GOOD LIFE. Perché mangiare é godere

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Felix Lo Basso

Foto: Barbara Santoro

I samurai di




Editoriale

Miagolare

PER IL PIACERE

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a lepre con foglie di cacao e pâté di semi di papavero da Terry Giacomello. Il riso alla parmigiana da Felix Lo Basso. Lo street food con pan de cristal da La Griglia di Varrone. Il maki alla milanese da Wicky. Il caffè da Betto. Si, lo ammettiamo, siamo fortunati perché attorniati dalla magia: in più, siamo noi stessi alla ricerca spasmodica di emozioni fortissime, sempre e comunque. Le cerchiamo in maniera continua, quasi ossessiva, é una specie di mantra, un credo, un modo di essere. D’altronde, passando la gran parte delle giornate assieme agli chef, nei loro ristoranti, non potremmo vivere diversamente: loro si svegliano con la voglia pazza e sfrenata di regalarci momenti indimenticabili, vivono con la voglia feroce di farci innamorare e coinvolgerci, portarci in un mondo passionale, pieno di follia e immaginazione, gusti e profumi, colori e sensazioni, vogliono stupirci, vederci turbati per il piacere. Riescono a trasmettere un entusiasmo contagioso. Torni sempre a casa con quella elettricità addosso, con la sensazione che tutto è possibile, vai a letto sicuro che pure i sogni saranno qualcosa di bello e intrigante, sexy e sensuale. Una buona cena, un piatto formidabile ti rimangono impressi, te le senti addosso, spesso più del profumo di una donna con la schiena arcuata e luminosa, vellutata e fresca. E’ un mondo che ti manda in visibilio,

ti porta e ti spinge a osare, quasi ti costringe a vedere le giornate sempre a colori: confesso, mi sento fortunato, quasi privilegiato, anche se poi ognuno di noi può vivere allo stesso modo, è solo una questione di prospettiva. E’ un po’ come il sogno americano, a tutti ci è data la possibilità di vincere, di avere successo: basta saperlo fare, cogliere le sfumature, le occasioni. Difatti solo gli statunitensi potevano fare un film come Burnt, traduzione in italiano Il sapore del successo (c’entra come i cavoli a merenda, come sempre). Ad un certo punto Bradley Cooper, nei panni di un bistellato Michelin, dice sognante che i suoi chef li vuole come i sette samurai. La frase non poteva passare inosservata, difatti eccola tradotta in realtà: la copertina si ispira proprio alle parole del cuoco. Va detto, sono affezionato a Felix Lo Basso e al suo ristorante, alla sua brigata anche. I motivi sono tanti, privati e professionali. Fatto sta che salire e mangiare da lui è una di quelle esperienze indimenticabili, formidabili: la vista è monumentale, la posizione del ristorante anche (sei in vetta al mondo, sui tetti della Galleria Vittorio Emanuele), poi man mano tutti gli altri dettagli e giochi pirotecnici fra mise en place e cucina. E se lei miagola per il piacere, appena assaggia le pietanze di Felix, il gioco è fatto. Perché sì, c’è sempre una donna speciale in un racconto del genere. Immagina, puoi.

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di Dominique Antognoni



Sommario

Good Life FOOD IS ART

Sergio Coimbra VIVERE PER UN SOGNO

Felix Lo Basso MIAGOLARE PER IL PIACERE

E’ il più grande fotografo gourmet: brasiliano, lavora assieme alla moglie Monica. Hanno creato un impero

Lo chef pugliese, una stella Michelin, ha aperto il suo primo ristorante: magia pura vista Duomo

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Corey Lee IL TERRORISTA STELLATO

The Gigi SOLO PER SOGNATORI

Ana Dias FOTO POP. MOLTO POP

I fratelli Boglioli stanno conquistando i mercati d’élite, la gente che piace e che ama sapere di piacere

La fotografa portoghese sta lavorando soprattutto per Plaboy: ora sta curando un progetto internazionale

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E’ lo chef più in voga negli Stati Uniti: origini coreane, ha già tre stelle Michelin ed é il simbolo della cucina americana. pag. 36

Good Life | dominiqueantognoni@yahoo.it

Wondercool Copenhagen FELICI E STELLATI

La capitale danese è ormai una meta di prim ordine per gli amanti dell’alta ristorazione: stellati a pioggia


Nel 1877, con lo stesso spirito audace e avanguardista di Madame Clicquot, la Maison si contraddistinse apponendo un’etichetta gialla sulle proprie bottiglie.

Bevi Responsabilmente - www.veuveclicquot.com


Sergio Coimbra VIVERE PER UN SOGNO

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arà un caso, però mentre pensavamo a come raccontare la storia del fotografo gastronomico più forte del mondo, su spotify partiva l’ultimo successo planetario dei Coldplay, A Head of Full Dreams. Non sappiamo se a Sergio piace Chris Martin, probabilmente no: in quanto brasiliano forse ama suoni diversi, più caldi e sensuali, però il titolo dell’album, così come quello delle canzoni Adventure of a Lifetime, Colour Spectrum e Amazing Day ci portavano ad immaginarlo felice, aprendo di buon mattino le porte del suo studio. Perché questa é la storia di un ragazzo normale innamorato pazzo dal buon cibo e dalla fotografia, un ragazzo che ha inseguito un sogno e ovviamente lo ha realizzato, vivendolo appieno giorno dopo giorno, istante dopo istante. Cresciuto in una famiglia di coltivatori di caffè, Sergio Coimbra ha mosso i primi passi nell’azienda dei suoi per poi vivere con l’ossessione della scatto, dell’immagine e della sua magia. Ogni secondo lo ha impegnato nello studio, fino a quando è diventato il migliore in assoluto. Chi non ci crede lo preghiamo di googlare il suo nome, oppure di sfogliare le nostre pagine: rimarrà a bocca aperta, ammaliato di tanta tecnica e colore, intensità e nitidezza. Un dio, un mostro, un eletto. Il tocco magico glielo trasmette Monica, sua moglie: hanno creato un impero, unendo l’amore per il cibo e il business. L’affare perfetto, la vita perfetta per due persone che riescono ad impressionare ad ogni passo, sempre di più. “Senza di lei non ci sarei mai riuscito ad arrivare dove sono arrivato”, dice convinto. Hanno sempre sognato di aprire un mega studio che possa essere luogo d’ispirazione per gli chef: ci sono riusciti nel 2010, dopo anni di fotografie commerciali, scatti per aziende e supermercati, campagne e cataloghi che hanno permesso ai due di mettere da parte i soldi necessari per il grande progetto. Gualtiero Marchesi, dopo aver conosciuto Sergio, commentava: “Non ha fotografo il mio piatto, bensì lo spirito. Sono rimasto sbalordito del suo lavoro, finalmente uno che riesce a capire le mie creazioni”. Da parte sua, Massimo Bottura rincara la dose di complimenti: “Sergio

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Piatto di Daniel Humm, Ristorante Eleven Madison

ci spinge a essere creativi, perché lui ci guarda dal punto di vista di un amante della grande cucina, vuole che ci esaltiamo, il suo è un punto di vista particolare, una esperienza fantastica”. Per la cronaca, i due si apprezzano molto, tant’è vero che Sergio è venuto più di una volta a scattare all’Osteria Francescana e altri luoghi cari allo chef, nell’Emilia. Il suo primo libro di immagini, realizzato in edizione limitata e destinato praticamente solo a chef e addetti, è stato un capolavoro estetico fin dalla confezione, in legno pregiato. All’interno

dei due volumi immagini straordinarie con piatti di Heston Blumenthal e Massimiliano Alajmo, Alex Atala e Gualtiero Marchesi, assieme a tanti scatti legati al mondo dello street food. Un successo strepitoso e meritato, che gli ha aperto le porte della consacrazione: sono seguiti il progetto con Massimo Bottura, poi quello con Marcus Wareing, Yoshihiro Narisawa. L’unico chef con il quale non ha ancora lavorato è René Redzepi, per il resto ci sono tutti, a partire dai suoi connazionali famosi, Alex Atala in cima. Nello studio, una specie di show room, trovi

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di tutto, da posate ai piatti, da tavoli ai forni, attrezzature per mettere gli chef nelle condizioni ideali per sperimentare. Un laboratorio creativo dove senti che tutto può accadere, difatti gli chef si sentono dei supereroi quando si trovano qui, riuscendo spesso a sorprendere se stessi. Disegnato da Marcio Kogan, lo studio è davvero una oasi di piacere che stimola la creatività: all’ingresso trovi un giardino tropicale zen, con alberi jabuticaba e centinaia di piante locali. Un vero e proprio eden, una Disneyland, un paradiso. Come aveva sempre sognato.


Alex Atala, Ristorante DOM

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Piatto di Pedro Subinana, Ristorante AkelarĂŠ

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Acanto, seduzione PRINCIPESCA

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a prima volta siamo andati spinti dalla curiosità: ci avevano raccontato di uno chef che, finalmente, avrebbe svecchiato le troppe serie atmosfere del ristorante Acanto. L’impatto fu assai forte e molto piacevole, si sentiva subito la sua mano decisa, quasi a voler spazzare via il passato e a iniziare una nuova era, piena di freschezza e sogni. Che sia ben chiaro, non che prima si mangiasse male: però la sensazione era che il ristorante si fosse fermato a metà strada fra l’obbligo dell’albergo di averne uno e l’intenzione di produrre reddito. Pareva un obbligo più che un piacere, un’inerzia, un peso più che l’opportunità di vederlo pieno di gente felice di trovarsi lì. Va detto che non è mai facile cambiare quando sei carico di storia e fai parte del gruppo Dorchester: il cinque stelle lusso impone certe regole e ritmi, se nasci nel mondo 2.0 fai meno fatica a essere leggero, a sbizzarrirti. Un albergo tutto vetri e ambienti luminosi parte in vantaggio, da questo punto di vista: fin da subito profuma di nuovo e trasmette energia positiva, un’aria frizzante e coinvolgente. Se lo chef è pieno di idee e propone un menù intrigante, il gioco è facile, la gente arriva ed

eccoci, il successo è assicurato. Il Principe di Savoia è un istituzione, ha un passato glorioso e un presente altrettanto pieno di charme, entrare nella hall è come andare al teatro: trovare la soluzione ideale comporta qualche pensiero in più, perché non si ammettono passi falsi e azioni brusche, i cambiamenti non sarebbero consoni e graditi dalla clientela abituale. Alla fine la soluzione si è trovata: è stata ponderata, meditata, allo stesso tempo coraggiosa e, quel che conta, vincente. Giocare la carta Alessandro Buffolino si è dimostrato un colpo da maestro: ora, a sei mesi dal suo insediamento, lo possiamo affermare con decisione. Il ragazzo sta mettendo in carta il suo secondo menù, la gente apprezza e torna, il ristorante inizia ad avere una vita propria, indipendente dal via vai alberghiero. Azzardiamo una previsione: entro l’anno si arriverà ad una ottantina di clienti a sera (ora la media si aggira sulla cinquantina, il che non è poco). Non sbaglia un colpo, anzi, le sorprese sono ad ogni passo e sempre di più, a cominciare dall’intrigante benvenuto, ovvero la sfogliettina ripiena di ricotta salata, croccante e gustosa: seguono altre diavolerie golose che ti riempiono

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di buonumore, promettendoti una serata lussuriosa. Il primo morso ti manda già in visibilio, il contrasto con la bollicina ghiacciata ti fa già sentire un uomo felice, avresti voglia di chiederne altre, tranne poi trattenerti per non sembrare ingordo. Stesso discorso per il foie gras, la marinatura colpisce subito: “Zucchero, sale, pepe e una cottura sottovuoto a 38 gradi, sta tutto nell’equilibrio degli ingredienti”. Ti seduce e ti stordisce, è elegante. Lo chef ti sorride, sa di aver fatto centro, si vede che gli piacciono i giochi pirotecnici. Non è uno da mezze misure, è tosto, i gusti sono ricchi, pieni, robusti, vigorosi. Il tonno scottato rivestito di scaglie di pane, con accanto sorbetto al basilico e anguria compressa lo possiamo considerare il suo primo piatto cult. Da buon campano sa come mescolare profumi e materie prime eccelse, l’esperienza francese ha fatto il resto: gli anni passati da Michel Guerard hanno affinato la tecnica e aperto la mente, aumentando la fiducia in sé stesso. I piatti sono garbati e piacevoli, intensi e potenti, pittorici e gustosi. Ha appena superato la trentina, il futuro è decisamente suo.


