Wakaya Club Julie Mechali Pino Lerario Casa Colonial Haus Alpina
Peddy Mergui Hot van Cleve Eden Roc DiverXo
Angelo Galasso
Il Gladiatore della moda
Editoriale
Sei quello che sfogli
D
ove eravamo rimasti? Ah si, al Calandrino, con lei. Sono passati due mesi da quel mercoledì di inizio inverno nella provincia padovana. Cos’è cambiato? S. splende sempre di più, io sono sempre più convinto di aver trovato la donna dei miei sogni e dal mondo dell’editoria arrivano segnali incoraggianti. Sulla copertina di uno degli ultimi numeri di Esquire c’è uno strillo in alto: God bless magazines. Dio benedica le riviste. Sono sobbalzato sulla sedia, ricordandomi la gigantesca fortuna che abbiamo facendo il mestiere di editori. Allargando il discorso, vale anche per quello di giornalisti, escludendo i tanti pigri, presuntuosi, livorosi e scarsi, tutti con un unico pensiero, i bonus, i benefit e la busta paga a fine mese. Non riuscirò mai a capire chi fa questo mestiere quasi con fastidio, con sufficienza, in maniera sbrigativa. E’ una tale fortuna poter esprimerti come meglio credi su argomenti a te attinenti. Mettere la tua firma, far girare il tuo pensiero, emozionare le persone, farle sognare. Ok, forse stiamo diventando utopici, seppur consapevoli che senza il romanticismo folle e l’amore feroce per il nostro mestiere saremmo incastrati in un mondo monotono e grigio. Parlo al plurale perché ce ne siamo di persone con la voglia di spaccare il mondo: questo numero esce in concomitanza con la settimana della moda e, un po’ come al Pitti, cerco di dar voce e spazio ai coloro che vivono con la voglia pazza di vincere creando qualcosa di bello. Chef, stilisti, artigiani, designer, somme-
lier, fotografi, imprenditori del food. Quando ci sentiamo per telefono, quando ci vediamo dal vivo, quando andiamo a cena non possiamo fare a meno di renderci conto della fortuna che abbiamo: creare bellezza, creare sogni. Di carta, di seta, in padella: poco cambia. Tornando al mondo delle stampa, ogni sabato divoro le pagine del supplemento del Financial Times, FT Weekend. Vale anche per le edizioni quotidiane, ma sabato di più: c’è un tale entusiasmo nella prosa dei loro giornalisti, una tale voglia di raccontare e raccontarsi da farti urlare di gioia che il mondo dell’editoria non morirà mai se si continua a dar voce e spazio agli entusiasti. In molti conoscete Tyler Brulè, il columnist canadese del Financial Times: ex inviato di guerra, ferito in Afghanistan, si è poi dedicato alla moda e soprattutto ha creato Monocle, mensile elitario, di tendenza, qualcuno lo definisce aspirazionale. Oggi vale 115 milioni di dollari pur stampando meno di 100.000 copie in giro per il mondo: esagerato? No, se il prezzo viene deciso dal mercato (ha ceduto il 3 per cento ai giapponesi di Nikkei, per 10 milioni). Cosa voglio dire, cosa vuole dire Tyler? Che noi produciamo riviste che i lettori sono felici di sfogliare ed esibire. “Sei quello che leggi”, sostiene Brulé. “Sei quello che scrivi”, aggiungo. Sei quello che proponi al lettore: le pagine patinate, le immagini curatissime, lo stile della scrittura. Così come lo chef si autodefinisce attraverso i piatti che propone, così come lo stilista comunica grazie agli abiti e agli accessori, noi editori siamo quello che voi sfogliate.
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Sommario
Good Life Food is art
Julie Mechali Alla ricerca della perfezione pag. 06
Angelo Galasso Il gladiatore pag. 10
Pino Lerario Da Batman a Beckham pag. 14
Grande Maison Sognando le stelle pag. 16
Peddy Mergui Il provocatore pag. 24
Casa Colonial Casa Colonial pag. 26
The Alchymist Praga deluxe pag. 28
CaffĂŠ Pedrocchi Grandeur padovana pag. 30
Eden Roc Paraiso caribeno pag. 34
Good Life dominiqueantognoni@yahoo.it
Orrore gourmet
Foto: Monica Cordiviola
Critici, che pesantezza
U
no si immagina un mondo vaporoso, pieno di amore e morbidezza, dolci pensieri e candide scritture, donne sensuali come Nigella Lawson che ti acceca e ti stordisce, che ti sussurra parole calde come sciroppo scarlatto e si lecca le dita, assaggia le polpette e pronuncia la parola zenzero. E invece trovi un branco di gente buia e livorosa, avvelenata fin da quando mette il piede giù dal letto. Nella stragrande maggioranza personaggi permalosi e presuntuosi oltre ogni limite ragionevole, alcuni veri mitomani, altri affetti da megalomania cronica. I critici gastronomici, gli esperti e via di questo passo non solo si prendono troppo sul serio, ma riescono nell’impresa di rendersi ridicoli ad ogni angolo e, ancor più grave, far diventare l’argomento food qualcosa di noioso, da invasati deliranti. Lasciamo stare quelli che in cambio di cene a sbaffo dicono che il ristorante ‘tal dei tali’ fa pappardelle divine: alla fin fine il
gusto è soggettivo ed è dura avere torto o ragione. Ma passi, sono furtarelli da cortile, si potrebbe chiudere un occhio (anche se c’è chi esagera alla grande, cenando gratis con amici ogni sera in cambio di articoli esageratamente positivi). Questi personaggi dal complimento facile fanno tenerezza, quelli disposti ad ammazzare la mamma per un invito pure: la miseria umana non ha confini. La tragedia sono coloro che non sorridono mai e sembrano portare il peso dell’umanità sulle spalle, dimenticando che parlano di linguine e branzini, non di Bin Laden. Ecco allora che c’è chi va in incognito, per smascherare vari difetti e mancanze del ristoratore, come se fosse una vergogna presentarsi con nome e cognome. Certo, alcuni critici americani hanno fatto scuola, Ruth Reich per prima, ma qui cercano di scimmiottare il tutto, toccando il ridicolo al cubo. C’è perfino uno che si vanta di essere la pedina che va in avanscoperta dei posti dove il cavaliere mascherato poi
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si presenta in gran segreto a colpire duro sulle magagne dei ristoratori. Che sia chiaro: parlano male e attaccano solo osterie e trattorie sconosciute ai più, non vanno mai da quelli stellati. I motivi sono due: il coraggio va bene con chi non ha potere e poi se ti paghi il conto da solo puoi farlo solo nei luoghi dove spendi assai poco. I peggiori sono i talebani, i puristi e non ci riferiamo a vegani e contorni, lasciamoli stare nel loro brodo fatto di salutismo isterico. Ci è capitato di inciampare in un personaggio che faceva dell’alta polemica sull’onestà intellettuale degli chef che tradiscono la ricetta della maionese. Sì, avete sentito bene: sembrava di assistere ad un talk show politico dove si insulta la sinistra perché pensa solo ai soldi. L’omino schiumava furore, era nero in volto: “Qui ormai tutti esperti di chimica, si deve avere l’onestà intellettuale di ammettere l’errore”. Con tutto il rispetto per l’importanza della maionese, si sta esagerando.
Julie Mechali
Alla ricerca della perfezione
Copyright photo Julie MECHALI / Stylism Didier Hagege / “Lyric” Series
G
ood Life é un club, un club esclusivo. Ne fanno e ne faranno sempre parte i nostri amici intesi come artigiani, fotografi, imprenditori con la voglia feroce di vincere, impressionare, stupire e far sognare, persone e personaggi che lasciano il segno, che vivono per creare e . Alla lunga lista si è aggiunta Julie Mechali, parigina che ha inventato uno stile straordinario, la peinture culinaire, una vera meraviglia, ovvero delle immagini che sembrano dei dipinti. Le abbiamo dedicato quattro pagine nel numero precedente: tanto, direte. Invece no, perché ci aveva inviato una quantità folle di fotografie di rara bellezza, mettendoci in difficoltà: ad alcune dovevamo rinunciare, seppur a malincuore. Non avremmo mai pensato fosse stato possibile, solitamente succede con le modelle, oppure gli scatti dei grandi fotografi della moda. Eppure, eccoci qui a riparlare di lei e delle sue magie, del suo entusiasmo e le sue idee, cercando di capire di
più sui modi e le tecniche necessarie per compiere tali capolavori. - Tre domande a raffica, che sono legate fra di loro: di quanto tempo hai bisogno per realizzare uno scatto, quali sono le tecniche e soprattutto come elabori l’idea di un piatto? - Domande evidenti, ma spiegare non è facile. Senza fare la preziosa, si tratta di un cammino infinito, continuo, che passa dalla ricerca dell’equilibrio, dell’armonia. C’è bisogno di tantissima attenzione e capacità di osservare, per capire se un ingrediente possa stare accanto ad un altro. Sono percorsi lunghi, che non finiscono mai. E’ come se le componenti, gli alimenti, le materie dovessero socializzare fra di loro, facessero amicizia, iniziassero a conoscersi prima di decidere di stare assieme. Forse sembrerà esagerato, però è un po’ come il tessuto di una società, dove si mischiano e si completano vari elementi, dove ognuno ha la sua storia da raccontare, il proprio universo. E’ un processo
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davvero interessante, in evoluzione, che si completa. Sembrerò strana, però io per davvero credo che gli alimenti mi si offrono, si aprono in tutta la loro bellezza, io mi pongo come spettatrice, osservo, guardo, c’est tellement captivant. Solo loro i veri protagonisti, a volte mi pare di essere al teatro. Io sono semplicemente un mezzo, un intermediario che riesce a metterli insieme. Mi fanno vibrare, esaltare. - Qualcuno ci può prendere per pazzi… - Ci vuole pazzia, è vero, altrimenti non riuscirei a vivere così intensamente un quadro del genere. Lo confesso, mi dedico anima, corpo e spirito perché le mie fotografie possano essere quello che sono, per trasmettere una sensazione così intensa, perché regni un’armonia totale nelle immagini. Tutto scorre in maniera lenta, naturale, fino a quando il puzzle si completa, si definisce in modo totale. I colori, le materie, la densità si scelgono a vicenda. - Quando il quadro è pronto, ti senti soddisfatta?
- E’ come se l’avessi visto per la prima volta, come se non fossi io ad averlo creato. Resto come ammagliata, affascinata, l’emozione è palpabile, mi riempio di feli-
cità, mi sento invasa di tanta bellezza. Quando scatto c’è la beatitudine pura, mi sento in stato di grazia, si tocca il cielo con un dito, volendo esagerare c’è qual-
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cosa di divino in tutto questo. C’è così tanta grandezza in una fotografia del genere che si può solo restare in silenzio.
DiverXo
Spanish Fusion
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’ l’unico tre stelle a Madrid e uno degli otto in tutta la Spagna: già questo la dice lunga sul posto che vi stiamo raccontando. Michael Ellis, il direttore della guida Michelin, racconta che prima di regalare la terza stella ha inviato per ben dieci volte i suoi ispettori e tutti sono tornati entusiasti. “Non abbiamo mai visto qualcosa del genere”, dice, “David è qualcosa di affascinante, lo potrei paragonare solo a Ferran Adrià”. Addirittura. Ha ragione: David Munoz è un personaggio difficilmente inquadrabile, il che piace assai. Dopo la scuola di cucina è andato a Londra, lavorando per Hakkasan e Nobu: tornato alla base si è sposato e assieme alla moglie Angela Montero ha aperto DiverXo, nel 2007. Hanno investito tutto, preso prestiti su prestiti, fatto debiti, in più nei primi sei mesi hanno dormito dentro il ristorante, perché non avevano più una casa. Ne è valsa la pena perché i clienti fanno davvero salti di gioia ed escono entusiasti a tal punto da riversare la propria esaltazione su tutte le piattaforme dedicate
ai commenti. Certo, un po’ fa a pugni l’idea di un’avventura gastronomica in un ristorante tre stelle con i social, però si capisce molto l’aria che tira. Fossero dei tiepidi resiconti , DiverXo darebbe la sensazione di un posto sopravalutato, esoso senza ragioni. Invece piove con parole frizzanti, c’è chi lo considera il migliore in assoluto, alcuni lo mettono alla pari di Noma con la certezza che in un futuro non troppo lontano sarà al primo posto della classifica. Alcuni clienti che bazzicano il mondo dei ristoranti stellati vanno oltre: vorrebbero certificarlo con più di tre stelle, se fosse possibile. E pensare che l’impatto non è dei migliori, visto che DiverXo si trova in una zona poco centrale, anzi, periferica al massimo, nel quartiere Tetuan, abitato da immigranti sud americani e cinesi. L’inviato del New York Times scrisse che da fuori sembrava più una galleria d’arte amatoriale che un ristorante stellato. “Il decor era alquanto sconcertante, con farfalle nere che coprivano le pareti e maiali volanti sui tavoli”.
