocktail con succo di oliva all’interno), bon bon di foie gras con porto, aragostine con tendini di vitella, tartufo nero e asparagi bianchi, gambero rosso di Algarve con crema di finocchio e funghi neri con testa di gambero, triglia con pasta di mais e prezzemolo. Il piatto più forte è il “cubismo desordenado do cordeiro de leite”, ovvero tre modi di mangiare l’agnello, esaltazione pura per gli amanti del genere: si parte dal cuore e cervello con crema di

aglio e zucca, segue il girello al forno e la tartare con maionese e menta (standing ovation). Da non perdere e da gustarsi appieno la Tangerina, ovvero succo di mandarino congelato a forma di sfera con schiuma al mandarino. Il pane è all’altezza, soprattutto il corn bread e il burro affumicato con fior di sale. Gran parte della clientela è formata da turisti: stiamo parlando di gente di un certo livello, degli habitué dei ristoranti stellati. “Quando viaggi”, racconta, “una delle preoccupazioni é dove andrai a mangiare. Ti informi prima, leggi, poi prenoti. Oltre al Belcanto e la catena, José ne possiede

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un altro ristorante, Cantihno do Avillez, con atmosfera rilassata e alla mano, dove si mangiano dei “prego” favolosi, ovvero panini con carne di manzo e gazpacho di avocado, oppure gamberi e scampi. Un locale più easy, ma dove le golosità abbondano. Sessanta per cento dei nostri clienti al Belcanto ci sono stati anche dal Cantinho”, confessa lo chef. Piccola curiosità: Josè ha studiato comunicazione all’università, solo dopo ha deciso di voler vivere in cucina. A pensar bene, comunica pure oggi e lo fa forse meglio di come l’avrebbe fatto con le parole.


Tagliatore VIVA IL DANDY No 34


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ono anni che andiamo al Pitti e sono anni che ci perdiamo nel padiglione centrale. Al piano inferiore, ancor di più. Ci facciamo guidare dall’istinto e, in certi casi, dal numero di persone che intravediamo da lontano: laddove ne vediamo tante, di sicuro c’è lo stand Tagliatore. Tanta gente e tanto colore, righe e quadrati: c’è sempre tanta euforia creativa, nel mondo di Pino Lerario. C’è poi la curiosità della gente del settore, i negozianti, la stampa, gli amanti del bien vivre: perché piace molto la capacità dell’azienda di scaturire contrasti, linee, abbinamenti particolari, a volte essenziale, altre volte eccentrici. Ormai l’azienda è come un purosangue, una volta lanciata al galoppo non si ferma più.

La prossima tappa dovrebbe essere New York, il sogno nel cassetto di Pino. “Sono un grandissimo appassionato e fan degli Stati Uniti”, ci diceva qualche mese addietro. “Amo il loro modo di essere e di vivere, l’ho girato in lungo e in largo. Vorrei riuscissimo a far breccia a New York, perché se vuoi sfondare nel paese più importante al mondo si parte da lì. Un’altra città che mi stuzzica tantissimo è Miami, sta diventando importante, intensa, colorata, abitata da persone con gusto e voglia di vivere bene”. Sarà un successo, perché gli statunitensi hanno preso gusto e non possono fare a meno del Made in Italy, amano le giacche che sprizzano e trasmettono una personalità forte, vogliono sentirsi osservati, stanno diventando dei dandy,

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vanitosi, in cerca di identità: Tagliatore sembra… tagliato su misura per loro. Certo, il mercato principale rimane l’Italia, perché, sostiene Pino, “il nostro prodotto è pensato per il modo di vestire nostrano. Va detto che andiamo fortissimo anche in Giappone, paese ideale per i nostri capi slim”. Praticamente vanno bene ovunque, il Made in Martina Franca sta conquistando sempre più fette di mercato. “E’ giusto così, perché la mia regione sprizza creatività da decenni: fin dagli anni quaranta qui in Puglia si producevano cappotti da uomo, poi da donna. Certo noi siamo un’altra storia, ma intrisi della cultura del posto”. E che storia. E che posto.


