Editoriale
Un mondo di sognatori
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Rewind. Inizio agosto dell’anno scorso: da qualche parte nelle Langhe c’è uno chef assai promettente. Mi informo su di lui, guardo le foto dei suoi piatti, scattate da Bob Noto e decido di andare e farmi stupire. Mi accoglie una ragazza che si occupa delle loro pubbliche relazioni e, ad un certo punto, mentre passeggiamo all’interno del resort, le chiedo se, come cliente, le piacerebbe tornare in un posto del genere. “Si, mille volte”, ha risposto con quel suo sorriso caldo e delicato, camminando leggera e felice. Da quel momento tutto è cambiato: pare una follia, però mai avrei pensato esistesse una donna del genere. Suona da liceale maldestro o da innamorato perenne, lo so: l’avessi letta da qualche parte, oppure sentita raccontare da un altro, avrei riso a crepapelle, oppure avrei fatto una smorfia di disappunto. Comunque, per la cronaca, fu una delle ultime volte che la vidi. A quasi un anno di distanza, confermo senza alcun dubbio: era una favola, più di una favola. Di sicuro, nella vita ne incontri al massimo due di donne come lei, se sei fortunato. Qualche giorno fa, quasi un dejà vu: vado ad Alba, dove brilla un giovane chef, Michelangelo Mammolati, 30 anni e già un curriculum imponente, fra esperienze da Ducasse e Robuchon, Michel Bras e Pierre Gagnaire, partendo dall’Albereta ai tempi di
Gualtiero Marchesi. Il resort è quasi identico, la zona anche, mancava solo lei. L’anno scorso, lo confesso, fui davvero scosso dalla sua bellezza raffinata e dai suoi modi felpati. Quel giorno decisi di realizzare una copertina come nessuno aveva mai osato fare, mettere il suo nome sulla cover, assieme ad altre parole che segnano e marcano in maniera forte la mia vita: passione, magia, sogni, eleganza, seduzione. Fu probabilmente il giorno più carico di emozioni e sensazioni, perché se è vero (ed è vero) che siamo quello che creiamo, allora la copertina di GOOD LIFE era il manifesto totale della mia vita: lei compresa. Non la incontro da molti mesi, però al La Madernassa era come se il tempo fosse tornato indietro, quasi mi aspettavo di vederla passeggiare come un capriolo. Sarà stato un caso, ma alla cena venne anche Bob Noto, che ovviamente immortalò le pietanze dello chef. Fatto uno più uno capì che era il momento per un’altra copertina su di lei, per lei. Solo per lei. Il mondo della ristorazione si presta ed offre spunti e cornici ideali per noi sognatori: viviamo nella nostra dimensione, spesso lontani dalla realtà, sperando che alcune volte si avveri quello che tanto desideriamo. Vale anche per gli chef, che si svegliano con la fissazione e l’ambizione feroce della stella. Un mondo di folli, d’accordo, ma per questo riusciamo a far sognare pure gli altri.
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di Dominique Antognoni
Sommario
Good Life Food is art
Enrico Cerea Una saga tristellata pag. 06
La dea di Lecce Alessandra Civilla pag. 10
Misha Sukyas L’alchimista pag. 14
Benoit Violier Grazie, mago pag. 18
Massimo Bottura Un piatto per Xacus pag. 20
Camilla Baresani Sbafatori americani pag. 28
Joe Bastianich Restaurant Man pag. 30
Fabrizia Meroi Laite, Sappada pag. 36
Good Life dominiqueantognoni@yahoo.it
Aurora Mazzuchelli Una chef rock. Molto rock pag. 38
Andrea Aprea Il tortello magico
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n gigante. Letteralmente un gigante. Un fiume in piena, perché ha una energia pazzesca, per non parlare della sua immaginazione devastante. In più, padroneggia le tecniche in maniera eccelsa. Andrea Aprea, una stella Michelin, si merita appieno la seconda, basta assaggiare il suo tortello cacio pepe ed erba pepe per convincersi, gliela daresti seduta stante: la farcia di pecorino, che al momento della cottura diventa liquido, è puro sballo, diavoleria, intrigo gourmet. Un’esplosione di gusto impossibile da raccontare, quasi un trucco da mago. Anzi, è magia (per essere pignoli e completi, sopra il tortello si aggiunge una scaglia di pecorino, poi cipolla caramellata ed erba pepe). Nicola Ultimo, sommelier di Vun e compagno di giochi
gourmet di Andrea, non ha dubbi: Il tortello lo abbinerei ad un Cruara Borgo Giulia Bianco: eccezionale”. In tanti si aspettavano di vedergli attribuita la seconda stella: lo sostenevano soprattutto i suoi colleghi. “Se la guida Michelin deciderà di premiarmi bene, sennò pazienza. Io vado avanti per la mia strada, se si è sereni riesci a trasmettere la passione anche nei piatti. Alcuni vivono con l’ansia della guida, altri impazziscono per 365 giorni l’anno: è una follia. Vivi il tuo lavoro con tutto l’amore del mondo, il resto arriva di conseguenza”. Solare e pragmatico, da vero napoletano, anche se qui iniziano i malintesi: si aspetta da lui una cucina prettamente partenopea, quasi che fosse
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impossibile proporre altro. “La mia è una cucina italiana contemporanea, tradizione e innovazione”, racconta. La passione gliela leggi negli occhi, è adrenalinico, elettrico, impaziente di sapere la tua opinione sui piatti che ti propone. Ha l’argento vivo addosso, è un leader nato. “Prima di venire a Milano, all’Hyatt, sono stato ovunque: Napoli, Londra, Ravello, Kuala Lumpur. Heston Blumenthal mi ha cambiato la vita: le sue provocazioni, il salmone alla liquirizia soprattutto, hanno toccato corde impensabili. Tornato dal Fat Duck, ero pronto per il grandissimo salto”. Salto compiuto al timone di Vun ( è qui già da cinque anni): come dicono gli americani, the best is yet to came. Il meglio deve ancora arrivare.
Enrico Cerea
Foto: Monica Cordiviola
Una saga tristellata
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hiamiamolo tempio, perché lo é. I motivi sono tanti, a cominciare dalla soggezione e il rispetto che incute. Arrivi a Brusaporto e, prima di entrare Da Vittorio, per prima cosa ti assicuri che hai i capelli in ordine ed i vestiti impeccabili, perché non vorresti mai fare brutta figura nel ristorante della famiglia Cerea, tre stelle Michelin da una vita. Venirci è un evento, ti metti l’abito della domenica, ma soprattutto sai che il giorno dopo ti sveglierai con la voglia di ricordare ogni momento e boccone. Guardi i piatti e ti senti invaso dal desiderio, sono pittorici, strabilianti, sembrano dei dipinti, impediscono la conversazione, il menu è sentimentalismo puro. In più, si percepisce una straordinaria atmosfera, ebbrezza di alta, altissima cucina, la sensazione che tutti, dai clienti al personale, sembrano felici di trovarsi lì.
Quando ci siamo seduti a chiacchierare con Enrico Cerea erano le dieci del mattino, ovvero il periodo della giornata dove si prepara tutto e quando il telefono dello chef è a dir poco rovente: fornitori, giornalisti, aziende, per sonaggi di prim ordine. Impressionante, davvero. Come si sente di prima mattinata uno chef tristellato? Come uno chef qualsiasi: oberato da impegni e con l’unico pensiero di dare il meglio di se stesso. La spinta che viene dall’interno ce l’hai sempre, altrimenti chiudi e cambi mestiere. Forse pare una risposta banale, ma non lo é. Una volta disse che un piatto fatto bene ti deve mancare. Sapesse quanti clienti e amici ce lo dicono: “Siamo stati da voi quindici giorni fa e da allora non facciamo altro che sognare i piatti”. Come possiamo caratterizzare la sua cucina?
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Elegante e opulenta. Ricca e nobile. Tre piatti che rappresentano davvero tanto per lei. Ovviamente il più importante è il pacchero con grana padano, pomodoro e basilico: è un piatto sviluppato prima dal mio padre, poi io ho solo cambiato il modo di fare la salsa, all’apparenza semplicissima. Abbiamo dei clienti che, appena atterrati, prenotano la cena e ci dicono che mentre erano in Giappone sognavano il nostro pacchero. Poi metterei lo shabu shabu di scampi, già in carta da una ventina d’anni e come terzo metto la pasticceria, in primis il nostro tiramisu. So che ci sono delle perplessità sui dolci creati dagli chef e posso anche essere d’accordo, ma fino ad un certo punto: ad altissimi livelli, come qui da noi, non c’è alcuna differenza fra un secondo e un dessert, uno chef tristellato deve saperlo fare. In quanti siete in cucina?
25, perché abbiamo un menu molto ricco: siccome ogni piatto deve essere realizzato in maniera eccelsa, abbiamo bisogno di tante persone. Ci sono gli appetizer, la carne, il pesce, i crudi: tutti piatti elaborati, con le migliori materie prime, di conseguenza ognuno merita un trattamento speciale. Come si sceglie i collaboratori? A naso. Il cv mi serve solo per poterli contattare, poi una volta davanti a me mi fido delle sensazioni. Ovviamente, scarto subito quelli che mi chiedono quante ore si lavora e l’entità del compenso. Mi piacciono invece quelli con un atteggiamento rilassato, guardo sempre nei loro occhi. Per lavorare e durare qui da voi cosa ci vuole? Deve nascere quel feeling, è difficile spiegarlo: il sacrificio insieme, il piacere della fatica porta ad una amicizia vera. Abbiamo avuto persone che sono state con noi 30, 35 anni.
Piccola rassegna delle attività. A St.Moritz abbiamo rilevato un ristorante che non lavorava più di tanto, all’interno dell’hotel Carlton. Già al secondo anno stiamo stati premiati preso una stella, mentre la guida Gault Millau, autorevolissima in Svizzera, ci ha dato un voto altissimo, 18/20. Siamo già un punto di rife-
rimento in Engadina, ci considerano fra i primi tre ristoranti. Ora partiamo con una consulenza a Singapore, mentre il rapporto con Gallia va davvero bene, siamo davvero contenti. Tocchiamo ferro, però ci ha mai pensato Mezzi paccheri con verdura e fonduta di robiolina servita ai tre latti
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Foto: Monica Cordiviola
Il piccione viaggiatore
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Paesaggio marziano
cosa succederebbe se perdesse una stella? Sarebbe un dolore atroce, uno smacco terribile. Mettiamo tantissimo entusiasmo, non so come reagirei, di sicuro non vivo in maniera tesa il fatto di avere tre stelle. La prima l’aveva presa suo padre, vero? Si, la seconda invece è stata mia, una so ddi sfazione straordinaria. Ricordo che ero all’estero, quando salì sull’aereo lessi l’articolo sull’assegnazione delle stelle: mi sono messo a sorridere a 32 denti. Cosa racconta, la guida Michelin? Per essere pragmatici, ti amplia il raggio di azione, aumenta le possibilità per contratti e aperture. Poi c’è l’aspetto strettamente professionale, la soddisfazione di essere fra i migliori al mondo. Quest’anno Da Vittorio compie 50 anni: ci sono dei festeggiamenti in programma? Ovviamente: con i dipendenti faremo una gita in una cantina famosa, mentre con i clienti più affe zionati vogliamo organizzare una cena a scopo benefico. Proviamo a definire il suo padre con una parola. Brillante. Un uomo tutto d’un pezzo. Sua madre, invece? Una santa donna. Passiamo ai fratelli: Francesco.
Volubile, ecclettico. Ma di cuore. Barbara. Lei è più defilata, si occupa della pasticceria Cavour. Bobo. Lui è l’altra metà della cucina, spesso abbiamo delle visioni diverse, però il rispetto prevale su tutto: insieme abbiamo e faremo grandi cose. Rossella. La regina della casa: solare, super attiva, è la ciliegina sulla torta, ci completa tutti. Faber, il vostro vino: ne vogliamo parlare? E’ un vino operoso, laborioso, un cabernet da tavola, senza grosse pretese e allo stesso tempo ideale per un coniglio al rosmarino. Però il nome, Faber, racconta la nostra famiglia: sono le iniziali di tutti noi, i fratelli. Lei ha un motto nella vita? Per ottenere il meglio della vita devi dare il peggio di te stesso. Domanda marzulliana: ha un sogno, profes sionalmente parlando? Si, e sta per avverarsi. Aprire a Londra. Lei ha lavorato un po’ ovunque, assieme e accanto a degli chef famosissimi: da chi ha imparato di più? Prima di tutto dal mio padre: se penso bene è stato il mio unico grande amico. Per quello che riguarda gli altri, mi sarebbe piaciuto avere la
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genialità di Adrià: fantastico. Da Maccioni ho provato a rubare la sua capacità di conversare con le persone più importanti al mondo, in sala sem brava un ballerino per come si muoveva e il suo savoir faire. Da Heinz Winckler ho cer cato di prendere la precisione e il rigore. Aggiungo Georges Blanc, uno chef con uno spirito imprenditoriale pazzesco: a Vonnes, nei pressi di Lione, ha acquistato tutto il possibile, in pratica detiene tutto il paesino. Ci dica un personaggio che le piacerebbe avere a cena. Il Papa Francesco: visto che è argentino, dunque amante e abituato alla carne, gli preparerei del buon pesce. Cosa ne pensa degli chef che sono diventati delle star televisive? Vi faccio una confessione: quattro anni fa, prima di prendere Cracco, avevano contattato me, per Masterchef. Però si vede che non bucavo lo schermo, come Carlo. Detto questo, se arrivasse una proposta faraonica, la prenderei in considerazione. Come concludiamo l’intervista? Con una domanda e una risposta che mi faccio da solo. Per arrivare dove sono arrivato, ho sacrificato qualcosa? Si, avrei voluto passare più tempo con i miei figli, Beatrice, Maria Vittoria e Vittorio.