Felix Lo Basso PROFUMI, STELLE E MAGIA

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l sapore del successo è di gran lunga il più bel film realizzato sulla vita degli chef. E’ hollywoodiano dal primo all’ultimo momento, pieno di sogni e profumi, fascino e tensione, personaggi irrequieti e irrisolti, ambiziosi e ambigui, vincenti e visionari, gente con il fuoco dentro che spesso cade e poi si

Capasanta impanata nel bacon

rialza per ruggire e brillare più che mai. Alcune frasi sono diventate dei cult, tipo “I miei cuochi li voglio come i sette samurai”, “Se hai una stella sei Luke Skywalker, se ne hai tre sei Yoda”: la prima è stata l’ispirazione per la copertina del numero che state sfogliando. I ragazzi di Felix se lo meritano, lui ancor di

Cotoletta alla milanese

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più, la fotografa Barbara Santoro pure. Piccola aggiunta: fosse per lui avrebbe messo in copertina sua madre, “la miglior cuoca al mondo”. Un giorno forse li metteremo insieme, chissà: nel frattempo, fattevi raccontare le ricette della madre: “Un pugnetto di qui, un pizzico di lì, un cucchiaio qua, un pochino là. Come diavolo fa è


un mistero, noi codifichiamo tutto e lei invece va così a occhio: è geniale, davvero”. Tornando a Felix, va detto che nella sua cucina si avverte davvero la sensazione di vedere una sorte di famiglia allargata: no, non è una forzatura, anche se troppo spesso si sono lette frasi legate all’unità e l’armonia, il gruppo e altre del genere, tanto da farci venire l’orticaria e perdere la voglia di toccare l’argomento. Qui è diverso, c’è una fratellanza vera, merito di Felix che sa condurre senza terrore, riesce a imporre la sua filosofia senza urla e coltelli tirati. Per la cronaca, il fatto è assai raro nell’ambiente e non vogliamo aggiungere altro, chi lo bazzica sa di cosa stiamo parlando. Nino, Dario, Emanuele e Gianluca lo seguono e probabilmente lo seguiranno ovunque: alcuni sono con lui dai tempi della prima stella in Alta Badia. Come noi, vivono alla ricerca continua di emozioni forti, vivono con l’ossessione spasmodica di farci sognare e vivere momenti indimenticabili: ci riescono. E poi, i fatti: il Duomo è l’unico luogo sacro per i milanesi, assieme alla Via Montenapoleone, più gettonata, importante e commerciale ( i soldi vincono su tutto, sempre). Il 14 giugno, all’ultimo piano della Galleria Vittorio Emanuele, ha aperto il primo ristorante che porta il suo nome: Felix Lo Basso. In Alta Badia

andò da perfetto sconosciuto, dopo una dozzina d’anni in Romagna, all’Unico fu la sua prima esperienza milanese, ora si presenta davanti alla clientela come uno che fa parte del Gotha della ristorazione. Guardare il mondo dall’alto è una sensazione straordinaria. Ti senti come Superman, invincibile. Poi il ristorante sa di paradiso: le finestre a oblò sono di un romanticismo sfrenato, la vista sa di cartolina, il menu anche, il design pure, i piatti anche, entri e non ricordi nemmeno di quante cose te ne innamori contemporaneamente. E’ tutto perfetto, brillante e scintillante, di una eleganza che non pesa, fresco e semplice, ma nello stesso tempo assai sobrio e austero. Sali al quinto piano e le sensazioni si ammassano, le immagini si sovrappongono: si, lo avete capito bene, è un luogo che ti tocca l’anima, ti impressiona, perché il suo ristorante domina la metropoli lombarda, mentre i piatti ti intontiscono per via dei sapori intensi, veraci, generosi. Da ragazzo del sud pigia il piede sul pedale del gusto, idem i suoi ragazzi, siciliani nella gran parte. La seduzione è totale, il menu è sentimentalismo puro, la cucina è passionale, cromatica, marina e terrena, tanto identitaria, di schietta matrice pugliese, riconoscibile, moderna, viva. Gli amuse bouche sono dei giochi di prestigio: lo scoppiettio delicato della pallina nera con

L’interno del ristorante

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all’interno la mousse di cozze sa di mago Merlino. Il pane è fragrante, ricco, croccante, morbido, sembra portarsi dentro il profumo di un intero campo di grano fresco. La pasta al pomodoro forse vi pare un gesto assai banale in una cucina stellata, però assaggiatela e poi ne parliamo: è succulenta, la prima forchettata è una emozione davvero violenta, i pomodorini vesuviani lasciano un tale profumo da svegliarti il giorno seguente con la voglia di ricordarlo. Rimani stregato e ti lasci invadere dal languore, senti il piacere crescere dentro di te. Un altro suo classico, il riso alla parmigiana, impedisce la conversazione: è saporito come un bacio, ti porta a voler divorare il mondo, sussurra segreti, è cremoso oltre ogni immaginazione. La cotoletta alla milanese, omaggio alla città, è succosa, tenerezza allo stato puro: potremmo continuare a lungo, elencando le altre pietanze del menu. Tutti rimangono estasiati, escono felici e parlano in continuazione della roulette dei sapori assaporati da lui. La gioia più grande è vedere le donne come miagolano per il piacere mentre assaggiano la sua pasta, arrotolandola e gustandola lentamente con le labbra fresche e di fuoco. Perché mangiare è godere. Da Felix è così, chissà dalla sua mamma.


Da sinistra: Nino Ferrari, Domenico Peragine, Dario Fisichella, Emanuele Buffa e Felix Lo Basso

La brigata Nel mondo della ristorazione, dell’alta ristorazione, capita spesso di sentire come chef conclamati e stellati non si impegnino più di tanto in cucina, “poggiandosi” sugli sforzi e le idee degli altri. C’è chi copia, c’è chi manda i suoi in giro a fare degli stage per poi tornare alla base e raccontare i piatti visti, mettendoli nel menù con un minimo di cambiamento. C’è poi chi non crea da anni, lasciando il compito agli altri, tranne poi prendersi i meriti. Da Felix non accade e non accade nemmeno di sentire urla o vedere volare coltelli: regna l’armonia e il piacere di cucinare, la passione insaziabile e la voglia di conquistare il cliente. E’ un gruppo molto unito, dove lui è una specie di capo branco, oppure fratello maggiore. Rispetto ai tempi dell’Unico ci sono meno, numericamente: d’altronde lo spazio in cucina non permetterebbe scelte diverse. Quello che conta è la capacità, la voglia di stare e lavorare insieme: tutti all’unisono lo ripetono in continuazione, un’atmosfera così è difficile trovare altrove. Va detto che Felix ha avuto “naso”, scegliendoli uno ad uno. Prendiamo Dario Fisichella, catanese doc,

l’addetto ai secondi. Dopo l’alberghiero a casa sua è andato a Monte Carlo, al Twiga: poi l’incontro con Felix, ai tempi dell’Unico. Si sono trovati subito bene, perché pure Dario è un grande amante dei sapori netti e forti, tipici del sud: “Non riesco proprio ad appassionarmi alla cucina spagnola, molecolare”, dice, “a me piace sentire il profumo. Io vado pazzo per la melanzana, Felix invece mi ha fatto scoprire il cervo. Cosa mi piace di più, lavorando con lui? Ha creato un gruppo affiatato, niente screzi”. Invece Emanuele Buffa, da buon calabrese (viene da Vibo Valentia), va pazzo per il peperoncino. “Però a Milano è dura poterlo proporre”, racconta. “Poco male, mi piace molto preparare i risotti e la pasta fresca, quella al pomodoro è il piatto che più mi esalta. La cucina di Felix è proprio come piace a me, estetica e buona. Con lui ci intendiamo al volo, con gli altri ragazzi anche: collaboriamo in maniera perfetta”. Più loquace Domenico Peragine, il fido pasticciere: “Siamo insieme dal 2011, ci eravamo conosciuti per caso a Bari, poi sono andato da lui in Alta Badia, non è stato facile all’inizio, perché sono un uomo di mare e cambiare così

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drasticamente fa un certo effetto. Pian piano mi sono abituato e devo dire che ho vissuto e lavorato alla grande. Ora eccomi a Milano, più completo ed esperto, sempre a cercare il dolce perfetto, come gusto e come forma, perché fin da piccolo mi piaceva il design : d’altronde sono cresciuto con il mito di Luca Montersino e Giuseppe Galena”. Lo abbiamo lasciato per ultimo, anche se è il braccio destro di Felix: Nino Ferreri, siciliano pure lui, di Trabbia, vicino Palermo. Classe 89, dopo intense esperienze fra Sardegna, Verbier (allo stellato Le Chalet d’Adrien) e Anversa (da Francesco, nella Place Leopolde) ha incontro Lo Basso a Milano Maritima, nel 2010: da allora sono sempre insieme. All’Alpen Royal preparava le colazioni, poi è passato ai secondi e da quando sono arrivati a Milano, all’Unico, è il sous chef. Innamorato pazzo della cucina mediterranea (principalmente dal pomodoro, non a caso la caprese del menu di Felix è sua), ammiratore di Mauro Colagreco, sta maturando giorno dopo giorno: “Con Felix si può crescere, qui l’atmosfera è idilliaca, c’è un grande affiatamento fra di noi. E poi il posto, incantevole”. Già.


Da sinistra: Mattia Silena, Jessica Fiore, Mattia Busi e Gianluca Lo Russo

Lo staff di sala Un giorno stavamo parlando con lo chef sul terrazzo esterno, dominando la città con lo sguardo: ad un certo punto si avvicinano i due Mattia. “Perché nessuno scrive mai dei ragazzi che svolgono il servizio in sala?Alla fin fine da loro dipende l’andamento della serata, se regna il piacere in un ristorante il merito non è solo dello chef, del cibo e del vino”. Giusto. Eccoci, a metà strada fra un mea culpa e la convinzione che un servizio sbrigativo e svogliato rovina l’atmosfera, mentre la gentilezza dello staff contribuisce, e tanto, a farti sentire rilassato e lasciarti abbandonare alla seduzione. Tornando ai due ragazzi di Felix, Mattia Busi è quello più riflessivo, in più sostituisce Gianluca Lo Russo, il sommelier, nei giorni di assenza. Se la cava alla grande, perché la passione per il vino arriva da lontano, è un nipote d’arte: difatti il nono era ed è un grande intenditore, nonché titolare di un locale nel vigevanese. “Agli inizi volevo fare il cuoco, difatti mi sono iscritto al Ciro Pollini di Mortara con l’intento di diventarlo. Poi andai con i miei in un ristorante di lusso e rimasi affascinato dal servizio in sala, mi appassionai a tal punto da cambiare orientamento, niente più sogni da chef. Finita la scuola andai in Austria, non tanto per

il lavoro in sé quanto per la voglia di imparare una nuova lingua: tornato, avevo dei dubbi, perché lavorando in un ristorante mancava il tempo libero, per un ragazzo giovanissimo è un problema. Ora invece sono straconvinto di aver fatto la scelta giusta: va detto che vedere un ristorante partire da zero, come qui, è qualcosa di davvero speciale. Quando andai all’Unico era diverso, qui invece lo sentiamo tutti un po’ nostro ed è una sensazione fantastica”. Da parte sua, Mattia Silena, il Mattia più esuberante, non ha mai avuto dubbi, ha sempre sognato il mondo della ristorazione: “Iniziò tutto quando assieme ai miei passai davanti all’Hilton di Corfu, da quel momento non ho mai più cambiato idea. Difatti sono andato a studiare alla scuola alberghiera Adriano Olivetti con l’intento di diventare maitre. La mia prima esperienza lavorativa l’ho fatta all’Hotel de la Ville, a Monza, poi ho incontrato Gianluca e Felix: eccomi qui. Cosa mi piace di più? Sono affascinato dalla mise en place, dal tavolo, dal servizio, vorrei che il cliente si sentisse leggero e soddisfatto”. Jessica Fiore è l’unica donna della “famiglia” Felix Lo Basso: ha sempre lavorato nel mondo della ristorazione, anche perché fin da piccola