Rosso di Mazara L’ORO SICILIANO

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ualche mese addietro, alla fine di una cena che sogniamo ancora (il bon bon di seppia sapeva di paradiso), lo chef Tony Lo Coco ci raccontò del perché non riesce e non intende minimamente lasciare la sua terra. “La mattina, appena mi sveglio, so già che mi aspetta una giornata meravigliosa: vado al porto respirando la brezza e l’aria salmastra della mia Sicilia, il sole mi inonda il viso e so che i pescatori, tornando dal largo, hanno già messo da parte il miglior pesce ed i gamberi più belli. Per loro è motivo di orgoglio fornire i ristoranti importanti, sapere che hanno come clienti degli chef stellati. Sono felici loro, sono felice io, sono felici le persone che varcano la porta del mio locale, miagolando per il piacere: cosa voler di più della vita?”. Impossibile dargli torto, sono scene e momenti da film. Possiamo immaginare Jean Reno nel ruolo di pescatore e, buttiamola lì a caso, Robert Redford, oppure George Clooney che interpretano il ristoratore stellato. Ci vuole un personaggio maturo, perché con l’età riesci ad apprezzare ancor di più la qualità del prodotto, l’eccellenza assoluta. Quello che dice Tony Lo Coco è una sorte di poesia, di inno alla Sicilia. Il patron del ristorante I Pupi, alla Bagheria, quando parla dei pescatori e dei pescherecci si riferisce prima di tutto a Paolo Giacalone. Assieme al suo fratello Nicola ha eredito l’attività di famiglia, iniziata nel 1914 dal nonno Pietro. “La sua barca si chiamava Maria di Fatima. Dopo di lui continuò nostro padre Antonino. E’ una attività complicata, dura, pensate che le reti vanno sempre e solamente realizzate a mano, perché se fossero fate a macchina si romperebbero, si strapperebbero. Tornando all’azienda, la nostra è la prima messa in piedi da pescatori e non da commercianti, il che ci avvicina molto alla ristorazione e agli chef, che ci preferiscono di gran lunga. In più, siamo i primi a non consegnare dei crostacei con gusto di solfiti. E’ una lunga storia, però in poche parole la si può

sintetizzare così. Dopo sei, sette ore la testa del crostaceo diventa nera. Mezzo secolo addietro i pescatori mettevano del solfito di sodio nell’acqua, noi abbiamo scoperto un anti ossidante che proviene dalla Scozia: ci permette di mantenere il prodotto in condizioni quasi naturali. Il solfito sa di ruggine, con il nostro liquido no”. Le storie dei pescatori sono da sempre straordinarie, piene di profumi e segreti. Amano raccontare e aggiungere quel pizzico di aria greve e nostalgica, malinconica e misteriosa allo stesso modo: perfino i dettagli ed i numeri sembrano una poesia. “Si salpa ogni giorno, tolto il mese di dicembre. Andiamo a sud, fra Malta e Lampedusa, nel Mar Mediterraneo, zona 37.2.2, per noi è molto importante evidenziarlo: nel mondo ogni mare è segnato con la sua zona Fao di riferimento. Le reti di metallo vado in profondità a 650 metri, a volte 700. Per scendere ci vogliono 45 minuti, per tornare su un’ora. Ci sono quattro calle ogni 24 ore, una calla dura quattro ore e mezzo. I gamberi vengono selezionati per pezzature, subito vengono messi nei cartoncini e abbattuti a meno cinquanta gradi. Una volta arrivati a bordo si va nelle celle a meno trenta. Lo scriva, non esiste il gambero fresco, è una fesseria che poi è anche contro la legge. E’ importante surgelare a bordo, attenzione: surgelare non vuol dire congelare. La differenza sta nel tempo di abbattitura, noi surgeliamo a meno 50 e in cinque minuti il gambero è già abbattuto, gli altri lo congelano a meno 25 e ci vuole un’ora: in meno tempo si abbatte, meglio è. Scongelati sembrano quasi vivi, nei ristoranti puoi tenerli una dozzina d’ore a 4 gradi”. I loro gamberi sono indimenticabili. Ti sembra la prima volta che assaggi un gambero, regala momenti di piacere assoluto e profondo, ogni morso lascia senza fiato, é di una delicatezza vibrante. E’ morbido come la seta, succoso, potente, chiudi gli occhi e respiri profondamente, assimilando la sua fragranza vigorosa. Ti sembra