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Contrasti duri, ma è la volontà dello chef, non a caso caratterizza la sua cucina “brutale, come una pallottola nella testa, come il porno in tv ”. Però. In molti arrivano dopo aver visto in televisione il programma di Anthony Bourdain, uno che solitamente segnala posti strani e nascosti, non stellati. Venne qui nel 2010, quando il ristorante aveva una stella soltanto: concluse la puntata dicendo “Amo la mia moglie, la mia figlia e quello che ho mangiato qui”. Wow. DiverXo da veramente la sensazione di essere qualcosa di….diverso, vista la personalità dello chef. David è uno specialista dell’iperbola, vuole deliziare e creare uno shock allo stesso tempo. Il suo è più un gastronomic laborator che un ristorante classico: si punta sulla cucina asiatica legata alla tradizione spagnola, una specie di Spanish Fusion che semplicemente spappola. Il servizio è impeccabile, la presentazione dei piatti favolosa, senza restarci delusi dai contenuti perché si sa, nell’ultimo periodo si esagera con l’affidamento all’estetica , tranne poi trovare poca sostanza.
Mediamente “l’esperienza Munoz” dura quattro ore ed i prezzi non spaventano, anzi: i due menu degustazione costano 115 e 170 euro per 7 e rispettivamente 13 portate: rispetto ad altri tristellati, poca roba (Guy Savoy a Parigi costa sui 360). Visto che parliamo di numeri, come in tanti altri ristoranti del genere lo staff incide molto sulle finanze: per 30 posti ci sono 32 persone che ci lavorano, con la materia prima che assorbe il cinquanta per cento degli introiti (aggiungiamo anche i funghi baschi, i Perretxiko e la patata rara delle isole Canarie). “Non siamo profittevoli, abbiamo perso soldi ogni anno, forse ora per la prima volta riusciremo di andare in parità. Si guadagna non più di 1.000 euro al mese, pure mia moglie e io. Si lavora 15 ore al giorno, dalla mattina fino alle uno e mezza di notte e non ho mai mancato un giorno in sei anni”. Se con DiverXo stenta a produrre utili, di sicuro andrà meglio con l’indotto e gli altri locali, vedi lo Street XO, aperto nel 2012 all’interno del Corte Ingles de Callao madrileno. Un altro è stato appena aperto a Londra, nel Mayfair. Conclusione patriottica: “Madrid non è mai stato un posto famoso per l’alta cucina, ma negli ultimi dieci anni il livello si è alzato tantissimo: vi dirò di più, secondo me il miglior ristorante thai si trova qui, il Sudestada, così come il miglior messicano, ovvero Punto MX”. Se lo dice un tristellato, sarà così.
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Angelo Galasso Il gladiatore
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radition in evolution. Il Gladiatore della moda. Il Leonardo da Vinci della camicia. Titoli e concetti, definizioni e iperboli che riempiono di orgoglio Angelo Galasso, l’uomo che ha ridato lustro alla figura del dandy, impreziosendola. Negli ultimi due anni ci siamo incontrati spesso, parlottando di moda e tendenze, di personaggi e stile: confessiamo però di non averne mai abbastanza, perché riesce sempre a stupirci con un linguaggio, a tratti barocco, ma esaltante e frizzante. I fatti contano più delle parole e allora eccoci qui, a raccontare presente e futuro, le nuove aperture in giro per il mondo, da Hong Kong a Shanghai, da Macao a Las Vegas con il sogno Los Angeles, che viene prima di tutte le altre destinazioni. Numeri importanti, cifre da capogiro e soprattutto la ricerca spasmodica del dettaglio che fa la differenza: pronti, via. Accendetevi un sigaro e preparatevi un cocktail, oppure aprite una
bottiglia di champagne, mettetevi comodi insomma e divertitevi. - Oggi i negozi sono pieni di giacche colorate, l’uomo osa molto di più, si veste senza alcun freno: come e quando è avvenuto questo cambiamento epocale? - E’ iniziato nelle città dove la multietnicità aveva e ha un peso notevole, prendiamo per esempio Londra: ci sono persone che arrivano da ogni angolo del mondo, da ogni continente, gente che proviene dal mondo arabo, africano o dall’India. Aggiungiamo che tutti noi abbiamo dentro la voglia di azzardare e che le metropoli quasi ti obbligano a uscire ogni sera. Alle feste tutti vogliono distinguersi, sentirsi dire che sono vestiti bene, creare l’effetto “amazing”. - Lei ha sempre considerato Londra la capitale della moda, perché? - Più che la capitale della moda ne è crocevia: la minigonna, Carnaby Street, le coppie che si baciano per
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strada, perfino i Beatles, nonostante fossero nati a Liverpool, sono partiti praticamente da qui. - Tradition in evolution è uno slogan che ha fatto le sue fortune, ma come viene applicato a Londra? - Intanto ci sono poche differenze fra la moda italiana e quella inglese, basta andare sulla Saville Row per farsi un’idea. Se non guardi l’insegna del negozio fai davvero fatica a capire se si tratta di uno stilista appartenente ad un paese oppure ad un altro. Certo, una volta era diverso, gli inglesi di vecchia generazione amano e indossano ancora bombetta e cappotto, ma quei tessuti spessi ormai non hanno tanti estimatori; i giovani prediligono la sartoria moderna che, in pratica, è quasi identica a Napoli, in Toscana oppure a Londra. Io cerco solo di mixare i piccoli dettagli che vedo e “rubo” in giro per la città, perfino quando vado al pub. E’ quello che facevo da piccolo, quando vivevo a Francavilla Fontana, al sud. Avevo 13 anni e mio pa-
dre, comandante dei vigili, non mi voleva per strada, così mi portava nei negozi dei bottegai. Lì cercavo di immaginare come avrei potuto realizzare una camicia, un pantalone, impreziosendolo e personalizzandolo. - Ovvero quello che sta facendo ora. - Come dice il proverbio? Impara l’arte e mettila da parte. Al sud sono tutti dei grandi osservatori, la siesta è un momento fondamentale della giornata, si sta in piazza e si guarda la gente che passa. La mia scuola inizia lì, fra le botteghe e la strada: chiedevo ai sarti perché cucivano in un modo oppure in un altro, pian piano mi ero fatto una cultura e a casa prendevo le coperte usandole come tessuto per le giacche. - Quando ha deciso di puntare sul dandysmo estremo? - Venne da me in negozio un principe libanese, aveva all’incirca 35 anni: era il periodo di transizione, da Interno 8 ci stavamo trasformando in Billionaire, Flavio Briatore era appena diventato socio. Mi disse di voler
qualcosa di molto flash perché doveva andare ad un party a New York e desiderava fare una gran figura, promettendomi che sarebbe diventato un cliente fisso nel caso venisse apprezzata la sua scelta d’abbigliamento. Gli preparai una camicia floreale con il collo e il polso classici, poi uno smoking bianco e delle scarpe di vernice. Fu un successone e la settimana seguente andò a Los Angeles, dove la gente lo fermava per strada. Da quel momento mi convinsi ancor di più che, là fuori, le persone aspettano solo di mettersi in mostra. - Legenda narra che Al Fayed in persona stesse osservando la sua collezione non capacitandosi di come fosse possibile non vederla esposta da Harrods. - Andò così: presi un appuntamento con lui, all’ultimo piano di Harrods, dove aveva l’ufficio. Mise su un lungo tavolo degli abiti che avevano nel negozio, tutti nomi importanti. Accanto aggiunse i mie, poi chiamò il direttore acquisti e gli chiese se sapeva di chi fossero: riconobbe solo il mio, anche perché gli altri erano tutti
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grigi o blu scuro. “Perché nel nostro negozio non c’è la collezione di Angelo?”, chiese Al Fayed. Dal giorno dopo cambiò tutto ma, spiace dirlo, il direttore fu licenziato. - Come possiamo caratterizzare l’uomo moderno? Non abbiamo dei bei segnali… - Ci sono tre livelli, tre tipi di uomini: il primo è l’uomo pronto alla trasgressione, poi c’è quello che vorrebbe però ha bisogno di un input e infine, c’è l’uomo monotono. Interessante il secondo tipo, lo vedo nel nostro negozio di New York, al The Plaza: arriva in vacanza, acquista due camicie quasi per caso, poi gira per la città, si sente a suo agio vestendo qualcosa di diverso e torna ad acquistare. - A proposito di New York, si dice spesso che è la città ideale per lanciarti, ma che poi la devi abbandonare. - Giusto, difatti sto pensando seriamente di aprire a Los Angeles, dove abitano i divi hollywoodiani. - Fra i grandi della terra c’è qualcuno che le piacerebbe
vestire? - Obama, ha un fisico straordinario. Creerei per lui una giacca sfiancata, color blu elettrico. Poi una camicia con collo alto e ovviamente stringerei la manica, visto quanto è magro. - Ci sono chances di vederlo indossare i capi di Angelo Galasso? - Diciamo che siamo ad un buon punto. - Quest’anno cosa vedremo nelle vetrine e nei negozi di Angelo Galasso? - Il titolo della collezione è “Psicanalisi dell’uomo”, ovvero come studiare meglio le sue esigenze, dove sta andando e come noi, gli stilisti, possiamo assecondarlo. - Guardando le sue collezioni si ha la sensazione di non avere tempo, di non passare mai di moda. - Difatti le nostre collezioni si chiamano Forever: spesso creiamo giacche che guardano avanti, troppo avanti.
- Nick Foulkes, editorialista del Financial Times, la ha definita “Il Leonardo da Vinci della camicia”: come e quando accadde? - Fu uno dei primi giornalisti ad aver varcato il mio negozio di Londra, quando eravamo di fronte al ristorante San Lorenzo: rimase a bocca aperta, gli piacque soprattutto il polso della camicia, quello diventato famoso. Da lì partì tutto. - A proposito, nel suo negozio londinese quanti sono gli stranieri e quanti gli abitanti della metropoli? - L’ottanta per cento sono stranieri, soprattutto turisti. Fra i clienti ve ne sono tantissimi tedeschi, si prestano molto al nostro stile. Poi russi, cinesi e molti arabi. - Al Pacino, uno dei suoi clienti più affezionati, come sta? - Bene, anche se lo vedo leggermente invecchiato. Però l’ultima volta che ci siamo incontrati era contento perché lo avevano fermato per strada complimentandosi con lui per le camicie. “Solitamente mi
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fermano per gli autografi”, mi ha detto sorridendo. - Quando facciamo presente che lei veste Al, i soliti scontenti storcono il naso, sostenendo che non si tratta proprio di un Adone. - E’ proprio qui la bellezza delle mie collezioni, far splendere un personaggio straordinario che non si distingue per le qualità fisiche, ma che, grazie a carisma e fascino, riesce a esprimere il massimo. - Clint Eastwood invece pare uno molto più rigido nell’abbigliamento, eppure si è convertito pure lui, indossando Angelo Galasso. - Lui e Al sono molto amici, così si è incuriosito: è venuto al nostro evento di New York, nel giugno scorso, poi si è innamorato di alcuni capi, anche se va detto che la gran parte li ha acquistati per i suoi attori, quelli che hanno lavorato con lui in Jersey Boys. - Con Flavio Briatore in che rapporti siete, adesso? - Tutto sereno, anzi, tutto va a gonfie vele, sono socio al venti per cento del Billionaire.
Hof van Cleve Tre stelle fiamminghe
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envenuti a casa di Peter Goosens, il padre dell’alta cucina belga, una specie di Gualtiero Marchesi fiammingo, tre stelle con il Hof Van Cleve, ristorante dove aveva cominciato a lavorare nei primi anni ottanta per poi acquistarlo nel 1987. Ci troviamo in una piccola località fra Kortrik e Gent, a Kruishoutem: da fuori sembra il classico locale rustico e difatti lo era prima che lui diventasse il patron: all’interno però regna l’eleganza. Quando firmò le carte della compravendita gli misero una clausola alquanto insolita: per cinque anni avrebbe dovuto preparare e proporre solo piatti fiamminghi, niente cucina gourmet. Probabilmente temevano una forte concorrenza, probabilmente i vecchi patron avevano in mente di aprire un ristorante con ambizioni stellati, chissà: fatto sta che la sapevano lunga sulle qualità di Peter. Difatti nel 1994 prende il primo riconoscimento Michelin, nel 1998 il secondo e nel 2005 il terzo: sono dieci anni che riesce a mantenere il livello più alto e non pare intenzionato a rinunciare, anzi, continua a sfornare idee e piatti sensazionali, premiati con la quindicesi-
ma posizione nella classifica dei migliori ristoranti del mondo nel 2011. Quando prese la terza solo altri due ristoranti potevano vantare un tale riconoscimento, nel paese famo-
so soprattutto per i maestri cioccolatai: De Karmeliet, a Bruges e Comme Chez Soi a Bruxelles. Ora si è aggiunto anche il Hetong Jan, sempre nei pressi della
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Venezia fiamminga. La sua è una cucina complessa, concettuale, coinvolgendo i sensi e la mente, dove la tecnica e l’esecuzione sono fantastiche. Quando gli fu chiesto di definire la sua filosofia culinaria in quattro parole rispose: “contemporanea, stagionale, gustosa, il rispetto della natura”. Dovendo citare un paio di meraviglie scegliamo il tonno marinato con sorbetto di wasabi, poi la Jonagold Apple, la mela caramelizzata e marinata, che ha un profumo divino. Solitamente c’è la diatriba se lo chef può dedicarsi anche ai dolci, qui invece nessun problema, visto che “il nostro” ha iniziato come pasticciere, nel 1982, da Lenotre. Fra i vari menu degustazione (cinque portate 195 euro, 7 a 230) troverete anche uno vegetariano, Pure Nature (150 euro): Peter è ossessionato dal biologico, considerandolo ormai parte integrante del suo mondo e anche dei clienti. E’ una grande star, nel suo paese: partecipa a tantissimi programmi televisivi, fra questi My Restaurant e Best Amateur Cook, dove ovviamente fa parte della giuria. Ma è in cucina dove eccelle.