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non ha visto e vissuto altro: papà cuoco, mamma cameriera. “Sono l’ultima arrivata, gli altri si conoscevano già. Cosa mi piace di più, qui? L’intesa umana. E poi sarò banale, ma la vista è mozzafiato.”. Altro che banale. Chiudiamo con Gianluca Lo Russo, l’uomo che fa andare avanti la macchina organizzativa, nonché il sommelier del ristorante e chioccia per i nuovi arrivati. “Ho incontrato Felix sette anni addietro, all’Alpen. Ero chef de rang a quei tempi, poi sono passato nel locale gourmet dello chef. Non mi sono mai fermato, ho sempre lavorato fin dai tempi della scuola alberghiera, ho studiato all’Ipsar. Poi sono andato in Inghilterra e in Francia per affinare le conoscenze. Con lo chef il feeling è stato immediato, totale: fin dai primi momenti si era capito che parlavamo la stessa lingua, provando le stesse emozioni. Un giorno stavamo studiando un abbinamento, Gewurztraminer e foie gras: sembravamo una sola persona. Spesso andiamo a mangiare insieme, per capire e inventare nuovi accoppiamenti. Devo ammetterlo, sono fortunato di averlo incontrato: e poi, guardate questo posto. Oltre al fatto che sento mio il progetto, posso dire che mi sento a casa, e pensate bene che sono nato a Foggia”.


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na meta che è una certezza, una destinazione che supera sempre le aspettative, già altissime. Una città straordinariamente felice, disegnata per le persone, non a caso qui ti raccontano che “la sera vai a letto con la sensazione che la mattina dopo sarà ancora meglio”. Copenhagen splende sempre di più e la ristorazione ne va di pari passo: oggi vanta stelle Michelin a non finire e, aspetto davvero impressionante, se la gioca alla pari con le altre grandi capitali continentali, Londra, Parigi e Milano (sorry, Roma, ma parliamo di gastronomia non di ministeri). Aggiungiamo i Paesi Baschi, perché Copenhagen, in qualche modo, ricorda la realtà spagnola per forza d’urto e modo di andare compatti alla conquista del mondo: in poco tempo, quasi all’improvviso, eccola premiata con fior di stelle e primeggiare nei 50Best. A Copenhagen sono riusciti a creare e imporre uno stile, sia per il design che per la costruzione dei piatti: spazi minimal che più minimal non si può, una filosofia culinaria che alla base ha la natura, quasi mai la carne (in un paese fissato con l’ambiente non poteva essere diversamente), pochi elementi, essenziali, primitivi. Certo, è tutto iniziato con Renè Redzepi e il suo Noma, dove oggi è praticamente impossibile trovare un tavolo: la lista d’attesa è di 1.000 persone ogni santo giorno. Non si deve disperare se non si riesce ad avere un posto dallo chef di origini albanese: attorno a lui è nata una vera e propria scuola danese, con la gran parte dei cuochi che ha iniziato proprio al Noma. Gran parte di loro si è staccata dal maestro, sia fisicamente che filosoficamente: per, fortuna, ci sentiamo di dire. Perché il talebanismo di Redzepi può andar bene a casa sua, non scimmiottato altrove (sì, lo avete capito, non ci piacciono i modi troppo militanti dell’ex numero uno mondiale, sarà geniale però sta esagerando con il suo esibizionismo vegetale). Solo da Studio, fondato da Claus Meyer, fra l’altro uno dei soci del Noma, si trova una cucina assai simile: per il resto, gli chef hanno preso le distanze, mantenendo però lo stile molto minimal. Alcuni di loro hanno aperto dopo anni passati assieme a Renè, vedi Christian Puglisi, siciliano di Messina: il ragazzo è ormai da tempo una primadonna mondiale. Già nel 2010 fu inserito nella lista dei più promettenti giovani chef stillata dal Wall Street Journal, che ovviamente non si occupa di cucina ma un suo peso ce l’ha, eccome. L’anno scorso si è piazzatao 40imo nella ambitissima classifica dei 50 best: non male. Il suo Relae “spacca” sia per le proposte che per la filosofia spiccia: no frills, poche chiacchiere e manierismi, tanta sostanza e voglia di bombardarti con delle emozioni forti: alta cucina in un ambiente umile, suona più o meno così lo slogan dello chef. “In quattro portate mi gioco tutto”, dice. “Non mi interessano i camerieri troppo solerti, i piatti assurdi e le parole inutili, punto al sodo e ai soldi”. Evviva. Rispetto al maestro “allarga” la base delle materie prime, perché uno siciliano mai potrà rinunciare ai limoni e ai pomodori, per non dire che

Kodbyens Fiskebar, nella zona industriale, al posto di un vecchio macello

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Wondercool Copenhagen

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Nordic Vanilla di Soren Selin, all’AOC

avrebbe poco senso copiare pari pari la cucina di un altro. Al Relae, nel giovane quartiere Norrebro, l’ambiente è molto informale, quasi rustico, tavoli in legno e niente tovaglie ottocentesche, le posate nel cassettino del tavolo stesso: da sballo le suonerie che in cucina scandiscono i tempi di cottura, al ritmo di Ring of Fire ( Johnny Cash) e Bruce Springsteen (State Trooper). Assieme a Christian c’è Kim Rossen, sommelier, ex Noma pure lui: ora sono soci. I piatti, poi: sono già nella storia gli spaghetti di patate con zuppa di pecorino e alghe, oppure le rape con mouse di yogurt di pecora e foglie di crescione d’acqua. Il più conosciuto è “Sgombro marinato, cavolfiore e purea di limone”. Piace molto la tartare che mescola terra e mare, ovvero cozze tra i bocconcini di carne battuta al coltello, idem le uova di lompo, daikon e mandorle. Non più di tre ingredienti in un piatto: è la regola. Si consiglia vivamente la prenotazione, così come nell’altro locale di Christian, Manfreds, situato proprio di fronte. E’ un po’ come da Sadler, accanto al ristorante “principale” un piccolo bistrot: difatti si tratta di un caffè gourmet chicosissimo. Atmosfera decisamente diversa all’AOC, aperto in una ex cantina del diciasettesimo secolo. Chef Soren Selin, ovviamente fiero alfiere della cucina nordica (“I veri protagonisti sono le materie prime locali”, sostiene), propone due menu degustazione, da sette e nove portate, anche se a pranzo potete trovare quelli da quattrocinque. Incantevole l’antipasto di muggine con polvere di funghi, crema di cozze e panna con olio di quercia: va detto che inoltre vi verranno

AOC, aperto in una ex cantina del XVII secolo

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Rombo al forno con ginepro, bottarga e uova di rombo

offerte delle amuse bouche che, in pratica, potete considerarle un altro mini menù degustazione. Il ristorante è davvero molto intrigante, mentre lo chef, ex Louis XIII e Jules Verne a Parigi, vale davvero le due stelle Michelin: è un scienziato. Da parte sua, il Geranium, guarda tutti dall’alto non solo per via delle tre stelle, ma anche perché si trova al 24imo piano del grattacieloFaelledparken, un po’ come l’Unico. Il suo menu degustazione di 14 portate (tutte molto mini) è uno dei più intriganti mai assaggiati: l’effetto wow ad ogni boccone, la creatività spinta va di pari passo con il gusto spiazzante, le cotture sono fuori dal mondo, i colori inverosimili. Se al Relae trovate un ex chef di Noma, al Kodbyens Fiskebar commanda un ex sommelier di Rene, Anders Selmer. Grandi vetrate in un’area un po’ triste, tipo zona industriale anni sessanta (difatti qui c’era un macello, anni addietro), ma all’interno regnano la modernità, luce e il cibo ricercato: non perdetevi il foie gras scottato con l’uovo fritto e le ostriche locali. Marchal invece, una stella, si trova in pieno centro, all’interno dell’Hotel d’Anglettere: qui l’atmosfera è poco minimal e molto elegante, raffinata, ricercata, come si addice ad un ristorante d’albergo, per di più classico. Mise en place perfetta, dalle tovaglie ai bicchieri e ai piatti, di altissima qualità: tutto degno di un cinque stelle. Tanta carne e anche pesce, vini di prim ordine e un conto di pari passo: però ne vale la pena. Piccola aggiunta: il nome viene da Jean Marchal, il quale ha aperto il ristorante assieme alla moglie Maria Coppy. Stella anche per Kiin Kiin, l’unico ristorante thai con un riconoscimento Michelin, cucina asiatica

Marchal, all’interno dell’Hotel Anglettere

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Ristorante Geranium, tre stelle Michelin

Relae, nel giovane quartiere Norrebro

rivisitata con ricette “rubate” al mondo della street food. Superlativa la mazzancolla e la thai salad, gli aperitivi da sballo, così come gli spuntini serviti nel salottino, prima di essere accompagnati al tavolo, al piano di sopra. Da non credere anche il gelato, al nocciola e ginger. 75 euro per un menu degustazione di dieci portate e una serata pazzesca (il servizio semplicemente perfetto, complimenti al patron Henrik Yde). Fin qui i posti per i foodisti esigenti e danarosi, ma la città pulsa creatività anche altrove, c’è del buonissimo cibo in tanti altri ristoranti: per esempio da Cap Horn, nella zona turistica, in via Nyhavn, troverete un ambiente molto charming e soprattutto materie prime eccelse, dal pesce alla carne. Romanticissimo il piccolo Koefoed, in centro città, con pietanze fresche, gustosissime, perfino l’impatto visivo è notevole. Di primissima qualità la carne al Peder Oxe, ristorante che si trova in una piazza dal nome impronunciabile: Graabrodretorv. Ci sono mille posti per pranzare e cenare, però non potete perdervi lo spuntino classico locale, il panino con il burro aperto, lo smorrebrod. Il più gusto e autentico lo potete assaggiare al Schonnemann, edificio datato 1877. Costano otto euro, ma ne paghereste anche il doppio per un secondo e un terzo: strepitosi. Idem all’Aamanns. Qualcuno li paragona alle tapas, altri parlano addirittura di “Danish Sushi”: ci sanno fare, non a caso hanno aperto anche a New York. La sensazione è che Copenhagen sprizzi qualità ad ogni passo: la città, una vera bomboniera, aiuta a sognare ad ogni morso. Non c’è dubbio, è ideale per la gente affamata di nuove sensazioni. Life is now.

Christian Puglisi, chef al Relae

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Anthony Bourdain IL VIAGGIO DI UN CUOCO

“D

omattina vai sulla sedia elettrica. Ti legano, schiacciano il bottone e ti lasciano a friggerti il culo finché gli occhi non ti schizzano fuori come pop corn. Hai un ultimo pasto a disposizione. Cosa scegli di mangiare?” Pensate bene, è una domanda ficcante, anche se ovviamente nessuno si sogna la sedia elettrica. Però lo stile di Bourdain è questo e ci piace molto, perché lontano dalle ninne nanne nostrane, tutte il ragù della zia Pia e le pappardelle della nonna Maria (belli i sapori e i ricordi, però la retorica no, grazie). L’estratto del libro “Il viaggio di un cuoco” lo abbiamo scelto e ve lo proponiamo perché ci pare davvero un grande articolo, come d’altronde la maggior parte dei suoi lavori. Gli chef amano considerarsi alchimisti e alcuni di loro, specie i francesi, vantano una lunga e gloriosa tradizione nell’arte di trasformare il piombo in oro. Non sono forse piombo un’umile spalla, uno stinco o un pezzo di budello? E non sono oro puro lo stufato di manzo provenzale o l’ossobuco, quando ogni dettaglio di sapore e consistenza è stato trattato da mani competenti? E’ una magia per la persona che mangia, ma anche per il cuoco che vede entrare nel forno un pezzo di carne cruda e fibrosa, immerso nel vino rosso, e qualche ora dopo lo vede uscire trasformato, ammantato da una salsa densa e vellutata.