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di assorbire gli odori con pelle, ti inonda la testa, il sapore sboccia sul palato, poi si scioglie in tutto il corpo. La assaggi con gesti lenti e sognanti, il corpo straripa di gioia, ti prende una specie di ebbrezza misteriosa, sussurra segreti. Pare esalare l’ultimo respiro mentre viene adagiata sul piatto. Pierre Gagnaire, uno dei più alti rappresentanti dell’alta cucina francese (leggere l’articolo alla pagina 31), annottava, dopo aver gustato i gamberi di Paolo: “Il colore è un rosso chiaro con delle nuance violacee, è delicato ed equilibrato, trasmette una vivace sensazione di freschezza al palato. Con un goccio di olio ed un pizzico di sale è una prelibatezza”. Aggiunge, Paolo: “Il tartufo lo trovano a 70 centimetri sotto terra e lo hanno trasformato in un diamante, noi andiamo a 700 metri e pare qualcosa di normale. Piccolo dettaglio, per gli intenditori: da giugno ad ottobre il gambero ha la testa nera anche perché, seppur può sembrare strano, tiene lì le uova. Ci sono chef che contestano il colore, altri invece che apprezzano alla grande, vedi Cannavvacciolo, il quale fa una maionese squisita con le teste nere dei gamberi. Altri fanno la bisque, comunque il quel periodo il gambero è anche più dolce”. La lista dei loro clienti diretti e indiretti è sempre più lunga: oltre ai soliti noti Ciccio Sultano, Heinz Beck, Pietro d’Agostino ci sono Carmelo Trentacosti (Villa Igea a Palermo), Lino Sauro (Il Gattopardo a Singapore), Luca Gragnano (Glauco a Milano), Antonio Colaianni (Gustav a Zurigo), Saul Halevi (Madliena Lodge a Malta). In Francia viene tutto distribuito da Qwheli. L’ultima chicca, e Paolo ci tiene davvero a precisarlo, è che Rosso di Mazara è l’unico gambero al mondo certificato “Friend of Sea”. “Ci teniamo, noi per primi, a precisarlo, siamo noi i primi ad amare il pesce e a rispettare le specie marine”. Pure noi, in quanto consumatori sognanti.


Heston Blumenthal MEAT FRUIT

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i vorrebbe un numero speciale per parlare di lui e delle due genialate. Forse lo faremo, un giorno: l’uomo ci intriga immensamente per via delle sue idee, della sua tenacia, della sua organizzazione e tutto il resto. Perché l’inglese di origini ebraiche è tutto, dal cuoco all’imprenditore, dal visionario allo scienziato. Dopo gli studi alla John Hampden Grammar School è stato folgorato dal genio di Raymond Thuillier, chef conosciuto in una vacanza in Provenza. La sua salsa di aragosta versata sul soufflé lo ha ipnotizzato, illuminato, conquistato. Da quel giorno la vita di Heston cambiò: iniziò a studiare e a leggere come un ossesso, senza mai lavorare in una cucina (eccezion fatta per una settimana da Raymond Blanc). Nel 1996 aprì The Fat Duck a Bray, fuori Londra, laddove prima c’era un classico bar scadente. Ora il ristorante è un punto di riferimento per l’intero mondo gastronomico: vedi arrivare taxi pieni di stranieri in un posto che altrimenti sarebbe una tragedia vera e propria. Qui pubblichiamo uno dei piatti che più ci intriga, la finta arancia con all’interno la mousse di foie gras (per la cronaca il piatto costa 17,50 sterline). I suoi giochini sono straordinari, però dietro c’è tanto, tantissimo genio e studio: rasenta la perfezione.