Pino Lerario
Da Batman a Beckham
A
l Pitti ci piace gironzolare e guardare gli stand pieni di persone; è davvero bellissimo guardare quel via vai di gente, vederli entusiasti. Ci sono situazioni dove l’affluenza è alta però si ride poco, sembra di essere ad un convegno sulla biotecnica: non facciamo nomi, ma qualcuno sta iniziando a prendersi troppo sul serio, come se salvasse delle vite umane invece di produrre pullover di cashmere. Invece nello stand di Tagliatore regnava il buonumore, il colore, la gioia pura dello stare insieme. Pino Lerario era il protagonista assoluto e indiscusso, però si capiva facilmente l’affetto degli altri, il piacere di venire a salutarlo, a guardare la sua nuova collezione. Una nuova collezione creata per il dandy moderno, amante del lusso e del bello non convenzionale, un
globetrotter raffinato alla ricerca del lifestyle perfetto, che predilige un guardaroba fatto di capi di abbigliamento curati nei dettagli e influenzato da trend “rubati” in giro per il mondo. Pino ha presentato una collezione che spazia tra abiti dal sapore sartoriale, jeans destroyed e capi sporty-chic con dettagli tecnici, in un mix and match dal sapore contemporaneo, a tratti avant-garde. Il colore dominante è il blu cielo di Puglia, acceso, pieno di vita, intenso: lo chiama “Blu oltremare”. Già dal nome si capisce come l’entusiasmo sprizzi in casa Tagliatore: sarebbe strano accadesse il contrario, viste le ultime stagioni. L’azienda va a mille, vive il suo periodo d’oro: le collezioni, comprese le capsule,
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sono presenti in circa 800 punti vendita di fascia alta in tutto il mondo. Al primo posto l’Italia, ovviamente, Tagliatore è un prodotto pensato per il modo di vestirsi nostrano. Poi il Giappone, paese ideale per i capi slim creati da Pino. L’espansione non si ferma, anzi, continua a passo spedito, perché mentre esce il numero che state leggendo lui si trova a New York, dove sogna di riuscire a far breccia e conquistare i dandy statunitensi. “Se vuoi sfondare nel paese più importante al mondo si parte da lì”, ci raccontava qualche settimana addietro. “Un mio amico diceva che devi starci per dieci anni e poi magari andartene, ma si deve iniziare da New York, ti garantisce l’entrata in altri mercati, altre metropoli. Un’altra città che mi stuzzica tantissimo è Miami, è diventata importante, intensa, colorata, abi-
Giubbotto che fa parte della collezione Hamakiho
tata da persone con gusto e voglia di vivere bene”. Sarebbe l’ennesima sfida vinta, un altro premio per un nome e un’azienda che vengono da lontano:per chi non conosce la storia, ecco un breve riassunto. Suo nonno, Vito, tagliava le tomaie delle scarpe che poi sua moglie cuciva: lasciò le tomaie per impugnare le forbici e diventare sarto e più tardi nonno di Pino Lerario, la mente creativa dell’attuale società gestita con i tre fratelli. Il padre di Pino inizia a cinque anni a trafficare tra i tessuti. Così fanno anche i suoi figli, che si dividono tra la scuola e il laboratorio che, agli inizi, produceva per conto terzi. Segue una lenta e graduale crescita, passando dalla prima sede, un appartamento di 250 metri quadri con dieci dipendenti, ad una palazzina di proprietà dove ora lavorano 180 persone. Il primo grande passo verso il mondo che conta fu
fatto alla fine degli anni ottanta, la storia ce la racconta sempre lui: “A quei tempi avevamo tre negozi monomarca a Londra, si chiamavano Gianni Baldo e Lerario. Gianni Baldo era il nostro socio e partner in terra britannica. Un giorno Bob Ringwood, il famoso costumista che stava preparando gli abiti per Batman, passa davanti alle vetrine nel nostro monomarca in Savile Row, entra, chiede chi ha realizzato le giacche e ci contatta. Ricordo quando andai a Londra, sul set: indossavo un capotto che Bob voleva fregarmi, tanto gli piaceva. Andai con almeno ottanta modelli, i loro stilisti ne hanno scelto una dozzina per il cast. Poi abbiamo creato smoking particolari, viola e blu Cina, perché alla fine il film è un fumetto, ci stavano colori accesi e particolari. Avevo 24 anni, l’emozione nel vedere Jack Nicholson, Michael Keaton e Kim Basinger
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fu fortissima”. Da Batman a Beckham, perché l’ex calciatore è il personaggio che Pino vorrebbe poter vestire: “Sa indossare i capi, non importa che si tratti di un cappotto, una maglietta o un cappello: ha un portamento perfetto, è disinvolto in qualsiasi situazione. Sarebbe ideale”. Già, sarebbe ideale, soprattutto per le capsule collection che Pino sente ancora più “sue” rispetto alle classiche collezioni:”Quando disegno la collezione Tagliatore penso ad un prodotto vendibile su larga scala, lì mi sento imprenditore; mentre le capsule sono di ricerca, per un cliente più sofisticato, esigente, estroverso. Però chi indossa un capo della capsule ne diventa dipendente: un Pino Lerario addicted”. Come noi.
La Grande Maison Sognando le stelle
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etti accanrto due mostri sacri come Joel Robuchon e Bernard Magrez, il gioco è fatto: il primo è lo chef più stellato in assoluto, 28 astri in giro per il mondo, l’altro possiede una quarantina tra tenute e aziende vinicole. Insieme hanno aperto La Grande Maison a Bordeaux con lo scopo di dare alla città il primo ristorante tre stelle Michelin. Come hanno scritto in Francia, non c’è limite d’età per aprire una start up: Joel ne compie 70 anni quest’anno, Bernard 78. La Grande Maison è allo stesso tempo albergo e ristorante, un piccolo gioiello appena aperto in una ex una maison privata del diciannovesimo secolo: sta diventando velocemente una meta per i gourmand e amanti di chiccherie. Bernard è da una vita che vive nell’ambiente della hotelerie e della ristorazione: ad oggi, come dicevamo, possiede una quarantina di tenute e si sussurra abbia un patrimonio di 600 milioni di euro. Grande appassionato di pittura e musica classica (nel suo ufficio ascolta sempre Bach e Mozart), famoso mecenate, considera la gastronomia un’arte di grande tradizione, l’arte di acco-
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gliere alla francese. E’ convinto che Bordeaux si merita un ristorante tre stelle Michelin, visto l’enorme potenziale della città: ostriche, vino, foie gras, l’agnello sono le eccellenze conosciute ed apprezzate in tutto il mondo. Ha coinvolto il suo amico Joel, settant’anni, 28 stelle sparse per il mondo, da Tokyo a Las Vegas, la prima nel 1982 (ma già due anni dopo ne aveva tre). “Mi rimetto in gioco con entusiasmo”, spiega l’esigente chef, “l’idea ci è venuta un giorno a pranzo, quando Bernard mi disse che aveva una gran voglia di aprire un ristorante dove potesse regnare la qualità, la discrezione e il lusso. Eccomi risposi, ci sto. Vorrei che La Grande Maison fosse un posto caloroso e non troppo rigido, dove i clienti si possano sentire rilassati, come a casa loro. Il servizio deve essere spettacolare, una gioia per gli occhi”. Certo, i nomi dei due protagonisti aiuta a far passare il messaggio e a far aumentare l’interesse e l’attesa fino al momento dell’arrivo, ma fa parte dello scenario. La direttrice dell’hotel è invece la figlia di Bernard, Cecile. Per gli arredi i due si sono rivolti ad un giovane emergente, Francois Fournier: mobili stile Napoleone III, molti dei quali neri, con delle tappezzerie raffinate (l’atmosfera è più leggera al risto-bar L’Olivier, sempre all’interno della maison, dove perfino i piatti sono diversi, fra club sandwich e pasta). Robuchon, alla sua prima esperienza in una città di provincia, si è portato a Bordeaux il suo fido Tomonori Danzaki: sono vent’anni che lavorano insieme e ci sarà lo chef giapponese a prendere le redini della cucina di La Grande Maison. Tomonori viene da Las Vegas, mentre da Monte Carlo arriva Jean Paul Unzueta, maitre con fiocchi. Joel ci tiene a parlare anche della lista degli champagne, a cominciare dai vecchi millesimati di Veuve Cliquot e i 259 crus di Bordeaux: gli piace vantarsi e ha ragione. La verità è che senza di lui il ristorante non avrebbe lo stesso charme.
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Frantzen
Foto:Tobias Björkgren
Nordic kaiseki
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ella capitale del paese scandinavo che tutti apprezziamo per lo stato sociale sviluppato e per le bionde mozzafiato ci sono due ristoranti soltanto che possano vantare due astri Michelin: l’uno è il Grand Hotel di Mathias Dahlgren Marsalen, l’altro è proprio il piccolo locale di cui vi stiamo raccontando, 19 posti e 50 metri quadrati sito nella città vecchia dove si assaggiano materie prime nordiche cucinate con delle tecniche asiatiche. “Da noi trovi il miglior pesce, le migliori aragoste al mondo, idem per i molluschi ed i ricci di mare. So di cosa parlo, la nostra acqua e fredda e limpide tutto l’anno, il che da una dolcezza particolare ai crostacei”, racconta il patron Bjorn Frantzen, un ex calciatore di 36 anni: “sarebbe stato bello se avessi potuto continuare, ora sarei ricco e viaggerei in giro per il mondo a mangiare nei migliori ristorante”, racconta divertito. Il primo impiego come cuoco lo ha avuto nell’esercito svedese, in una base militare in Lapponia. “D’inverno c’erano meno 36 gradi, era difficile trovare qualcosa da
poter cucinare però ce la siamo sempre cavata”. La sua cucina attuale la definisce nordic-kaiseki, nome che prende il riferimento dalla cena tradizionale giapponese. “non c’è dubbio, da nessun’altra parte si mangia come da loro. Ci sono spesso dei ristoranti e degli chef che aprono per cucinare un solo ingrediente, oppure si specializzano in una tecnica specifica e vanno avanti su quella strada, senza mai abbandonarla o cambiarla”. Gli piace molto girovagare nel paese nipponico per imparare: “Mi sono reso conto che non mi sentivo mai sazio dopo aver pranzato oppure cenato nei loro ristoranti, mi sono reso conto che il segreto sta nel non servire il pane a tavola. Tornati a casa abbiamo preparato una zuppetta che sapeva di pane, sostituendola”. Non è un caso che la sua clientela è prettamente asiatica, nonostante la distanza. “Da quando siamo entrati nella classifica dei 50 migliori ristoranti del mondo almeno il 60 per cento degli ospiti arriva dall’estero, il che è un risultato straordinario per noi, che viviamo a Stoccolma, posto abbastanza sperduto”, sostiene orgoglioso.
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Qui 12 chef cucinano per 40 clienti che si trovano a quattro metri dalle pentole, perché Bjorn ha deciso di togliere la porta per essere a stretto contatto con le persone che scelgono di visitarlo. Bjorn, ha lasciato tutti a bocca aperta al festival di Zwolle, riuscendo a preparare19 piatti in 44 minuti, piatti per i quali solitamente, ci vogliono almeno tre ore e mezzo. “Io e la mia brigata non ci siamo allenati prima”, raccontava nella serata del Chef Revolution. 19 non è un numero a caso, perché nel menu del ristorante troverete sempre 19 piatti diversi quasi ogni giorno: chi lo segue su Twitter e Istangram sa di cosa parliamo, anzi, vi consigliamo di aggiungerlo agli amici, di sicuro sarà più interessante di tanti altri che vi tediano raccontandovi sapienti l’andamento del mondo. Parte degli ingredienti viene prodotta nel giardino del risto, situato nella parte sud della città. Poi il burro: viene preparato davanti a voi. Oltre alle due stelle, Frantzen vanta anche il primato nella guida locale più prestigiosa, la White Guide.
Foto:Tobias Björkgren
La sommelier Lucia Gatti
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utti osannano le pietanze degli chef, in pochi trovano spazio e tempo per esaltare i sommelier, ed è un peccato, perché tante, tantissime volte i clienti tornano di proposito in un certo ristorante per farsi conquistare dagli abbinamenti proposti dai palati finissimi dei professionisti del vino. Spesso un piatto risulta straordinario solo perché assaggiato assieme ad un determinato vino, ma gli onori e gli applausi, quasi sempre, vanno alla cucina. Eccoci dunque stavolta a premiare una sommelier, Lucia Gatti, marchigiana, un passato con Claudio Cogo al Coq d’Or, adesso a La Griglia di Varrone, ristorante specializzato in carni di altissimo livello, quasi sicuramente il migliore a Milano e non solo. “La mia idea di base è che l’abbinamento non si fa con il piatto, bensì con la persona. Il vino va cucito sul cliente. Solitamente alla gente piace fidarsi, in molti
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mi dicono che amano ascoltarmi e che non necessitano la carta. Per le nostre carni pregiate agli esperti di vini suggerisco un Schioppettino 07 Bressan, molto speziato e un Faro 2011 Bonavita, molto elegante. Per un ragazzo più giovane e inesperto propongo un Pinot Nero, oppure un Borgogna rouge che ricorda il nostro Nebbiolo. Posso sbizzarrirmi leggermente meno che in un ristorante stellato dove c’è più fantasia, ma pure da noi, con soli piatti di carne, riesco a aggiungere un tocco di originalità. Qualche esempio? Assieme agli prosciutti spagnoli abbino il Porto Fonseca, con la sua dolcezza ripulisce il palato. Fuori da qui il mio abbinamento preferito è il tartufo bianco con un bianco di lunga macerazione. Un piccolo produttore che adoro? Andrea Cervini, nel piacentino. Il mio vanto è la lista dei gin, per chi vuole fermarsi dopo la cena: ne ho uno distillato nel Quebec, uno inglese speziato, l’Ophir e uno spagnolo, Gin Qui”.