Del resto la comprensione di questo processo ha portato i cuochi francesi (e italiani) ai vertici della cucina classica. Ed è per questo che li amiamo, anche quando li odiamo. Poche persone sane di mente apprezzano la musica pop francese – o i francesi in generale – eppure loro sanno come utilizzare le zampe, il muso, le interiora, la pelle, ogni scarto di verdura, la testa di pesce e le ossa. Perché sono cresciuti sentendosi ripetere all’infinito “Usate tutto (e usatelo bene)”. Qual è la ragione? Perché loro sì e noi no? La risposta, per molti versi, si trova oggi in altre parti del mondo, per esempio in Vietnam, in Portogallo, in Messico o in Marocco: semplicemente perché erano costretti a farlo. Nella Francia del diciottesimo e diciannovesimo secolo, come ancora oggi in molti paesi del mondo, non si dava alternativa. Era necessario utilizzare anche le parti più disgustose. Dovevano assolutamente inventarsi qualcosa da fare con la testa di vitello, le zampe di maiale, le lumache, il pane raffermo, tutti i tagli e gli scarti, altrimenti sarebbero andati in rovina, sarebbero morti di fame, e non avrebbero potuto permettersi le cose buone nelle occasioni speciali. Salse, marinate, stufati, charcuterie, l’invenzione delle polpette di carne e di pesce, della salsiccia, del prosciutto affumicato, del pesce sotto sale, del confit, rappresentavano strategie, erano il risulta-

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to della necessità e di una incessante sperimentazione. Coq au vin? Un grosso pennuto dalla fibra dura, marinato nel vino rosso e brasato fino a renderlo masticabile. Pot au feu? Lingue, code, ossa bollite insieme a umili tuberi. Paté? Rimasugli, scarti e grasso tritati, insaporiti e decorati perché a qualcuno potesse venire voglia di metterli in bocca. Confit de canard? Non ho un frigorifero, tanto meno un freezer e queste maledette cosce d’anatra stanno andando a male. Per anni i francesi si sono affannati con astuzia e arguzia per trovare il modo di rendere godibile tutto ciò che brucava, strisciava, nuotava o zampettava e qualunque cosa spuntasse dalla terra, marcisse sulla vigna o si nascondesse sotto al letame. E hanno compiuto autentiche magie. Anche molto tempo dopo l’arrivo dei frigoriferi, mentre gli americani si ostinavano a mangiare candidi petti di pollo gonfiato avvolti nella plastica e negavano perfino l’esistenza di cosce e interiora, convinti che le uniche parti “buone” del manzo fossero il controfiletto, il filetto e la costata e che tutto il resto fosse hamburger, i francesi hanno continuato a comportarsi come se nulla fosse. Avevano imparato a valorizzare i loro piedini e i loro musetti. Avevano trovato qualcosa da amare in ogni boccone – purché ben preparato - e apprezzavano quello che in passato era il cibo dei poveri.


Perù, MON AMOUR

Gaston Acurio

Casa Moreyra

I

n principio fu Gaston, Gaston Acurio. Poi, come un uragano, sono arrivati gli altri: Virgilio Martinez, Mitsuharu Tsumura, Hector Solis, Diego Oka, Monica Huerta. Va detto subito che senza Gaston non ci sarebbe la scuola peruviana: ex promesso avvocato, figlio di senatore, ha lasciato l’università per far sognare con le mani. Andò in Francia ad imparare le basi, poi tornò ed ebbe una illuminazione: perché continuare a fare haute cuisine, quando il mio paese è fra i più ricchi al mondo in quanto biodiversità? Raccontata così sembra la visione di un folle, perché una ventina di anni addietro nessuno avrebbe scommesso mezzo euro sull’affermazione della cucina peruviana (il paese era allo sfascio, povero, impoverito e dilaniato da guerre interne e narcos). Ha svolto un lavoro titanico, iniziando a codificare e catalogare infinite specie di piante, patate e tutto il resto. Badate bene: stiamo parlando di quattro mila tipi di patate diversi. Il suo primo locale, Astrid e Gaston, dove Astrid sarebbe sua moglie, tedesca, è stato una specie di laboratorio-museo-scuola. Preparava e spiegava come si facevano gli spiedini anticuchos (25 modi diversi), scombinava il ceviche in sette maniere: insomma, aveva ragione Vargas Llosa quando sussurrava fieramente che “fra le mani

di Gaston la cucina peruviana é diventata una fra le più ricche del mondo, nessuno ha fatto tanto per il nostro paese”. Vero, verissimo: ha trasformato il Perù, fin a quel punto anonimo, in una meta gastronomica di primo livello: “Viaggi, sentimenti, emozioni, illusioni. Questa è la mia Lima di ieri, oggi e domani. Una Lima piena di sapori e tesori”, concludeva lo chef in un suo articolo a puntate realizzato per Identità Golose. Gaston è una istituzione, una specie di Messi: ha 48 ristoranti, di cui 23 in Perù, 19 a Lima. Il quartier generale è la Casa Moreyra, palazzina coloniale su due piani che è uno spettacolo. Il resto dei locali lo si trova in giro per il mondo, da Miami a Bogotà, da Buenos Aires a Madrid, da Barcellona a Chicago. Piccolo elenco dei posti nascosti e gustosi che ci suggerisce con orgoglio nazionale: Mi Perù, dove si possono gustare granchi in guazzetto, Sonia al Chorrilos (si va per il sarago all’aglio), Manolo alla Punta (ci sono succulenti ceviche di uova di pesce e mango), El Chinito (sandwich di ciccioli da paura). Per la cronaca, a lui piace mangiare da Maido, cucina nikkei: per chi non lo sa, in Perù si trova una nutritissima comunità nipponica, arrivata qui un secolo addietro. Il più conosciuto, il mentore è Mistuharu Tsumura, Micha per gli amici, entrato nei 50 best del Sud-America: a inizio marzo, al congresso di

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Identità Golose, ha preparato delle tagliatelle di cuore di palma e crostini di gallette di riso con platano fritto e chorizo di frutti di mare. Essenziale e gustoso, ovvero il misto perfetto fra i due mondi. La cucina nikkei fa faville, piace perfino più della classica cucina giapponese: il motivo è semplice, stiamo passando alla fase successiva di un processo di evoluzione e contaminazione. Sushi, sashimi, tempura sono ormai concetti classici, senza più sorprese, metabolizzati da anni: ci voleva qual tocco magico che ci portasse su di giri e allora eccolo, Misha, con le sue tecniche asiatiche e gli ingredienti locali . Il suo menù degustazioni di 15 mini porzioni è un elogio all’Amazzonia, un viaggio spettacolare, un’avventura culinaria, la scoperta della foresta peruviana su basi nipponiche. Piccolo esempio, il ceviche tiradito all’azoto, e poi umami ovunque, riduzioni di funghi, brodi di alghe. “In Giappone ho imparato a rispettare le materie prime e ad aver pazienza”, racconta. “Difatti quando sono tornato ho aperto Maido: nei primi mesi non guadagnavo un euro, la gente non entrava e faticavo a capire se il problema fosse il posto, oppure il fatto che proponevo un nuovo tipo di cucina”. Ora il ristorante ha sette anni di vita, una storia alle spalle e un futuro radioso davanti. Come il Perù e la sua cucina.


Mistuharu Tsumura: sotto, tre dei suoi capolavori


Deliziarsi a Singapore A

La guida, la Bibbia sbarca nel piccolo stato, il Monte Carlo asiatico, meta di business man e gente che vuole vivere ai più alti livelli possibili. Il lancio, avvenuto il 24 luglio, è stato pirotecnico, con una cena di gala indimenticabile: difatti, ai fornelli c’era Joel Robuchon, il re delle stelle, presente qui con il suo Atelier. Accanto a lui alcuni chef locali, compreso Malcolm

Lee. 600 ospiti, tutti rigorosamente paganti (niente imbucati a queste latitudini) e felici: 333 dollari spesi bene, perché le pietanze sono state superlative, dolci compresi (Cheryl Koh). La guida ha insignito e segnalato 29 ristoranti: qui vi proponiamo quattro, tre dei quali impostati sulla cucina francese.

GUNTHER’S

“Faccio una cucina onesta, che esprime il mio modo di essere, diretta, dal cuore”. Detta così, sembra che lo chef Gunther Hubrechsen sia uno banale e senza nerbo, invece appena ti siedi al suo ristorante ti si aprono dei territori sconosciuti, non a caso in Singapore è una meta fissa per gli amanti dei piatti francesi. E’ stato un bambino prodigio, visto che ha iniziato prestissimo: a 16 anni già studiava al famosissimo IVV di Bruges, nel Belgio. Fin dagli esordi ha puntato sulla cucina delle materie prime, è stato il suo stile fin dai primi piatti. Dopo aver imparato da Gravin van Buren e dal suo mentore parigino Alain Passard, è volato in Singapore (2002) e a cinque anni di distanza ha aperto il suo ristorante. Subito una pioggia di premi e riconoscimenti (fra gli altri, San Pellegrino Chef nel 2009 e 2010), poi con il tempo, la bacheca si è ulteriormente arricchita. Breve elenco: 43imo nella Asia’s 50 Best, miglior ristorante dell’anno per World Gourmet Summit of Excellence, 84imo nella San Pellegrino’s Best. Riconoscimenti a parte (alla fin fine sono soggettive e lasciano il tempo che trovano), provatelo voi stessi: iniziate dai cappelletti freddi con caviale.

LES AMIS

Cucina francese di altissimo livello in un ambiente perfetto e con dei camerieri preparatissimi. Niente da dire, se non in termini straordinari: dall’amuse bouche (che poi sono quattro) al dessert è una continua dimostrazione di classe e talento, di tecnica e sapori. La cantina poi ti dà la possibilità di sbizzarrirti fra vini classici e altre etichette prestigiose. Lo chef Sebastien Epinay, allievo di Joel Robuchon, è riuscito nell’intento di abbinare tecniche transalpine e prodotti locali: il risultato è, a tratti, superlativo. Pure il ristorante in sé è sofisticato, fra candelabri, divani in pelle rosso fuoco e altri dettagli del genere. Due stelle Michelin e non potrebbe essere diversamente in un ambiente rinnovato (si è speso un milione e mezzo però ne è valsa la pena), dove merita di andare soprattutto a pranzo, visti i costi abbordabilissimi: 80 euro per tre portate più il dessert, oppure il menu express a 55. La sera stessa qualità e servizio, però una scelta più ampia, compreso il così detto Signature Dinner, 220 euro. Uno dei piatti forti sono i capelli d’angelo con caviale, kombu e tartufo. I dolci, poi: il pasticciere Cheryl Koh passa per il migliore del paese.

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JAAN

Un altro ristorante francese che fa tremare i polsi per il piacere nella ricca Singapore, stavolta premiato anche dalla Guida Michelin: la stella è “fresca”, dell’anno scorso, però il cammino è ormai tracciato da tempo, perché Kirk Westaway sa da sempre il fatto suo, proponendo fin dal primo giorno una cucina piena di certezze. Ha la mano decisa, portando il cliente al settimo cielo, non rinuncia alle basi del mondo francese, interpretandole alla sua maniera : i gusti sono pieni, rotondi, intensi, proprio come uno si aspetta in un ristorante del genere. Si possono scegliere tre menu degustazione, con dei prezzi a dir poco convenienti, specialmente a pranzo: difatti si parte dai 50 euro, poi a salire in base al numero di piatti (la sera costa molto di più, dai 160 in su, vini esclusi). Ovviamente vi suggeriamo di scegliere uno che comprende almeno cinque, di sicuro lo chef vi porterà all’inizio un delizioso humus, servito nel barattolino. Non perdetevi la zuppa di funghi, chiamata da Julien Mushroom Tea: la cremosità è paradisiaca, pare velluto. A proposito dello chef: inglese di Devon, sta bruciando le tappe, andando a galoppo verso la piena consacrazione. Il 2016 è stato pieno di trionfi e conferme: prima della stella era stato eletto il cuoco più promettente dell’anno. Il ristorante é situato all’interno dell’Equinox Complex, al settantesimo piano, parte integrante dell’hotel The Stanford.