La dea di Lecce Alessandra Civilla
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’ un fiume in piena come poche. D’altronde, basta guardare una sua foto per rendersi conto di chi hai davanti. Deborda di passione, è vulcanica e appassionata, una leonessa sorridente con il fuoco dentro fin dalla nascita. Sogna, inventa, si preoccupa, sbuffa, resiste, fatica: senza soste, ogni giorno. E’ impossibile starle dietro e difatti nessun uomo ci riesce. “Sono assai individualista e solitaria, amo andare a briglie sciolte, si finisce che gli altri non mantengono il mio ritmo e allora preferisco restare da sola”. Parlare con lei è straordinario, anzi, ascoltarla, perché è assai dura interromperla. Si racconta sprizzando felicità ed entusiasmo ad ogni parola, rimani ammaliato. Leggere per credere. “Ciao, cosa vuoi che ti racconti? Di me o della mia cucina? Comunque tutti i miei piatti nasco-
no dalla sperimentazione e dalla mescolanza di colori e sapori. Non sono uscita dalla cucina di grandi chef stellati, più semplicemente da altre grandi chef, che sono le donne della mia famiglia, ovvero mamma, nonna e zia che da sempre si riunivano per fare pasta, pelati, tonno sott’olio. Quindi la cucina la vivo come famiglia: é un modo per sentirmi a casa anche quando non lo sono e questo mi aiuta a non sentirmi stanca, nemmeno quando lavoro fino a notte tarda. Credo che valga un pò per tutti, di sicuro vale per me quando dico che nei miei piatti cerco la vita che ho vissuto: é un continuo rincorrere di odori, sapori, consistenze che mi riportano a quei giorni tra le gonne delle donne di famiglia. Mi sento una folle quando mi racconto, perché capisco quanto strano possa essere per chi ho di fronte raccontare che la cucina è un mondo a
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sé, dove esistono i più grandi controsensi della vita, dove il caos è organizzato, dove provo, paradossalmente, ogni volta la stessa emozione nel fare lo stesso piatto cento volte. E’ una vita che non si può spiegare con una parola: é uno specchio, una cucina di testa e di pancia, in quei piatti ci sono io, Alessandra Civilla. C’è il ricordo della mia infanzia, c’è la donna che sono diventata. A proposito, sono nata sotto il segno dell’acquario, ovvero eccessi, contrasti, colori, il caldo e il freddo, il crudo e il cotto allo stesso tempo, lo stravolgimento di un alimento che si é soliti mangiare in determinati modi. Sai una cosa? Quando un cliente mangia seduto al tavolo del mio locale, pronto a giudicare in base al suo gusto personale, mi sento completamente nuda, è come se assaggiasse me, come fosse un morso diretto alle emozioni che ci ho
messo dentro. Assurdo, vero? Dimmi la verità, ti sembro una pazza? Non importa, è così che mi sento. E’ difficile spiegare perché a volte sembro strana: sono perennemente sovrappensiero, costantemente in esame con me stessa e con quelle che potrei vivere come certezze. Ed è al pari assur-
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do che qualunque incertezza o timore svanisca durante il servizio, perché la mente deve essere lucida, la mano ferma, il respiro controllato, ogni pensiero focalizzato sul piatto e la mia capacità di trovare la soluzione a qualunque problema si possa presentare, sempre al massimo. Mi auguro sempre che chiunque assaggiasse un
Made in Russia
utiniani di ferro, perfino in cucina. E’ pieno il mondo di fan accaniti, lo zar è il faro e la luce del popolo, i russi vogliono dimostrare e portare sempre il proprio apporto alla causa del paese, vedi il giocatore del Lokomotiv Mosca, Dmitri Tarasov, che indossa una maglietta inneggiando a Vladimir (sarà poi sanzionato dall’Uefa). L’embargo ha imposto agli chef di ingegnarsi e di utilizzare solo prodotti locali, una specie di chilometro zero obbligato. Niente di male, anzi, se guardiamo alla cucina di Vladimir Mukhin: il suo ristorante, aperto un anno fa, proprio nel mezzo della crisi politica, dimostra che si può andare avanti pur senza importazioni. Certo, è uno dei pochi, almeno cinquecento hanno tirato giù le serrande per via della svalorizzazione del rublo e la mancanza di materie prime di alto livello. Perché Putin non intende mollare e ogni giorno aggiunge altri nomi alla lista dei nemici da punire: dopo la UE, Canada,
Gli Stati Uniti, Norvegia e Australia, ora ecco l’Islanda, Montenegro e Liechtenstein più l’Albania. Regge qualche traffico di foie gras, prosciutto e ostriche, arrivate dalla Turchia, oppure dalla Bielorussia, però poca roba. E allora ecco l’alta cucina prettamente locale, al White Rabbit nella rinomata via Kutuzovski, al sedicesimo piano: carni, formaggi, prosciutti, trote dall’Abkhazian, ostriche dal Mar Nero, tartufi che arrivano dalla Crimea. “Se ti trovi in Russia perché non mangiare prodotti russi?”, sostiene. Non fa una piega e funziona alla grande, se pensiamo che il ristorante si è piazzato 25imo nell’ultima classifica del The World’s Best Restaurant. Mukhin, inutile dirlo, è un fan sfegatato della madre Russia (alle pareti vedi ritratti di eroi del passato) e dello zar: ha cucinato per lui in alcune situazioni. La sensazione è che i due diventeranno grandi amici e che lo chef sarà presto un eroe nazionale.
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mio piatto arrivi a capire e percepire, almeno per un attimo, i sacrifici che ci sono dietro, la passione che si accende senza pudore quando sotto le mani sento il freddo dell’acciaio dei miei coltelli. Non so se mi sono dilungata troppo, quando iniziamo l’intervista?”
Il Cuoco Universale Scatti d’autore
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’ il trend del momento: probabilmente durerà a lungo. I libri di alta cucina stanno sostituendo quelli di arte e di fotografie. Una volta andavi nei negozi chic, perfino da Armani, e trovavi un angolo pieno di formidabili volumi patinati con immagini scattate dai vari Helmuth Newton, Richard Avedon, oppure Irving Penn. Per decenni, nelle migliori librerie andavano a ruba i libri di storia d’arte: impressionismo, dadaismo, periodo rinascimentale, insomma tutto, era un piacere ed era quasi un must, averle. Adesso sgraniamo gli occhi e sogniamo sfogliando un libro di immagini di piatti ideati e realizzati da chef famosi: attenzione, non sono libri di ricette per un pubblico folto composto da zie arzille e casalinghe annoiate. Si tratta di autentici capolavori, i così detti book table: scattato i migliori fotografi, impattato gli chef del momento, bistellati o ancor più, la carta è super patinata. I prezzi, elevatissimi, com’è
logico che sia. Va detto che la fotografia gastronomica è incredibilmente difficile: i motivi sono tanti, a cominciare dal fatto che non esistono maestri e ancor meno una tradizione. Si è iniziato nel 1994, con Gambero Rosso: prima c’erano solo delle illustrazioni. In Italia ce ne sono alcuni davvero bravi, Barbara Santoro fra questi. Autrice del libro che più ci ha impressionato l’anno scorso (“Il pranzo gourmet” di Felice Lo Basso), ci racconta così il mondo della fotografia gourmet: “Va a gusti, inteso come gusti del fotografo, ma prima di tutto devi amare visceralmente il cibo: i piatti che dovevo fotografare per Felice Lo Basso mi sorridevano, mi danzavano davanti agli occhi. Io ci ho messo un anno per arrivare al tipo di fotografia che volevo. A me per esempio piace la pulizia, mentre dal punto di vista tecnico preferisco la luce che arriva dal davanti. Il primo aspetto da decidere è l’angolatura, capita che uno chef te
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la possa suggerire. E’ problematico fotografare i carpacci ed il salmone, perché sono stesi, sottili e allora devi scattare da sopra, per forza di cose. I piatti sviluppati e costruiti puoi fotografarli a 45 gradi, però va detto che i ragionamenti li devi fare molto veloce, in massimo due minuti. I più difficili da fotografare sono i dolci”. Tornando al libro di cui abbiamo scelto le fotografie, si intitola “Il cuoco universale” ed è un volume promosso dalla Fondazione Cologni nella collana “mestieri d’Arte”: è opera di Andrea Grinaffini, persona squisita e giornalista molto colto e preparato, lo leggiamo da quando raccontava di sigari e vini su Monsieur (ora è condirettore di Spirito Divino). In poco più di trenta capitoli monotematici tratteggia la sagoma identitaria della grande cucina contemporeanea (lo abbiamo copiato pari pari da Arbiter, pagina 146, numero di dicembre). Le immagini sono scattate da Bob Noto, 60enne torinese un grande gourmet oltre che fotografo.
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Misha Sukyas L’alchimista
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rano le sei del pomeriggio, più o meno. Mancavano due ore all’evento, perché la cena da Misha la aspettavo da tempo e sì, la consideravo importante: ovvero, avevo delle aspettative non indifferenti. Non lo conoscevo, a parte intravederlo nel giorno dell’inaugurazione di Spice, il suo nuovo bistrot nella zona Porta Ticinese: nonostante una folla di persone e un gran baccano, mi ricordavo benissimo certi piatti e dei sapori eccitanti, intensissimi. Erano le sei e, mentre mi gustavo un sigaro dominicano, sfogliavo pigramente riviste di alta cucina, ammirando il genio cromatico di alcuni chef. “Chissà se Misha mi regalerà momenti del genere”, pensavo fra me e me. Mi sbagliavo: lo chef andò oltre, sorprendendomi incredibilmente. Tornato a casa dopo la cena, guardai gli ap-
punti sparsi: giochi pirotecnici, quasi psichedelici. Una cucina cromatica e creativa, a tratti geniale, sempre spiazzante, testosteronica. Piatti potenti, in un crescendo continuo. La capacità di far scaturire sapori inediti dalle combinazioni proposte. Conclusione? E’ tutto accattivante, nel parco giochi di Misha Sukyas, uno di quei irriducibili romantici della cucina, uno che vive per il cibo, non a caso ha lavorato per Marco Pierre White, il più giovane della storia ad aver conquistato tre stelle Michelin. In ogni piatto c’è leggerezza e passione, ci sono consistenze e contrasti spiazzanti, quasi sempre un ricordo e un racconto personale, un misto di culture ed etnie, ovvero c’è un po’ di lui in ogni creazione che ti porta al tavolo. Esci con la certezza e la voglia pazza di tornare al più presto, ti senti felice e ottimista, ti rimane
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quel profumo lievemente affumicato che trovi in ogni piatto. Frammenti graffianti di piacere, sublimi frivolezze, sensazioni di desiderio ardente: è proprio quello che lui vuole, è proprio quello che lui é. Punta sull’erotismo, sulla sorpresa: ci riesce. Mescola risotto fritto e tuberi crudi, cioccolato bianco e tonno, maialino iberico e spezie libanesi, filetto danese e wasabi. Alcuni sono piatti che amerebbe un pazzo come Ozzy Osborne (la citazione appartiene ad un cliente affezionato), altri invece fanno parte della sua storia, vedi lo strudel di maiale. Ha lavorato ovunque, da Amsterdam (“mi chiamavano Pinochet, ma non scriverlo”) a Londra, dall’Indonesia all’Australia, con chef pluristellati che lo hanno marcato, forgiato e gli hanno insegnato parecchio: per alcuni, vedi Moshik Roth e Marco Pierre White, ha una autentica
venerazione (come dargli torto?). Padre armeno e madre milanese, un’educazione rigidissima, Misha sta andando spedito verso la piena consacrazione: assaggiando le sue magie tecno-emozionali (concetto rubato da Moshik) tendiamo a credere che il momento è maturo per il salto definitivo. Certo, il suo bistrot è un giocattolo formidabile dove tutti, dai clienti ai cuochi, dai camerieri allo chef, sembrano felici di trovarsi lì. A proposito di cuochi: accanto a Misha c’è il fido Matteo Simonato: è il suo braccio destro, l’ombra, la coscienza, oltre che il pasticciere che propone zucchero filato affumicato, lampone marinato allo zenzero e mille altre magie dolci. Però uno che ha sognato accanto a White e Roth merita e deve ambire ad un palcoscenico di primo ordine. Per fare due esempi, lo consideriamo un misto fra Virgilio Martinez e Heston Blumenthal. Sta a lui decidere la strada da prendere. Per ora, affrettatevi di andare allo Spice: però attenzione, crea dipendenza.
Moshik Roth Lo chef tecno-emozionale
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’ il grande maestro di Misha: nei prossimi numeri gli dedicheremo uno spazio più ampio, ma qui il protagonista è lo chef armeno-milanese, per cui per Moshik Roth una piccola nota di colore, quanto basta per far capire di che pasta è fatto. Lo chef israeliano, padre russo e madre rumena, creatore della cucina tecno-emozionale (iniziò tutto a Haarlem), sta disegnando con le mani ad Amsterdam, nel locale Samhoud, aperto assieme all’amico imprenditore Salem Jip Saamhoud nei pressi della stazione centrale, in uno dei quartieri più nuovi e hip della capitale olandese, comunque non lontano dalla zona rossa. Il menù è a metà strada fra poesia e pirotecnico, fra gusti puri e tecniche, sapori e idee. Brevissimo elenco: la degustazione di pesce con scampi crudi e bisque accompagnata da una emulsione di finocchio, il dim sum di gambas e ricci di mare, poi i così detti ricordi ellenici e per finire la piccola lista mettiamo The Forest, roulette dei sapori a metà strada fra terra e cioccolato con quel tocco felpato chiamato frutto della passione. E’ un locale su due piani: giù si possono gustare delle prelibatezze assolute, senza però essere cucinate (si mette l’accento sulle materie prime, vedi il Patanegra e le ostriche, senza dimenticare succosi hamburger), sopra invece impera il genio di Moshik.
