Renzo Rosso Eleven Madison Angelo Inglese Francis Ford Coppola Julie Mechali Angelo Galasso
Inga Verbeeck Simon Baker Jenson Button Luca Gardini Sonja Pev Felice Lo Basso La Sultana
Pino Lerario
Sognando l’America
IL PIACERE DELLA DEGUSTAZIONE: UNA SOLA QUALITÀ, LA MIGLIORE.
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Sommario
Good Life Food is art
Pino Lerario Sognando l’America pg. 4
Diesel Farm La Borgogna del Nord pg. 12
Eleven Madison New York, New York pg. 14
Julie Mechali Peinture culinaire pg. 16
I love Italy Francis Ford Coppola pg. 20
Jenson Button Il bello della F1 pg. 28
Simon Baker Australian Gentleman pg. 30
Inga Verbeeck Cupido a cinque stelle pg. 32
La Sultana Marrakech pg. 35
Good Life dominiqueantognoni@yahoo.it
Editoriale
Mangiare è godere
S
crivere l’editoriale. Non so per gli altri, ma per me è un momento quasi epico. Il nirvana. Un tripudio di emozioni, pensieri, sensazioni, momenti vissuti che non vedi l’ora di raccontare. Un puzzle. Oppure un solo concetto espresso con forza. Si va a fasi alterne, rimane l’idea che l’editoriale è uno spazio sacro. E’ il tuo spazio, dove scrivi in prima persona. E’ un diritto, un privilegio, una fortuna. Agli inizi hai anche un po’ paura, proprio per la sacralità del momento: temi di essere considerato presuntuoso (non è stato il mio caso). Piano piano, numero dopo numero, ci prendi gusto e vorresti non finisse più lo spazio. Avrò modificato tre volte l’editoriale che state leggendo. La prima bozza raccontava una serata all’Unico di Milano, il ristorante più alto d’Europa, al 21imo piano di un grattacielo in zona Portello a Milano. Da fine settembre lì impera Felice lo Basso, chef orgasmico, andateci. Ebbene mentre stavo ammirando la città dall’alto mi è arrivato un messaggio da Alysa Krav, una delle donne più belle che io abbia mai visto. Farà una carriera monumentale, le porte dell’agenzia Elite Miami sono spalancate, per lei si ipotizza già una prima apparizione su Sport Illustrated. In più assomiglia a Giada Ghittino, vera musa ispiratrice nel passato di Good Life. Fu come un flash: un piatto che esalta i sensi come la schiena arcuata di una donna mozzafiato. E poi il connubio alta cucina-alta moda, perché i due mondi sono identici. Stessa passione, stessa voglia e necessità di stupire, creare, far sognare. Il nuovo corso di GOOD LIFE parte così, assaggiando le delizie di Felice e guardando la foto di Alysa. Poi però accade la magia.
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Si, come sempre, c’è di mezzo una donna: spostiamo la polaroid a Sarmeola di Rubano, nei pressi di Padova. Il Calandrino è assai famoso: praticamente è il figlio del più noto Le Calandre, regno di Massimiliano Alaimo, tre stelle Michelin e un prestigio straordinario. Il bistrot è chic ma non troppo, moderno senza voler strafare, luminoso, atmosfera rilassata, spazi ampi fra i tavoli. Si mangia bene, ovviamente: il tiramisù quasi liquido è strepitoso. Mi è capitato di andarci in un normalissimo mercoledì di metà novembre, poco dopo mezzogiorno, ovvero nulla di speciale. Nulla di speciale tranne lei, che è riuscita a trasformare un pranzo qualsiasi in un momento favoloso, uno di quelle polaroid che ti rimangono impresse per sempre. Vogliamo essere sinceri fino in fondo? Uno dei momenti più belli dell’anno appena finito. Era indaffarata, non poteva staccarsi dal Blackberry per motivi di lavoro, eppure ero l’uomo più felice del mondo, semplicemente guardandola. Ad un tratto, tutto mi sembrava perfetto, si chiudeva il cerchio: il ristorante di una famiglia straordinaria, cucina raffinata, atmosfera fantastica, la donna dei sogni davanti, ovvero Good Life in tutte le sfumature della vita, professionale e privata. Life is now, me lo ripetevo mentre S. continuava a mandare messaggi urgenti. Life is now, perché non avrei scambiato quei momenti per nulla al mondo, era l’unico posto dove avrei voluto essere. Da adolescenti si esagera sempre, nei diari si scrive spesso “è come se tutto si fosse fermato”. Al Caladrino nulla si era fermato, però mi sembrava di essere lì da sempre, seppur vi avessi messo piede per la prima volta solo un paio di ore prima. Mangiare è godere, guardarla è il nirvana. Cibo e donne, esaltazione pura.