Pascal Barbot L’anticonvenzionale
Pascal Barbot assieme al suo socio Christophe Rohat
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econdo alcuni, i cosiddetti haut foodies hanno in Pascal Barbot il loro idolo numero uno, seguito da Alain Passard. Però Pascal rimane di gran lunga il preferito, forse perché tra i tanti chef tristellati francesi lui è il più anticonvenzionale di tutti. Basti pensare che il suo ristorante, L’Astrance, è aperto solo quattro giorni su sette, per non parlare del fatto che può ospitare soltanto 25 clienti, proponendo loro un menù di poche portate e nulla più, usa ingredienti asiatici e questo desta orrore fra gli altri chef stellati. E soprattutto non ha in famiglia legami che possano “giustificare” il suo lavoro, non vanta pedigree e altro: solitamente si intraprende questa strada dopo un’infanzia passata nei negozi di alimentari dei nonni, oppure nella trattoria dei genitori; Pascal, invece, proviene da una famiglia di operai di Vichy. Lo racconta lui stesso: impossibile trovare legami e spiegazioni, semplicemente a 14 anni capisce che vuole fare lo chef e comincia la scuola di cucina. Due anni lì e poi iniziano gli stage, il primo a Clermont Ferrand, poi ad Auvergne ed eccolo seguire Joel Antunes a Londra, per l’apertura del Les Sauveurs a Mayfair. “Per me contava poco partire per Pari-
gi oppure andare altrove, volevo solo lavorare in un ambiente di prim’ordine, dove avrei potuto cucinare materie prime eccelse acquistate dai migliori distributori”. Poi due anni di relativa pausa, per via della leva, obbligatoria in Francia: viene spedito in Nuova Caledonia sulle navi della marina, dove continua a lavorare in cucina; qui viene a contatto con nuovi prodotti, come mango, cocco e zucchero di canna. Torna e va a Parigi a L’Arpège: inizia come commis ed esce come chef in seconda, nel 1998. Convinto di aver acquisito un’esperienza notevole, parte per Sydney dove gestisce in prima persona l’Ampersand: “Per me è stata una liberazione poter lavorare senza regole e senza complessi, in Francia la gente si scandalizza per alcune materie prime, esige forse troppo, in Australia invece nessuno ti chiede la provenienza di un prodotto e perché ti permetti di mettere lo yogurt greco in un piatto francese”. Così, sperimenta in santa pace, libero da zavorre: il maiale con la ricotta, per dare un esempio, diventa uno dei suoi piatti cult. Due anni dopo viene chiamato da Christophe Rohat al Lapérouse: l’avventura dura poco, il ristorante ha dei problemi finanziari e così i due decidono di lasciare per mettersi
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in proprio, apre così L’Astrance (è il nome di un fiore tipico della regione di Auvergne). Un piccolo locale, 20 posti a sedere e solo tre persone in cucina: non un vero e proprio menu, con l’eccezione di qualche primo “classico”, però un servizio di altissimo livello. Il risultato? Dopo tre mesi arriva la stella. Segue la seconda e poi la terza, nel 2007: nemmeno loro sanno spiegare il perché. “Siamo più un piccolo bistrot che un grande ristorante”, ripete spesso Barbot. Nonostante le tre stelle, i due continuano a comportarsi nella maniera più normale possibile: difatti il ristorante non ha un addetto alle pubbliche relazioni, non un direttore di sala, non uno chef pasticcere: in tutto sono 14 persone, compresi tre stagisti. Niente menu, perché Pascal, che sta sempre in cucina, vuole avere la libertà di poter cambiare all’ultimo momento. Fra gli chef che ammira di più c’è Alain Passard, altro tristellato. Gli piacerebbe poter viaggiare di più, stare magari per un anno in uno dei suoi paesi preferiti, Brasile oppure India, Thailandia o Nepal. “Mi piace da morire studiare i venditori di strada, il vero street food, hai tanto da imparare da loro, nutro un immenso rispetto nei loro confronti”. Come il mondo intero lo nutre nei suoi.
Valentina Vignali Bollicine mon amour
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na quarantina di anni addietro faceva follie un film americano, Love Story. Non ricordiamo bene la trama, era una specie di storia romantico-sdolcinata dove il bene vince e il male ne esce sconfitto, o viceversa, ma tanto importa poco. Ci è rimasto impresso il termine “preppie”, fu la prima volta che lo sentivamo. In pratica una preppie sarebbe quella ragazza al primo anno di college che, tradotto, significa una adolescente volenterosa, perbene, educata, vestita in modo assai sobrio, intenta a studiare duramente e a lasciare in secondo piano tutto il resto. Ecco, spesso ci capita di associare Valentina Vignali ad una collegiale, sebbene svolga un mestiere durissimo e allo stesso tempo affascinante. Perché Valentina si è specializzata nell’importare degli champagne, rari e preziosi, da piccoli produttori che si distinguono per la qualità eccelsa. Va detto che si tratta di un lavoro massacrante: il semplice fatto di andare in giro per l’Italia proponendo bollicine comporta una fatica e una pazienza al limite dell’impensabile, anche se dall’esterno può sembrare un’attività leggera e piacevole. Immaginatevi di arrivare ad un appuntamento con un ristoratore subito dopo l’ora di pranzo e che
proprio quel giorno in sala non ci sia stata più di una dozzina di commensali. O che, ancor più grave, la situazione si protragga così da lunghi giorni: nessuno ha voglia di ascoltare e assaggiare, ancor meno di ordinare prodotti nuovi, con la cantina che già pullula di bottiglie. Un mondo infernale dove vince il più forte mentalmente, un mondo che se prende la piega giusta ripaga immensamente. Ecco, Valentina si trova lì, nel mezzo, ogni santo giorno. L’abbiamo conosciuta in uno dei locali più chic di Milano, Bistrot Les Gitanes, in Via Tortona angolo via Forcella: atmosfera londinese e un tantino newyorkese vecchio stampo, cucina viva, sensuale e intrigante (opera di Davide Callegari e Alessio Truddaiu). Stava parlottando allegramente con il patron, Stefano Della Chiesa, gran cerimoniere e fine conoscitore del mondo della ristorazione. Non potevi far altro che ammirarla: decisa e grintosa, delicata e convincente, esattamente come ti immagini una venditrice di champagne, ovvero una donna con uno charme senza fine, un sorriso ammaliante e un savoir faire da manuale. Trasmetteva una gran voglia di stappare subito una delle sue bottiglie, sorseggiarla e gustarla fresca, volevi che non smettesse mai di parlare e rac-
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contare. Il quadro pare idilliaco e forse lo è, la polaroid di quel pomeriggio rimarrà impressa a lungo, ma poi ogni giorno si riparte da capo, in balìa degli eventi, con la consapevolezza che la qualità paga sempre, sognando il detto anglofono “the best is yet to came”, ovvero il meglio deve ancora venire. Nel frattempo il suo presente pare già piuttosto roseo: le sue bottiglie si possono assaggiare in più di un ristorante stellato, per non parlare del successo dell’evento ideato assieme suo padre, “Bollicine mon amour”, giunto alla sesta edizione. E’ un punto di riferimento e di incontro per gli amanti dello champagne: non a caso si svolge nei pressi di Parma, la città di Valentina e, guarda caso, la città con il più alto consumo di champagne pro capite. Di se stessa parla raramente, ama lavorare con poche chiacchiere, anche se forse questo è l’unico piccolo appunto che le possiamo muovere, dovrebbe osare, proporsi e parlottare di più perché conquisterebbe il mondo intero senza alcuna fatica. Piccolo elenco dei suoi prodotti: Guy de Forez, Jean Pierre Legret, Champagne de la Renaissance, Gustave Goussard, Collard Chardelle, Fresnet Juillet, Louis Huot. Maison di nicchia, per palati esigenti e delicati, per dei veri conaisseurs.
Porteno
Seducion argentina
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ntrigo sentimentale a tavola, pasiòn argentina nel centro di Milano. “Mi porti al Porteno?”. Lo chiedono spesso le donne con la voce suadente e la classica arte della seduzione che sanno far propria quando desiderano veramente passare una serata che lasci il segno, che rimanga impressa. Il motivo è semplice, il ristorante aperto qualche mese addietro di fronte all’Arena, laddove prima ci si andava per un aperitivo chic, al Shiddarta, fa davvero faville, per l’atmosfera caliente e per la carne succosa e squisita. “Rispetto agli altri ristoranti argentini noi pratichiamo un altro sport”, scherza sorridente Alejandro, uno dei tre soci, l’uomo che va alla ricerca della miglior entranas, del lomo più favoloso che si possa servire ai 270 clienti giornalieri. “Acquistare la carne è un po’ come giocare in borsa, ogni giorno vai a scovare l’affare, il miglior produttore, cerchi di sorprendere e di prendere alla sprovvista la concorrenza, è un mondo spietato dove vince chi ha la tempra per osare. Abbiamo 170 posti e giriamo i tavoli quasi sempre. E’un numero
spaventoso, lo so, però c’è poco da fare, il posto attira ogni sera gli amanti della pampa, della carne e di un luogo che sa trasmettere quel calore che ti fa sentire a casa tua”. “Benvenuti in Argentina”, continua Alejandro con modi teatrali e un irrefrenabile ottimismo. “Abbiamo creato un posto che possa far sognare, che sprigioni seduzione, il classico fascino letale della nostra terra”. Non sono parole casuali, non c’è esagerazione alcuna: la conferma sta nel vedere come ogni sera è assolutamente impossibile trovare un tavolo se non hai prenotato un paio di giorni prima. Ci sono spazi aperti, poi alcune salette riservate, angoli per gli innamorati, altri per compleanni e feste di ogni tipo, il piano rialzato pare un teatro. Sei cuochi e due dozzine di camerieri si muovono con leggerezza e vivacità fra i tavoli, la carne sa di paradiso, è un colpo al cuore, si scioglie in bocca, i sapori sono ampi e avvolgenti, mentre i vini non sono da meno (vanno per la maggiore il Malbec e soprattutto il Salentein). “Piace molto ai giovani di successo e ai coloro che
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amano la vita di qualità”, dice. “Freddy Guarin, Andrea Ranocchia, Andrea Poli, Alex, Melissa Satta, Simona Ventura, Belen, la lista è lunghissima, alcuni venivano già nel nostro primo ristorante, in via Galeazzo 25, dove abbiamo costruito la nostra fama, dove abbiamo creato un mondo, quello dei portenos, ovvero la gente del porto. Daniel Baremboim è più avanti con l’età però è un cliente fisso pure lui”. Se Alejandro è l’anima del locale, il fratello Sebastian, appassionato e buon giocatore di polo, è il cervello, mentre Fabio, il terzo socio, è l’uomo dei conti, quello che sa muoversi come pochi nel mondo della movida, non a caso gestisce altri tempi della locura notturna, vedi Living, Exploit e Mark Jacobs, per citarne solo alcuni. Il Porteno funziona perché non c’è nulla di artificiale, nulla di forzato, entri e hai la sensazione di essere uno di famiglia, ti siedi e la festa comincia. Anzi, la fiesta. www.elporteno.it Viale Elvezia, 4 20154 - Milano. Tel 02 34 53 72 75.
Haus Alpina
Klosters, understatement
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hi sostiene che la stampa ha un futuro colorato di nero forse lo dice sfogliando i quotidiani italiani, di una tristezza unica. Chi invece sfoglia il Financial Times ha un’idea diversa. Potremmo stare qui a disquisire sui due mondi fino a domani, ma l’argomento non è la situazione della carta stampata bensì un resort sciistico di Klosters, ovvero l’Haus Alpina, una Penthouse con servizio completo di catering che appartiene a Nick Wheeler e la moglie Chrissie Rucker, fondatrice di The White Company, famosa azienda di accessori per la casa. Cosa c’entra il Financial Times, direte? Il sabato c’è il supplemento Weekend, dove puoi trovare articoli straordinari sul mondo del food e del turismo di lusso, articoli scritti con una tale verve da aver voglia di fare subito i bagagli e partire per le mete raccontate. Haus Alpina lo abbiamo scoperto proprio così. Certo,
conoscevamo Klosters, sinonimo di ricchezza e potere, piccola località vicina a Davos, altro luogo dove riposano e si divertono le celebrità. Ha poco a che fare con le mondane Gstaad e Sankt Moritz, niente boutique di lusso, ma solo case private quasi nascoste. D’altronde basterebbe entrare sul sito della località per farsi un’idea: “Discreet luxury yes, pomposity just for show, no. Understatement is written in Capital letters”. Non c’è bisogno di tradurre, vero? Ecco, forse per questo motivo puoi vedere il re di Svezia con il trolley ma nessuna donna rifatta con pellicce pacchiane. Haus Alpina è un resort molto atipico, nel senso che si trova all’interno di una palazzina anonima, occupando gli ultimi due piani. I coniugi lo hanno acquistato nel 2011: a quei tempi c’erano solo tre stanze da letto, ora ce ne sono sei, dove domina il bianco, la seta e le candele, tutto rigorosamente realizzato dall’azienda di Chrissie.