Benoit Violier Grazie, mago
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luoghi comuni sono terribili e, spesso, di una idiozia suprema. Nel caso dello chef svizzero si tocca l’apogeo. I fatti: Benoit Violier, appena eletto come il miglior chef al mondo, si toglie la vita. Non passano cinque nano secondi che insorgono i saputelli: stare in vetta è stressante, fare il cuoco a quei livelli ti distrugge, come logica conseguenza si è sparato un colpo. Bravi bravi, dieci più: secondo questa logica dovrebbero tagliarsi le vene un paio di chef al dì. Ci sarebbero alcune domandine da fare, ammesso che a qualcuno possa garbare ascoltare ed eventualmente rispondere. Perché dietro al suo suicidio non possono essere intrighi e delusioni amorose, oppure una depressione causata da altre insoddisfazioni? Proprio mentre scrivevo, ecco la notizia: Benoit sarebbe stato raggirato e truffato da una azienda vinicola. Lo sostiene la rivista economica elvetica Bilan, poi copiata dal mondo intero. All’improvviso nessuno sbrodolava più teorie legate allo stress: come
per scusarsi, hanno battuto il ferro sulla truffa dell’azienda vinicola di Sion, ovvero la Private Finance Partners, la quale promise bottiglie che non consegnò mai. Benoit avrebbe rimesso più di un milione di euro: che la causa fosse questa? Vai a saperlo. Probabilmente no, o per lo meno lo spero: fra consulenze, libri (ne aveva appena pubblicato uno bellissimo sulla cacciagione) e altri introiti avrebbe potuto recuperare i soldi in un paio di anni al massimo. Più veritiera la versione dei conti del ristorante: perché va bene la fama, le tre stelle, i premi e il resto, ma se non si guadagna, siamo messi male come qualsiasi imprenditore nella stessa medesima situazione. L’unico fatto certo è che lo chef abbia messo fine alla sua vita nella casa di Crissier, per poi essere sepolto a Charente Maritime, dov’era nato e dove vivono sua mamma ed i sei fratelli: per il resto a noi interessano i suoi successi ed i suoi piatti, perché si è trattato per davvero di un genio. Paradossalmente ma non troppo, si è
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sparato dopo aver conquistato l’ennesimo riconoscimento, anche se quello più patetico: la colpa non è sua ma dei francesi, i quali, rosiconi e da sempre con il complesso di superiorità, si sono inventati un sistema per eleggere il miglior chef al mondo, in aperto dissenso e polemica con l’ormai famoso 50 Best. La così detta La Liste ha visto vincere proprio lui, Benoit, ovviamente francese, davanti ad altri 999 ristoratori. Certo, vale molto di più la conquista delle tre stelle Michelin: Violier le aveva da un bel po’. Che sia chiaro: non sottovaluto le pressioni degli chef, anzi, conosco bene il problema e soprattutto l’ambiente machista, che non ama troppo le lamentele. Si deve andare avanti nel più puro stile Spartacus: zitti e pedalare per 18 ore al giorno, spesso sette su sette. Piccolo riassunto. Nasce a La Rochelle, in una famiglia di vinicoltori, il 22 agosto del 1971: fa una lunga gavetta, da Robuchon e Benoit Guichard, Bruno Gricourt e Sylvain Knecht. Chi lo conosce sostiene che la morte di Philip-
pe Rochat, suo mentore nonché colui che lo aveva portato all’Hotel de la Ville (nel 1996), lo ha davvero toccato: era l’ex patron del ristorante e avevano un rapporto come padre e figlio. Philippe ha perso la vita nel 2015 in modo tra-
gico e inaspettato, uscendo in barca: parte dello staff, Benoit compreso, aveva lavorato con lui per più di quindici anni. “Un uomo straordinario, ci amava tutti e amava la cucina come nessuno, fu lui ad avermi portato e voluto qui”,
raccontò Violier l’anno scorso. Tre mesi prima perse la vita suo padre: provate a fare uno più uno e forse troverete il vero motivo del gesto tragico. Vite scomparse, soldi persi, pressioni: forse troppo.
Burger Wave, mon amour E
’ ormai una specie di gioiello. L’hamburger è come un anello, l’hamburgheria come Tiffany. Milano, come sempre, ha dettato la tendenza: fino a quattro anni addietro ne trovavi a stento, si ricorda solo Mamma Burgy. Poi, una valanga di polpette di carne di qualità, alta qualità. Fare l’elenco, oppure abbozzare una classifica sarebbe ripetitivo e soprattutto assai banale. Semmai pare interessante come l’hamburger è dominante perfino in tv e nelle foto dei grandi maestri. L’immagine di Gavin Bond è un cult. I programmi televisivi sono pieni zeppi di ricette che sanno di paradiso. Non più tardi di qualche giorno addietro Jammie Cunningham, comico canadese prestato al mondo della cucina ( suo il programma Eat Street) elogiava e fantasticava sul mondo succoso e goloso del cibo di strada. Faceva tappa da uno che proponeva “hamburger da infarto”. Mi son detto che qui vicino a me ce ne é uno simile, se non migliore: il Burger Wave di Valerio Sità, in Via Bertani, locale hip di fronte all’Arco
della Pace. Basta un morso per essere felice: l’hamburger ha quel colore rosa all’interno che ti fa urlare per il piacere, un piacere che possono capirlo solo gli amanti della carne e del gusto intenso, del cibo maschio e testosteronico. Ve lo consiglio davvero, il nuovo locale di Valerio, ex sommelier di Sadler. Il ragazzo sa il fatto suo, propone dei burger gourmet, premium, con carne che sa di pascolo e aria pulita, erba alta e colline selvagge. Buono e croccante il pane, strepitose le salsine, impeccabili le patate fritte al momento, pazzeschi i prezzi (5-7
euro uno). Lui va matto per il Ripper: solo Black Angus, bacon molto crispy, formaggio, uovo alla piastra, fetta di barbabietola, relish di pomodoro, mayo alle erbe. L’ambiente è molto easy, pieno di immagini, disegni e video che ti portano sulle spiagge australiane.
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Andrea Berton L’uovo di mango e yogurt sta per essere appoggiato sul teff
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Un uovo per la BMW
on è un caso, anzi. La casa automobilistica tedesca ha scelto Andrea Berton come testimonial e ambassador, puntando sull’estro, il rigore e la sua incredibile capacità di lavorare duro, sempre, ovunque, con successo. Il binomio Bmw-Berton va avanti in varie sfaccettature, fra aperture di nuove sedi ed eventi di prim ordine, destando ammirazione e conforto: la liason fra le due aziende (perché si, Berton è una vera e propria azienda) prosegue a gonfie vele, ultimo esempio l’apertura della City Sales Outlet in via De Amicis 20, a Mi-
lano. In pratica una ex concessionaria trasformata dalla casa tedesca in uno spazio dedicato alla vendita, come dedicato è stato il menu preparato dello chef di origini friulane. Oltre alle già classiche e formidabili chips di patate alla paprika, i 120 ospiti d’onore (compreso il sindaco) sono stati deliziati con la sfera zakiki, il bon bon di baccalà e altri aperitivi, fino al piatto realizzato appositamente per la serata, ovvero l’uovo di yogurt e mango appoggiato sul teff, un cereale proveniente dall’Etiopia con un apporto di carboidrati complessi,
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ricco di fibre e di ferro. “E’ stato un modo per evidenziare l’approccio green della BMW, la loro filosofia legata alla sostenibilità, all’auto elettrica”, racconta lo chef. “Il tutto abbinato ad una bollicina della Riserva Lunelli, che prediligo e scelgo sempre anche in maniera privata, non solo quando si tratta del mio ristorante, oppure di eventi prestigiosi. Perché l’evento della casa tedesca è stato davvero prestigioso, lo testimonia la presenza delle tante alte cariche e autorità lombarde, per non parlare dei momenti di arte pura regalati dagli artisti lirici della Scala, coinvolti nell’evento”.
Andrea Berton assieme all’Ad di BMW Italia, Maurizio Ambrosino
Arrital
Mobile Kitchen Bench
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’è chi fa da testimonial e chi invece vuole lasciare il segno. Dalla prima categoria fanno parte in tanti, dalla seconda una minoranza esigua: fra questi, Andrea Berton. Sarà perché Arrital ha il suo quartier generale a Pordenone (ovvero vicino alla sua terra natale, il Friuli), sarà per le affinità con l’azienda, fatto sta che fra lo chef e la Mobile Kitchen Bench è stato amore a prima vista. E’ molto più di un banco da lavoro: un vero e proprio progetto di marketing innovativo,
che si basa sull’approccio esperienziale e sul trasformare l’arte del cucinare in spettacolo a tutti gli effetti. Un progetto di “ambient marketing” dotato di piastra ad induzione e di un top a geometria variabile, ma soprattutto di ruote e quindi “mobile” per essere facilmente spostato all’interno di un locale in occasione di un cooking show. Andrea ha dettato le linee, il designer Franco Driusso, da oltre 10 anni direttore creativo delle collezioni Arrital, ha eseguito, creando il prodotto su misura per lo chef,
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rispondendo alle sue esigenze funzionali. “Il Mobile Kitchen Bench – spiega Driusso – da chiuso occupa uno spazio di 150cm, ma una volta aperto lateralmente, in condizioni di utilizzo aumenta la superficie di lavoro fino a raggiungere 230cm. Interamente realizzato in FenixNTM, un materiale nanotech altamente performante sia dal punto di vista estetico che funzionale, è dotato di una piastra ad induzione Miele di grandi dimensioni e di elementi contenitivi personalizzabili”.
Massimo Bottura Un piatto per Xacus
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ottura. Sotheby’s. Warhol. Manhattan. Postmoderno. E ora, anche Xacus. Era appena iniziato l’autunno quando lo chef tristellato andò a New York, invitato a regalare momenti di magia al decimo piano del quartier generale della casa d’aste, a Manhattan. Mattia Ferraresi di Il Foglio, presente alla cena, raccontava: “I tavoli, sobri e impeccabili, sono stati allestiti da una pattuglia di professionisti nel mezzo della galleria d’arte contemporanea, circondati da Fontana, Bacon, Koons, Hirst, Twombly, Pollock, Basquiat, Lichtenstein, opere silenziose che a tratti appaiono più vivaci di alcuni dei loro potenziali acquirenti. A veglia-
re sulle operazioni c’è lo sguardo ironicamente severo del Mao di Andy Warhol, uno sguardo che qualche giorno più tardi è stato venduto per quarantasette milioni e mezzo di dollari. Gli ospiti che sorseggiano Franciacorta mentre fanno “mingling” non sono collezionisti, sono i padroni dell’universo dell’arte, è una crème transnazionale spremuta fuori da una scena di “Back to Blood” di Tom Wolfe, e la disinvoltura di questa tribù artistica si deduce dai calzini a righe, dalle tonalità più che informali, dagli accenti britannici, dal fatto che non tutti gli uomini indossano la cravatta” Tornando a Bottura, Ferraresi lo dipinge come un regista teatrale. Forse un po’ azzardato l’altro
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paragone, che accomuna Massimo ad un generale: ci vuole altro per esserlo. Ci è rimasta impressa l’immagine del regista, però pensavamo che in tutto questo crescendo di situazioni mancasse un elemento, quel qualcosa che potesse personalizzare ancor di più il personaggio. Poi, a qualche giorno di distanza, ecco l’elemento caratterizzante: la camicia, come immaginavamo, non per lui, bensì “da” lui. Piccole differenze, sciocchezze. Sta di fatto che l’azienda vicentina Xacus ha messo in piedi un progetto frizzante e gustoso, una capsule collection di camicie “appetitose”, dove i protagonisti sono gli chef Antonio Cannavacciuolo, Pietro Leemann, Ernesto Iaccarino
Il piatto lepre nel bosco
Massimo Bottura
e, appunto, Massimo Bottura, uno degli otto tristellati italiani. Il progetto ha uno scopo nobile, finanziare la lotta contro l’anoressia e la bulimia: onore all’azienda di San Vito di Leguzzano e anche agli chef che hanno aderito. Ognuno di loro ha “regalato” un piatto, il cui disegno è stato stampato pari pari sul tessuto pregiato Albini, diventando in pratica una camicia con dei micro motivi. Se a Manhattan Bottura ha proposto la parte croccante della lasagna (“Diamo a tutti questi
newyorchesi l’esperienza di ogni ragazzino emiliano che ruba uno dei quattro angoli delle lasagne appena la teglia arriva in tavola”, raccontava al cronista di Il Foglio), all’azienda vicentina ha offerto un suo piatto memorabile: Camouflage, la lepre nel bosco. Volendo possiamo anche darvi la ricetta, sebbene sappiamo benissimo che sarebbe un colpo grosso per la vostra autostima, provare a riprodurlo. Comunque, ecco gli ingredienti, per due persone: 35 g di salsa civet, 35g di foie gras, 6g di cioccolato criollo 70%, schiuma di 2 espres-
King Redzepi Sold out a Sydney
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iù che una gita fuori porta si è trattato di un successo pazzesco. Le dieci settimane di Rene Redzepi in terra australiana hanno sancito definitivamente il dominio assoluto degli chef come le nuove star mondiali: i numeri sanno di fantascienza. Il temporary restaurant ha incassato 2 milioni solo per le prenotazioni (si è pagato in anticipo), sono stati servite 5600 persone, mentre altre 27.000 sono rimaste in attesa di avere un tavolo. In 90 secondi (si, novanta secondi, ovvero un minuto e mezzo) non c’era più un tavolo libero: esaurito tutto. Per dieci settimane, non è male. Rene si è portato uno staff di 75 fra cuochi e altro, per un ristorante di 56 coperti. Lo scontrino medio si è aggirato sui 485 dollari australiani, più o meno 313 euro, al netto delle bevande (due i menu degustazione, da 10 e 12 portate). Lo spazio allestito nella zona di Barangaroo lo hanno messo a posto in sei mesi, però ne è
valsa la pena. I media locali, senza troppi giri di parole, si sono chiesti: “E’ stato l’evento gastronomico del secolo, per quello che riguarda Sydney?”. La risposta è ovvia. Va da sé che Rene, fra l’altro grande estimatore dei prodotti australiani, è stato accolto come una super star, alla pari di Messi, Kobe Bryant, oppure Leonardo Di Caprio. Per concludere, piccolo elenco delle portate ideate dallo chef: bacche selvatiche autoctone ed alghe, Macadamia e noci di sandalo con pastinaca e muntrie, poi gelato limone e mirto con bacche di lime e fiori di finocchio, dunque oca gazza e marrone in raviolo di latte alla brace. Altro? Mollusco fragola, cardiidi, ostriche, cozze, pipi comuni condite con grasso di coccodrillo. Ananas in fiore di ibisco, panino con gelato al mango e formiche del Nord, anguria marinata. Lo spazio allestito nella zona di Barangaroo lo hanno messo a posto in sei mesi, però ne è valsa la pena. Perché sì, a volte è tutto oro quello che luccica.