Pino Lerario Sognando l’America
G
li ultimi due anni sono stati a dir poco strepitosi. Pirotecnici, sbalorditivi, per gli analisti del settore. Pino Lerario è riuscito a portare ai vertici l’impresa di famiglia, Tagliatore. Azienda con una storia che arriva da lontano, piena di racconti ed episodi leggendari, ha tuttavia preso il volo solo di recente, grazie soprattutto a lui. Un uomo che è un vero vulcano: temperamentale, un classico per la gente del sud, ma anche pieno di idee, altra caratteristica quasi innata fra coloro che nascono
Mi ispiro ad Armani: lo seguo dal 1982, guardando le sue prime collezioni ho deciso di fare il modellista
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laddove il sole splende e la terra profuma di paradiso. E’ elettrico, sempre in movimento, ha una passione che sconfina nell’ossessione, è un uragano creativo, visto che sforna collezioni che sprigionano energia e voglia di vivere; collezioni dove spesso predomina il rosso, il colore delle ciliegie della sua regione. Le giacche che disegna sono un tripudio di colori, righe e quadretti, un mondo variopinto e allegro, dandy e sofisticato. Prima di farci trasportare nel meraviglioso mondo di Tagliatore, facciamo un passo indietro per una breve
storia dell’azienda, ne vale la pena. Suo nonno, Vito, tagliava le tomaie delle scarpe che poi sua moglie cuciva: lasciò le tomaie per impugnare le forbici e diventare sarto e più tardi nonno di Pino Lerario, la mente creativa dell’attuale società gestita con i tre fratelli. Il padre di Pino inizia a cinque anni a trafficare tra i tessuti. Così fanno anche i suoi figli, che si dividono tra la scuola e il laboratorio che, agli inizi, produceva per conto terzi. Segue una lenta e graduale crescita, passando dalla prima sede, un appartamento di 250 metri quadri con dieci dipendenti, ad una palazzina di proprietà dove ora lavorano 180 persone. Dalla storia ai numeri: le collezioni Tagliatore e la capsule collection Pino Lerario sono presenti in circa 800 punti vendita di fascia alta, in tutto il mondo. I mercati di riferimento: Giappone, Germania, Austria, Svizzera, Francia ed i paesi Scandinavi, serviti attraverso gli showroom di vendita di Milano, Parigi, Monaco, Düsseldorf e Tokyo. Ora si affaccia al mercato canadese, coreano e mediorientale, mentre da qui a 3 anni l’obiettivo è raggiungere anche il mercato statunitense e quello russo. - Partiamo da Batman: com’è andata la storia con il famoso costumista Bob Ringwood e gli smoking realizzati per il cast stellare del film? - A quei tempi avevamo tre negozi monomarca a Londra, si chiamavano Gianni Baldo e Lerario. Gianni Baldo era il nostro socio e partner in terra britannica. Un giorno Bob passa davanti alle vetrine nel nostro monomarca in Savile Row, entra, chiede chi ha realizzato le giacche e ci contatta. Ricordo quando andai a Londra, sul set: indossavo un capotto che Bob voleva fregarmi, tanto gli piaceva. Andai con almeno ottanta modelli, i
loro stilisti ne hanno scelto una dozzina per il cast. Poi abbiamo creato smoking particolari, viola e blu Cina, perché alla fine il film è un fumetto, ci stavano colori accesi e particolari. Avevo 24 anni, l’emozione nel vedere Jack Nicholson, Michael Keaton e Kim Basinger fu fortissima. - Il film vi ha aiutati a farvi conoscere? - Ovvio, si trattava di un kolossal come pochi altri, come poteva non aiutarci? - Lei ha poi mantenuto i rapporti con Bob e il mondo hollywoodiano? - Purtroppo no, perché era un rapporto del nostro so-