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Non c’è la spa, nemmeno il cinema e la discoteca privata, come si usa nei nuovi chalet costruiti a Verbier e Courchevel, in cambio qui le piste da sci sono poesia pura, difatti si viene per la discrezione e per la bellezza degli impianti. L’assenza di vari lussi è dovuta al fatto che in principio la famiglia aveva costruito la Penthouse per loro ed i quattro figli: tutti pazzi per lo sci e per i vari giochi di società, per cui non ci sarebbe stato nemmeno il tempo per altre attività. La sera tutti davanti al camino, appassionatamente, come nelle pubblicità di Molino Bianco. Sei stanze, uno staff dedicato, per una settimana costa sui 25.000 euro: ovviamente, parliamo dell’affitto dell’intero resort. Oltre alla Haus Alpina a Klosters ci sono altri tre resort e chalet di rara bellezza: Bear, Maldeghem ed Eugenia, quest’ultimo il preferito del duca di York.
Peddy Mergui Il provocatore
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pesso, forse troppo spesso, quando uno non sa più come rendersi interessante (secondo lui), inizia a tirare fuori dal cassetto delle banalità pettinate e impacchettate con dei termini tediosi come etica e altri del genere. Quelli che vogliono davvero esagerare la buttano in vacca e aggiungono altre parole ormai inflazionate e prive di significato, svuotate da qualsiasi rilevanza: responsabilità, morale e affini. Svuotate dal loro significato sono solo chiacchiere a manetta. Di recente abbiamo letto un articolo dove l’autore si è superato: parlava dei confini etici del consumatore. Addirittura! Viene da chiedersi sarà mai costui per poterci illuminare su questioni simili? All’atto pratico stava raccontando di una mostra, ironica e provocatoria, che per nostra colpa avevamo rimosso dalla mente pur avendola molto apprezzata, ai tempi. I maestri dell’ovvio sono riusciti a banalizzare perfino un’idea innovativa. Perché l’idea è geniale, come d’altronde il personaggio: stiamo parlando di Peddy Mergui e della sua Wheat is
Wheat is Wheat. La mostra dell’artista israeliano al Museum of Craft and Design di San Francisco ha come protagonista il packaging: in pratica lui immagina un supermercato di lusso dove dei semplici prodotti vengono esposti e marchiati con dei nomi famosi. Una versione moderna dei barattoli Campbell di Andy Warhol, per chi si ricorda la campagna. Così troviamo cartoni e confezioni bizzarre, come il latte Apple o lo yogurt Tiffany. Accanto vi sono uova confezionate in una scatola Versace, biscotti Dolce&Gabbana, arance Nike, sottaceti Gucci, tè Hermes e un salume Louis Vuitton, oltre alla farina Prada. Una provocazione straordinaria, un commento umoristico sulla cultura del consumatore. Tradotto, la linea che separa la necessità dall’esagerazione è sottile, spesso ci riempiamo di ridicolo solo perché vogliamo affermare (ma verso chi?) uno status. Fin qui tutto sensato, poi però ecco i professionisti della retorica da due soldi che sgomitano per dire la propria teoria irritante e sbrodolona: “è difficile per
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un designer mantenere la propria morale davanti alle richieste e agli interessi economici dei marchi e delle multinazionali”. Ah sì? Ma incassare l’assegno, pure quello è poco etico? O davanti al re denaro persino i paladini dell’etica chiudono un occhio? Magari prima lo si incassa e poi si dice che insomma, “l’ho fatto con la morte nel cuore”. Si, come no. La mostra è bella, l’idea di Peggy geniale, stop alle telefonate e ai commenti sonnolenti. Diamo a Megui quel che è di Megui, ora proviamo a conoscerlo meglio. Nato in Marocco, si è trasferito con la famiglia in Israele quando era ancora un bambino. Appena diventano maggiorenne è andato in Giappone per esplorare la cultura nipponica. Dopo aver studiato graphic design all’Holon Institute of Technology, ha fondato il suo studio di design, Talking Brands. E’ diventato famoso per la visione trasgressiva sul mondo della grafica pubblicitaria e per il suo linguaggio provocatorio. E’ un genio, tuttavia le sue idee, a volte, risvegliano i moralisti a gettone. Poveri loro. E poveri noi.
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Casa Colonial Il Delano caraibico
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na costruzione in stile coloniale, immersa nel verde, con vista oceano, vetrate immense, stanze eleganti e di notevoli dimensioni, un silenzio sontuoso e un lusso semplice che si respira ovunque. Un santuario coloniale, potremmo definirlo così. Un noto business lo ha paragonato al Delano e al Ritz: miglior complimento impossibile trovarne. “Albergo cinque stelle, servizio dieci stelle”, ha aggiunto un altro noto americano che spesso passa dei mini soggiorni qui, fra golf, spiaggia e cibo favoloso. “Styled and intimated”, concludeva un terzo, mentre accendeva un sigaro acquistato al bar della boutique hotel. Appena entrati nella hall ci siamo promessi di tornare al più presto. Arrivati al primo piano abbiamo giurato di portare qui la donna della nostra vita per una vacanza indimenticabile. Quando ci siamo seduti ad ammirare il mare, guardando dalle finestre immense, in pratica pareti interi di vetro, volevamo rimanerci per un periodo più lungo possibile e non tornare. Fa uno strano effetto alloggiare o per lo meno frequentare Casa Colonial, albergo boutique di proprietà di una delle famiglie più ricche e in vista del paese: ne sa qual-
cosa Roberto Casoni, toscano squisito arrivato qui per amore, dove ha sposato la figlia dell’imprenditore che lo ha costruito, Don Isidro Garcia. E’ lui che in veste di vice presidente esecutivo dirige le operazioni, è lui che riceve gli ospiti, parlandoci con entusiasmo di un albergo disegnato dalla moglie Sarah Garcia, noto architetto locale. Aperta a fine del 2004, l’anno seguente veniva già inserito da Condé Nast fra i cento alberghi più belli del mondo. Una costruzione in stile coloniale, immersa nel verde, con vista oceano, vetrate immense, stanze eleganti e di notevoli dimensioni, un silenzio e un lusso semplice che si respira ovunque. Gli ospiti, nella stragrande parte americani arrivati per il weekend e non solo (è di 4-5 giorni la durata del soggiorno medio), si gustano la piscina sul tetto, oppure la quiete della spiaggia privata e del parco, i trattamenti della Baqua Spa e la cucina fusion di Lucia, ristorante con una lista di vini invidiabile da qualsiasi posto stellato parigino, milanese oppure newyorkese. Non a caso pare sia l’unico del paese ad avere il triple A nella classifica del Four Diamonds. Lo chef Angel Mejia vi farà toccare il cielo con il dito:
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provare l’aragosta con riso al mango, per credere. Prima però assaggiate come antipasto il “tres viches”: tonno, aragosta e cernia marinate. Come dolce suggeriamo il majarete. Molti ci ritornano, e spesso. Segno che la qualità del servizio, peraltro da tutti evidenziata ed esaltata, sia eccelsa. Perché il target alto non perdona: al minimo errore vieni “punito” e non li ridevi più. Qui invece viene naturale, e non raccontiamo favole, trattarti meglio di uno della famiglia. Non ci siamo innamorati del bar che troneggia nel mezzo della hall: il caffè profuma di paradiso, i cocktail sono spettacolari, il tutto una chiccheria da favola. Certo, vale di più la cena sulla spiaggia, oppure i petali di rosa che riempiono i letti confortevoli, per non parlare delle vasche da bagno che ti inducono a passare ore e ore immersi e guardare il tramonto. Difficile scegliere l’aspetto che ci ha colpiti di più. Forse la piscina sul tetto. Forse la zuppa di zucca gustata al ristorante. Forse la gentilezza del personale. Potremmo continuare all’infinito senza saper decidere. Provateci pure voi. Quando tornerete fateci sapere.
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The Alchymist Praga deluxe
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tmosfera raffinata, bohemien, elegante: dimenticate Parigi, la nuova meta del romanticismo si chiama Praga. La città barocca splende sempre di più fra palazzi d’epoca e viuzze strette, ponti e castelli, caffè letterari e concerti jazz, lampadari a gas e mura color blu elettrico, piazze antiche e leggende, tetti rossi e alberghi sontuosi, gran parte di loro all’interno degli stessi palazzi antichi, alcuni costruiti nel XVI secolo. Pare il set di un film d’epoca, hai la sensazione che il tempo si sia fermato: il quartiere Mala Strana, in pratica una città nella città, è rimasto quasi intatto, restando uguale dai tempi della sua ricostruzione (dagli artigiani italiani) dopo il devastante incendio del 1541. Ci si arriva attraversando il Ponte Carlo: superate le due torri gotiche si imbocca la via Mostecka, la strada imperiale che percorrevano i sovrani prima di essere incoronati. Porta dritta verso il cuore di Malà Strana, dove si vive ovunque quell’aria leggera tipica degli anni trenta, popolare e aristocratica allo stesso tempo. E’ il quartiere dei caffè e delle birrerie ma anche delle ambasciate che hanno la sede nei palazzi barocchi di Via Nerudova. Al numero 5 troverete Palazzo Morzin, che ospita l’ambasciata rumena: ve ne accorgete dai due atlanti
giganti che reggono un balcone. Al numero 12 c’è la “Casa ai tre violini”, dove vissero tre famiglie di liutai: la leggenda narra che nelle notti di luna piena si senta ancora un violino suonare. Al numero 20 c’è il Palazzo Thun, sede dell’ambasciata italiana, il leone d’oro del numero 32 accoglie chi vuole visitare il Museo della Farmacia mentre al numero 44 le inquietanti aquile nere raccontano dello spirito di una vecchia vissuta in quella casa per quasi un secolo e che anche dopo la sua morte non vuole abbandonarla. Quasi tutti i palazzi portano ancora i nomi e i simboli che si usavano nel Medioevo: unicorni, aquile, chiavi, cervi, violini. Designavano quasi sempre il mestiere di chi abitava la casa o simboli naturali e religiosi scelti dai proprietari. Mala convive con questa duplice anima da quando i nobili viennesi abbandonarono il quartiere per tornare a Vienna e i poveri di Praga vi fecero ritorno. E’ qui, nel contesto delle favole e dei racconti lontani che si trova L’Alchymist Grand Hotel and Spa: un palazzo del XVI imo secolo che prende il nome dai tempi di Rodolfo II, la cui corte si accompagnava con gli alchimisti, cercando di trasformare il vile metallo in oro.
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Le fondamenta pare siano addirittura del XIIIimo: la storia si respira ad ogni angolo, é ovunque, il lusso totale anche. Suite su due piani, camere che profumano di storia, soffitti gotici decorati, letti a baldachino, travi in legno, colori caldi, bagni in marmo e con il pavimento riscaldato, vasche gigantesche in mezzo alla stanza, dipinti provenienti dalla collezione privata del proprietario, vista sulla Chiesa di San Nicola, sale gotiche per una cena privata oppure un ristretto evento aziendale, con la Galleria degli Specchi che è il luogo ideale per organizzare un indimenticabile matrimonio. Una chicca la caffetteria Barocco Veneziano: deliziosa, riccamente decorata con stucchi e quadri d›epoca, un vero gioiello. Favoloso anche il ristorante Acquarius, con una splendida vista sul cortile e sulla fontana, recensito da Zagat e “consigliato” nella Guida Michelin per quattro anni di seguito: piatti francesi, italiani e mediterranei, una vasta scelta di pasta fatta in casa, pesce fresco e frutti di mare più l’autentico ceco, preparato con i migliori ingredienti tradizionali.
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Caffè Pedrocchi Grandeur padovana
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randeur padovana all’ennesima potenza, profumo di storia, fascino senza fine, orgoglio cittadino, ovvero Caffè Pedrocchi, luogo sontuoso che sta vivendo una seconda giovinezza grazie a Marcello Forti, grintoso, lungimirante e tenace imprenditore del settore food che ama le sfide impossibili, non a caso ha rilevato anche la Villa Reale. “Riconsegnare il Pedrocchi ai padovani”, questo lo slogan della nuova società che ha vinto l’appalto per prenderla in gestione per i prossimi 15 anni. “Ha un fascino e una centralità da poter rappresentare il punto di riferimento di tutto il Nordest”, sostiene entusiasta. Appena gli hanno consegnato le chiavi è partito in quinta, come nel suo stile. Le migliorie sono state immediate, vedi la costruzione di un nuovo spazio destinato all’alta pasticceria e la sala ottocentesca diventata un bar modernissimo. Ha ripreso vita anche la sala verde, tornata ad essere come nei progetti del fondatore Antonio Pedrocchi, che la voleva libera, regalata agli studenti. “In più, chi ottiene i 30 e lode all’università ha il diritto ad una cena gratis da noi”, ci racconta divertito.