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si Tierra Lavazza, sale e pepe, polvere di erbe aromatiche (essiccate e frullate), polvere di radici (topinambur e sedano rapa cotti e seccati), polvere di “Tartufo Bianco disidratato noH2O”, polvere di verdure bruciate (verdure essiccate più carbone), polvere di spezie (frullare: cannella, anice stellato, pepe nero, chiodi di garofano, ginepro), polvere di funghi (porcini essiccati), zucchero mascobado, sale alla vaniglia. Forse sarebbe più facile andare all’Osteria Francescana, nel caso voleste assaggiarlo. E magari potreste anche indossarlo.
Don Juan
Sabrosa come un beso
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robabilmente non esiste nulla al mondo di simile. Le sensazioni che vivi gustando un pezzo di carne argentina sono dei momenti di autentico sballo, stordimento totale, esaltazione infinita. Un insieme di profumi e sapori intensi, primitivi, con il cuore che ti batte all’impazzata. Godimento allo stato puro, colori e sensazioni, l’essenza della vita, quella vita piena di adrenalina e voglia di urlare di felicità. Ecco, le serate al Don Juan sono proprio così. C’è un tale coinvolgimento emotivo per via della bellezza imperiale della carne da perdere i sensi. Vieni trascinato in un mondo che profuma di pascolo e colline selvagge, di sana goduria e piaceri senza fine. Mi capita spesso di ammirare, si ammirare, la gente che aspetta in religioso silenzio il proprio tavolo, perché ogni santa sera c’è il doppio turno e le attese sono assai lunghe perfino per chi ha prenotato (senza,
scordatevi di poter cenare prima delle 23,30). Nessuno ci rinuncia, il che, per una città a tratti sclerata come Milano, è un buon segno: anzi, siamo al limite dell’incredibile. Poi mi guardo in giro e vedo un gran numero di donne, fatto inconsueto per un ristorante prettamente carnivoro, seppur trovi nel menu pietanze vegetariane (per noi nemici dei clienti problematici un colpo al cuore, però va capito l’uomo che vuole uscire con una femmina che ha deciso di passare al cibo meno succulento e, secondo lei, più sano). Tante donne perché l’ambiente è sensuale più del tanto acclamato tango: è sexy e intrigante, promette una notte frizzante. Il colore delle pareti, sangue di toro, fa il resto: l’atmosfera si surriscalda minuto dopo minuto, morso dopo morso, sorso dopo sorso. Si, perché oltre la carne preparata dall’asador Rodrigo, ti regali anche una bottiglia di vino argentino (per me roba rara, bere, però
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qui non riesco a trattenermi dal gustarlo), un Rufini Malbec che, dicono gli esperti, pare un prodotto nostrano del sud, di buona, buonissima qualità, giovane eppure intenso, non particolarmente corposo. Tutto fila liscio, con i camerieri che sembrano dei ballerini e la patron Marlene che ormai conosce la clientela uno a uno, sapendo gusti, vita e miracoli. Donna istrionica, originaria dalla fredda San Paolo però con sangue caliente e piglio imprenditoriale di prim’ordine, gestisce Don Juan assieme al marito Giorgio, comasco posato e gentile. Ogni qualvolta varchiamo la porta del ristorante di Via Altaguardia ci vengono in mente le parole sussurrate dalla modella italo argentina, mentre miagolava per il piacere: “Sabrosa come un beso”, che sarebbe saporita come un bacio. Ecco, la cena qui e’ un continuo susseguirsi di immagini calienti e pensieri peccaminosi. Life is now, Don Juan.
Julie Mechali U
Oltre lo scatto
na scoperta continua, un crescendo di emozioni, una creatività infinita ed una energia formidabile. Sono le creazioni di Julie Mechali, le fantasie e le intuizioni di una fotografa che ha elevato gli scatti gourmet ad un livello più alto, sono immagini eleganti e spiazzanti per una platea esigente, colta, a tratti elitaria. Sono immagini raffinate che destano curiosità, coreografie che ti portano apprezzare il lato estetico della vita. Alcuni sono tenebrosi, altri regalano la felicità
immediata. Ha inventato un genere, per poi riuscire a proporre molto altro, quando qualcuno avrebbe potuto pensare che si fosse esaurita la sua vena. Ha saputo guadagnarsi la platea, perché appena scatta tutti si girano a guardarla. Le sue immagini sono una specie di slow media, immediatamente riconoscibili, ironiche. Crea delle storie partendo dalla materia prima, detta così si rischia di banalizzare un lavoro mostruoso, però in fondo è vero, lo racconta
lei stessa: “Ho a disposizione tutto quello che serve ad un pittore. Una infinita paletta di colori, ingredienti vari, la possibilità di mescolarli. Sarebbe stato folle non provare a creare proprio come Michelangelo e Raffaello. Il momento più bello? Quando si mescola animale e vegetale. Nello scatto che state per pubblicare ho pensato alla creazione della materia, agli origini della vita: l’atomo, gli elettroni, i protoni, i satelliti attorno, come un’aura energica. E’ tutto cibo, quello che vedete”.
Bon Wei Cina gourmet
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ollicine di altissimo livello e dei piatti ricchi, succulenti, gustosissimi, alcuni addirittura indecenti, che ti incendiano i sensi. La pasta con le aragoste sussurra segreti e scivola sensuale in bocca, con il sapore che sboccia sul palato. Stesse sensazione per le costine che sono un must, idem per l’anatra laccata ed i gamberoni argentini. Al termine del pasto ci si ritrova allo stesso tempo eccitati e sereni, perché la cena al Bon Wei è una avventura gourmet, una esplosione di aromi con sorprendenti tocchi esotici. La mano dello chef Guoqing Zhang è decisa, ispirata, ha una forte capacità di far scaturire sapori inediti alle combinazioni proposte, propone un percorso vigoroso. Il ristorante, poi, è un gran bel locale: una settantina di posti, una clientela fidelizzata al massimo, é intenso, elegante, intrigante, chic, ti porta in una Cina futuristica. Le pareti sono
lucide, il color rosso prende sfumature diverse, le vetrate ti portano con i pensieri ad Hong Kong, oppure Singapore: standing ovation, davvero. Gran parte del merito va all’architetto Carlo Samarati, lo stesso che ha creato Jade Café e Kyoto, diventati fin da subito luoghi cult. Bon Wei è come un purosangue, una volta lanciato al galoppo diventa travolgente, hai la sensazione che la prossima volta ti divertirai ancor di più, che sarai portato in un territorio sconosciuto e affascinante, golosissimo. Il ristorante viene gestito dal figlio di Zhang, ragazzo nato in Cina e maturato in Italia: grande patito di pesce, ama particolarmente il rombo e le cotture al vapore. “Sono cresciuto attaccato al mare, per forza mi sento legato alla cucina marina, ricorda la mia infanzia: le capesante al vapore con aceto di riso e salsa di soia sono lussuria pura. A voi consiglio i gamberoni rossi d’Argentina, sbollentati con lo zenzero e con la salsa di prugne. Sono più dolci rispetto
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agli altri, li suggerisco assieme ad una coppa di Ruinart rosé. La nostra cucina, gourmet e fresca, si sposa divinamente con le bollicine, non a caso abbiamo una vasta proposta di champagne e Franciacorta. Vanno benissimo anche i bianchi profumati, aromatizzati, vedi il Yarden Galilea, poi i tocai ed i chardonnay. Lo stufato, piatto davvero hot, invece va con i rossi, li amaroni”. Zhang è ambizioso, “sul pezzo”, sa bene il fatto suo, viaggia e assaggia, si informa e degusta dai migliori: “Il filetto di cernia di Gordon Ramsey, con salsa liquida di passion fruit è straordinaria. Da lui provo a copiare il servizio: camerieri di bell’aspetto, multilingue. Di Alajmo mi piacciono molto le combinazioni fra dolce e salato, fra cotto e crudo. E poi il risotto alle fragole con gamberi di Mazzara e scampi: fiabesco, pittorico, unico”. Piccolo passo indietro: per uno strano motivo, qualche anno addietro avevo messo da parte dei
ritagli di giornali dove si parlava di un ristorante cinese diverso dagli altri, il Bon Wei, appunto. Misi da parte un articolo apparso su Monsieur e uno che fu pubblicato su Gentleman: l’ironia della sorte, Franz Botré, il patron della prima, creò e lanciò pure la seconda, per poi abbandonare il gruppo Panerai e camminare da solo. Qualche settimana fa mi sono imbattuto in una delle pagine ritagliate e sono rimasto colpito dalle ultime frasi di Yke Weng, il patron del ristorante assieme alla moglie Wang Pei. Raccontavano, i due, di non capacitarsi di come sia possibile che
a Londra i cinesi siano fra i migliori ristoranti in quartieri chic come Mayfair, mentre in Italia vengano percepiti come alternativa al kebab. Incuriosito, mi sono promesso di andarci, pur non essendo un grande fan della cucina cantonese. Ebbene sì, lo confesso: sono riusciti a farmi cambiare l’idea. Onore dunque a Yke e Wang, i quali si sono impegnati, nell’impresa per nulla facile di far ricredere gli italiani, in primis i milanesi, i più esigenti. Sono partiti con un’idea chiara, ambiziosa, ovvero far parlare del loro ristorante
così come i parigini raccontano del Mirama, i losangelini del Sam Woo ed i newyorkesi del Shun Lee: l’eccellenza assoluta. Entrambi di Zhejiang, hanno portato a Milano una nuova immagine della cucina cinese. ”Ci siamo ispirati al nuovo design delle grandi città d’Oriente, come Pechino, Hong Kong e Shanghai”: missione compiuta. Nel dicembre del 2013 la coppia ha inaugurato, sempre a Milano, Dim Sum, specializzato negli omonimi piatti di Hong Kong. Ma questa è un’altra storia: non ho messo da parte dei ritagli, però andrò lo stesso.
Identità golose U
no degli aspetti super positivi di Identità Golose è l’entusiasmo pazzesco degli chef. Vedi tristellati come Enrico Cerea che si danno l’anima per un giochino gustoso e capisci che hanno questo fuoco dentro che non li abbandona mai, mai, mai. Sembrano eterni bambini in un parco giochi, non si stancano e hanno quella luce negli occhi, un misto di esaltazione e passione, di voglia continua di far stupire e farti andare in paradiso. C’era Moreno Cedroni che preparava uno scampo delicato assieme a dei pomodorini arrosti, piattino che ad oggi continua a farmi sognare, proprio come la schiena arcuata, la pelle vellutata e luminosa di una giovane ragazza con le movenze di una pantera. Piattino fiabesco, sensuale e fresco, perché l‘abbinamento con il Ruinart Blanc de Blanc sussur-
Parco giochi per stellati
rava segreti, ti apriva dei territori sconosciuti e scatenava la voglia indomabile di divorare il mondo. Moreno stava lì, in piedi e ti raccontava come da bambino preparava il suo succo di arancia con sale, zucchero e olio, per poi passare alle diavolerie da abbinare al Ruinart: era felice come un bambino, quasi non ci credevi ai tuoi occhi. E’ un mondo adrenalinico, il loro: pieno di colori e profumi, di speranza e sensualità, è un mondo ipnotico, ammaliante, coinvolgente, che ti fa perdere la testa, ti inonda di sogni e sensazioni mai vissute prima. Mi spiace aver perso il piatto di Roberto Conti, creato per Dom Perignon: in compenso posso dire che il salottino allestito da Ruinart era un gioiellino straordinario. Scabin, Berton, Cedroni, un vero pellegrinaggio, nello spazio della maison francese.
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Mirò,
eccitante avventura
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ucina passionale, consistenze cremose, contrasti intriganti e cotture davvero perfette: benvenuti al Mirò, in pieno centro milanese, Corso Concordia al due, esattamente di fronte al Chateau Monfort. E’ stata una avventura eccitante, oltre ad una piacevole sorpresa. A dire il vero lo chef avevamo avuto il piacere di conoscerlo e apprezzarlo ai tempi della Champagnerie, locale che poteva diventare davvero cult se solo si fosse avuta la pazienza di mantenere la rotta. L’idea era brillante e in cucina splendeva l’arte di Guglielmo Paolucci, romano cresciuto al Pelicano con Antonio Guida, maturato poi a Miami nel ristorante di Robert De Niro, Ago e all’Unico di Milano, ai tempi di chef Baldassare. Ora dà il meglio di sé al Mirò, ristorante aperto sei mesi addietro assieme a Edgar Mihali: i due
si sono conosciuti proprio alla Champagnerie, si sono piaciuti e hanno deciso di intraprendere insieme la strada della ristorazione d’autore. La sua è una cucina identitaria, italiana e riconoscibile, moderna, mediterranea. “Amo giocare con le consistenze ed i contrasti”, racconta. L’orientamento del menu va verso i piatti di mare: si sa, non sono un grande amante del pesce, però mi sono esaltato, perché la triglia era cotta alla perfezione, il gusto era saporito e intenso, provai un piacere straordinario, era come accarezzare i suoi seni diritti, con la punta a bottone purpureo. Poi il finto sushi, ovvero il salmone cotto e affumicato a bassa temperatura avvolto nell’alga Nori, è un piatto peccaminoso, afrodisiaco, che va annusato in modo profondo, ampiamente. Chiudi gli occhi, respiri profondamente, assimilando la sua fragranza vigorosa.