La mia priorità è il mercato americano, vorrei riuscissimo a far breccia a New York cio londinese, però ora che ci penso proverò a riallacciare i rapporti, mi farebbe un enorme piacere. - Come possiamo definirla, un sarto, un artigiano, un creativo, un imprenditore? - Imprenditore no di certo, o meglio, è l’aspetto in cui meno mi rispecchio. Forse il miglior termine sarebbe artista, perché tutti gli sarti lo sono. Oppure un sarto modellista, ma per la verità la terminologia conta poco. - Si aspettava un tale successo? - Onestamente no, però se uno lavora come un forsennato qualche soddisfazione se la toglie. Se sei appassio-
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nato, se ti dedichi, se dai tutto, non puoi non ottenere dei successi. - Da uno a dieci quanto si considera soddisfatto dei risultati ottenuti? - Dieci. Senza ombra di dubbio. - Ci ha mai pensato che il mercato potesse non recepire il suo messaggio? - A volte vengono dei dubbi, è normale. Il mercato esige il blu e tu proponi il verde, ci vuole del tempo per far passare la tua idea. - Oltre alle collezioni Tagliatore ci sono le capsule Pino Lerario, quali le differenze? - Le capsule collection le sento ancora più mie. Per tornare al discorso di prima, quando disegno la collezione Tagliatore penso ad un prodotto vendibile su larga scala, lì mi sento imprenditore; mentre le capsule sono di ricerca, per un cliente più sofisticato, esigente, estroverso. Però chi indossa un capo della capsule ne diventa dipendente: un Pino Lerario addicted. - L’anno scorso raccontava dell’esigenza di espandersi sempre di più all’estero. Dove le piacerebbe sfondare? - Negli Stati Uniti, sono un grandissimo appassionato e fan di questo paese fantastico, amo il loro modo di essere e di vivere, l’ho girato in lungo e in largo due anni fa. La mia priorità è il mercato americano, vorrei riuscissimo a far breccia a New York, perché se vuoi sfondare nel paese più importante al mondo si parte da lì. Un mio amico mi diceva che devi starci per dieci anni e poi magari andartene, ma si deve iniziare da New York, ti garantisce l’entrata in altri mercati, altre metropoli. Un’altra città che mi stuzzica tantissimo è Miami, è diventata importante, intensa, colorata, abitata da persone con gusto e voglia di vivere bene.
- Su altri giornali parlava anche della Russia. - La priorità assoluta sono gli Stati Uniti. In questo momento la Russia la vedo più problematica, per via della situazione che si è creata e anche perché il mercato russo presuppone una collezione realizzata apposta, il loro modo di vestire è diverso dal nostro, perfino fisicamente viaggiano su altri binari. Poi da loro fa molto freddo, indossano degli scarponi che poco hanno a che fare con il vestire slim: di conseguenza perfino i pantaloni devi pensarli diversamente. - Facciamo la classifica dei paesi dove Tagliatore vende di più. - Al primo posto l’Italia, ovviamente, Tagliatore è un
prodotto pensato per il modo di vestirsi nostrano. Poi il Giappone, paese ideale per i nostri capi slim. Va detto che fra noi e il paese nipponico si gioca ad una sorta di ping pong, noi copiamo loro e loro copiano noi, perché hanno una stima infinita della nostra moda. - Una volta aveva raccontato che le sarebbe piaciuto avere Vittorio De Sica come testimonial. Guardando al presente e al futuro, ha in mente un nome che, magari, potrebbe diventarlo? - David Beckham. Sa indossare i capi, non importa che si tratti di un cappotto, una maglietta o un cappello: ha un portamento perfetto, è disinvolto in qualsiasi situazione. Sarebbe ideale.