Caffè Pedrocchi, aperto nel 1772, ha un passato fantastico e un futuro mirabolante, è il secondo luogo più visitato dai turisti dopo la chiesa di Sant’Antonio, peccato che negli ultimi anni si è svuotato fino a sembrare un posto triste e patetico, quasi abbandonato a sé stesso. Una delusione totale, per gli amanti del bello e della storia. A quel punto eccolo, Marcello Forti, il salvatore: mano pesante al portafoglio, investimenti mirati, lavori ancora in corso, ma i primi segnali sono incoraggianti, basta guardare la nuova sala, costruita laddove prima c’era il magazzino del locale. Luci, colori, piacevoli sensazioni, pasticceria e degli snack gourmet, la nuova frontiera della moderna ristorazione veloce. Il luogo dovrebbe e sicuramente diventerà una macchina da guerra dal punto di vista degli introiti, perché qui ci sono margini stratosferici di miglioramento, se si riesce a trasmettere ai padovani l’amore per la propria storia. Non abbiamo dubbi, a breve ci sarà un via vai continuo dall’alba al tramonto e perfino oltre, perché il primo caffè sorseggiato qui ha quel tocco di magia che ti fa sentire un gigante fin dalle ore del mattino. È un discorso antipatico, quello legato alle bellezze italiche lasciate morire lentamente: antipatico però male-
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dettamente vero, fortuna vuole che l’orgoglio, la voglia di urlare al mondo intero l’unicità e la magia italiana spinge le nuove generazioni di imprenditori a rischiare, semmai possiamo considerare un rischio ridare grandeur a dei luoghi di una tale imponenza e fascino Nei piani di Marcello e della sua squadra pranzare al Pedrocchi deve tornare a essere un vanto, una priorità, un must be, così come l’aperitivo chic. Una città come Padova, ricca e gioviale, godereccia e festaiola nonché operosa, sicuramente risponderà presente, vorrà partecipare attivamente alla rinascita, sentirsi coinvolta, contribuire al rilancio di uno dei propri simboli. Pedrocchi tornerà a essere il salotto esclusivo e di altissima qualità che fu per due lunghi secoli, un club dove si, gli studenti avranno i loro spazi ma dove si potrà sorseggiare una coppa di champagne ( si sussurra di accordi con le più blasonate maison, Pommery è in pole position) e dove si assaggeranno aperitivi squisiti, cocktail rari e snack gourmet, preparati da alcuni chef di prim ordine. Per ora vi suggeriamo il caffè Pedrocchi e la torta che porta lo stesso nome del locale, una Sacher con cioccolato e menta.
Magia meneghina Penthouse in galleria
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n una sera di metà gennaio, per la prima volta, abbiamo potuto ammirare la Galleria Vittorio Emanuele dall’alto. Una sensazione strana, stranissima, perché vivendo a Milano da sempre, nessuno mai ci aveva regalato la possibilità di guardare uno dei più bei monumenti architettonici meneghini da una posizione così privilegiata. Era tarda sera, per cui la Galleria si stava svuotando, ad un certo punto sembrava deserta, splendendo in tutta la sua unicità. Eravamo nella Penthouse appena aperta all’interno dell’hotel Seven Stars, 580 metri ricavati da un curato restauro laddove, da sempre, avrebbe dovuto esservi un impero del lusso che invece, per pigrizia e incompetenza, era solamente uno spazio vuoto, triste, buio, grigio, abbandonato a se stesso. Inutile guardare indietro, life is now, per cui vi invitiamo a salire, visto che sarà aperto al pubblico; ci saranno appuntamenti museali, eventi, riunioni, esibizioni, ed attività di ristorazione aperte a tutti. Ci sarà perfino uno spazio espositivo dedicato alla creazione e alla storia della Galleria, opera dell’architetto Giuseppe Mengoni. Vanno
fatti i complimenti ad Alessandro Rosso, patron del gruppo che porta il suo nome, imprenditore con la I maiuscola, uomo lungimirante e tenace, perché si sa, riuscire a gestire e a entrare in possesso di spazi storici è un’impresa, vista la rumorosa assenza di Comune e istituzioni, per nulla interessati a contribuire. La sua avventura coraggiosa è cominciata nel 2007 quando ha aperto la Town House, vista sulla Galleria e ingresso in Via Silvio Pellico, a quei tempi l’unico hotel sette stelle al mondo: fu una novità straordinaria, vissuta dai milanesi con distacco perché in pochi riuscivano ad accedere. Però chi lo frequentava restava a bocca aperta, ne diventava dipendente: una tale accoglienza raramente la si poteva incontrare altrove. Un maggiordomo personale sempre a disposizione, uno chef come Alberto Citterio che dipinge piatti meravigliosi su richiesta, vista da cartolina, silenzio: un paradiso in pieno centro. Ora si raddoppia con la Penthouse e altre sei suites, stavolta con ingresso dalla Piazza della Scala angolo galleria, poi seguirà, sempre al quinto piano, l’apertura dell’enoteca e della pizzeria super chic, tutto realizzato
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in maniera artigianale e sotto la sorveglianza dello stesso chef Citterio, milanesissimo con notevoli esperienze ovunque, dal lontano Oriente a Parigi, compreso il decennio sulla Costa Amalfitana, a La Sirenuse,Positano. La Penthouse, 450 metri quadri, è una delle più grandi a Milano e sicuramente l’unica con una vista del genere: la galleria da una parte, Piazza della Scala dall’altra. Comprende due suite da 80 e 60 metri, un grandissimo salotto e un soggiorno, poi la cucina privata. Due piani più giù aprirà il Wine Temple, la più vasta collezione di vini italiani, ben 7200 bottiglie da acquistare e soprattutto degustare assieme ai migliori salumi e formaggi italiani. Sarà aperto dalle dieci del mattino a mezzanotte e, senza dubbio, diventerà uno dei luoghi più chic della metropoli meneghina. Le novità non si fermano qui perché apre i battenti anche il ristorante bistrot, ingresso da Piazza del Duomo 21: il primo caffè lo potrete assaggiare alle sette del mattino, l’ultimo piatto uscirà dalla cucina all’una di notte. Lusso per tutti in galleria, what else?
Toy Watch Giocattoli per adulti
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Maya Chrono Black and Blue
iamo fan della prima ora del brand milanese, non ricordiamo nemmeno quanti anni siano passati dal primo giocattolo per adulti che abbiamo pubblicato: abbiamo ancora davanti agli occhi le pagine con Ophrah e Victoria Adams e le pubblicità del coniuge David Beckham sui bus che attraversano Hong Kong. Da allora non ci siamo persi una collezione, in più ci vantiamo di averne alcuni che indossiamo spesso. Siamo letteralmente affascinati dall’effervescenza creativa della maison e lo ripetiamo ogni qualvolta ammiriamo i nuovi prodotti: in più, proviamo a premiarli pubblicando i modelli che più ci sembrano attinenti alla nostra filosofia di vita, ai nostri ritmi. Ecco dunque Monnalisa, la nuova icona di design della maison, l’inedito solotempo che impreziosisce il polso dedicato alle donne dalla personalità decisa e sensuale. Per la prima volta nell’orologeria la curvatura del quadrante si sviluppa nelle due direzioni, verticale ed orizzontale, creando un nuovo effetto avvolgente. Monnalisa Black Diamond è la speciale edizione limitata arricchita dal pavè di diamanti neri che fa risaltare il design grintoso. Poi c’è il modello Maya Chrono, forme classiche e senza tempo reinterpretate da ToyWatch ovvero il così detto lusso quotidiano. Lo si trova in variante oro rosa con il cinturino in pelle lucida blu lavorata coccodrillo: richiama i dettagli del quadrante e termina con la fibbia personalizzata con la W, logo del brand. Il movimento svizzero è al quarzo, la cassa in acciaio di 42, il fondello avvitato e la corona a vite così da permettere una resistenza all’acqua fino a 10 atmosfere.
Automatic Chronograph
Nuovo cronografo nero e argento dal look di chiaro stampo vintage, su modello dell’originale Carrera creato da Jack Heuer negli anni Sessanta. Ispirato ad una delle primissime interpretazioni della collezione con i due contatori neri su fondo argento, modello di culto per i collezionisti, ha contatore cronografico a ore 9 e dei secondi a ore 3. Riporta una caratteristica unica tra le serie TAG Heuer più recenti: il réhaut è perso-
Monnalisa Black Diamonds nalizzato con scala telemetrica, vecchio strumento a disposizione di militari per misurare la distanza dei fuochi dell’artiglieria – il telemetro misura la distanza tra l’utilizzatore e qualsiasi punto del campo visivo sulla base della velocità del suono. La chiusura del cinturino è incisa con il logo retrò, che personalizza anche il quadrante. Per rafforzare l’identità vintage, il quadrante è protetto da un vetro zaffiro spesso e convesso, effetto cassa sottile
Tag Heuer Spirito Vintage Carrera Calibre 6
Il nome si ispira agli anni cinquanta, al Carrera Panamericana, corsa ambitissima di endurance che attraversava il Messico in cinque giorni, per un percorso di 3.300 chilometri. Il nuovo Carrera solotempo è un tributo all’originale look del primo Carrera del 1963 alimentato dal movimento meccanico certificato COSC Calibre 6, con una riserva di carica di 44 ore e decorazioni “Côtes de Genève” sulla
massa oscillante. Solotempo argento e blu con un tocco di rosso dall’appeal Sixty sul logo e sulla lancetta dei secondi, il contatore blu dei piccoli secondi che riprende il cinturino vintage in pelle traforata, il logo Heuer sulla chiusura, insieme al blu, argento e rosso dei colori che conferisce al nuovo orologio Carrera un look retrò decisamente elegante. Il vetro spesso e convesso come sui Carrera dei Sessanta è un’ulteriore conferma dell’ispirazione vintage.
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Alessandro dell’Acqua Sfumature orientali
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on avevamo un’idea precisa su quello che andavamo a visionare. Però il luogo era a portata di mano, il loro ufficio stampa è composto da persone in gamba che vale la pena passare a salutare, a prescindere dal mero interesse personale. Non conoscevamo bene il mondo di Alessandro dell’Acqua, non sapevamo cosa aspettarci: forse per questo l’impatto è stato così forte. Appena entrati ci siamo esaltati davanti ad almeno cinque giacche: di sicuro faranno parte della nostra guardaroba futura, visto che si tratta di collezioni non ancora in produzione. Un misto di eleganza, irriverenza, dandysmo, qualità dei materiali. Fino a quando sarà possibile vederli esposti (è presto perfino per poter pubblicare le immagini) ecco la collezione primavera estate di quest’anno: temi intriganti e da sempre fonte di ispirazione, vedi l’Oriente e la
Cina. Mondi lontani e quattro colori che si esprimono in quattro temi dalle diverse gradazioni cromatiche. Si inizia con il Bianco Nero, il tema più grafico, dove le linee austere e gli effetti acquerellati degli ideogrammi creano silhouette di grande modernità. Linee incrociate, colli a vestaglia o a listino si accostano a giacche e camicie dai volumi più morbidi. Allacciature nascoste o a gancio per capi puliti come fossero uniformi orientali. Poi il Blu China come la ceramica cinese e le sue innumerevoli sfumature di blu. Qui l’anima dell’Oriente incontra il cuore dell’Europa, con riferimenti alle celebri porcellane di Meissen di tema orientale. La t-shirt e la camicia diventano protagoniste con grafiche dall’aspetto invecchiato e dalle proporzioni accentuate. Non solo macro disegni, ma tante micro fantasie
coordinate per giacche e pantaloni. Segue il Rosso lacca, il rosso brillante accostato alle calde tonalità dei beige e dei sabbia che si propone su “righe materasso” personalizzate da ideogrammi che simboleggiano la fortuna. Righe severe si contrappongono a decori più elaborati ispirati dai tappeti antichi, dove il bianco ottico fa da collante ai colori di tema e di collezione, come in un contesto di raffinatezza tutto orientale. Si conclude con il Verde bamboo, ovvero il verde in sfumature diverse, accostato al blu cupo e reso squillante dal bianco ottico. Diventa protagonista in un tema dove i motivi ornamentali della natura – fiori, foglie, rami – reinterpretati in chiave pittorica si evidenziano su t-shirt e camicie. Intrecci botanici di grande abilità e sintesi, tanto da essere scambiati per elementi geometrici.
Filosofia Doucal’s D funzione.
oucal’s, ovvero l’intuizione di intercettare la necessità poi divenuta tendenza, scambiando i ruoli del formale e dell’informale con interpretazioni stilistiche mutate di
Più concretamente, nel formale ha immesso energia vitale, colore, entusiasmo e vena creativa sdoganando per sempre le suole colorate e leggere , attitudine marcatamente appartenente alle sportive sneakers dei grandi marchi delle “white shoes” americani. Nell’in-
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formale, viceversa, ha puntato su colori più seri e stili meno casual, su pellami più ricercati e tipici delle “formal shoes” inglesi. Nelle immagini, da sinistra, il mocassino penny, quello veneziano e l’oxford con puntale.