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The Gigi SOLO PER INTENDITORI

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n po’ di luoghi comune, che poi alla fin fine sono vere: “L’abito non fa il monaco” e “Dimmi cosa leggi e ti dirò chi sei”. Se l’idea del primo sarebbe quella che non sempre una persona vestita bene è anche affidabile, senza ombra di dubbio è altrettanto giusto affermare che se un uomo indossa una giacca The Gigi allora è

uno tosto, dai gusti sicuri, cosmopolita, che sa come spendere i suoi soldi e il suo tempo: in più, per quanto la parola sia inflazionata, un trendsetter. Perché se indossi una giacca ideata e realizzata dai Boglioli Bros, sicuramente sai il fatto tuo, sei colto, elegante, aggiungiamo creativo ed elitario. Ti piace osare, sei vanitoso, ami farti guardare e ammirare: in pratica, un

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uomo con la u maiuscola, di successo, che piaci alla gente che piace. Sul secondo luogo comune, legato a quello che leggi, i fatti sono assai chiari: se sfogli Wall Street Journal e Financial Times qualcosa vorrà dire. E chi bazzica l’ambiente dei soldi e della finanza allora si compra anche Esquire e Cigar Aficionado, le nostre riviste di riferimento. Esquire è una specie di bibbia del maschio di successo, compri la rivista con la promessa di entrare in un mondo patinato. Le pagine della moda sono curate, curatissime, la grafica anche, per non parlare dei due supplementi annuali, The Black Book: visto che il numero che guardate verrà distribuito anche al Pitti, allora sappiate che al piano sotterraneo c’è uno stand dove troverete le riviste di cui vi parliamo. Se non le conoscete, avrete una sorpresa piacevolissima e ne diventerete dipendenti. Così come quando compri e poi indossi una giacca di The Gigi, perché sai che il mondo si girerà a guardarti.

I due mondi, quello dell’editoria e dell’alta sartoria, vanno a braccetto, di pari passo. E’ il tipo di maschio che ci piace e che cerchiamo di accontentare, suggerendogli e proponendo i ristoranti e i chef più bravi. Chi è fan delle creazioni di Gigi Boglioli diventa di diritto un uomo di prim ordine, altrimenti i suoi gusti sarebbe diversi, meno evoluti. Tutti abbiamo dei momenti quotidiani che dedichiamo a noi stessi: le nostre giornate iniziano proprio con le riviste menzionate e ci aspettiamo sempre di trovare all’interno le immagini delle giacche dei fratelli Boglioli. Il mercato americano è sempre più sofisticato, il livello medio si è alzato assai, soprattutto a New York e Miami, poi a Boston e Los Angeles. Fino a quando non le troveremo su Esquire, Black Book e Cigar Aficionado, le pubblicheremo noi. Per la teoria della proprietà transitoria, è come se fossero lì.

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Donald Trump THE WINNER

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i tempi di Golf Life, con cadenza mensile o quasi, dedicavamo almeno una pagina a The Donald e alle sue formidabili intuizioni, che tradotto sarebbero i campi da golf costruiti nei posti più belli del mondo. Poi venne anche The Apprentice: non perdevamo una puntata e nemmeno le repliche, perché una trasmissione di tale intensità non si era mai vista. Come logica conseguenza siamo diventati Donald addicted e abbiamo letto e riletto i suoi libri. Per dimostrarvi che non siamo i suoi fan dell’ultima ora, che non saltiamo sul carro del vincitore (anche se perderà le elezioni, ha già stravinto), rprendiamo un breve articolo scritto tre anni e mezzo addietro: “Chiediamo scusa se diventiamo ripetitivi, visto che ogni uscita o quasi ne scriviamo un articolo su di lui. C’è poco da fare, lo idolatriamo. E’ uno dei nostri punti di riferimento nella vita, un modello. Ha una voglia feroce di vincere e una capacità pazzesca di arrivare al dunque, di badare al sodo,