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- Suona poco poetico, ma proviamo a targetizzare il cliente tipo di Tagliatore. - Principalmente uomo dai 25 ai 45 anni, poi abbiamo una fascia numericamente meno imponente che va dai 45 ai 60. Proviamo a far coesistere i due mondi, dei 25enni e dei 60enni, e non è raro vedere questi ultimi acquistare giacche pensate per i primi. Di rado, magari per un’occasione particolare, per una serata dove ci si vuole sentire chic e choc. - Giacche a righe, a scacchi, saxon, in tweed: ne ha realizzate centinaia, però se la ricorda la prima? - Come no, anche se sono passati trent’anni. Aveva dei riporti in pelle che giravano attorno alla giacca. Ero
l’uomo più felice del mondo quando mi chiedevano da chi l’avessi comprata. - La giacca alla quale si sente più affezionato? - Le ultime creazioni sono sempre quelle che ti rimangono in mente, nel mio caso lo smoking regimental rosso presentato al Pitti: un successone. - E’ una domanda un po’ demodé, però rischiamo: lei si è ispirato a qualcuno? - Ad Armani, già negli anni ottanta faceva degli abiti straordinari. Lo seguo dal 1982, guardando le sue prime collezioni ho deciso di fare il modellista. - Ha studiato, oppure è un auto didatta al cento per cento? - Vado in azienda da quando avevo sette anni, giocavo
con i macchinari. Mi è parso naturale iniziare a disegnare, fare degli schizzi. Poi andai a Milano alla scuola di modellistica, ma per il resto sapevo cucire e disegnare. E’ iniziato per gioco, ma pure oggi non sono lontano dal giocarci, non è cambiato molto. - Una volta aveva detto che propone una moda Made in Martina Franca. - Vivo in una regione, in una città, che da decenni sprizza creatività e gronda di idee per la moda maschile. Fin dagli anni quaranta qui si producevano cappotti da uomo, poi da donna. Noi siamo un’altra storia, ma intrisi della cultura del posto. - Ha mai pensato a quanto risparmierebbe se si andasse a produrre altrove?
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- Spenderemmo la metà, meglio non pensarci. Comunque nessun rimpianto, anzi, siamo fieri di essere al mille per cento Made in Italy. - Capitolo negozi monomarca, ci state pensando? - No, perché abbiamo 800 punti vendita in giro per il mondo e un monomarca vorrebbe dire dar loro un dispiacere. Il rispetto per i nostri collaboratori e clienti viene prima di tutto. - Al Pitti cosa proporrete di nuovo? - Un colore nuovo, una specie di Blu Cina però meno sgargiante: il colore del nostro cielo, chiamiamolo Blu oltremare. Poi nuovi bottoni e nuove storie, tenendo conto della nostra tradizione. Beckham sicuramente gradirebbe.
Angelo Galasso Un dandy a tavola
Assaggi, a Nothing Hill
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esi addietro abbiamo “svoltato”, decidendo che Good Life sarebbe diventata la prima rivista a raccontare di alta moda e alta cucina. Avevamo la convinzione che esistesse un legame strettissimo fra i due mondi, fra la passione viscerale di uno chef e la creatività di uno sarto artigiano. Davanti agli occhi avevamo l’ultima collezione di Angelo Galasso, lo stilista che veste Al Pacino: un paradiso per gli audaci e per i dandy, così come i ristoranti stellati lo sono per i foodies. Praticamente da quando lo conosciamo viviamo intrisi dei suoi colori e del suo mondo sparkling, così come del suo desiderio di stupire e piacere, di osare e provocare. Proprio come uno chef, vero? Se aggiungiamo che Angelo è anche un cuoco appassionato, che possiede una tenuta in Toscana, che è un grande “consumatore” di ristoranti, eccoci arrivati alla logica conclusione: è l’amico perfetto di Good Life, mentre noi siamo i suoi fan numero uno, oltre che “ambasciatori” dei suoi valori. Ovviamente, per lui non fa alcuna differenza raccontare una collezione oppure un piatto preparato nella sua casa londinese. Stessa passione, stessa effervescenza, stesso amore verace, infinito, totale: da uomo del sud conosce alla perfezione il profumo delle materie prime, apprezza l’eccellenza, esige il massimo. Volete la conferma? Partiamo.