Eden Roc
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Paraiso caribeno
artolina dominicana, uno dei posti più amati da italiani e americani, con il mare di una bellezza che lascia senza fiato, campi da golf assolutamente favolosi, resort e ville hollywoodiane, aragoste alla griglia e sigari, donne splendide e atmosfera magica. È proprio qua, a Cap Cana, che nasce Eden Roc, hotel boutique ispirato alla riviera ligure degli anni sessanta, stile mediterraneo e influenze spagnole. Situato in una posizione strategica, a pochi minuti dagli altri percorsi golfistici, incollato al Punta Espa-
da, meraviglia firmata Jack Nicklaus con i green a dir poco perfetti, uno di quei campi dove giocheresti ogni giorno, con buona pace dei coloro amano cambiare spesso, quando si trovano in vacanza. Per molti versi ricorda Teeth of the Dog, una delle magie del mondo del golf firmato Pete Day, fra l’altro distante un’ora. Un must play, uno dei più belli realizzati da Nicklaus, che non a caso viene considerato fra i primi nella zona dei Caraibi, spesso anche dell’intera America Centrale. Dove la natura incontra la leggerezza, sta scritto
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sull’opuscolo del resort che è più un villaggio, anche se la sostanza non cambia: 34 ville che per esigenze di marketing vengono chiamate suites (hanno da una a quattro camere, alcune di loro con addirittura due piani, vedi Black House e Golden Shell, che propongono anche il personal chef e il butler), le 18 buche di cui abbiamo appena parlato, la marina, un paradiso vista mare disegnato dai milanesi Marina Nova e Carlo Belgir con il tocco caraibico di Franc Ortega, uno stile mediterraneo anni sessanta tipico della riviera francese, un revival pieno di colori e di un lusso estremo. Soffitti alti, travi in legno, immense vetrate, colori tenui, accessori moderni: in più piscina privata con gazebo, doccia a pioggia e zona benessere all’aperto, vasche da bagno in pietra corallina con idromassaggio in marmo, uso esclusivo di un golf cart per accedere facilmente a tutte le attività all’interno del complesso, sistema di intrattenimento completo a tecnologia avanzata con diffusori Bose effetto surround, colazione all’americana servita tutti i giorni al Ristorante Mediterraneo (lo chef, Gianluca Re Fraschini è italiano), iPad con tecnologia intelligente per regolare la luce e la temperatura, televisore e sistema audio tramite un’applicazione apposita, televisori a schermo piatto LCD da 42 e 55 pollici con canali satellitari nelle camere da letto e negli spazi soggiorno, macchina da caffè Nespresso, cassaforte elettronica, minibar con prodotti di alta qualità e trasferimento privato da e per l’aeroporto internazionale di Punta Cana In più delizie al ristorante Mediterraneo (più altri quattro), spiagge mozzafiato e perfino un club per i cani di ogni ospite, ovviamente trattati come dei piccoli re. Piccolo dettaglio: proprietaria del resort è la famiglia Mazzarella, origini italiane ma di cittadinanza venezuelana.
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Londra segreta 6 club esclusivi
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ndiamo al club, siamo inglesi. E’ una regola che vigeva e valeva nell’ottocento e continua ad essere un must per le nuove generazioni. Londra è il cuore dell’impero, anche del continente, sprizza benessere e orgoglio, capitalismo e old style, per cui ci saranno sempre la voglia e quasi il dovere di presenziare, come un segno di distinzione. Rispetto al passato ci sono però delle novità, soprattutto per quello che riguarda la ristorazione, introdotta e migliorata: come sapete, in tutta Inghilterra si mangiava in maniera terribile, non trovavi nemmeno un caffè decente da nessuna parte, Londra compresa. Ora la situazione è cambiata, la capitale è diventata la metropoli dove si mangia meglio, di conseguenza anche i club privati ed esclusivi hanno alzato il livello.
Nell’ultimo numero di Esquire UK, diretto dal fantastico Alex Bilmes (abbiamo ancora in mente il suo articolo su Kate Moss, probabilmente il più bel pezzo letto su una donna), vengono presentati sei club che, secondo loro, vanno per la maggiore nella metropoli. Eccoli. The Groucho Club. Ha esattamente vent’anni di vita, fu aperto come risposta alle draconiche leggi che imponevano la chiusura dei pub nel pomeriggio. I proprietari sono un gruppo di pubblicitari e procuratori, così si spiega l’atmosfera easy, per nulla gommosa e pretenziosa. Matt Hobbs, uno dei fondatori, risponde così quando gli viene chiesto come si scelgono i nuovi soci: “Ci chiediamo se la persona potrebbe portare qualcosa di nuovo e se ci farebbe piacere sorseggiare un drink assieme a lui”. Se ci possiamo permettere un osservazione,
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aggiungiamo che noi conosciamo davvero poche persone interessanti a tal punto. www.thegrouchoclub.com L’Escargot . Dopo un lungo lavoro di restauro è tornato ai fasti di una volta, tutto merito di Brian Clivaz, probabilmente il ristoratore più abile nella panorama londinese. Aperto nel 1927, è stato il posto più ambito negli anni ottanta, quando tutti volevano un tavolo qui. Si trova a Soho, zona bohemien per eccellenza, per cui l’ambiente è rilassato, senza alcun dress code imposto. Al piano di sotto si possono gustare dei piatti tipici francesi, al piano terra invece troverete il classico club con sale per cenare. www.lescargotrestaurant.co.uk 5 Hertford Street. Aperto solo tre anni addietro da uno degli uomini più forti nel mondo della vita notturna, Robin Birley (ex patron di Harry’s Bar, The
Ivy e Le Caprice), vanta già una lunghissima lista di attesa. Ovviamente per diventare socio dovresti essere presentato e inserito, l’aspetto interessante sta nella scelta dei new entries, nel senso che si cerca di mantenere un equilibrio fra uomini e donne: solitamente si presta più attenzione ai maschi, per definizione il club è roba loro. Qui invece no, forse perché al piano di sotto si balla pure e ballare fra uomini non sarebbe un bel vedere. Bar e ristorante di buon livello, l’ambiente di sicuro è notevolissimo. La privacy garantita a tal punto che il club non gradisce nemmeno la richiesta di fotografie da parte dei media: “Siamo una struttura esclusiva e privata, per cui non ci interessa comparire”. Ok, ne prendiamo nota: la foto però la pubblichiamo lo stesso. www.5hertfordstreet.co.uk The In & Out. Fondato 153 anni fa, creato e aperto per gli ufficiali della marina militare, pure oggi è frequentato dagli alti ranghi dell’esercito e dintorni. Ovviamente i civili sono ben accetti se condividono i valori del mondo rigido e austero dei militari. In più, l’etichetta va mantenuta: obbligatoria la cravatta, niente suonerie e cellulari. Se ti squilla mentre sei nella Coffee Room devi offrire lo champagne a tutti, mentre se la disgrazia accade nel Long Bar tocca offrire il porto. Chris Hogan, il chairman, dichiara orgoglioso: “Vantiamo il campo da squash più vecchio della città, una piscina, palestra, sauna,
sala massaggi, in più organizziamo eventi di altissimo livello per aziende di prim ordine”. www.navalandmilitaryclub.co.uk The Club at the Ivy. Fernando Peire ,il direttore, va subito al sodo: “Qui si viene per fare affari e per divertirsi ai nuovi eventi”. Ovvero, l’uomo al massimo della sua espressione. Si trova a due passi dal Covent Garden e di recente si è aperto anche ai non soci, soprattutto nel weekend. “Vogliamo che arrivino dei giovani con un futuro importante, non siamo interessati a restare un club per anziani fuddy-duddies. Il nostro è un posto per gente entusiasta gestito da gente entusiasta”. www.the-ivyclub. co.uk The Arts Club. Charles Dickens è stato uno dei membri fondatori del club di Mayfair (prima si trovava nella Hanover Street, ora sul Dover). Fin dall’inizio è stato ideato per artisti e scienziati, letterati e pittori. Oggi la situazione è identica, certo gli artisti sono leggermente in affanno, in cambio si vedono esponenti di spicco del mondo dei media, della moda e della politica. “Siamo da sempre affianco ai nuovi talenti, organizziamo eventi e mostre, per questo siamo differenti rispetto agli altri”, gongola la direttrice Alice Chadwyck-Healey. www.theartsclub.co.uk
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Wakaya Club & Spa L’isola dei sogni
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acifico del sud, isole Fiji. Una delle 333 si chiama Wakaya, 2.200 acri di idilliaca bellezza tropicale, spiagge bianchissime, colline e lagune. In pratica è due volte e mezzo più grande del Central Park, per farvi un’i-
dea. Gli ospiti del resort, parte del Geoffrey Kent Private Collection, arrivano con un aereo privato, un Cesna Grand Caravan: i due aeroporti sono distanti 40 (Nadi) e 10 minuti(Nausori). La villa più affascinante é la Vale’O: 12.000 metri quadri, in collina, tre stanze da letto, campo da tennis, chef privato, la vista é da fiaba, con la Homestead Bay davanti. Qualcuno ha detto che la villa propone il comfort del nord e la leggerezza del sud: azzeccato, non a caso viene considerata la più lussuosa nella zona pacifica. Altrettanto splendente la villa Ambasador (ha la suite più grande dell’intero resort), non da meno Governor e Ocean and Garden. Il resort è stato costruito dal canadese David H. Gilmour, imprenditore di grandissimo successo. Nel 1969, assieme all’ami-
co di lunga data Peter Munk ha fondato la South Pacific Hotel Corporation, poi nel 1972 hanno comprato l’isola: in pochi anni sono diventati la catena di alberghi più importante della zona, mentre nel 1990 hanno aperto il resort (poco dopo hanno lanciato anche il real estate). La moglie di David, Jill, neozelandese, lo ha disegnato e decorato. I coniugi vivono il più possibile sull’isola, a “Sega Na Leqa”, la loro proprietà. Per il resto si dividono fra Los Angeles, New York e Palm Beach. Oggi il resort non appartiene più a David e Peter, lo hanno ceduto alla Barrick Gold Corporation. Per la cronaca, nel 2007 Gilmour ha lanciato una media company, con un nuovo concept di rivista femminile, esclusivamente distribuita online. Pochi anni dopo acquista Zinio, una delle più grosse piattaforme per riviste online, a quei tempi una vera e propria rivoluzione. Poi ha creato Wakaya Perfection, dei prodotti naturali fijiani, ideali per la dieta e per il wellness. Ma la miglior cura per essere felici rimane un soggiorno qui.
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Scatti d’autore Mangiare é godere
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i avete fatto caso? Negli ultimi anni sempre più fotografi di prim ordine hanno cominciato a mettere l’argomento food al centro dei propri progetti fotografici. L’idea piace, “tira” tanto e poi l’argomento si presta al gioco della sensualità spinta, fra tacchi e spaghetti, chef carismatici e donne affamate, fra l’arredo freddo delle cucine e le pose hot delle ragazze. Se poi hai a disposizione una giacca da chef realizzata a mano da un maestro come Angelo Inglese, viene quasi spontaneo il binomio moda e food, fashion e bellezza. Marc Evans, fotografo inglese che si ispira a Helmuth Newton, ha preso la palla al balzo, Anna Rogozhkina pure. Di lei, cosa dire ? Da Alma Ata con furore: ok, è una frase banale, anni fa i titoli sulle modelle che provenivano dall’ex impero sovietico erano scontati, quasi tutti identici. Si andava da “Ghiaccio bollente” a “Dalla Russia con amore”. Si giocava molto sul contrasto fra il freddo siberiano e le sensazioni hot che trasmettevano le modelle, quasi tutto con lo sguardo pieno di ambizione e voglia feroce di arri-
vare lontano. Sono passati molti anni da quel periodo, stiamo parlando della fine degli anni novanta: se lo ricordate era l’epoca dei calendari che vendevano centinaia di migliaia di copie, i record stabiliti della Ferilli e Canalis nessuno può dimenticarli. Pare sia passata una vita, vero? Oggi si vendono meno copie e calendari, l’internet impazza e “ruba” attenzioni, l’unica costante rimane l’interesse appassionato della gente verso la bellezza femminile, perché una modella sarà sempre ammirata, un fotografo di talento riuscirà sempre ad attirare l’attenzione e creare l’effetto desiderio, erotico e non solo. Tornando ad Anna, adora Kate Moss e sogna di scattare con Mario Testino, vive immaginando un futuro nel mondo del cinema: finora ha avuto una piccola parte in “Sapore di te” dei fratelli Vanzina, accanto a Martina Stella, Giorgio Pasotti, Vincenzo Salemme e Serena Autieri, più altri cinque corto metraggi. Ama sciare e giocare a tennis, la moda (Chanel, Burberry, Blumarine, Louis Vuitton i suoi preferiti) e la cucina toscana.
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Miroslava Duma La mafia russa
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impaticamente le chiamano Russia Mafia, perché vanno sempre insieme e hanno monopolizzato il mondo dei street fashion blog. Sono in quattro: Ulyana Sergeenko, Elena Perminova (la fidanzata del magnate dell’editoria Alexander Lebedev), Vika Gazinskaya e lei, Miroslava, Mira per gli amici, la figlia di un senatore russo. Alcuni faticano ad ammetterlo, ma il fatto che abbiano tanti follower significa che sono riuscite ad emanciparsi e a diventare sofisticate a tal punto da attirare l’attenzione di centinaia di migliaia di persone. Il cliché vuole la donna russa bella, approfittatrice e ingorda di beni materiali: sarà, ma eccola prendersi degli spazi importanti nel mondo del fashion, se non altro perché numericamente il “pubblico” è decisamente interessante per le aziende. Sono lontani i tempi della moda sovietica, il solito kitch comunista, gli abiti grigi e tristi. La caduta della vergogna rossa ha cambiato la situazione: pian piano, nei primi anni novanta, il capitalismo aveva iniziato ad affac-
ciarsi nei pressi di Mosca e dintorni per poi diventare una specie di ossessione. I media arrivati dall’occidente, soprattutto i prodotti cult, hanno subito capito che ci sarebbe da buttarsi nel business. Prima sono arrivate le edizioni russe delle grandi riviste- Elle, Vogue, Harper’s Bazaar-poi la moda stessa. Se lo chiedete ai pionieri, ai coraggiosi oppure ai coloro che hanno fiutato l’affare vi racconteranno di donne che sono passate da calze di nylon a borse di Louis Vuitton e da pullover di poliestere ai cashmere più fini, ma sono dettagli: e poi gli inizi sono traumatici ovunque. Contava l’idea di una voglia feroce di imitare gli occidentali, vivere come loro, vestirsi come loro. Ecco, vestirsi, la moda: è qui che comincia a lavorare Mira, le è voluto poco per capire che il futuro sarà in rete. Così che assieme alla sua amica d’infanzia Fira Chilieva mette in piedi Buro 24/7, un sito dedicato al fashion, arte, architettura, cinema, musica e stile. Vogue, parlando del sito, lo ha paragonato all’Huffington Post: non male. Gli affari vanno alla grande, tant’è vero che si sta
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espandendo nel mondo arabo e asiatico per non parlare del progetto di aprire dei bar con lo stesso nome. “Lavoro davvero tanto”, racconta al telefono da New York, dove ormai viene sempre invitata alle sfilate. “Sono in contatto con tante persone perché abbiamo in ballo tanti progetti pubblicitari o per lanciare dei nuovi brand. Quando è notte a Mosca qui siamo in pieno giorno, in pratica non mi fermo mai. a conciliare affari e famiglia, non è facile, vorrei stare di più con mio marito (Alexsey Mikheev, imprenditore con tanti agganci nel mondo della politica, si sono sposati nel 2005, entrambi studiavano economia e relazioni internazionali ndr) e mio figlio George, di due anni, in principio sono loro la mia priorità ma non riesco a vederli molto, ultimamente. A proposito: su Buro parliamo di moda e non di Kim Kardashian”. La lista degli stilisti preferiti é assai lunga, a cominciare da Vika, sua amica: poi Marni, Chanel, Phoebe Philo, Raf Simons, Ostwald Helgason, Proenza Schouler. Insomma, altro che poliestere.