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Squisito il tonno rosso siciliano, morbido come il raso, si scioglieva al solo contatto con la bocca: ti senti trasportato su una spiaggia battuta dal vento in Sicilia. Complesso il bottone alla carbonara, un tortello ripieno di baccalà con salsa carbonara e guanciale croccante, intrigante il cannolo con astice e riduzione di bisque, mascarpone e basilico, volto altissimo per il polipo arrosto, spuma di patata, olive disidratate e corallo d’astice. Geniale il Tiramisù Mirò, presentato come se fosse un gelato con stecco, da mangiare a morsi: induce alla lentezza. Capitolo vini: si cercano le piccole aziende, oltre ai classici e ai must. Prevalgono i bianchi, dal pinot nero dei Fratelli Giorgi al Cayega e al sauvignon blanc di Antinori. Come costi ci aggiriamo sui 50 euro (55 il menu degustazione di sette portate): vale ogni cent.
Pascal Caffet Colpo di fulmine
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ossiamo parlare di Pascal Caffet fino a domattina però vi pregherei di una cosa soltanto: non chiedetemi di fare classifiche sul miglior eclair assaggiato e nemmeno sul cioccolatino più gustoso. Neppure sulle torte: semplicemente non vorrei dover scegliere. Difatti, non sceglierò, tranne che per uno soltanto, ma partiamo con calma. Rewind. Inizio ottobre. A Milano, in Via San Vittore al civico 3, apre Pascal Caffet, pasticceria del famoso francese campione del mondo (nel 1995, proprio a Milano). Per me è un puro, autentico e vero colpo di fulmine, oppure coup de foudre, come dicono dall’altra parte delle Alpi. Gli eclairs hanno un colore mistico, mai visto qualcosa del genere. Olivier Gallo, origini italiane, braccio destro di Pascal, mostra fin da subito un entusiasmo contagioso. Mi suggerisce di assaggiare quello al ribes nero e violetta: da quel momento niente è stato più come prima. In modo quasi spasmodico, disordinato e goffo iniziai a morsicare a destra e a manca, miagolando dopo ogni morso. Sapori pazzeschi, gusti intriganti, colori forti: estasi, nirvana, game over. Poi iniziai a capire quello che stava succedendo ed ebbi un’intuizione: per ogni eclair provare ad immaginare una donna che gli potesse assomigliare. Ce ne sono per tutti i gusti: al cioccolato venezuelano, lampone, cioccolato fondente, pistacchio, limone, nocciola, caramello. Sarà stata la suggestione, la voglia di giocare e andare lontano con la mente, chi lo sa e poco importa, però mi sembravano azzeccati tutti gli accostamenti. La prima volta sono rimasto ipnotizzato. La seconda mi sentivo come in un parco giochi per golosi. La terza, in paradiso. La quarta ero già senza parole. La quinta volta è stato un tripudio di colori che mi danzavano davanti agli occhi e di profumi che esplodevano sul palato. Dalla sesta in poi assaggiavo e basta. Oggi posso dirlo chiaro e forte: una preferenza ce l’ho ed è anche abbastanza risaputa: l’eclair al pistacchio. Immaginatelo pure voi: te lo vedi assaggiato da una donna delicata, morbida, tranquilla, ironica, calma, sensuale, sorridente, con i capelli chiari e gli occhi verdi oppure azzurri, snella, elegante, felpata, sicura di se e dei suoi gusti, con il palato fine ed educato, contenta della propria vita leggera come la brezza. Me la immagino morsicandolo pian piano, senza fretta, quasi accarezzandolo mentre sta sognando un viaggio in un paese lontano. Quello al lampone e cioccolato fondente è invece per una femmina più matura e sofisticata, elettrica e voluttuosa, con il seno prosperoso e le forme quasi curvy, una donna piena di vita, amante dell’amore e con le labbra come se fossero un mango maturo.
Perfetto per una donna gourmet l’eclair al cioccolato venezuelano, intenso da morire. Una donna che sa il fatto suo, determinata, esigente, sicura di sé e dei suoi gusti, tenace, grintosa, mai sulla difensiva, una che prende sempre l’iniziativa. Le torte sono fuori concorso, alzi bandiera bianca, mangi e taci: non esistono pareri, paragoni, iperboli e metafore che possano avvicinarsi al gusto maestoso, totale e adrenalinico delle creazioni di Pascal. I cioccolatini sono come dei gioielli: ti pare di essere da Tiffany. Favorite Noir, Tendresse (gianduia ricoperta dal cioccolato nero di Vene-
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zuela fondente al settanta per cento), Croquette Blanc, Valencia Noir, Framboisy, Caffet (ganache con infusione di caffè, pure qui rivestito dal floreale cioccolato venezuelano), Aime Moi, Reves: si potrebbe continuare a lungo. Il capitolo macaron non lo apriamo nemmeno: sono un insieme di croccantezza e delicatezza, morbidezza e gusti divini, di profumi e sensazioni irripetibili. Cerchi sempre una definizione astuta per raccontare l’insieme, ma non ci riesci. E a quel punto tiri fuori una delle frasi che custodisci gelosamente: “per chi ama i momenti che valgono una vita”. Life is now.
Camilla Baresani Sbafatori americani
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ei mesi fa è uscito Gli sbafatori, un libro in cui racconto il mondo contemporaneo della critica gastronomica, composto perlopiù da persone miseramente o per nulla retribuite, e perciò largamente inattendibili. Di fatto, gran parte di quelli che oggi scrivono di cibo, vengono mantenuti e spesso anche intrattenuti da quei soggetti che invece dovrebbero esaminare a mente fredda. Pochi giorni dopo l’uscita del libro, nella posta di Facebook, ho trovato il messaggio di uno sconosciuto: “ Mi sono divertito molto a leggere il libro... Solo, per tua info, tutto il mondo è paese e qui è lo stesso...”. Ho googlato il nome di chi firmava, oltre a curiosare nel suo profilo FB: un ragazzo di Bra che lavora per Eataly, a New York. Un mese più tardi mi sono trasferita a San Francisco per un lungo periodo. Una delle prime persone che ho conosciuto è stata Kitty Morgan, caporedattrice delle pagine di viaggi,
cibo e vino del San Francisco Chronicle: “Siamo estremamente rigorosi,” mi ha detto. “Il nostro critico deve presentare il conto del ristorante che recensisce, e sottoscrive un patto in cui garantisce di non frequentare e tantomeno diventare amico di cuochi e proprietari di ristoranti. È una questione di principio, e se contravvenuta la rimozione è automatica”. Pochi giorni più tardi ho conosciuto Eleanor Bertino, la più nota e autorevole pierre di food della città. Uffici nel prestigioso Sentinel Building di proprietà dell’American Zoetrope della famiglia Coppola, amica storica di Alice Waters (la fondatrice di Chez Panisse), di Carlin Petrini, ma anche dell’artista concettuale David Ireland, mi ha detto: “Fammi sapere chi vuoi conoscere e te lo presento”. Parlare con lei è stato molto divertente e istruttivo. Di Michael Bauer, “restaurant critic and executive food and wine editor” del SF Chronicle, mi ha fatto notare che
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è basso, stortignaccolo, con lunghi capelli biondi probabilmente tinti e gira da 28 anni per i ristoranti di San Francisco, spesso col fidanzato alto due metri. Impossibile non notarli, impossibile non sapere chi sono: “Solo uno sprovveduto che apre un nuovo ristorante arrivando da chissà dove non li riconoscerebbe”. E ha aggiunto: “Bauer è potentissimo. Stila ogni anno la classifica dei cento migliori ristoranti della Bay Area e tutti vogliono ingraziarselo”. La Bay Area - San Francisco, Berkeley, Oakland, la Silicon, la Napa, la Sonoma Valley - conta circa sette milioni di abitanti, più i turisti. La popolazione è composta da una risicata maggioranza di caucasici di origine americana o europea, un crescente quantitativo di asiatici pronti a superare i bianchi, una buona dose di latino americani, un risicato 8% di neri, oltre alla massa dei turisti, degli studenti e dei lavoratori temporanei. Queste quote, di
Foto:SEtimio Benedusi
Ristorante Acquerello
fatto, corrispondono al genere di ristoranti presenti nella Bay Area. Eleanor Bertino mi ha fatto notare: «Ma se il SFC non paga viaggi all’estero e Bauer non è mai uscito dagli Stati Uniti, come fa a giudicare per la sua lista dei top cento la qualità di un ristorante birmano, vietnamita, del Bhutan o dello Yemen, italiano o spagnolo?». Ai suoi clienti, Eleanor suggerisce di stare molto attenti i primi tre mesi dall›apertura, quando è quasi certa la visita di Bauer. Quanto a Yelp, il Tripadvisor degli americani, c’è una certezza: “Vari ristoratori mi hanno segnalato che quando vedi a un tavolo un gruppo di donne che fotografano i piatti, sei certo di finire su Yelp”. A quel punto, sta all’acume e alle buone maniere del manager darsi da fare prima che venga postato il commento. Ma non è tutto: Aldo Blasi, proprietario del Ristorante Milano, da trent’anni sulla scena di San Francisco e attento osservatore e conoscitore del mondo del cibo, mi ha segnalato quanto la critica gastronomica americana sia diventata omogenea. Crea in coro degli idoli e poi, solo quando questi presunti nuovi idoli sono passati di moda, prudentemente, li distrugge. C’è il terrore di perdere il posto a tavola, di perdere le fonti e i regali, cioè di inimicarsi i pierre. Si tende a scrivere solo note positive, in tono esaltato, magnificando anche l’ultima falange della zampa del pollo cucinato da Angela Dimayuga, tralasciando ogni dettaglio negativo, magari sulla scomodità del locale. Se non siamo al “pay per play” (termine mutuato dal mondo della tv via cavo), poco ci manca. E anche i più celebri critici, quelli che si impegnano con i loro giornali a mantenere le distanze, li vedi poi fotografati con gli chef al party del James Beard Awards. Le riviste e le rubriche di cibo sono noiosissime. “Solo il New Yorker o l›Atlantic, estranei al mondo del cibo, pubblicano inchieste interessanti e pezzi ben scritti. “Nessun giornale del settore avrebbe pubblicato Considera l’aragosta di D. F. Wallace,” nota Eleanor Bertino, “mentre tutti pubblicano mirabolanti reportage da feste sponsorizzate per il compleanno di chef, di ristoranti, di marchi
Ristorante Zingari
del cibo e del vino”. Molti segnalano quanto il giornalismo gastronomico sia distrutto dalla moda delle classifiche. Poiché ai redattori vengono continuamente commissionati “i dieci più” di qualsiasi cosa, da compilare senza aver esperienza di nulla ed essendo rimasti tutto il tempo dietro a uno schermo di computer, non resta che ricorrere ai pierre del cibo. Ne consegue un’altra delle leggi della scena gastronomica contemporanea americana: un cuoco o un ristorante senza pierre non finiranno mai in nessuna lista dei top ten, e di conseguenza non esisteranno. Infine, se un tempo si concedeva un periodo di rodaggio di sei settimane prima di andare a visitare un ristorante per recensirlo, oggi si assiste alla celebrazione delle aperture. Blog, newsletter e giornali del settore hanno cancellato la differenza tra recensione e campagna pubblicitaria. Il commento sull’opening sta
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assassinando la critica gastronomica. Soprattutto, anche negli Stati Uniti come in Italia, c’è una certezza: è quasi impossibile sopravvivere da critico gastronomico. “Un tempo, un critico autorevole poteva venir retribuito tra gli 80 e i 150 mila dollari. Oggi siamo sui 20/40 mila di media. Un articolo su un blog può venir pagato 10 dollari, mentre fino a pochi anni fa i collaboratori ne prendevano 2 a parola” mi dice un editor del prestigioso Food & Wine Magazine. Tuttavia, se la critica gastronomica è data per morta, non moriranno di fame i critici: per gran parte dei giornalisti e blogger scrivere di cibo e vino serve anzitutto a divenire popolare su Twitter e, da lì, spiccare il volo verso posizioni lavorative meno volontaristiche, al servizio di marchi del comparto alimentare. articolo tratto dal sito www.camillabaresani.com
Joe Bastianich Restaurant Man
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on puoi non divorare i libri del giudice di Masterchef (tranne uno, che non leggiamo perché la giornalista che ha raccolto le idee del business man ci garba poco). Piace e ci piace perché non vuole sembrare diverso da quello che è, perché dice quello che pensa, non ha alcuna intenzione di apparire politically correct in pubblico, tranne poi pensarla diversamente nel privato. E’ schietto, come qualsiasi business man americano. Per questo piace molto anche a Masterchef: se uno è stupido, oppure scarso, glielo dice. Di conseguenza, quando in Restaurant Man racconta quello che pensa dei giornalisti e dei critici gastronomici, abbiamo avuto un sussulto. Potete essere d’accordo con le sue idee oppure no, sta di fatto che vale la pena prendere in considerazione le sue opinioni.