- Londra: vent’anni addietro era famosa per essere la capitale dove si mangiava peggio, ora è la metropoli dove si mangia meglio. Come ha vissuto il cambiamento, visto che si è trasferito lì proprio nel periodo nero? - Quindici anni fa a Londra non c’era verso di trovare un caffè decente. Andavamo tutti da Costa Caffè, l’unico posto dove in qualche modo era bevibile. Fra l’altro lì incontrai Marco Peter White, uno chef eccentrico, straordinario, il più giovane ad aver mai conquistato tre stelle Michelin. E’ uno dei pochi chef che mi piacerebbe vestire, perché è un personaggio straordinario, di grande personalità. - Si mangiava così male due decenni fa? - Un giorno chiesi al tassista di indicarmi un buon ristorante, mi rispose che lui non riusciva a mangiare nemmeno quello che cucinava sua madre. Era un vero disastro. - Ci regali un indirizzo segreto, nella nuova Londra. - Assaggi, a Nothing Hill. Praticamente un appartamento al primo piano di una casa d’epoca, ci sono sei tavoli soltanto: però le materie prime, che delizia. Una trattoria di alto livello, il menu cambia spesso, la parmigiana è da urlo, la cantina ancor di più. - Quando entra in un ristorante cosa nota, dove possa lo sguardo?
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- Prima di tutto guardo i camerieri, già da quello si capisce molto, se non tutto. Poi, gli antipasti e il cestino del pane. - Sceglie i ristoranti in base agli chef ? - Mai. La prima volta mi lascio consigliare, la seconda no, faccio di testa mia, seguo l’istinto. - Ci sono dei ristoranti che le danno la sensazione di essere suoi, di essere attinenti al mondo Angelo Galasso? - Io sono per le trattorie e per i ristoranti classici, è lì che mi sento a casa. - Com’è Angelo Galasso in cucina? - Come al lavoro: tradition in evolution. Cucina classica con un tocco di colore, per accontentare l’occhio: mi piace molto il rosmarino come touch finale. - Cosa troviamo nella dispensa dello chef Galasso? - Di tutto, ricevo ogni settimana dei prodotti pugliesi straordinari: orecchiette nere, pane, olio, aceto, perfino cime di rapa. - Il piatto più dandy che ha cucinato? - Polpette con melanzane. - Se non avesse intrapreso la via dell’alta moda, pensa che sarebbe diventato un grande chef ? - Sono già un grande chef. Chiedere a mia moglie e ai miei figli per credere. O meglio ancora, vi invito a cena.
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Pakta, Barcellona Cucina Nikkei
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tradizionale aiuterà la gente a venire più spesso”, raccontava a denti stretti qualche mese fa. Oggi si volta pagina completamente, siamo davanti alla nikkei cuisine, dove il nome proviene dall’appellativo dato ai primi emigranti giapponesi nel Peru: ostriche, mela e wasabi in granita, tataki di manzo, ristretto di lonza con patate delle Canarie. Siccome certe materie si fa fatica a trovarle a Barcellona, ecco lo chef Munoz a coltivare la huacatay, una erba delle Andi, sul suo balcone. Non esiste una carta, ci sono due menù degustazione, il Fujiyama e Machu Picchu. I prezzi ed il numero delle proposte varia: ora il primo regala 23 portate e costa 95 euro, il secondo 33 piatti per 125 euro. Si può prenotare solo online (non c’è un numero di telefono), fa specie che un mese prima dovresti perfino confermare, come se si potesse prevedere il futuro. Il ristorante, minimalista e colorato, è diviso in quattro parti: il bar, la sala contenente una trentina di posti e due cucine a vista. L’aspetto leggermente inconsueto è la cameriera che ti illustra i piatti con l’aiuto di una bacchetta. Ma fa parte del gioco.