è instancabile, un vulcano di idee che poi mette sempre in pratica. In più è sarcastico, dice quello che pensa senza le ninna nanna del politically correct che in Europa ha distrutto tutto. Vince, ama i soldi, sa farli, sa motivarti, non a caso alle conferenze tenute da lui i posti si esauriscono mesi prima della sua “esibizione”: la gente viene per riempirsi di ottimismo e voglia di sognare. E’ sprezzante verso i professori che sanno solo parlare senza mai nulla fare nella vita, è repubblicano, va a mille all’ora: fermiamoci qui, se no diamo la sensazione di essere uno di quei giornalisti che vive in ginocchio davanti al potente di turno (per farne un elenco ci vorrebbero due numeri di Golf Life). Il suo show televisivo, The Apprentice, batte qualsiasi record di audience negli Stati Uniti così come all’estero, dove non si perdono una puntata, anzi, nemmeno una parola dei suoi discorsi e ragionamenti. Per la cronaca noi guardiamo anche le repliche e le repliche delle repliche: è un genio del fare e della

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comunicazione, vale molto di più una sua frase che un anno di lezioni tenute da un professore prezzolato. Certo in Italia uno così piace poco e fa storcere il naso all’esercito dei benpensanti (solitamente dei nullafacenti): Donald parla di soldi, di successo, si permette di dire nel suo show “Sei licenziato”, orrore. Gli piace il successo, il lusso, crea ricchezza ed è ricco lui stesso: non sia mai. Parlasse di registi alternativi o di film così detti impegnati ancora ancora: ma Trump è lontano anni luce dalle ipocrisie noiose del tran tran nostrano. Costruisce grattacieli e acquista immobili fatiscenti per poi trasformali in capolavori costosi, non si da mai per vinto, vedi l’ultimo campo da golf costruito fra mille difficoltà in Scozia, ad Inverness, vicino Aberdeen, in Scozia, sulla costa fra Balmedie ed Ellon” Se non è amore incondizionato, questo… I suoi libri li abbiamo tenuti sul comodino per mesi, forse anni. Forse non sarebbe male


riproporre alcuni brani, epici, diventati la nostra lettura quotidiana. “Dovete amare quello che fate, altrimenti non avrete mai successo, qualunque sia il vostro di attività. Se amate ciò che fate, lavorerete di più, insisterete di più, diventerete più bravi e vi gusterete di più la vita. Le cose più importanti sono conoscere bene il vostro mestiere e amare ciò che fate e, concorrono entrambe a risolvere una quantità di problemi. Il paragrafo iniziale del mio primo libro The Art of the Deal è: Non lo faccio per i soldi. Ne ho guadagnati abbastanza, molti più di quanti possano mai servirmi. Lo faccio per il piacere di farlo. I contratti sono la mia forma d’arte. Altri si dilettano a dipingere o scrivono meravigliose poesie. A me piace stipulare dei contratti, preferibilmente complessi e impegnativi. Ecco come mi motivo”. “Se fare soldi fosse il mio unico obiettivo, avrei ceduto ad altri una quota sostanziale del mio lavoro più importante. Per esempio, se avessi basato le mie decisioni unicamente sul profitto monetario, non avrei mai costruito il Wollman Skating Rink all’interno del Central Park di New York”. Senza passione, la vita si immiserisce. La passione vi dà quella forza interiore di cui avete bisogno per non rinunciare mai. Il grande successo che ho avuto con il Grand Hyatt non ci sarebbe stato senza l’impegno,

la tenacia e un duro lavoro. Il mio desiderio di trasformare qualcosa di brutto in qualcosa di meraviglioso e di attraente mi ha sempre dato la forza di andare avanti e mi ha permesso di condividere la mia visione con altri. Come potete scoprire la vostra passione? Fate qualche esperimento: mettete da parte per un attimo ogni considerazione razionale. Cominciate a sognare a occhi aperti su ciò che

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amate veramente fare. Se poteste fare una cosa nella vita, che cosa sarebbe? Che cosa vi diverte a tal punto da farvi perdere la nozione del tempo? Che cosa vi piacerebbe fare così tanto da non voler essere nemmeno retribuiti? Che cosa avete fatto quando vi siete sentiti pienamente soddisfatti di voi stessi? La passione è più importante dell’intelligenza o del talento. Ho visto persone intelligentissime e ricche di talento fallire per mancanza di passione. Le chiamo idea people. Hanno sempre grandi idee che sperano di realizzare chissà quando, ma poi non ne fanno mai nulla. Le idee restano sempre nella loro testa e non passano mai nel loro cuore. Senza una partecipazione emotiva, svaniscono presto. Le idee sono per loro natura leggere e volatili. Ci vuole una grandissima passione per renderle concrete, per trasformarle in qualcosa di reale. Un altro fattore critico per il vostro successo sarà la capacità di reggere alla pressione. Se volete avere successo in qualunque campo, dovete essere in grado di reggere alla pressione, Finanzieri di Wall Street, medici, avvocati, atleti, politici e intrattenitori di successo, vivono tutti sotto pressione. Come fanno a resistere? Come possono vivere una vita felice e brillante in un clima psicologico così difficile? In molti casi, lo stress riguarda prevalentemente la focalizzazione su ciò che amate fare.