SHINJI

Qui si fa sul serio, ai più alti livelli: difatti stiamo parlando di uno chef che arriva da Tokyo con le sue due stelle Michelin e un bagaglio di conoscenze da far impallidire la concorrenza. Shinji Kanesaka è una specie di mito nel suo paese e lo è diventato anche in Singapore, da quando ha aperto all’interno del Raffles, uno degli alberghi più rappresentativi del piccolo stato orientale: purezza, tecnica e armonia, queste le linee guida della sua cucina, a tratti monumentale e indimenticabile. Il moto di Shinji è davvero semplice: “Cucino quello che a me piace mangiare”. Sono tutti unanimi nel considerarlo il miglior ristorante di sushi del paese e, secondo alcuni, perfino il migliore in assoluto fuori dal Giappone. Il suo pezzo forte è l’abalone di Hokkaido al vapore, anche se solitamente vi verrà preparato da Koichiro Oshino, vent’anni accanto a Shinji ed executive chef nel ristorante di Singapore. Non c’è un vero e proprio menu, si punta sulla formula omasake, ovvero la libera scelta dello chef. Consigliamo assolutamente il Chutoro (un tonno assai grasso), Akami (quello rosso) e Otoro (la pancia del tonno): seta pura. I prezzi sono da capogiro, come la qualità dei nigiri e sashimi: si arriva fino ai 400 euro, il menu che costa meno è l’Edomae Sushi (200). A pranzo invece potete sognare con il Hana Lunch, 65 euro per nove morsi di felicità assoluta. Dopo il lancio, Kanesaka, uno dei più apprezzati sushi shokunin (artigiano del sushi), ha deciso di passare la gran parte del tempo nel ristorante di Tokyo, nel quartiere Ginza, dove ha aperto nel 2000 ed dove è diventato famoso. Oshino non lo fa rimpiangere.

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Byblos Art Hotel MAGIC MOMENTS

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vete presente, quei luoghi segreti, magici, che fanno scattare dentro di noi emozioni fortissime, forse più del solito? Dove pensi che possa accadere l’impensabile e l’impossibile? Dove vorresti tornare quanto prima e da dove spesso non partiresti mai? Ecco, Villa Amistà è uno di questi. Nella classifica dei posti più belli visitati ultimamente si trova di sicuro sul podio, anzi, si gioca la vetta. Ne vale la pena di andarci, eccome: te ne rendi conto appena entri sul vialone principale della tenuta. E’ un’immagine da film americano, uno di quelli che piacciono ai sognatori, con paesaggi mozzafiato e atmosfere romantiche, incantevoli, dove ti aspetti di essere stupito ad passo.

Il classico instagram moment, che continuerà per l’intera durata del soggiorno, dalla mattina presto fino al tramonto: la villa del sedicesimo secolo è piena di contrasti e sorprese, di angoli intimi e salotti sfarzosi. Un crescendo di batticuore e rivelazioni, di attimi che ricorderai per gli anni avvenire, un albergo dove appena parti pensi già alla prossima volta che verrai, pianificandola subito. E’ tutto come nelle migliori scenografie: nel ventre della Valpolicella, nascosta, imperiale, preziosa, con un parco di quasi venti mila metri quadri. Sembra difficile crederci, però la villa ha vissuto un lungo periodo di decadence, fino all’arrivo della famiglia Facchini, proprietaria del marchio di moda Byblos: inizia così la seconda

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vita di una dimora straordinaria. Finiti i lavori di ristrutturazione, le chiavi sono state affidate all’architetto Alessandro Mendini: il risultato lo potete ammirare andando a Corrubbio di Negarine. 59 stanze, ognuna decorata in maniera diversa e piena di opere d’arte e design, per non parlare della grande hall e degli angoli più isolati, tempestati di pezzi unici firmati Gio Ponti, Philippe Starck, Ron Arad, Patricia Urquiola e tanti altri. Uno spettacolo nello spettacolo i corridoi: pure qui, l’arte con la a maiuscola, firme fra le più conosciute, da Marina Abramovic a Vanessa Beecroft, da Peter Halley a Demian Hirst. La collezione cambia in continuazione, gli artisti sono chiamati a realizzare opere specifiche, il che significa un nuovo “arredo” tutte le volte


che varcate la porta d’ingresso di un luogo cult. Che sia chiaro, la villa splenderebbe pure senza i nomi prestigiosi, l’atmosfera sarebbe identica seppur con le mura spoglie, l’amore della famiglia per l’arte è un plus, eventualmente un vanto, decisamente qualcosa di inconsueto. Non abbiamo avuto il tempo necessario per studiarle tutte, le opere, però l’insieme ci è sembrato davvero coinvolgente e per nulla forzato, perché va detto, spesso si cade nello snobismo cheap nell’intento sonnolente di dimostrarsi superiori: non è il caso del Byblos Hotel, qui si respira la classe e la voglia di far stare bene gli ospiti. Sedersi a sorseggiare un drink è uno dei momenti più attesi delle lunghe giornate estive, hai la sensazione di trovarti in un film d’epoca, mancano cappelli giganteschi e orologi da taschino, per il resto la magia del luogo ti porta ai fasti dei secoli passati. Per i romantici e gli innamorati perenni suggeriamo il cortile nascosto, dove si può servire anche la cena: tavolini in ferro battuto e mosaici, verde ovunque, un silenzio totale, perfetto per le parole sussurrate e le promesse eterne. Si, le promesse eterne, poche volte ci è capitato di vedere un luogo così adatto per una proposta del genere, vale anche per il “corridoio” verde, vialetto che dal retro dell’albergo porta verso la piscina. Profumo di magia, stanze e hall piene di colori, in più una ristorazione che prova a superare le attese, già alte per via dell’insieme. Marco Perez, originario di Vipiteno, dove ha iniziato nel ristorante di famiglia, propone una cucina interessante, forse leggermente ancora in fase di rodaggio. Piatti moderni e altri che toccano i suoi ricordi, in un misto generoso di tecniche e idee, quasi sempre riconducibili ai profumi di montagna. Legami , materia prima, sapori decisi: potremmo sintetizzare così la sua vena creativa. C’è anche un progetto ambizioso legato all’orto, “costruito” con cura nella campagna adiacente all’hotel. Ci vorrà del tempo per averlo come desidera, però qui la fretta non esiste, si viene per respirare la vita e poi la proprietà gli ha dato, giustamente, mano libera per creare e stupire. “Ci stiamo specializzando nella ricerca e nel recupero di piante spontanee del territorio che nel tempo sono state dimenticate”, racconta con gli occhi entusiasti e felici, che dicono tanto della sua esperienza all’Amistà. “Per ora riusciamo a produrre il sessanta per cento della verdura che poi proponiamo nei piatti, pian piano arriveremo a delle percentuali più alte”. Ha lavorato con Alajmo e al Four Seasons di New Delhi, poi in altri posti importanti in giro per il mondo, però hai la certezza che solo qui ha trovato la sua dimensione. Ad assaggiare i suoi piatti ti rendi conto di avere davanti un uomo sereno e sicuro del fatto suo, arrivato al massimo della maturità professionale: gioca e sperimenta, senza alcun timore. Forse per questo certe portate mancano ancora del tocco finale, sono in fase di sperimentazione. Altri invece sono dei capolavori, a partire dai grissini e dai cracker. Il risotto frutti di mare, aglio olio e alga è formidabile, chiudi gli occhi e sogni l’intensità dell’oceano. Intenso lo spaghetto ai ricci di mare frullati a crudo e il gelato dello stesso riccio, deliziosa la tartare di gambero e la purea di lamponi, sontuosa la battuta di manzo e amatriciana. E siamo ancora in fase di rodaggio...

Risotto e frutti di mare, aglio olio e amatriciana

Chef Marco Perez

Manzo e amatriciana

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Critica e livore OGGI, MEGLIO DI UNA VOLTA

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bbiamoletto su Dagospiaun articolo molto simpatico, riguardante i critici gastronomici. L’argomento è assai attuale e può essere sintetizzato così: i blogger di oggi starebbero distruggendo la serietà del mestiere del critico, una volta nobile e rispettata non soltanto nel settore della cucina. Messa in questo modo la cosa potrebbe anche essere vera, se non fosse per la contrapposizione con ‘quelli di una volta’. Noi non sapremmo come definirci: non siamo blogger, scriviamo di enogastronomia su giornali cartacei, ma per motivi di età nemmeno siamo ‘quelli di una volta’ pur conoscendoli molto bene. E potendo affermare che la maggioranza è umanamente deplorabile, con eccezioni che si contano sulle dita di una mano. Chi è obeso, chi è corrotto, chi sozzo: tutti esigono e pretendono da ristoratori e produttori il tappeto rosso, ringraziamenti infiniti (non del tipo “grazie”, no, per loro è troppo poco). Molti di loro sono stati denunciati per molestie sessuali, altri sono famosi per giochi erotici oltre la fantasia più malata (far passare la pasta nella passera di una donna in una cucina, con dieci gatti a

guardare, sfugge a qualsiasi definizione). Alcuni hanno scritto articoli sui ristoranti della moglie, senza provare alcuna vergogna. Poi ci sono quelli cacciati da ogni dove che si lamentano del livello scadente dei giornali, per non dire che vivono perennemente con il complesso di superiorità.In più sono presuntuosi, permalosi al massimo, hanno la verità in tasca a qualsiasi ora, loro sanno e tu no. Molti si presentano al ristorante con capelli e magliette unte, altri si portano la moglie e il marito, alcuni perfino amici della moglie e figli, nipoti, conoscenti. Per fare un solo esempio, una sera avevamo organizzato la cena di una giornalista in un posto chic appena aperto: in principio al tavolo avrebbero dovuto sedersi in due, in realtà si presentarono in otto (amici e parenti non finiscono mai). Mangiano spesso come animali, bevono come se avessero attraversato il deserto a piedi, in pieno mezzogiorno. Un esempio? Quel critico che oggi divide e impera che, in meno di 45 minuti, ha mangiato qualcosa come sei portate, ingozzandosi come se non ci fosse un domani. “Buono, complimenti”, disse. Lo chef ci chiamò esterrefatto: “Cosa avrà mai capito dei miei piatti?”. Nulla,