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Igor Oussenko
el numero passato, per esigenze di spazio, abbiamo dovuto rinunciare a malincuore ad una pagina con Igor Oussenko, il fotografo che avevamo scoperto sfogliando Treats Magazine, la rivista più cool del momento. Ci siamo promessi di pubblicarle nel prossimo, cioè ora. Prima gli avevamo dedicato due pagine e ci sembrava davvero poco, adesso abbiamo rimediato, pur restando il ram-
marico di averne altre nell’archivio che dovranno aspettare (il successivo, rimedieremo ancora una volta). Rieccolo, il ragazzo di Ekaterinenburg: due scatti che ci piacciono da morire, due scatti intensi e sensuali, intriganti e sexy. Il selfie sprizza erotismo puro, la ragazza in rosso nella porta ci spiazza. La sua filosofia è sofisticata, si vede che vuole creare qualcosa di diverso: “Mi piacciono molto le forme, le geometrie, non mi basta la bellezza in se stessa,
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troppo facile scattare una donna con un fisico mozzafiato”. Igor ha un grande talento e soprattutto un grandissimo futuro. Ha come idoli Mert and Marcus, Richard Avedon, di questo passo supererà I suoi modelli. Il motto della sua vita è “I can get no satisfaction ”, come cantano i Rolling Stones. Giusta vederla così, nel frattempo noi ci regaliamo e vi regaliamo momenti di alta, altissima qualità fotografica.
Ristorante Curò Alta cucina siciliana
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torditi da tanta intensità. Siamo usciti con questa sensazione, dopo aver cenato da Curò, ristorante siciliano in pieno centro milanese, laddove per decenni fu l’impero di Bruno e il suo Garibaldi. Curò significa cuore nel dialetto isolano e, va detto, il nome gli si addice perché c’è tanto, tantissimo sentimento nei piatti dello chef Marco Misceo. Attenzione, non parliamo della classica cucina siciliana, abbondante e gustosa, barocca e opulenta: no, qui si va oltre, siamo a dei livelli alti, altissimi, quasi da stella. Siamo quasi alla cucina di ricerca, all’evoluzione della classica. Sarà un caso, ma Angelo Galasso, lo stilista che ripete come un mantra la frase “tradition in evolution”, è un cliente affezionato del ristorante, nei suoi veloci viaggi milanesi. Piace molto l’insieme di tradizione e l’interpretazione moderna dei piatti di una volta, nulla di nuovo: però attenzione, il confine è sottile, si rischia di cadere nel banale se si cerca in maniera esagerata di stupire. Qui invece no, è un paradiso, gli equilibri perfetti, i profumi nitidi, intensi, delicati. Diventa quasi un problema raccontare certi piatti
senza che il lettore li avesse assaggiati: un esempio? La caponata. L’abbiamo gustata e assaporata in una infinità di versioni, la si mangia praticamente ovunque, forse non possiamo nemmeno considerarlo un piatto da ristorante. E invece ecco la sorpresa, perché la variante proposta dallo chef tocca corde artistiche: è una espressione a noi cara, che utilizziamo con parsimonia, solo in casi eccezionali, soltanto se ci troviamo davanti ad una opera d’arte. Quando l’abbiamo vista il pensiero è volato subito all’insalata russa caramellata di Carlo Cracco, un suo piatto di battaglia fin dagli anni emergenti e rimasto ancora nella carta. L’augurio che facciamo a Marco Misceo è di avere una carriera simile e di tenere la caponata nel menù anche fra molti lustri. C’è un tale equilibrio, una tale perfezione da restare senza parole. Fossimo seduti nella sala di uno chef con due stelle non ci sarebbe nulla da eccepire, invece siamo davanti ad uno chef che finora si è “nascosto”, anche se va detto che per un intervallo di tempo ha preferito il sole di Miami alle terre nostrane. Barese di origini, ha la grande occasione di dimostrare tutte le sue qualità e di spingere sull’acceleratore, facendo capire appieno le sue doti. La coreografia dei piatti è notevole, cromaticamente
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inappuntabile, i gusti potenti e avvolgenti: si alternano profumi terreni e marini, la passione è evidente. Qui viene lasciato libero di spaziare e inventare, la proprietà lo asseconda: Manlio Drago Ferrante acquista le migliori materie prime, sua moglie Patrizia si assicura che la tradizione e le ricette di una volta siano rispettate. La signora fa sempre dei riferimenti legati al passato e alla cucina di una volta, tenendo ben in mente il famoso detto: “Non mettere mai nel menù qualcosa che non piacerebbe alla tua nonna”. Piccolo elenco degli altri piatti che ci hanno fatto toccare il cielo con un dito, dando per ovvia la bontà dei crudi: crema di zucca con gamberi (delicatissimo), pasta Cavalieri con scampi e salsa di broccoli (da urlo), pasta con vongole e bottarga (pazzesco), bucatini con le sarde (da far tremare i polsi), involtino di melanzana (il piatto forte, è l’orgoglio siciliano). Qui dobbiamo aprire una parentesi: il parmigiano 36 mesi lo usano come ingrediente quotidiano per preparare proprio l’involtino. Non ricordiamo altri ristoranti dove accade qualcosa di simile. Concludendo, lo chef ci pare ben avviato verso una carriera notevole, mentre il ristorante sta per finire l’iniziale periodo di rodaggio. Ora si fa sul serio.
Janelle Monáe Electric Lady
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ggressiva. Chic. Con una voce da urlo e un manager come Sean Combs, ovvero, Puff Daddy. Janelle Monáe, di Kansas City, ha davanti a sé una carriera straordinaria e, per la verità, è già a un buon punto. Vuole essere un’artista totale che canta, balla, recita, disegna abiti, inventa coreografie e regala visioni leggendarie a chi la segue. Non a caso si è trasferita a New York per studiare recitazione all’AMDA, ovvero, la American Musical and Dramatic Academy (inizialmente il suo sogno era Broadway). La popstar ha fretta. L’ha sempre avuta. Così come la determinazione tipica di chi ambisce al successo più di qualsiasi altra cosa. “Vengo dalla working class, mio padre era un camionista con problemi di droga. Sono una ex ragazza povera che ha deciso di svoltare senza fare la vittima, senza giocarsi la carta della cenerentola nera cresciuta in una famiglia allo sbando. Non voglio un posto in secon-
da fila, bensì tutti i fari su di me”. Già nel 2011 aveva conquistato lo scettro di reginetta del pop con il beneplacito delle riviste musicali più autorevoli. Non che contasse il loro giudizio, ma quando i gusti del pubblico vengono rafforzati dalla critica, vuol dire che un prodotto è davvero di qualità. Il suo primo album, ArchAndroid, concept album ispirato al mondo di Metropolis, città immaginaria del 2026, dell’omonimo film del 1927 di Fritz Lang, è ricco di citazioni dal mondo della fantascienza. È chiara l’influenza della band Funkadelic, gruppo funk-rock statunitense degli anni 70, che ha inventato il mix fra musica funk e suoni psichedelici. Il suo film preferito è Blade Runner, che è stato tratto dal romanzo di fantascienza “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?” di Philip K. Dick. E per finirla con i paragoni e le ispirazioni, da notare che parte dei suoi testi sono legati al mondo di Star Trek e che perfino Debussy e Hitchcock vi han-
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no contribuito. “Sul palco non sale Janelle ma Cindi Mayweather, il mio alter ego”, dice. “È il personaggio di fantasia protagonista di tutte le canzoni del mio album. Diciotto brani pensati come un viaggio nella fantascienza, il luogo dove mi rifugiavo per elevarmi dallo squallore quotidiano”. Il primo a essere entusiasta della sua musica è stato Prince, racconta Janelle: “Mi ha detto di non seguire il branco che canta di cuori spezzati, di pensare in grande così la massa mi seguirà, docilmente. Ha aggiunto che era da anni che non ascoltava una musica universale, un sound che elevava lo spirito”. Prima di decidere i brani da includere nell’album, Janelle si è dedicata a una ricerca folle: fermava la gente per strada e chiedeva loro che tipo di musica avessero nell’iPod. Risultato? “Ho scoperto che tutti ascoltano di tutto, da James Brown ai Nirvana, così ho registrato un cd per la Generazione 010, gente che nella stessa playlist ascolta Lady Gaga e i monaci del Tibet”.
Azealia Banks Harlem Girl
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arl Lagerfeld, come sempre, aveva visto lungo: la ragazza ci sa fare. Lei, dal canto suo, ha ripagato la fiducia, con gli interessi. I fatti: lo stilista chiede alla cantante di esibirsi nella sua reggia parigina nell’occasione del portale www.net-a-porter. Da canto suo Azealia si rende conto della grande occasione e gioca d’attacco: si tinge i capelli di verde e blu, indossa una giacca chic. Il risultato? “Mentre cantavo la gente, ammirata, twittava all’impazzata dicendo che sembro una sirenetta black”. Aggiungiamo: si aspettavano la classica tamarra uscita dal ghetto, ingioiellata e vestita di cattivo gusto. Da lì in poi, il delirio: la chiama Nicola Formichetti, regista che gravita attorno al mondo di Lady Gaga (le due hanno la stessa casa discografica, Interscope). “Per il video di Liquorice”, racconta Azealia, “mi ha proposto una mise a base di top e mini short in stile american flag, tacchi stratosferici e una mazza di baseball in mano”. Il risultato è a dir poco notevole, anzi, ve lo consigliamo, il video. 3 minuti e 48 di bellezza selvaggia, adrenalina pura, un corpo statuario. Idem nel Yung Rapunxel, dove
cavalca addirittura un toro: pazzesca. Non ha perso quella determinazione tipica di chi arriva dai bassifondi e in più la conserva nonostante il successo e la gloria: le luci della ribalta, i soldi e il Manhattan non l’hanno imborghesita, non si è trasformata in una sciura bon ton che vota democratico. Ha ancora lo spirito della street girl con la testa però sempre ai soldi, non a caso all’inizio si esibiva con il nome Miss Bank$: ammettiamolo, una trovata geniale. Era il 2009, i tempi dei suoi brani d’esordio, tipo Gimme a Chance. Va detto che il suo è un successo costruito, voluto, sudato: fin da piccola si è messa a studiare recitazione, teatro, canto. Per una ragazza cresciuta con la madre e le due sorelle (il padre morì quando lei aveva due anni) è quasi un’impresa, se non una favola. Volendo forzare un po’ la storia, possiamo parlare di una predestinata, visto che a 10 anni si è esibita a Lower Manhattan in un musical off-Broadway. La rapper di Harlem ha sbancato. Da quando ha girato e pubblicato sul suo sito web il videoclip del brano 212 (6 dicembre 2011), sessualmente esplicito, la sua carriera
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è stata in discesa. Il brano ha ricevuto gli apprezzamenti della critica (Kanye West fra loro) ed é stato selezionato come ‘Disco della settimana’ dalla BBC Radio 1 dal DJ Nick Grimshaw, posizionandosi nono nella classifica delle miglior tracce del 2011 di Pitchfork. Le labbra carnosa, la voce, il fisico hanno fatto il resto: ormai domina il mondo del business. Carismatica, spregiudicata, arrogante quanto basta, Azealia sa come maneggiare i media, i fan, il mondo della musica. Quando parla delle sue fonti d’ispirazione è attenta a nominare cantanti di vari epoche, per attirare l’attenzione di tutte le fasce del pubblico. Tradotto: sa pure arruffianare la gente, ma tutto è lecito nel business. Per la cronaca, ecco l’elenco delle sue influenze: cita come prime ispirazioni le canzoni delle Destiny’s Child e di Aaliyah, poi la sua adolescenza ascoltava gli Interpol, i Bloc Party e i Futureheads, e nomina pure Eve, Remy Ma, Lil’ Kim, Nicki Minaj, M.I.A. e Santigold come alcune delle artiste femminili che l’hanno ispirata. Ovviamente ci voleva anche il grande nome del presente, del mondo maschile, per cui non poteva non elogiare lo stile di Jay-Z.
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