Ladera, Santa Lucia LIFE IS NOW

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pesso l’espressione immersi nella natura viene utilizzata a sproposito, come tante altri frasi diventate degli stereotipi incolori. Ma qui, a Santa Lucia, luogo diventato patrimonio dell’Unesco, per davvero vivi a contatto stretto con le piante perché il resort è all’interno di una ex piantagione di cocco e a due passi dalla foresta pluviale. Il fruscio delle foglie è un piacere senza fine, la brezza ancor di più, il rumore del mare pure, così come il canto dei colibri. E poi spiagge con sabbia bianca e nera, letti a baldacchino, sedie a dondolo sull’acqua, rubinetti a forma di conchiglia, il ponticello di legno sopra la piscina: qui “is all about romance”, scrisse l’inviato di Traveller, nel 2012. Perché, in effetti, il resort è una delle mete più romantiche per i matrimoni, ma soprattutto è l’unica struttura caraibica ad aver raggiunto la prima posizione nella Best List, la famosa classifica di Condé Nast. Le 32 stanze hanno la così detta open wall oppure open air, ovvero la stanza con tre mura e al posto del quarto c’è la vista sulle due montagne vulcaniche (chiamate Pitons) e sul Mar Caraibico. Una volta la chiamavano vista da cartolina, ora l’espressione si è tramutata in instagram view, ma sono dettagli. Furono fra i primi ad aver scelto di realizzare le camere senza finestre, con davanti solo il paesaggio mozzafiato: sono stati dei pionieri, parliamo di una ventina di anni addietro, ma onestamente pare alquanto impensabile immaginare una situazione diversa. E’ tutto naturale, tutto così ovvio e semplice da trovare inconsuete le finestre una volta tornati a casa. L’unica pecca del resort, manca la spiaggia privata, però il motivo è assai facile da capire: siamo a 400 metri di altezza, con una ripida scarpata che scende fino alla baia: volendo, con la navetta si può raggiungere la spiaggia del Viceroy o Anse Chastanet. Una volta la proprietà faceva parte dell’impero immobiliare Rabot, poi nel 1982 è stato acquistato e trasformato in un resort come pochi altri al mondo. Se il personale è davvero efficiente, se tutto funziona a meraviglia, gran parte del merito va ad Olivier Bottois, l’uomo arrivato qui dopo aver lavorato al George V di Parigi e aver diretto le operazioni nel quartier generale della catena Four Seasons: qui da più di dieci anni, sa coinvolgere il personale e farlo crescere come pochi. Vanta anche un ruolo a dir poco singolare, fu il maitre personale dell’ex presidente francese Francois Mitterand: insomma, è l’uomo giusto al posto giusto, perché la clientela è davvero esigente e non potrebbe essere diversamente visto il costo dell’esperienza vacanziera. Le pietanze al ristorante Danshee sono prettamente locali, compresa la patata dolce e la zuppa di cocco, in un tripudio di cibi e piatti internazionali con chiaro tocco caraibico. Non vi resta che andare a provare.

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One night IN BANGKOK

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on puoi vantarti di amare il cibo, di essere romantico e tornare da Bangkok senza aver cenato al Sirocco, probabilmente il ristorante più scenografico della Thailandia. Togliamo probabilmente: lo é senza alcun dubbio. Al 63imo piano dell’hotel Lebua, nel quariere Riverside, é diventato famoso per le scene del film “Una notte da leoni 2”, girate qui. Il film, nella lingua originale, si chiama The Hangover poi come sempre in Italia trovano sempre il modo di mettere un titolo a dir poco scemo e senza alcun senso. Tornando al titolo originale, ha ispirato anche il nome del cocktail più richiesto e desiderato qui in alto, ovvero il Hangovertini: lo potete assaggiare al Sky Bar, dove però spesso c’è troppa gente, l’unico elemento che disturba.