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ma tant’è. Non sappiamo se abbia anche ruttato, non lo escludiamo.Diciamolo fino in fondo: alcuni scrivono male e in maniera noiosa, con una vocabolario elementare, per nulla intrigante e coinvolgente. Sono diventati critici senza alcuna preparazione, esattamente come i blogger di oggi. Molti lo sono diventati per sfinimento, nel senso che il capo redattore di turno, pur di levarseli dai piedi, ha alzato bandiera bianca. Di sicuro sono troppo presi da loro stessi e dallo specchio per notare che gli articoli sono supponenti e poveri. Attualmente è in programmazione su Sky un film strepitoso sulla vita degli chef stellati: si chiamaBurnt. La traduzione in italiano è pessima, “Il sapore del successo”, ma non è questo il punto.Uma Thurmaninterpreta una critica gastronomica di primo livello: è raffinata, elegante. C’è anche una figura maschile, sulla cinquantina: pure lui vestito bene e austero, distinto. Però è un film, appunto. La realtà è ben diversa.Un esercito di pr e uffici stampa ha fatto il resto, aumentando a dismisura il proprio ego. Frasi del tipo “che piacere averla qui”, “sarebbe un immenso onore averla con noi” e via discorrendo sono quello che i critici esigono e pretendono di sentire, pur sapendo che spesso


si mente spudoratamente.Continuando: chiedono sempre casse di vino, champagne, prosciutti. Le aziende non osano rifiutare, pensando che in tal caso potrebbero negarsi delle recensioni favorevoli: a dire il vero hanno ragione.Esempi ne possiamo fare anche qui: uno inizia subito a dire che la produttrice ics è una troia, oppure una lesbica, appena non consegna delle bottiglie a titolo gratuito. Un’altra è famosa per stroncarti se non le dici ogni santo minuto quanto sia meravigliosa, competente, bella e intelligente. Piccola aggiunta, riguardo l’articolo su Dagospia: vero che il critico spesso non paga, però c’è una spiegazione e bisogna darla in maniera trasparente (lasciamo stare parole come onestà). Noi stessi non paghiamo e non è un segreto il perché: quando vai in un ristorante chiedi allo chef di farti sognare e di farti degli assaggini di tutti i suoi piatti più importanti, così da poter capire la sua filosofia, le idee, il suo modo di cucinare. Poi dopo aver letto tutto il possibile su di lui (o lei) gli fai delle domande si spera puntuali: in tal modo porti a casa una marea di informazioni, con l’unico scopo di offrire al lettore una versione ampia e assai completa su quello che potrebbe trovare in un locale. Che sia chiaro: andare lì e mangiare non significa per forza di cose avere una recensione positiva. Però va detto che si scrive un articolo solo se puoi far sognare il lettore, altrimenti facciamo finta di nulla, ovvero bocciamo il ristorante e lo chef. Nessuno, o quasi, si è mai lamentato di una mancato pezzo pubblicato: sono i primi a intuire il motivo. Tornando al discorso dei favori, potremmo continuare all’infinito. Gente che dice di voler provare il ristorante, per poi ovviamente fermarsi a dormire nelle stanze lussuose dell’albergo (nel caso ci fosse, evidentemente). Gente che, abbiamo visto con i nostri occhi, porta il marito a cena come se fosse un cane di piccola taglia. “Non potevo lasciarlo da solo a casa”. Domanda: chi si occupa di calcio e va a San Siro, alle partite, si porta le mogli? Perché allo stadio si lavora, vale anche per i ristoranti. I “critici di una volta” se ne impippano e si portano valanghe di persone (non tutti, va detto). Gli chef provano simpatia verso i coloro che non calcano la mano autoinvitandosi un giorno sì e l’altro pure. Quante volte non li abbiamo sentiti dire robe del tipo “Quello è uno forte, non scrive di te con lo scopo di tornare a mangiare gratis”. Lo dicono come se si trattasse di un miraggio, quando dovrebbe essere la regola. “Quelli di una volta” sono aridi, esigenti nel chiedere, soprattutto vini e champagne: a tal punto che spesso per un ristorante vale di più acquistare una pagina pubblicitaria, verrebbe a costare meno. Ecco, siamo proprio sicuri che le nuove leve, nate e cresciute con internet, siano peggio? Di sicuro no, anzi. Abbiamo assistito in diretta ad un caso che merita essere raccontato. Una sera Chiara Maci si è presentata alGhe sem, ristorante con specialità dim sum, in Via Vincenzo Monti a Milano: a proposito, il posto merita una visita, chi ama il genere diventerà un cliente abituale, non abbiamo dubbi. Chiara, subito dopo ha messo un post su Instagram: meno di mezzora e arrivarono a cena una decina di persone, convinte e conquistate dalla blogger.Nessuno di “Quelli di una volta” ha oggi una tale autorità e potere. Il fatto che vedono sfuggire prestigio, importanza e attenzione li fa diventare cattivi e vendicativi oltre ogni limite. Oddio, cattivi lo erano anche prima: ora stanno spargendo veleno e livore ovunque, ad ogni passo. Finiranno per autoescludersi e autoeliminarsi.

Uma Thurman e Bradley Cooper in Burnt

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1.2.1.

RICCARDO ANTONIONI

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016. Italia, patria del gusto, dell’eleganza, della moda. Ovunque si guardi, si nota qualcosa di nuovo. Tagli geometrici, nuove texture, fit alternativi. Il nuovo avanza così velocemente da diventare adulto appena nato. 2013. Italia. Due amici riportano alla luce una balla di vintage. Emergono quattro microfantasie anni 80. Bellissime. Vive. Vissute, certo, ma ancora vive. Il sapore antico di quelle tinte colpisce al cuore e al cervello, ed ispira la creazione del brand emergente più vintage del momento: 1.2.1. 121 Libbre è il peso della balla del vintage, è il peso della Moda dei decenni passati, è il peso del gusto storico che Riccardo Antonioni, in

qualità di Fashion Industries S.r.l., e la Sanhouse Designers hanno voluto reintrodurre nel mercato, customizzandolo per i tempi moderni. “Abbiamo intravisto nel mercato italiano ed internazionale il ritorno delle polo. Abbiamo pensato di stare al passo coi tempi mantenendo il valore della nostra idea. Sì, perché 1.2.1. prima di essere un brand è ungusto, un lifestyle. Reinterpretiamo il vintage tramite le sue grafiche vincenti: palme, cashmere, cravatte. Sviluppiamo il vintage in maniera contemporanea. 1.2.1. è un mood che si esprime attraverso dei monoprodotti. Siamo in continua evoluzione, oltre alle polo stiamo già portando avanti un progetto maglieria per la stagione invernale e un mondo beach per la prossima stagione estiva.

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“Il nostro uomo, il nostro cliente è una persona acuta, che riconosce il gusto e la qualità, e sceglie le nostre polo tra mille. Una persona che guarda avanti ma col cuore al passato, che vuol far parte di un mondo originale, di una nicchia”, racconta. E se gli chiedi come vede il suo brand fra qualche anno, risponde senza esitare: “Attualmente siamo ben distribuiti in Italia ed abbiamo approcciato anche il mercato estero: Giappone, Germania, Korea, Francia e Spagna già sposano la nostra filosofia e credono nella nostra azienda. In futuro vorremmo far sempre parte di quei mercati di ricerca, di esperienza e qualità. Perché, come dico sempre: “La nicchia non è un posto piccolo, dipende da quanto spazio ne occupi”. Auguri.


Filippo Mattu WELLNESS COACH

“M

i definisco un ricercatore della salute”. Filippo Mattu, sardo doc, è un giovane professionista che fa della sua attività diWellness Coach edietista quasi una missione di vita. “Oggi l’esercizio fisico è il farmaco più venduto al mondo”, ci racconta. - Com’è iniziato tutto? E come hai fatto a trasformare questa passione nel tuo lavoro? - Sono sempre stato appassionato di fitness e salute fisica in generale, ho un passato da sportivo professionista.La mia formazione didattica, invece, nasce con unpercorso di studi maturato negli Stati Uniti d’America presso l’American College of Sports Medicine, l’organismo americano con massima autorità mondiale in fatto di Fisiologia e Clinica dell’esercizio fisico. Perfezionato poi il percorso presso i migliori istituti internazionali di wellnesse fitness,ho trasformato la passione per l’educazione fisica e la scienza dell’alimentazione in un mezzo efficace per migliorare realmente lo stile di vita delle persone. A qualsiasi età, infatti, non solo quando ci si trova in uno stato di salute precario, ci si può affidare ad interventiintegrativi, migliorando la qualità della vita ed aumentandone la durata. - Come potremmo descrivere la tua figura in po-

che parole? - Mi ritengo unricercatore della salute, una figura che si pone come anello di congiunzione tra medico e paziente, per creare una traduzione più semplice e vicina al quotidiano, del linguaggio scientifico. Spesso trovo difficoltà da parte dei pazienti nel comprendere a pieno il linguaggio medico, per cui mi sono ritrovato in diverse occasioni a fare da interprete, favorendo un avvicinamento più informale e comprensibile al personale sanitario. Quando una persona non gode di ottima salute, anche a fronte di complesse diagnosi, la mia missione è proprio offrire un aiuto tangibile, complementare, per generare un miglioramento dello stato psico-fisico. -Concretamente in che modo aiuti i tuoi clienti-pazienti? - Di fronte a patologie organiche, funzionali, o semplicemente per obbiettivi puramente estetici, si puo intervenire prevenendo, correggendo e talvolta curando la disfunzione.Se fossimo in grado di “sintetizzare” l’esercizio fisico in una pastiglia, sarebbe il farmaco più venduto al mondo!Il trattamento viene esercitato attraverso la guida ad un giusto mix alimentare e la prescrizione personalizzata dell’esercizio fisico, anche con l’ausilio di integratori naturali.

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- Il nostro stato di salute è in gran parte predeterminato dai nostri geni? -Certamente, ma possiamo comunque cercare di migliorarlo seguendo un alimentazione corretta, praticando esercizio fisico e gestendo in modo ottimale lo stress. Come attuare tutto questo, è tuttora oggetto di un acceso dibattito. Esiste un altro fattore chiave, una sorta di secondo genoma duttile chiamatomicrobiota, in grado di incidere sul peso e sulla salute con azione anti-aging a lungo termine. Un concetto importante, che va rimodellando il concetto di cosa significhi “essere umani. - Lavori prettamente in Sardegna o la usi come base, per poi spostarti? - Adoro viaggiare: in qualità di personal trainer come base ho la Sardegna, ma le principali destinazioni sono: Portocervo, Milano, Montecarlo, Londra, Parigi, Los Angeles. In qualità di Dietista ricevo in Sardegna, a Bari e a Milano. - Cosa farai da grande? -Voglio continuare a crescere nel mio settore con sempre maggiori competenze per aiutare i pazienti. Ma attualmente mi piace concentrarmi sul presente, che trovo molto stimolante: faccio parte del progetto di ricerca “Asse intestino-cervello” coordinato dal prof. Paolo Mainardi, ricercatore presso l’Università di Genova.


Haig Club DAVID THE CLUBMAN

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embra passata una vita, però l’addio di Beckham al calcio giocato risale a soltanto tre anni addietro. Il tempo corre veloce, a volte troppo: vederlo vestito in maniera impeccabile, come se fosse un manager della City, pubblicizzando il “suo” whisky, fa impressione. Non che prima indossasse diversamente, è sempre stato il metrosexual per eccellenza: però era soprattutto un calciatore di prim ordine che si curava in maniera esagerata (ricordate le unghie laccate?), crossava da dio e, nei primi anni della carriera, si pettinava mica male, tanto da procurarsi un contratto milionario con un colosso della cosmetica famoso per il suo gel per capelli. Ha giocato nel più grande Manchester United della storia, in un Real Madrid che sembrava Hollywood (Zidane, Figo, lui, Ronaldo) e poi nel Milan già post periodo di gloria: ovunque è stato apprezzato per l’impegno, anche se le riviste patinate e le pubblicità potevano far credere che il ragazzo fosse superficiale e con la testa ai contratti di sponsorizzazione. Invece no, un professionista straordinario, un bravo ragazzo, un grandissimo calciatore.