Uno dei pochi argomenti sui quali io e Mario non eravamo d’accordo erano gli ospiti, cioè chi poteva mangiare gratis. Il Restaurant Man odia gli ospiti non paganti, ma è cresciuto in un mondo dove sono considerati un male necessario. Tutti si aspettavano che invitassimo critici della vecchia guardia che avrebbero mangiato a ufo, ma Mario non voleva saperne. Era irremovibile e ostinato in proposito. Io ero
della vecchia scuola, quella dei miei genitori: il ristoratore era ancora una specie di cittadino di seconda categoria e i clienti erano l’aristocrazia, sopra i quali c’era solo una categoria: i critici. Che non pagavano per mangiare, perché ti ripagavano quando scrivevano quanto fosse meraviglioso il tuo ristorante. Erano preziosissimi. E poi arriva Mario con cose come “Fanculo i critici. Devono pagare, come tutti gli altri”. Mi aprì gli occhi. Mi convertii, perché semplicemente vuol dire- e l’ho sempre saputo, in fondo, grazie ai fiaschi delle cene di amici e parenti- che se ti svendi, ti deprezzi agli occhi della persona che dovrebbe valutarti. Quindi se dico a te, Signor critico, che non devi pagare per questa meravigliosa esperienza, anche se è la migliore che sarò in grado di realizzare per te in tutta la tua carriera di cibo e vino, in un certo senso la sminuisco, anche agli occhi di qualcuno che in teoria sa che le cose stanno altrimenti. Adesso la penso come Mario. Pagano tutti. Quando Ruth (Reichl, ndr) ha preso il timone della sezione recensioni dei ristoranti sul New York Times, abbiamo pensato che forse sarebbe stato positivo per noi: era una ragazza californiana, spregiudicata, italocentrica, che avrebbe potuto accogliere bene l’idea del Babbo. E le piacque senza riserve. Ci credeva proprio, e divenne una grande sostenitrice non solo della cucina e dell’esperienza, ma del significato del Babbo nel paesaggio dell’epoca. E ha sempre pagato. I critici del New York Times pagano
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sempre, e lasciano la mancia, come i giornalisti veri, non come degli scrocconi del cazzo. Era un bel momento per noi, perché i ristoranti stavano cambiando, e così anche i critici. Quei dinosauri di recensori della vecchia guardia stavano scomparendo. Ma a questo punto la domanda sorge spontanea: i ristoranti plasmano i recensori, o sono i recensori a plasmare i ristoranti? Con il vino è vero il secondo caso, se (ed è stato detto tante volte) non c’è persona al mondo che abbia un effetto tanto potente su un’intera industria come Robert Parker su quella vinicola. Non esiste un altro esempio del genere: il mondo fa il vino per Robert Parker. Quindi apriamo ristoranti per Sam Sifton, che all’epoca era il critico gastronomico del New York Times? Probabilmente no. Ma vedendo che tipo di persona è Sam, al Del Posto (per quel ristorante abbiamo sempre puntato a una recensione a quattro stelle) capimmo che sarebbe stato lui a farci ottenere quella recensione, e ci mettemmo all’opera. Ci investimmo sopra. Gli tendemmo un’esca, facemmo circolare voci presso i suoi amici. Giocammo la partita. Così si fa, non puoi barare: o la ottieni oppure no. Se vuoi una recensione a quattro stelle, devi far sapere a tutti che hai un ristorante a quattro stelle. I critici possono essere d’accordo o meno, ma se non hai la capacità di comunicare le tue intenzioni al mercato e ai critici, non verrai mai preso in considerazione.
Da Babbo sapevamo quando Ruth sarebbe venuta. Eravamo in grado di individuarla: avevamo ricevuto una dritta. Stava cercando di muoversi in incognito, ma noi conoscevamo alcuni dei suoi ospiti. Il Restaurant Man traffica anche con l’intelligenza. Così piazzammo qualche nostro amico vicino a lei. Questa è un grande risorsa, lo facciamo sempre: vicino ai critici importanti metti una spia, che ordina tutto quello che c’è nel menu e ooh e aah, e gli metti in tavola tutto quel bendidio mentre il critico sta a guardare, perché i critici non mangiano solo la loro cena ma anche quella di tutti gli altri avventori. Quando è venuta Ruth, abbiamo controllato tutto fino alle molliche di pane, dalla canzone che c’era in sottofondo quando è entrata nella sala ai Led Zeppelin con le linguine e Jimi Hendricks con la panna cotta allo zafferano. Ogni dettaglio dell’esperienza è stato curato al millesimo. Qualcuno a volte ci ha accusati di cinismo per questa gestione così meticolosa, ma sapete una cosa? Fare colpo sulla gente e guadagnarci la benevolenza dei recensori è il nostro lavoro.
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Florence Guyot Jazz e bollicine
SIRHA 2015-Bocuse d’Or
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ualche anno addietro dalle parti di Hollywood realizzarono un film con Sarah Jessica Parker e Pierce Brosnan, “Ma come fa a far tutto”. La trama, brevemente: una business woman si destreggia fra vita privata e il ruolo di rilievo in una società di prim ordine, saltando da un impegno all’altro con assoluta disinvoltura. Il resto ve lo risparmiamo, non fu una grande pellicola. Però il titolo ci è rimasto impresso: ogni tanto, quando vediamo la forza e la tenacia di Florence Guyot, ci torna in mente. Siccome il numero che state per sfogliare verrà
in parte distribuito al Vinitaly, vi suggeriamo di cercare il suo stand, Marguerite Guyot. Non sarà difficile, solitamente è quello dove c’è più gente, dove si ascolta musica dal vivo e dove chef stellati e non si alternano per preparare stuzzichini golosi da assaggiare assieme alle bollicine di Florence. Negli anni passati si sono “esibiti” Felice Lo Basso, Peter Brunel, Enrico Pomata, Markus Holzer: le sorprese non mancheranno nemmeno quest’anno, con la conferma di Felice (a proposito, a breve aprirà il suo ristorante e a Vinitaly presenterà alcune delle
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sue nuove diavolerie). Le giornate sono uno spasso, il suo teatrino è diventato addirittura un format: jazz, champagne e piccole magie stellate. What else?, dice lo slogan della famosa multinazionale delle cialde. Sa coinvolgerti, è una calamita, attira gli appassionati di bollicine, conquistandone di nuovi ad ogni evento che organizza. Ovunque vai assieme a lei ti trovi attorniato da una dozzine di persone, quasi all’istante. E’ una one woman show: ve ne accorgerete andando nel suo stand.
Dove si possono assaggiare le bollicine di Florence? ITALIA Milano: Sadler, Devero, D’O, Joia, Unico, Alice, Il Baretto, Innocenti Evasioni, Angolo di Casa Alberghi: Principe di Savoia. Sol y Melià,Marriott, Château Monfort, Park Hyatt, Radisson, Hotel Milano Scala, Villa Appiani. Parma: Hostaria da Ivan Albertelli Firenze : Ora d’Aria, Alberghi Ferragamo, Roma: La Pergola Bergamo: Da Vittorio Verona: Caffe Filipini, Vittorio Emanuele, Sgarzarie, Il Pompiere, Da Ruggero, Confusion, Zoe. Affi Wine Bar Lago di Garda: Lefay Resort, Acqua Riva, Cantina del Baffo, Giardino delle Esperidi FRANCIA Lione: L’Auberge du Pont de Collonges- Paul Bocuse, Cour des Loges, Tour Rose, Le 33, Têtdoie, Daniel & Denise, Neuvième Art, Restaurants Nicole et Christophe Marguin, L’Âme Soeur, Due By Maurizio, La Mère Brazier, l’Auberge de l’Île, Chez Moss, Bernachon, Café Terroir, Comptoir d’Alice, Daniel & Denise, Tout le monde à table, Iceo, Chez Paul’O, Au Colombier, Comptoir de la Bourse, Pléthore & Balthazar, O’Capot, P’tit Zinc, Cabarretier, Café Français, Zozo, Les voiles du Grand Large, Le Lafayette, Cave d’Or, Prost, Cédric Poissonnerie d’Ainay, Comptoir de Confluence, Fromages & Délices ,Container Malcom, Le Flandin, Bistrot du Château, Cuisine & Dépendances, Chez Steff. Cercle des Vignerons (Ampuis) Courchevel: Le Chabichou Parigi: Port du Salut DANIMARCA Stoeberiet Restaurant, Holstebro SPAGNA AmiGourmet, Brasserie, Catering & Events PORTOGALLO Sabores Do Chiado, Lisbona SVIZZERA Ginevra, Le Cigalon, Le Caveau de Bacchus, Auberge communale d’Onex, La baguette D’or, Le Bec gourmand, Cave du Palais de justice, La petite Cave du palais Aeroport Geneve, Le Paragrafe bar Lugano The View-Innocenti Evasioni Cantinin dal Gatt, Bellinzona SINGAPORE: Hotel Raffles, Pollen Restaurant Distributori: Per l’Italia: Alser ( www.alservini.eu) Per la Francia: La Cambuse (www.lacambuse.com)
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Gure Sukalkintza Tris basco
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robabilmente il nome Gure Sukalkintza vi dice poco: giusto così. D’altronde stiamo parlando di una frase in lingua basca: per la cronaca vuol dire “l’arte del cucinare nel nostro stile”. Si tratta di un progetto online di tre chef baschi e già qui i nomi vi faranno sussultare. Perché Aizian e Andra Mari sono sulle bocche di mezzo mondo e in più sono dei ristoranti che hanno già conquistato una stella Michelin, parola assai di moda nella zona dei Paesi Baschi, visto che fra Bilbao e San Sebastian ce ne sono più di una ventina. Il terzo sarebbe Aretxondo: inutile scommettere, pure lui è in odor di stella. I tre ristoranti, forti di quel nazionalismo spinto che caratterizza la regione, gonfiano il petto con orgoglio e vogliono gridare al mondo intero il loro amore per la propria terra, per le materie prime e le tecniche straordinarie che hanno portato i Paesi Baschi in vetta alle classifiche. Tre ristoranti, tre chef: all’Aizian impera Josemi
Olazabalaga, fra l’altro socio del locale, situato all’interno dell’hotel Melia (lo spazio è davvero molto bello, ispirato ad una scatola di sigari e una vista meravigliosa, sul parco Dona Casilda). Riesce a mettere insieme tecniche all’avanguardia ed elementi tradizionali, il tutto a suo modo, un modo creativo, pieno di sapori, rispettando al massimo il prodotto, modo imparato dai più grandi: difatti ha lavorato da Goizeko Kabi, al Zalakian e Andra Mariin. Bilbaino nato, Josemi è innamorato pazzo della sua città e un fan sfegatato dell’Athletic. Zurine Garcia invece fa passare il messaggio di essere la ragazza della porta accanto che sorride sempre: inventa meraviglie al ristorante Andra Mari, dove praticamente lavora da sempre. Pure lei fan incallita dell’Athletic (va sempre allo stadio, è cresciuta con il mito di Julen Guerrero), è una delle due cuoche basche che hanno conquistato una stella: l’altra è Elena Arzak. Cucina elegante, mano decisa, passa per una delle testi-
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monial più autentiche e pure della cucina vizcaina: cenare da lei non supera l’ottantina di euro, inutile aggiungere che ne vale la pena andarci e tornarci. Propone un’idea molto interessante, piatti rurali con tecniche d’avanguardia, un misto di tradizione ed evoluzione. A proposito del loro amore folle per l’Athletic: il club ha incluso entrambi nella squadra degli chef che, in più di un’occasione, ha regalato momenti di alta cucina agli ospiti della tribuna vip. Gli altri cuochi sono Daniel García, Eneko Atxa, Fernando Canales, Jabier Gartzia, Josean Alija e José Miguel. Il terzo del gruppo che ha creato Gure è Guillermo Revillas di Aretxondo, ristorante leggermente fuori Bilbao, a Galdakao: meno di dieci chilometri dal centro della città, vi accoglie con una proposta impensabile dalle nostre parti, ovvero un menu degustazione a 48 euro. Il prezzo forse fa parte della filosofia citata all’inizio, ovvero cucinare nel nostro stile. E che stile.
Saranno famosi Michelangelo Mammoliti
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l ristorante di Enrico Crippa è a meno di due chilometri di distanza, lo si vede dalla veranda de La Madernassa, il resort della famiglia Ventura. La vista è da cartolina, domina la valle del Tanaro, dall’alto delle colline. La zona, inutile aggiungerlo, è il paradiso dei gourmet: il Barolo a dieci minuti, il Barbaresco a cinque, i tartufi probabilmente ad un passo. Ogni mattina, Michelangelo Mammoliti, 30 anni, apre la sua cucina e sogna ad occhi aperti una carriera come quella del suo illustre collega: a guardare bene il curriculum, siamo già ad un buon punto. Piccolo elenco delle esperienze di uno chef che, lo si percepisce subito, ha il fuoco dentro: appena finisce la scuola va da Gualtiero Marchesi, all’Albereta. Poi decide di andare ad imparare i fondamentali dell’alta cucina e parte per la Francia, dove si butta corpo e anima per capire e carpire i segreti di Alain Ducasse, Yannick Alleno, Pierre Gagnaire e Marc Meneau, tristellati che hanno segnato la storia della ristorazione. Seguono altre esperienze di prim ordine, al Mirador del Kempinski e al 1947, a Courchevel, per poi tornare a casa, in Piemonte: “Volevo ad ogni costo un ristorante in campagna, è la mia dimensione”, racconta entusiasta.