Per il resto é tutto magico e perfetto, dalla musica live (si suona il jazz) all’atmosfera elegante e frizzante (il design é spagnoleggiante), prima di tutto però viene la vista, sontuosa e incredibile: Bangkok dall’alto, con la città attorno a te. Si può venire per un drink (la stra grande maggioranza si limita a questo, i prezzi vanno dai 15 dollari in su), oppure per una cena, spesso romantica e ancor più spesso celebrativa: tante, tantissime volte si sono viste qui proposte di matrimonio con annesso inginocchiamento e le lacrime di rito. Non é certo un ristorante economico (25 euro l’acqua gasata), però mai nessuno si é lamentato dei prezzi anche perché la vista vale ogni centesimo del mondo e poi lo sai a cosa vai incontro. Va aggiunto che si mangia divinamente: qualche consiglio? Il carpaccio e il

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filetto Wagyu, il risotto al nero di seppia, ottime le influenze iberiche per via delle origini del nuovo chef, Gonzalo Ruiz (prima in giro per il mondo in vari ristoranti rinomati fra Ibiza e New Delhi, ora anche proprietario di un suo locale a Barcellona). Si prenota con largo anticipo, non é permesso arrivare vestiti da turista con infradito e sandali (ti spediscono indietro senza alcun problema, anzi, con il sorriso sulle labbra): ci vogliono i pantaloni lunghi e la camicia, come minimo. A proposito della prenotazione: una volta fatta, vi chiameranno e richiameranno, ve lo ricorderanno varie volte via mail, nonostante aveste già lasciato i dati della vostra carta di credito. E’ un modo per farvi capire che sarebbe folle perdervi un’emozione del genere.


Payper GIOCHI GUSTOSI

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uanto ci piace abbinare dei piatti stellati a dei capi di abbigliamento frizzanti e intriganti! E’ come un puzzle che non finisce mai. Perché ogni volta ci sono nuovi modelli e nuovi piatti che ti lasciano a bocca aperta, colori e profumi inaspettati, che ti aprono dei territori sconosciuti. Alcuni piatti non li abbiamo assaggiati, però proviamo di goderceli con il palato dell’immaginazione, perché guardare delle immagini di cibo è bello quasi come mangiare, tanto sono scenici e coinvolgenti. Diciamo la verità, il buon cibo ci libera dalla realtà quotidiana, fa parte dell’incantesimo. Ci sono momenti di piacere assoluto e profondo, brividi leggeri, il ricordo di alcuni piatti di accompagna per gran parte della giornata, spesso ci svegliamo il giorno dopo con il desiderio folle di ricordare ogni boccone. Cerchiamo di catturare i piaceri, inseguiamo la qualità ad ogni costo, ci piacciono i giochi pirotecnici della cucina, ci abbandoniamo alla seduzione, le sensazioni si ammassano una sull’altra. Siamo degli irriducibili romantici della cucina, ci piace la carne morbida come la seta, succosa, potente, primitiva, oppure il pesce di una delicatezza vibrante. Ci piace chiudere gli occhi e respirare profondamente, assimilando la sua fragranza vigorosa. Ci piacciono le diavolerie degli chef, i giochi pirotecnici, ci piace la buona cucina e la moda urban chic, contemporanea, l’eleganza colta. Per questo i capi di Payper sono in linea con i piatti che abbiamo scelto: il primo, a partire dall’alto, appartiene ad André Chiang, taiwanese che ha ottenuto tre stelle Michelin al ristorante Le Jardin di Parigi. In mezzo, una creazione di Jan Hertog, belga di Bruges, pure lui tre stelle. Idem per lo chef che ha ideato il piatto in basso, ovvero Enrico Cerea: abbiamo scelto la mousse leggera di limone con frutti di bosco e rabarbaro. Le maglie di Payper fanno invece parte della nuova collezione, realizzata in onore degli europei di calcio, iniziati proprio in questi giorni.