Ora il mondo del calcio è solo un ricordo e David non pare di soffrire troppo. La gran parte dei suoi colleghi vive un periodo immediato di autentica depressione, lui invece se la passa alla grande, forse perché rispetto agli altri era già ben introdotto nel mondo degli affari. Alla sua lunga lista di imprese e aziende con le quali sta collaborando, prestando il nome e la faccia, eccone un’altra, Haig Club, la più antica dinastia di creatori di blended scotch whisky della Scozia: 400 anni di storia, dei prodotti fantastici, una tradizione come poche. “Ho sempre desiderato essere un bevitore di whisky”, dice, “però prima mi era vietato avvicinarmi al mondo degli alcolici, in quanto sportivo. Capiamo l’etica del testimonial, però vai a crederlo, un britannico che non aveva mai toccato distillati nei precedenti 20 anni: semplicemente non esiste. Al di là della frasi di facciata, che probabilmente prima o poi verranno abolite per legge, il marito di Victoria Adams è diventato non solo il testimonial dell’azienda, bensì anche ambassador e partner: difatti assieme all’amico manager Simon Fuller, lo stesso di Lewis Hamilton e

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Andy Murray, ha acquistato delle quote. L’azienda vale, il prodotto ancor di più: viene prodotto a Cameronbridge, dove già nel 1824 John Haig osava tanto, realizzando il whisky di grano con distillazione continua con alambicchi Coffey e Stein, invenzione alla base dei prodotti moderni. Molto posh, molto Beckham anche la bottiglia: il colore è davvero straordinario, quel blu cobalto spinge all’acquisto immediato. Per la cronaca, il colore deriva dai bicchieri utilizzati dai degustatori nella valutazione del distillato. Certo, gli intenditori prestano poca attenzione alla confezione e più al contenuto, di altissima qualità: difatti viene prodotto usando un processo assai unico che unisce il grain whisky con tre diversi tipi di barili. Così si spiega la delicatezza e la dolcezza iniziale, con aromi di limone, vaniglia e miele: aggiungendo acqua le peculiarità dolci si percepiscono ancor di più. Se i duri e puri lo preferiscono liscio, Beckham stesso lo suggerisce come ingrediente per un cocktail da sballo, il Clubman: whisky, succo di mela e qualche goccia di bitter allo zenzero. Cheers.


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Corey Lee

IL TERRORISTA STELLATO

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n ragazzo di origini coreane coreano che studia ferocemente la cucina francese per diventare un simbolo della cucina americana. Negli Stati Uniti, si può. Lo chiamano il terrorista, perché fa diventare l’esistenza un inferno a chi non vive per la perfezione: lui vuole essere il migliore e, di conseguenza, tutti i suoi collaboratori devono avere le stesse ambizioni feroci. Un classico dei giganti, abbiamo fatto l’abitudine. La leggenda narra che ai tempi del The French Laundry, quando faceva l’executive chef di Thomas Keller, una sera si infuriò con l’intera brigata e si mise a cucinare da solo, senza alcun aiuto. “Siete solo di impiccio, meglio che stiate a guardare invece di lavorare male”. Vero o falso, la storia piace assai. La racconta spesso uno dei suoi grandi amici e ammiratori, David Chang: pure lui di origine coreane, pure lui uno che non le manda a dire, che fa delle sfuriate epiche e che cucina come un Dio. “Mentre io preparavo noodles e panini al maiale, lui apriva Per Se assieme a Keller: mai e poi

mai avrei immaginato di conoscerlo, di diventare amici e ancor meno arrivare ai suoi livelli. Già anni fa la sua fama attraversava il paese, era un nome di prima categoria. Poi, per via di una serie intera di coincidenze e amici comuni, ci siamo incontrati. Una cosa mi è stata subito chiara, non saremmo mai stati in competizione, per lo meno non io con lui: è la perfezione assoluta, ha una tecnica inarrivabile”. Poi, due frasi che, a scanso di equivoci, le virgolettiamo e riproduciamo in inglese: “There’s no better cook technician on the planet. Pound for pound, he is one of the best chefs on earth. Tradurre avrebbe poco senso, vero? Corey Lee ti sovrasta, ti domina. In cucina sa sempre più di te, meglio di te: ha più voglia di impressionare, di stupire, di coinvolgere, ha quel desiderio folle di essere il migliore. In più, ha una capacità di lavorare a dir poco spaventosa. Vive con la voglia matta di migliorare, per questo va, legge, studia, si informa: i suoi libri di riferimento sono quelli di Michel Bras e Fredy Girardet, chef svizzero da molti considerato il più grande del secolo passato. Per concludere con i nomi,

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apprezza molto Alajmo, Bottura e Camanini. “Da Lee ho mangiato come da nessun’altro: quando sono venuto a sapere che avrebbe lasciato Keller e The French Laundry ho deciso di regalarmi una cena nel suo ristorante: una zuppa di tartaruga così non avevo mai assaggiato, nemmeno a Kyoto. Poi andai da Corey al Benu, suo nuovo tempio: mangiai ancor meglio. Conosce a perfezione la cucina asiatica e francese, interpretandola con una tecnica moderna mai vista altrove. Continua, David Chang: “E’ uno dei pochi posti dove manderei a lavorare i miei cuochi, uno dei pochi dove puoi ancora imparare qualcosa, è l’epitome del professionismo. Sarà anche vero che è diabolico e drastico, che incute timore ai suoi, però lo staff lo adora. Si prende cura di loro, paga per portarli assieme a lui in giro per il mondo dove viene invitato a cucinare. Prima di essere suo amico sono stato un suo fan. Lui è la storia della cucina americana, anzi, è la storia dell’America: un outsider che arriva al successo grazie a dei sforzi inumani e un talento unico”. Davvero.


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De Kas

SERRA GOURMET

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otivi romantici e non solo ci hanno spinti a fantasticare sull’Amsterdam gourmet, anche se per gli intenditori la meta è un classico da tanti anni. Moshik Roth, l’israeliano che ha inventato la cucina tecno emozionale, è in cima della lista dei nostri sogni e piaceri (il suo &samhopudplaces è uno sballo), ma oltre a lui ci sono altri undici stellati e tanti ristoranti chic, innovativi, con quella marcia in più e l’atmosfera easy che si vede, si respira fin dall’ingresso, conquistandoti all’istante. Uno di questi è De Kas, una specie di oasi felice all’interno di un parco, una serra vera e propria dove si percepisce giovinezza e voglia di spaccare il mondo. Ambiente rilassato e comunque raffinato, spazi ampi, cibo semplice e gustoso, il menu che cambia quasi settimanalmente, personale friendly e la voglia di tornare al più presto: il tipico

locale olandese di alto livello, pochi fronzoli e tanta sostanza, niente manierismi anni ottanta e guanti oppure camerieri incollati al tuo tavolo. Una serra minimal, chiamiamolo così, il De Kas.

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Tre portate, due antipasti e un secondo più il dolce: solitamente vi si offre questa possibilità e ve la consigliamo, la degustazione a sorpresa. Gli antipasti sono spesso delle verdure cucinate in vari modi, fra l’altro sono dell’orto adiacente e di proprietà del ristorante. Il prezzo? 50 euro. Carni e pesci dagli allevamenti vicini, inutile aggiungerlo: tutto gustoso, intenso e allo stesso tempo leggero. I vini sono a parte, la proposta è di un buon livello, i rincari leggermente esagerati (togliamo leggermente). Non è un concept replicabile, vista la posizione, nel bel mezzo di un parco ad una ventina di minuti dal centro. Ideale per gruppi di amici, poco intimo, anche se perdersi fra la gente può essere una scelta intrigante. La struttura in ferro e vetro, la cucina a vista, il personale giovane e gentile: davvero un posto pieno di energia, dove si mangia bene e ci si sente in una capitale europea.


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Italiani a NY WE DO IT BETTER

Lardini, giacca in cotone, lana, seta di ciniglia microfantasia

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Tagliatore, giacca sfoderata e destrutturata, in lana regimental

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l 2 settembre, sulla prima pagina dell’inserto del Wall Street Journal, colpiva un titolo legato al mondo dell’alta sartoria: “La moda ha abbandonato l’abito?”. Poi all’interno, una pagina intera piena di analisi e commenti che potremmo sintetizzare così: negli ultimi anni le vendite degli abiti maschili sono calate del due per cento, sta cambiando tutto, non a caso sulle passerelle vediamo meno vestiti di una volta. Il motivo è legato alla decisione dei colossi della finanza di permettere ai dipendenti di vestirsi in maniera meno rigida e più casual: non più bretelle e abiti come ai tempi di Gordon Gekko, insomma. Ovviamente, esistono ancora legioni intere di persone che devono indossare quasi la divisa, però il dado è stato tratto: nelle varie JP Morgan Chase, Pricewater-house Cooper e via dicendo vedi sempre più giacche chic, destrutturate, easy, più colori, perché, come racconta il patron di un negozio di abbigliamento di New Orleans, dopo le cinquanta sfumature di grigio ora esistono anche le cinquanta sfumature di blu. Bruce Pask, il direttore di Bergdorf Goodman, rincara la dose: “Oggi vanno per la maggiore le giacche versatili, che puoi indossare non solo

con una camicia button down e con la cravatta, ma anche scegliendo una tshirt, una polo, oppure un maglione a girocollo”. Si conclude con un paragrafo dedicato ai social: oggi per catturare l’occhio, per impressionare subito servono immagini non banali, il che significa ingegnarsi con modelli, tagli e colori che possano essere subito retweetate e condivise. Fin qui le valutazioni del quotidiano che detta la legge nel mondo finanziario. Ora vediamo come si muovono gli artigiani ed i sarti italiani, perché, va detto, la gran parte delle giacche esposte nelle vetrine newyorkesi portano il loro nome e, di conseguenza, fra Wall Street e le varie banche d’affari i giovani rampanti indossano il Made in Italy. Non è un caso che Pino Lerario, il numero uno di Tagliatore, intende concentrarsi proprio sul mercato americano: come priorità, prima la città della mela e poi Miami. Qui sopra ecco uno dei capi che sicuramente faranno impazzire i dandy statunitensi, una giacca sfoderata e destrutturata, in lana regimental, monopetto due bottoni, revers a lancia e tasche a toppa, spalla insellata, asole aperte, bottoni laserati con disegni geometrici. Ve-

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stibilità molto sciancrata, ultra slim, come tutte le altre giacche firmate Tagliatore: e poi i colori, ottanio, cammello, borgogna, biscotto, coccio, verde maggio e grafite. Da parte sua, Lardini si è tagliata da tempo una fetta del mercato newyorkese: è già una presenza ben consolidata. La nuova collezione fa rivivere lo stile immortale della beat generation degli anni ’60 quando San Francisco (le cui cromie ruvide e autunnali sono parte integrante dei colori della collezione) faceva da scenografia a personaggi, scrittori, poeti e musicisti che facevano bandiera del proprio modo di vestire pulito, essenziale ed elegantemente rilassato. L’eleganza delle divise degli ufficiali, senza tempo e al tempo stesso dai connotati contemporanei sia nei dettagli che nei tessuti, è affrontata con una rivisitazione delle cromie che abbandonano i classici verdi per abbracciare tutte le nuance dell’azzurro: dall’immancabile Blue Navy all’azzurro polvere (detto anche Air Force Blue). Nella foto accanto, giacca con bottoni, collo a scialle in raso, spacchi laterali, in cotone, lana, seta di ciniglia microfantasia. Perché gli italians do it better.