Pare banale dire che dopo anni con i mostri sacri dell’haute cuisine padroneggia le tecniche ed i fondamentali, forse sarebbe uno scandalo se non lo facesse, però alle basi solide si aggiunge, si innesta la sua capacità di variare, di andare oltre. E’ ancora alla ricerca di uno stile personale, per ora sperimenta, cerca la sua strada con la mano decisa e il coraggio di chi si sente un predestinato. E’ ambizioso, elettrico, istintivo, ispirato. “La mia cucina? Naturale e minimale, passionale, in evoluzione costante”. I piatti sono potenti, si vede subito che ha tanta voglia di andare a briglie sciolte, di divorare il mondo, arde in lui la voglia di emergere, di farsi largo, di entrare a far parte della famiglia stellata italiana. Lo spaghetto al barbecue è il suo piatto trasversale, quello che lo farà conoscere ai più: è il classico piatto che ti rimane impresso per tutta la notte e che la mattina seguente ti svegli con la voglia di ricordare ogni boccone. Dalla serie: emozioni da includere nello scafale dei migliori momenti passati a tavola. La prima forchettata è un colpo al cuore, un sibilo tumultuoso di piacere, ti percorre tutto il corpo, ti stordisce. E’ un piatto che piace e piacerà alle modelle e alle mamme, agli imprenditori e ai giovani,
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alle famiglie, perché è aggressivo e semplice, afrodisiaco e peccaminoso: troppo gustoso, ti inonda la testa, induce alla lentezza. E’ da cena in veranda, oppure da gustartelo con il crepitare del fuoco nel camino, con la nebbia che avvolge le colline di Alba. E poi l’anguilla cotta sottovuoto, preparata con delle tecniche giapponesi, marinata con salsa di soia, olio di sesamo tartufato e aceto di zenzero accarezza i sensi, provi dei brividi leggeri, scintille di piacere, deliziose sensazioni, si scioglie in tutto il corpo, è talmente delicata che il suo gusto ti accompagna per gran parte della cena. Molto chic anche la bavarese al parmigiano affumicato, amuse bouche diabolica, con un’equilibrio e consistenza notevolissime. Michelangelo nutre una dedizione totale verso le materie prime di stagione, non a caso si è fatto l’orto dietro il resort, 3.000 metri di bontà. “Ho imparato il rispetto per il prodotto da Ducasse, oltre al rigore e alla disciplina. Da lui ero diventato subito chef di partita, però a me mancava la campagna. Ora ho tutto quello che desidero, compresa una fidanzata che amo da morire e che voglio sposare al più presto”. E siamo solo agli inizi.
Fabrizia Meroi Laite, Sappada
Amor di foie gras
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uoca dell’anno per la guida dell’Espresso, nel 2003. La stella Michelin confermata anno dopo anno, a cominciare dal 1997. Le tre forchette della guida del Gambero Rosso (2005). L’hamburger di cervo con l’olio di betulla. I tagliolini di riso venere con kummel, speck e cappucci. Una storia d’amore da film hollywoodiano. La collaborazione con la maison Veuve Clicquot. Il piccolo ristorante, 18 posti, in una casa antica, a 1.250 metri, in un paesino fiabesco. Basterebbe per un romanzo, figuriamoci per un articolo. Fabrizia Meroi, assieme al marito Roberto Brovedani, fanno sognare ad occhi aperti con la loro favola professionale e privata, un mondo pieno di emozioni e conquiste, profumi e sapori. - Partiamo dal ristorante, Laite, tutti ne par lano come di una bomboniera…
- Lo è. Una vecchia casa dell’800, a Sappada, affacciata su una bella piazza: siamo qui dal 2001, mentre il nostro primo ristorante, Keisn, era nelle vicinanze. Abbiamo due salette, due vecchie stube con arredamenti veramente antichi, alcuni del 1600, altri del 1800. Più che un ristorante è una casa, questo piace. - Di te si parla come di una cuoca autodidat ta, lo si dice come un complimento. - Da giovanissima ambivo ad altro, avevo studiato al liceo artistico, sognavo di viaggiare tanto: poi ho conosciuto Roberto e la mia vita è cambiata radicalmente. Abitavo a Cividale, lontano da lui un centinaio di chilometri, non ci vedevamo quasi mai. Roberto lavorava già nella ristorazione, amava i vini, per vivere assieme ho iniziato ad appassionarmi di cucina. Guardando indietro mi viene da sorridere, quanta incoscienza, avevo 19 anni: andai a Sappada per lavorare durante l’estate, facevo la lavapiatti.
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- Laite, specialità regionali. - Cucina territoriale e stagionale con forti influenze austriache: non potrebbe essere diversamente, siamo a 1.250 metri, per di più sono cresciuta con un orto e animali nel cortile, mia nonna aveva un’osteria da leccarsi i baffi a Cividale. Mentre parliamo qui fuori c’è la neve, e penso che potrò sbizzarrirmi solo quando finirà l’inverno, in estate ci saranno i funghi e altro. - Oltre a territoriale, come possiamo caratte rizzare la tua cucina? - Essenziale e semplice, con qualche tocco creativo, legato ai ricordi. Nei piatti ci sono dei flash di una passeggiata, frammenti dell’infanzia. - Qualche piatto che ti rappresenta in ma niera particolare? - La selvaggina, prima di tutto: la trovo interessante dal punto di vista creativo. Poi mi piace cucinare il pesce d’acqua dolce, gli italiani de-
Fabrizia assieme al marito Roberto
Cervo fondente
vono ancora conoscerlo per bene. Uso spesso un formaggio tipico di Sappada, Saurnschotte, una ricotta acida insaporita con l’issopo, una varietà selvatica di dragoncello. - Hai avuto qualche idolo, hai qualche mo dello, fra i cuochi? - Mi piacciono quelli che dimostrano una grande personalità, puoi chiudere gli occhi,
assaggiare un piatto e sapere chi lo ha creato. Qualche esempio? Lo Priore, Crippa, Alajmo, che va oltre le mode e segue un suo percorso personale. - Com’è iniziato i rapporto con Veuve Clic quot? - Il primo approccio nel lontanissimo 1998. Poi, su gentile segnalazione di Ezio Vizzari,
sono stata accolta nella famiglia di Veuve: mi piace molto far parte del loro mondo. - Fai parte dell’associazione dei Jeunes Re staurateurs d’Europe. - Agli inizi, quando ci hanno accolti, nel 1994, è stato determinante far parte di un tale sistema, eravamo poco conosciuti, ci hanno aiutati a crescere. Tiramisù
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Aurora Mazzuchelli Una chef rock. Molto rock
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ome carattere ti impressiona subito: dà la sensazione di non cedere mai e poi mai. Forse nel passato ha fatto troppe lotte con se stessa, cercando di interpretare e capire i gusti degli altri, ora invece guarda tutto con più distensione, consapevole di aver intrapreso e trovato la strada giusta, un equilibrio perfetto. Rimane un unico piccolo neo, i suoi piatti di rottura: sta ancora cercando la chiave per toccare l’anima della clientela, una clientela affezionata, innamorata del suo lato elegante e femminile, però un po’ meno dalla sua parte rock. - Piccolo passo indietro: quando apre il ristorante dei tuoi? - Nel 1983, io entro a farne parte nel 1999. - Com’era, agli inizi? - Un locale classico dove si mangiava pesce di buonissima qualità. Io ho iniziato dal maiale e dal parmigiano, poi la parte siciliana (mia
madre arriva dall’isola) mi ha portata a voler conoscere altro. - Ora come lo possiamo definire? - Un ristorante dove si sente, si percepisce che dietro c’è una famiglia intera che fa di tutto per mettere a proprio agio la clientela. - Chi ti conosce bene dice che sei ossessionata della purezza dei sapori. - Sono alla continua ricerca di un equilibrio fra quello che piace a me e quello che vuole il cliente. Nei miei piatti la gente vede una certa femminilità, cura, eleganza, però io ho anche un animo rock, forte, ironico: forse questo lato è meno evidente. Un po’ mi dispiace quando vedo che le mie creazioni di rottura non vengono apprezzate. - Ti sei data una spiegazione? - Sì, non tutti partiamo dagli stessi valori, ricordi e viaggi: quello che vedo io non lo vedono gli altri, ognuno ha una lettura diversa del piatto, sarebbe assurdo pretendere il
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contrario. - Vivi per il cibo? - Per forza, la cucina e il cibo sono, diventano la tua vita. Ogni tanto mi piace staccare, disintossicarmi. Il giorno di chiusura prendo e faccio la cittadina bolognese, mi confondo fra la gente, mi serve un confronto con la realtà, fuori da fornelli e sogni, ambizioni e responsabilità. - Scegli alcuni aggettivi per raccontare la tua filosofia culinaria. - Ricercata. Di personalità. In evoluzione. Divertente. Pensata e vissuta. - Un piatto che ti rappresenta di più. - Di sicuro mare d’inverno, ovvero pesce crudo con caviale, aringa affumicata e brina di canocchia. - Qualche nome di chef che ti ha segnato. - Martin Berasategui: da lui ho capito che non mi piacciono le cucine troppo grandi e che non amo la competizione quando diventa
Aurora all’evento Atelier des grandes dames
Foto: Claudia Callegari
Foto: Dan Lev
aggressività. Nella sua cucina c’è troppa gente che mette le mani su un piatto, io amo il mio ristorante e la mia indipendenza. Da Lo Priore ho imparato l’ironia in cucina, giocare con il cibo. A Copenhagen, da Noma, ho scoperto un mondo di brigata diverso dal mio e soprattutto ho percepito che dietro René Redzepi c’è una nazione intera. Impressionante il suo laboratorio, dove si fanno solo prove, sperimentazioni, mai dei piatti veri e propri. Da Gaetano Trovano ho imparato come si cura la materia prima in maniera maniacale: fra l’altro è stato il primo ad aver creduto in me. - Un modello da seguire? - I Roca: Josef, il fratello che sta in sala, mi ha impressionato per la sua ospitalità. Poi Massimo Bottura, per la comunicazione e per come riesce a valorizzare il territorio. - Hai preso la stella nel 2008. - Che ansia da prestazione da quel momento: per la verità, perfino prima vivevo tutto con grande agitazione. Poi sono aumentate le responsabilità, c’è voluto del tempo per abituarmi, perché la gente pretende sempre di più e non apprezza tutto quello che fai. Ora mi sento più libera, guardando indietro ricordo che non mi sentivo completamente capita. - Ansia anche per far parte della famiglia Veuve Clicquot? - Sì, eccome, perché rappresentare l’eccellenza non è uno scherzo. Mi è subito piaciuta l’idea di far parte di un gruppo di donne che hanno come punto di riferimento Madame Ponsardin. Che sarebbe fiera di Aurora.
Rombo in zuppa di prezzemolo e porro.
Foto: Dan Lev
Aringa affumicata, puntarelle e gamberi rossi
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Eleventy Style Jersey Jacket
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ue volte l’anno Esquire realizza un numero da collezione, il così detto Black Book. “The Style manual for successful man”, viene sempre aggiunto in basso, sotto il titolo, sulla copertina. E’ un prodotto editoriale straordinario, ricco, totale, succoso, frizzante, a tratti sontuoso. Molte riviste europee cercano di copiarlo o semplicemente lo copiano, finendo solo con scimmiottarlo (l’edizione britannica di GQ si avvicina assai, forse è l’unica a riuscirci). E’ un po’ come cercare di usare il sifone in cucina, provando ad essere Adrià senza esserlo: andiamo oltre.
Ebbene, The Big Black Book, una specie di bibbia dello stile per il lettore americano, include e propone il meglio della sartoria, con immagini ben messe in evidenza: una grafica semplice e per questo perfetta, senza fronzoli e giochini grafici, fastidiosi ai più. Ogni volta che la sfogliamo ci aspettiamo di vedere i capi delle collezioni di Eleventy, azienda che abbiamo visto nascere e che da qualche anno ha innescato la quinta, andando spedita verso la consacrazione. Uno degli slogan preferiti di Marco Baldassari, co fondatore e amministratore delegato, è “true is in the details”, una specie di mantra, una
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filosofia di vita che ben si sposa con il credo di Esquire e soprattutto del loro cliente, ovvero la gente che piace e ama piacere e piacersi. Siamo sicuri che la Jersey Jacket presentata qui sarebbe apprezzata un mondo dall’editor in chief David Granger, così come dal loro esperto di moda, Nick Sullivan. “La Jersey Jacket è un nostro capo iconico”, racconta Marco. “Una doppio petto in lino, natural strech che conferisce un confort straordinario a chi la indossa senza trascurare il lato estetico, mostrandosi estremamente raffinata”. Sembra ideata e creata appositamente per il lettore di Esquire.
Tatras
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Gioco ed ironia
atras, ovvero il brand premium che unisce il design giapponese e la qualità italiana, più il fiocco d’oca polacco. Performance tecnica, ricerca di soluzioni stilistiche inedite, maxi colli, fitting slim, furs in tinta e modellistica che si ispira alle linee del kimono: le giacche, i trench ed i parka nascono dai concetti appena elencati. È il logo stesso a rappresentare questa unione di sapienza, maestria e gusto, con tre croci a simboleggiare i tre Paesi, mentre Tatras trova ispirazione dai Monti Tatra, catena al confine tra Polonia e Slovacchia. A febbraio, durante la settimana della moda, l’azienda nipponica (la storia è iniziata nel 2000, poi il primo monomarca in Via Bigli, undici anni più tardi), ha presentato una capsule collection di venti pezzi realizzata in co-branding con il designer londinese Kevin James Morley. Il risultato è esplosivo, l’alchimia anglo-italiana perfetta. Sperimentazione, gioco ed ironia: queste le parole chiave che hanno portato Kevin James Morley a rivisitare le downjackets, trasformandole in prodotto glamour chic. In una fusione di stili che guardano ai prodotti iconici, i capi appaiono ibridi, capaci di ritrovare una nuova vita. Prodotti iconici capaci di osare con misurata sperimentazione. Da questa mescolanza nascono i due modelli
must have: la lineare formalità del blazer si unisce al concetto outdoor dell’anorak mentre la sportiva down jacket si trasforma parzialmente in giacca. I tessuti impiegati appaiono eleganti grazie alle trame lavorate jacquard conservando caratteristiche performanti, antigoccia e windproof. Banditi bordi e colli in pelliccia che lasciano
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spazio a divertenti bordure realizzate con lacci da hiking. “Il gioco è innegabile. Si possono negare quasi tutte le astrazioni: la giustizia, la bellezza, la verità, la bontà, lo spirito, Dio. Si può negare la serietà. Ma non il gioco”, sosteneva Johan Huizinga: Tatras e Morley lo hanno preso alla lettera.