Kesler Tran PAULINE, MON AMOUR

Meno parole utilizziamo e meglio è, perché non c’è nulla da aggiungere: si deve guardare in silenzio, in religioso silenzio. Kesler Tran è un gigante della fotografia, lo si sa: inutile stancarvi e raccontarvi la sua storia, tanto sarebbe un esercizio inutile, sarebbe solo da contorno, peraltro nemmeno interessante. Del corpo di Paulina, cosa dire? Altro esercizio inutile. Per cui ammirate gli scatti, l’atmosfera, la poesia e l’incanto delle fotografie realizzate per la rivista Treats Magazine. Life is now

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Inga Verbeeck LOVE IN THE CITY

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iao, sono Inga e so che altre volte si è scritto di me su GOOD LIFE. D’ora in poi lo farò io direttamente, cercando di raccontarvi il mondo dei single e non solo. Per chi non lo sapesse, sono la patron di un club per single, Ivy International. Non è una agenzia di escort e ancor meno un sito di incontri casuali, non accettiamo opportunisti e avventurieri: solo persone indipendenti, con un alto tenore di vita e un sincero interesse di avere dei rapporti duraturi. E’ incredibile quanta gente di successo (pro­fe­ s­ sionale, soprattutto) non trova il tempo per cercare un compagno. Medici, avvocati, bu­si­ nes­sman, giornalisti: tutti con i minuti contatti, alcuni che lavorano fino a tarda sera, altri che viaggiano in continuazione. Può sembrare strano, ma il paese con più difficoltà nel trovare un partner è la Svizzera. Forse perché ci sono delle piccole città dove alle 19 le strade sono deserte, forse perché ci sono tantissime multinazionali dove si lavora fino a tardi e alle undici si fa fatica, o non si hanno le energie per andare alla conquista di qualcuno.

Poi nei centri con pochi abitanti ci sono altrettante poche opportunità: vivendo a Zug si hanno meno possibilità di incontrare delle persone interessanti che a Parigi, oppure a Berlino. Il che non significa che nella capitale francese non ci siano delle difficoltà, seppur di altro tipo. Non dovrei dirlo, però le donne parigine sono le più lunatiche, con loro sei come sulle montagne russe, un giorno le vedi al settimo cielo, il seguente sono con il morale sotto i tacchi. Arrivando al capitolo Italia, devo dire che i maschio della penisola ha perso fascino e soprattutto credibilità rispetto al passato. Le donne lo considerano poco deciso e intraprendente, molle e traditore: non proprio il massimo. Da parte sua, il maschio italiano vorrebbe una compagna straniera, però spesso la lingua gli impedisce di avere una relazione, non parlando bene l’inglese, oppure il francese. Così, i desiderosi di un rapporto duraturo si vedono quasi obbligati di “ripiegare” su una connazionale, loro malgrado. Più interessante la situazione delle donne

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italiane: loro sì vorrebbero un marito del loro stesso paese. Come seconda scelta sognano un uomo britannico, immaginandolo pieno di humor ed elegante, che va a caccia e spende il tempo libero nella sua tenuta nel Kent. Niente di più sbagliato, così com’è errata la loro idea sul maschio scandinavo. Lo vedono forte come un vichingo, la realtà però è ben diversa. Sempre parlando degli uomini, sembrerà strano ma l’ottanta per cento di loro non ha il coraggio di chiedere ad una donna di uscire. Ancor più strano, più si occupa un ruolo di rilievo in un’azienda, meno si ha la voglia di vedersi rifiutati da una donna. Attorniati da yes man e persone che per grado devono dire “sì, signore”, hanno perso il contatto con la vita reale. Comunque, chi si iscrive all’Ivy International trova quasi sempre una compagna, oppure un compagno di alto livello. Il settanta per cento dei nostri clienti trova l’anima gemella nell’arco di un anno. Il restante trenta per cento, beh, la metà rinnova l’iscrizione, mentre l’altro cinquanta per cento tentenna. Alla prossima. Love




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