The Gigi SOLO PER SOGNATORI

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he Big Black Book è una specie di icona di stile: esce due volte l’anno e viene proposta nelle edicole americane come supplemento di Esquire oppure di Bloomberg Businessweek, mentre in Europa viene distribuita nelle migliori vetrine. The Style manual for successful men, sta scrit-

to sotto il titolo. Il formato è perfetto, la carta super patinata, la sfogli e rimani incantato di tanta bellezza, rigore grafico e tutto il resto: una meraviglia, sprizza voglia di stupire ed entusiasmare, tant’è vero che molti altri hanno provato a copiarla, seppur con scarsi risultati. L’aspetto interessante sta nel fatto che l’idea di

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creare un supplemento del genere è venuta nel 2000, quando David Granger, allora direttore di Esquire, venne al Pitti assieme a Nick Sullivan, responsabile delle pagine di moda. “Siamo rimasti impressionati dalle aziende che esponevano al primo piano del Padiglione centrale: piccole realtà sartoriale che proponevano colle-


zioni da farti mancare il fiato. Colori e modelli strani per quei tempi, coraggiosi, assieme ad una qualità altissima, tipicamente italiana”, ricorda David. Tutte le volte che sfogliamo il Big Black Book ci aspettiamo di scoprire una delle giacche di The Gigi, perché il target è proprio quello, non ci potrebbe essere mezzo di comunicazione più vicino alle idee e alla filosofia dei fratelli Boglioli, Mario e Pierluigi: promettiamo di inviare una copia di Good Life a Nick Sullivan, perché nel frattempo David ha lasciato l’incarico dopo 19 anni. E se fossimo nei fratelli Boglioli invieremmo delle giacche; Nick rimarrebbe a bocca aperto, ne siamo certi. Quando hanno deciso di lanciarsi nella nuova avventura, avevamo scritto più o meno questo: “C’è poco da fare, i Boglioli brothers sanno emozionare. Sanno vendere sogni. Lo fanno da

una vita e pare che la vena creativa non si esaurisca mai. Quando stai a galla per decenni, quando sai reinventarti collezione dopo collezione, quando sai stare al passo con le mode, a volte perfino anticipandole, a quel punto c’è poco da aggiungere, sei un fenomeno. Anzi, sono dei fenomeni, perché Mario e Gigi vanno avanti uniti, il primo è l’arco e l’altro la freccia, la mente organizzativa uno, il genio creativo. Indissolubili e compatibili; Mario gestisce l’azienda, la nuova azienda, Gigi dipinge meraviglie. La loro nuova realtà, The Gigi, sta attaccando e conquistando i mercati d’élite, la gente che piace e che ama sapere di piacere. Un target difficile, pretenzioso, ma allo stesso tempo pronto ad applaudirti e a premiarti se regali attimi di pura felicità, se sai mixare concetti di alta sartoria e puro desiderio, se colpisci insieme testa e pan-

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cia; il che si traduce nell’acquisto immediato”. Era l’anno 2013, sono passate sei collezioni e possiamo dirlo senza alcun timore di sbagliare: The Gigi ha colpito in pieno, conquistando tutti fin dal primo istante. Germania, Giappone, i paesi scandinavi, Corea del Sud: e il meglio deve ancora arrivare. Abbiamo scelto qui tre modelli che faranno furore, come sempre: dalla sinistra a destra, abito Ziggy in tweed di velluto a costa larga( e dolcevita Blacke in soffice lana vergine), cappotto Alya in lana e seta, impreziosita da dettagli in fil coupé, giacca Ziggy in lana e seta, impreziosita da fil coupé effetto scratch. Nick ed i suoi lettori apprezzerebbero. E poi correrebbero nei negozi. Perché i capi della collezione The Gigi creano l’effetto “lo voglio subito”. Sappiamo di cosa stiamo parlando, succede anche a noi.


Ana Dias POP. MOLTO POP

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a ragazza ha un entusiasmo pazzesco, oltre ad un talento sbalorditivo. In più è simpatica, esplosiva, il che non guasta. Ama fotografare le ragazze più belle e fa poca filosofia spiccia come alcuni suoi colleghi, che si sentono in dovere di dirci la loro sul buco dell’ozono e la crisi dell’euro. No, please: solo foto. Ana invece straborda voglia di vivere e spen­si­ e­ra­tezza, tanta spen­sie­ratezza, che poi è il mo­ tivo dell’acquisto di una rivista come Playboy, dove la possiamo trovare sempre. Abbiamo detto Playboy senza aggiungere un’edizione locale, non a caso: difatti sta curando un

progetto internazionale, volando ovunque pur di scattare le più belle e sexy. E’ un progetto finanziato dalla casa madre, forse per sopperire l’assurda idea di non pubblicare più nudi integrali sull’edizione americana. Ci piace molto, la seguiamo da un bel po’, quasi quasi ci sentiamo di dire che scattiamo assieme a lei a Bucarest e alle Bermuda, Budapest e Valencia. Non ha uno stile unico, ci spiazza ad ogni shooting, di sicuro ama la luce na­tu­rale, forte, senza ombre: donne giovani sotto il sole, splendendo e arcuando la schiena in pose sensuali. I suoi scatti vogliono farci credere che esiste un mondo fatto solo di bellezza e

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sorrisi, non ci appe­santisce con discorsi pseu­ dointellettuali , non ci porta sui sentieri contorti e sonnacchiosi di tanti altri: no, lei è semplicemente elettrica, adrenalinica, scatta e sorride, per le frasi un tot al chilo passare da altri, grazie. Molto pop, con chiari riferimenti al mondo delle pin up anni cinquanta, Ana potrebbe essere lei stessa una delle tante ragazze copertina: carnale, sexy, intensa, bella da morire. Scegliere quattro immagini è una tortura: per le altre, entrate nel suo sito: www. anadiasphotography.com. Prendetevela con calma. Merita.


Nella foto, Jackie Almeida

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Angelika Boyko, fotografata per il progetto Playboy Abroad

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Tenute Pacelli COM’È BELLO VENDEMMIAR’

Vista dall’alto delle Tenute Pacelli in contrada Rose, Malvito

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he spettacolo la vigna, con i suoi filari perfettamente allineati come decumani romani, rigorosi come soldati dell’esercito cartaginese, eleganti come ufficiali della marina americana. Nonostante il mio convinto pacifismo, pur sforzandomi, mi vengono in mente solo similitudini militari. Perché esistono regole e tempi ben precisi anche per “addestrare” una vigna, per non parlare di quelli necessari e imprescindibili se si decide di fare la vendemmia. La vigna da lontano sembra la riproduzione di un dipinto di Camille Pissarro ma, appena ci entri dentro, a lavorarci, il paesaggio cambia immediatamente: la fatica, il sudore, il mal di schiena, i tagli sulle braccia, i piedi in fiamme ti catapultano immediatamente in un paesaggio di Pieter Bruegel. La vigna ad agosto è un inferno a cielo aperto. Ma se il babo dell’uva raggiunge il giusto grado zuccherino, c’è poco da fare: si deve raccogliere. Al diavolo le immagini idilliache dell’allegra brigata di amici che si diverte tra i filari, mangiando qualche grappolo qua e là e bevendo un fiasco di vino a fine giornata, sempre con lo stesso sorriso. L’uva non si mangia mentre si raccoglie, non si stacca con disinvoltura dalla vite con un abile colpo di cesoia, non si pigia con i piedi e, soprattutto, sembra non finire mai. A fine giornata, poi, non desideri altro che il letto.

Di Laura Pacelli

Ho la fortuna di possedere un’azienda vinicola di famiglia nel cosentino con dieci ettari allevati a vite. Quest’anno mi sono detta: costi quel che costi, faccio la vendemmia. Chiunque passi di qui strabuzza gli occhi, un po’ come davanti a un dipinto di Pissarro. Ed è vero, la nostra vigna è mozzafiato. Non nego che osservare da vicino i

grappoli d’uva maturi appesi elegantemente alla vite è uno spettacolo della natura. Ma visto uno, due, dieci, e riempite tre, cinque, dieci cassette un po’ rimpiangi la lunga lista di email ancora da leggere della tua casella di posta… Abituata a lavorare più con le parole che con le mani, ho voluto comunque sfidare la mia resistenza fisica con la

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forza di volontà. Sveglia alle 5:30 del mattino, vestizione veloce (pantaloni lunghi e maglietta, accessoriata di stivali, cappello, cesoie e secchio), un filo di crema protettiva viso e tanta buona volontà. Si comincia dall’alto. Già, perché i primi filari da vendemmiare sono quelli che si ergono sulla collina più irta di Tenute Pacelli, a circa 350 metri di altezza. L’acqua “santa” del mio battesimo in vigna non poteva essere più gelata. Nonostante gli stivali antiscivolo, ho rischiato di precipitare a valle almeno un paio di volte. Non volendo usare i guanti, per non sembrare troppo schizzinosa agli occhi degli altri operai, ho riportato molteplici graffi su tutta la lunghezza degli arti superiori, per non parlare delle unghie nere e del segno delle cesoie tra indice e pollice. Operazione taglia-raccogli-riversa per lunghe ore. Almeno così credevo. Ho guardato prima l’orologio e poi il filare. Erano passate solo due ore e mezza e non ero nemmeno a metà. Un’immediata frustrazione si è impossessata di me. La signora del filare accanto aveva iniziato dopo e già mi staccava di qualche metro. Com’è possibile? Intorno alle 10 ho mollato il campo di battaglia e sono tornata in trincea. Verso sera sono rientrati anche gli altri operai, capofila la signora del filare accanto al mio. Non ha nessun segno sulle braccia, ha il viso appena arrossato ma sorridente: «Signorina, ho finito io il suo filare, spero non si sia dispiaciuta...».


Ivy International LOVE HUNTER

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na sera di tardo autunno, un amico milanese mi raccontò una storia che, negli anni, mi è poi rimasta nella mente. Più o meno suonava così, la sua storiella: “Ieri sera ho ricevuto una chiamata da una donna, avvocato: molto bella, una delle più belle donne che avevo mai visto. Intensa da morire, un argento vivo. Sexy, sensuale come poche, minuta, un misto fra Kate Moss e Natalie Portman: deliziosa, davvero. Da portare a letto, da sognare, da sposare, da dichiararle il tuo amore eterno, anche se poi sarebbe durato un paio di settimane. Di sicuro, da innamorarsi perdutamente. La conosco poco, troppo poco, l’avrò vista si è no cinque volte, ma la sensazione è che possa essere una di quelle che riesca a far volare un uomo, farlo sentire invincibile. Una donna devastante per capacità di metterti ko sentimentalmente. Spesso, mentre la guardavo, oppure la pensavo, mi tornava in mente una frase letta da qualche parte: “Una donna che sembra inventata dalla leggenda”. Il fatto è che aveva vinto la sua prima causa importante ed era di una felicità folle: ha chiamato me perché non sapeva chi altro chiamare. Voleva urlare la sua soddisfazione,

sentirsi dire “sei fantastica”, “sei la migliore”: ma non conosceva nessuno che poteva dirle parole del genere. Forse, anzi, sicuramente, avrebbe voluto chiamare il suo fidanzato, marito: però era sola”. Può sembrare una sdolcineria, però dal suo messaggio trasudava la disperazione. In casi come questo, voler condividere una gioia simile e non avere con chi farlo è un colpo basso, bassissimo, uno di quelli che ti insegue per giorni. L’urlo di gioia ti rimane strozzato nella gola, ti senti impotente e sconfitta. Solitamente, le serate del genere le finisci ubriaca, oppure vai a casa e piangi fino allo sfinimento. E pensare che si trattava di uno dei giorni più importanti della sua vita. La storia è struggente e allo stesso tempo un semplice pezzettino di quotidianità: situazioni del genere ne vediamo ovunque, in giro per il mondo. Gente di successo, così presa dal proprio lavoro e carriera da non avere la testa, la voglia, oppure il tempo per dedicarsi alla sfera privata. Il racconto del amico mi è tornata in mente qualche giorno addietro, mentre mi trovavo a Ginevra, dove la mia azienda, Ivy International, ha una delle sedi più importanti: per la cronaca,

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la Svizzera è il paese con il più alto numero di clienti. Stavo per salire nella stanza d’albergo quando ho intravisto un signore sulla cinquantina, molto elegante, sorseggiando una coppa di champagne, seduto al tavolo del Bar des Bergues, al piano terra del Four Seasons. La bottiglia nel fresco, e lui, da solo, che probabilmente festeggiava un affare concluso, la nascita di un nipotino, oppure semplicemente si godeva il pomeriggio, perché dal viso sembrava felice. Era da solo, non c’era un secondo bicchiere sul tavolo: d’istinto, ho pensato a quante donne, mie clienti e non, avrebbero voluto essere lì con lui, condividendo quel momento. L’avvocatessa milanese poteva essere benissimo una di loro: il mondo è pieno di gente elegante e delicata, di successo, che però non ha l’occasione e il tempo per incontrarsi. Ivy International, la mia agenzia, serve a questo. Salita nella stanza, ho aperto anche io una bottiglia di champagne, guardando il lago e sorridendo proprio come quel signore: lì fuori è pieno di gente che, grazie a me, potrà trovare la felicità. Si, il lavoro di love hunter è davvero fantastico.




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