The Gigi Giacche d’autore
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hi si è regalato una giacca The Gigi lo sa: tutte le volte che la indossa viene fermato, fissato, guardato con un pizzico di invidia. Tripudio di complimenti, conta poco se si tratta di un evento modaiolo, un cocktail chic, una inaugurazione, oppure una cena privata: l’effetto è sempre lo stesso. Gente che non resiste e ti chiede il permesso di toccarla, altri che la esaminano con ammirazione: l’aspetto assai interessante sta nel fatto che si tratta di persone di tutte le età. Non c’è dubbio, l’azienda ha un suo perché, una forte identità e, di conseguenza, un successo notevole. Sanno creare quell’effetto “wow”, il che significa aver fatto bingo. Pierluigi Boglioli, l’artista della famiglia, il creativo, lo stilista, pare più ispirato che mai, forse anche perché ha meno pressioni rispetto a prima, quando l’azienda era un colosso con duecento dipendenti. Fa tutto parte di una vita precedente, i Boglioli ne parlano poco volentieri: hanno girato pagina, passando da una realtà industriale (ceduta ad un fondo) ad una sartoriale, artigianale. E geniale.
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Payper
Giochi stellati
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l giochino va avanti, l’abbinamento piatti chic – capi di abbigliamento è un esercizio cromatico senza fine. Ti prende la mano, ti intriga, ti stuzzica, è coinvolgente. Per questo numero ci siamo sbizzarriti partendo da due capi semplici, essenziali, realizzati da Payper. La cromia e lo spettacolo viene dalle creazioni di Andrè Chiang, chef nato in Taiwan e cresciuto in Giappone, prima
di volare in Francia quando aveva appena compiuto 15 anni. La sua cucina la potremmo considerare un misto di tecnica francese, tocchi mediterranei e basi asiatiche, sofisticata e sorprendente. Se lo chiedete a lui, vi parlerà della Octaphilosophy, ovvero un manifesto in otto punti, otto idee e concetti semplici: unico, puro, testura, memoria, sale, sud, artigiano,
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territorio. Un modo complesso di intendere la cucina, abbinato allo smash rosso dell’azienda di Forlì. Poi abbiamo scelto l’antivento reversibile United con motivi che portano alla nazionale italiana, visto l’avvicinamento agli europei di calcio: qui un piatto del portoghese Joao Rodrigues del ristorante La Feitoria, una stella Michelin a Lisbona.
The Yeatman Fiaba portoghese
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n palazzo reale più che un albergo, in alto sulla collina, con una vista da mille e una notti, polaroid fiabesca sull’intera città vecchia di Oporto, sul fiume Douro, il ponte Luiz e la Ribeira, a Vila Nova de Gaia. The Yeatman è senza alcun dubbio l’hotel più bello della città portoghese: finestre gigantesche, colonne, marmi, settanta stanze, ognuna con il proprio terrazzo, interni principeschi e sfarzosi, hammam, sauna, palestra, piscina interna, business center, Poteva mancare un ristorante all’altezza? No, perché è ormai evidente che a certi livelli l’esperienza deve essere totale e completa, perché un weekend romantico senza una cena indimenticabile non ha alcun senso, perché cibo e storie amorose vanno di pari passo e sarebbe assurdo privarsi di emozioni, non lasciarsi abbandonare alla seduzione, non vivere le ondate inebrianti di desiderio.
Qui il panorama aiuta, l’atmosfera principesca pure: fatto sta che ti svegli con la voglia di ricordare ogni singola forchettata, ogni assaggio e piatto proposto da Ricardo Costa. Si tratta probabilmente del ristorante più ammirato e apprezzato dell’intero paese, perché i piatti sono dei veri dipinti con sapori paradisiaci, piatti che richiedono lumi di candela, sussurrano segreti, che vi schiudono territori sconosciuti, sapori puri come il peccato. Vertigini di piacere, ebbrezza di alta cucina, piatti che toccano l’anima: potremmo continuare all’infinito. Le cotture, le consistenze, gli equilibri, le tecniche, la coreografia: tutto da applausi, tutto perfetto, impeccabile. Cucina innovativa e raffinata, assieme a dei piatti tradizionali rivisitati, in più una delle migliori lista dei vini, con 25.000 bottiglie, molti di loro locali. Lo chef proviene da una famiglia di cuochi, anzi, di buoni cuochi: tutt’oggi usa spesso dei piccoli
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trucchi e segreti imparati dalla sua nonna. Ha studiato alla scuola di Coimbra; prima di arrivare al Yeatman aveva lavorato a Madeira, poi in Spagna e a Londra, dov’era diventato executive chef al The Portal, un ristorante specializzato in cucina portoghese (fatto assai insolito nella capitale della Gran Bretagna). Tornato a casa ne 2009 ha preso le redini del Largo do Paso, ristorante dell’hotel Casa da Calcada, ad Amarante: inizia a far incetta di premi (per due anni di seguito è stato eletto il miglior chef dalla rivista Wine), conquista anche la prima stella, grazie ad una cucina con evidenti influenze francesi, però con materie prime locali. Nel 2011 viene ingaggiato dal Yeatman ed ecco un’altra sella, l’anno successivo. La sua cucina lascia trasparire un’istintiva consapevolezza delle potenzialità di ciascun ingrediente utilizzato, ma soprattutto lascia senza fiato. Come la vista. Come l’albergo
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BirraHub Brewpub a Treviglio
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asce da una passione, quella per la birra artigianale di alto livello, il progetto BirraHub: inizialmente una community virtuale che nel 2016 è diventata un brewpub nel centro di Treviglio. Un ritrovo che aspira a diffonderne la cultura, dove le birre si gustano e degustano, si scoprono e si acquistano. Un po’ Beer Shop e un po’ Tap Room - come si dice in gergo - dove 3 amici, Gigi Bonisoli, esperto birraio, Thomas Deponti, degustatore professionista e Thrasso Galatis, appassionato, accolgono con la stessa cortesia i semplici curiosi, gli homebrewer, più o meno esperti, e i mastri birrai più rinomati del settore. Perché il mondo della birra artigianale, come quello enologico, non è più un gioco da ragazzi e conosce oggi, finalmente, una fase di vivace maturità che può dare grandi soddisfazioni. E BirraHub, che è anche il nome dell’etichetta proprietaria, vuole esserci e da protagonista, diventando il punto di riferimento per un mercato che vive tanto di passione quanto di professionalità. Un mondo di profumi e sapori che può spesso contare, tra i non addetti ai lavori, sull’effetto “wow”. Ogni settimana vengono spillate nuove birre da assaggiare e scoprire, accuratamente selezionate e accompagnate da gustosi abbinamenti culinari o stuzzicanti snack. Oltre ai luppoli nei fusti, sono circa cinquanta le referenze a disposizione sugli scaffali; non solo le conosciute APA ed IPA, ma anche Imperial Stout, affumicate, torbate, Grape Ale (il nuovo stile italiano) e Bière de Garde. Da BirraHub la diffusione della cultura birraia passa anche da serate di degustazione e corsi per gli homebrewer che possono acquistare kit professionali, luppoli e tutto il necessario per creare la propria ricetta in autonomia. Consigli, condivisione di esperienza e atmosfera sorridente non hanno prezzo e mai mancano nella suggestiva corte cinquecentesca al 10 di Via Roma.
Historia Antiqua “C
Solo per intenditori
iao, sono Beniamino Russo, gli amici mi chiamano Benji: seguendo la passione trasmessa dal famoso Mora Amedeo ho cominciato ad amare il vino. Sono originario di Avellino: a Milano dal 1998, gestisco lo storico bar Colonial in Corso Magenta e sono il responsabile commerciale dell’azienda Historia Antiqua, per quello che riguarda il mercato del nord Italia e della Svizzera. Produciamo 100.000 bottiglie, con potenzialità per arrivare addirittura ad un milione, quando riusciremo a farci conoscere e amare dal mondo intero. Historia Antiqua è in continua, costante evoluzione ed espansione: c’è tanta voglia di fare e investire. E’ un’azienda solida, con vigne di proprietà e un solo uomo al commando, Napoleone: è lui
che gestisce le attività, mentre la vera patron è Margherita de Iorio, donna straordinaria, irpina di gran carattere (accanto a lei c’è sempre Carmine Cornacchia). Le nostre uve vengono a maturare in periodi diversi. All’inizio volevo capire se i vini subivano delle variazioni da un anno all’altro: al palato mi sono sembrati identici. Vi svelo anche un piccolo segreto: prima di cominciare a lavorare gli ho seguiti di nascosto, scoprendo gente con tanto entusiasmo. Una parola per ogni nostro prodotto? Taurasi 2008 Riserva è la storia. Falanghina è il vino delle donne. Greco di Tufo è quello che gli intenditori vorrebbero bere. Coda di Volpe, le nostre origini. L’Aglianico, la tradizione. Fiano di Avellino è il vino di tutti”.
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Treats Magazine Sempre più glam
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qualcuno potrebbe sembrare un tantino strano, vedere come ad ogni uscita di GOOD LIFE non manca mai una pagina, almeno una pagina con immagini tratte dalla rivista Treats. Fosse un’azienda si potrebbe pensare ad una marchetta, come si dice in gergo. E invece no, d’altronde che tipo di vantaggio potremmo trarne? Semplicemente Steve Shaw riesce a catalizzare le miglior modelle ed i fotografi più creativi, tutti uniti alla causa: realizzare La rivista. Ci riesce, eccome. Non c’entra nulla la morte lenta della concorrenza, Playboy in primis: a proposito, avete visto il primo numero americano senza nudo integrale? Forse si sono
fatti prendere la mano, ma di questo passo entro l’anno chiuderanno i battenti e, per quanto possa essere antipatico dirlo, se lo meritano. Ora pare una rivista seria senza esserlo. Sarebbe interessante sapere cosa ne pensa Hugh Hefner, anche se il geniale editore pare non abbia più la volontà e la forza per invertire la rotta. Ha già dato, eccome, per mezzo secolo: ora dovrebbe toccare agli altri, se solo avessero un minimo di piano, ambizione, gusto e senso del business. Peggio per loro e meglio per Steve, uno con le idee chiare e soprattutto occhio e testa da imprenditore. Ha saputo creare interesse e attesa attorno al
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suo prodotto, mandando delle newsletter con le novità, ovvero ogni tot giorni un shooting fotografico da urlo. In giro non ne vedi altre del genere, quansi tutte le riviste hanno cambiato target, rota e modello editoriale, quasi rinnegando il passato fastoso pieno di glamour e bellezza. Difficile capirli, anche se resta la libertà di suicidarsi: ognuno a modo suo. A noi invece tocca il compito di selezionare le immagini che più ci hanno colpito, pur sapendo di dover lasciare fuori altre meravigliose: il corpo umano, nella sua immensa bellezza, non possiamo pubblicarlo come vorremmo, il nudo integrale spiazza e fa alzare le ciglia (nel 2016, eh).
Taste of Milan
Perché mangiare è godere
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ow. Uhmmmm. Uuuuh. Donne che miagolano per il piacere. Coppie in estasi, che si abbandonano alla seduzione. Uomini sognanti. Aromi unici. Piatti saporiti. Altri che si sciolgono in bocca. Assaggiandone alcuni ti senti trasportato su una spiaggia battuta dal vento. Insomma, un’atmosfera paradisiaca e, credeteci, non si tratta di una esagerazione tot al chilo. Guardavi la folla che assaltava, si, assaltava gli stand di alcuni chef e restavi senza parole. Ti chiedevi una cosa soltanto: perché sono venuti solamente (si fa per dire) 25.000 milanesi, nei quattro giorni della manifestazione? E poi, come si fa a invogliare, a incuriosire e contagiare anche gli altri? Perché sono all’oscuro, come mai il messaggio non è arrivato a tutti? Rewind, giugno 2015. In modo del tuo eccezionale, per via dell’Expo, Taste of Milan ha aperto
le porte un mese più tardi rispetto alle precedenti edizioni. L’ultimo giorno, domenica, fra gli altri ristoranti presenti c’erano anche Wicky e Trussardi alla Scala. Il primo ha portato alcuni piattini classici, incluso il maialino cotto per 16 ore a bassa temperatura. Da parte sua, Roberto Conti ha deciso di presentare al grande pubblico il suo piatto epico, ovvero spaghetti cacio pepe e ricci. Morale della storia? Il popolo gourmet, che si informa e viene al Taste sapendo esattamente cosa scegliere e dove mettersi in fila, ha semplicemente preso d’assalto i loro stand. Risultato? Alle 20 entrambi hanno dovuto arrendersi e scrivere “Sold out” sul menu che indicava le loro proposte. “Ho servito 500 piatti all’ora di pranzo e 1.000 durante le ore serali, ho finito la pasta”, raccontava Roberto, sbalordito, frastornato ma felicissimo di tutto ciò. Da parte sua, Wicky, con un sorriso a 32
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denti, finito il maialino, si è seduto sul tavolo, ha aperto una bottiglia di Bruno Paillard, gustandosi lo spettacolo. “Guarda lì, sold out! E’ un momento epico”. Perché Taste of Milan è questo: migliaia di persone che si informano sugli chef, sui piatti che cuochi star, oppure emergenti, porteranno e faranno assaggiare. Quest’anno ci sarà da leccarsi i baffi: Andrea Berton, Luigi Taglienti, Felice Lo Basso, Yoji Tokuyoshi, poi ancora Wicky Pryian e Roberto Conti, i record man dell’edizione passata. La location sarà diversa: non più in Via Tortona bensì al The Mall, alle Varesine, la zona più in di Milano. Ci sarà meno spazio, però di sicuro vedremo molte più code e sentiremo più miagolii. Perché mangiare è godere. Soprattutto al Taste, dal 19 al 22 maggio.