iente. Nessun cenno, alcun riferimento alla cucina molecolare. Non aspettatevi gli effetti speciali dell’Adrià di una volta. Al Pakta troverete tutt’altro, una cucina che abbina due culture, quella nipponica e quella peruviana: tradotto, ricette, tecniche asiatiche e prodotti peruviani. I tre chef, Kyoto Iì, Jorge Munoz e Albert Adrià, hanno “assemblato” alla perfezione due mondi con il tocco finale dell’ultimo. El Bulli è solo un ricordo lontanissimo (ha chiuso nel luglio del 2011), eppure stiamo parlando di un mondo che ai tempi aveva letteralmente rivoluzionato la cucina: da convenzionale alla decostruzione più totale. Però in vent’anni di attività il ristorante non aveva mai portato dei profitti, in più ha creato una confusione totale in giro per il continente, dove la gran parte degli chef ha cercato di scimmiottare i due fratelli, con dei risultati raccapriccianti e tediosi: c’era specificazione ovunque, schiume e varie. E poi, anche se gli duole ammetterlo, Ferran sa che a El Bulli la stragrande maggioranza dei clienti non tornava: si voleva vivere l’esperienza, magari per raccontarla agli amici, per vantarsi o per togliersi una curiosità ma poi stop. “Il modo di mangiare
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Eberhard
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Tribute to Contograf
spirarsi sempre a se stessi, restare indipendenti, non seguire le mode ma soltanto la tradizione,la propria tradizione e perfezione, reinterpretare in chiave moderna un grande successo del passato. L’ennesima standing ovation per la maison fondata da Georges Eberhard nel 1887, azienda fra le più antiche, da sempre situata a La Chaux de Fonds, piccolo villaggio nel cantone di Neuchatel. Mario Peserico, amministratore delegato della maison in Italia gongola e dimostra un entusiasmo contagioso raccontando l’ultimo modello, il Contograf, remake di prestigio.“Invece che ampliare la collezione abbiamo preferito attingere alla nostra storia, ripercorrendo e riproponendo uno dei modelli che hanno segnato le nostre decadi: eccolo, il nostro ultimo gioiello, già oggetto del desiderio negli anni sessanta, quando era un cronografo meccanico di riferimento, all’avanguardia. Strano a dirsi ma ebbe una vita assai breve, perché proprio in quel periodo, sul finire del decennio, iniziò l’epoca dell’orologeria giapponese, meno meccanica. I nostri Contograf andarono a ruba, furono venduti tutti e sono evidentemente conservati gelosamente tant’è vero che la maison non e’ riuscita a riacquistare nessuno in giro per il mondo, nonostante una tenace opera di ricerca: ma solo ad ottenere da due collezionisti uno in Australia e un altro a Hong Kong, di averli in prestito p a fini documentali. Rispetto al modello originale, quello attuale è leggermente modificato, senza alterare minimamente il fascino. Ai tempi il Contograf vantava caratteristiche straordinarie: due contatori, pulsanti impermeabili, un grande datario. Il modello attuale porta qualche novità davvero chic, come la lunetta con rotazione unidirezionale in ceramica. A quei tempi le maison come la nostra realizzavano una sola linea; gli orologi erano quasi tutti simili e di gusto molto classico pur cercando di essere innovativi e di anticipare i tempi: cinturino in coccodrillo, molto eleganti, la cassa in oro, spesso oro massiccio. Ora invece è tutto diverso, il mondo è cambiato, il target è più trasversale, c’è un misto di eleganza e sportività. E’ cambiato leggermente anche il nostro cliente tipo, nel senso che si va dal giovane trentenne con la cultura del prodotto al quarantenne che vuole gratificare se stesso ed i suoi successi professionali con un oggetto di grande valore. Siamo sicuri che il Contograf avrà un ottimo riscontro sul mercato come gli altri modelli cult, vedi il Tazio Nuvolari e l’Extra Fort, il Chrono 4 o l’8 giorni ,i nostri best seller. Compatibilmente con mercati che non sono sempre positivi siamo contenti del nostro trend globale; l’Italia rimane di gran lunga il nostro mercato migliore, per darvi un’idea, su 16.000 pezzi realizzati in un anno, la metà lo si acquista da noi. L’altra metà viene divisa soprattutto fra Giappone, Germania, Spagna e gli Emirati Arabi, Dubai soprattutto. Mercati che ci piacerebbe conquistare? Gli Stati Uniti, il Messico e Taiwan. Gli americani non sono dei grandissimi amanti dell’alta orologeria, sono molto più propensi ad acquistare quelli elettronici, ma nemmeno nel vestirsi stanno eccellendo:in più, rispetto agli italiani, acquistano meno pezzi pregiati, se da noi un vero collezionista ne vanta almeno una decina, lì il numero è assai inferiore. Per questo riteniamo ci sia tutto Il potenziale per poter crescere significativamente, si tratta solo di trovare la chiave giusta per conquistarli puntando su una comunicazione integrata tra tradizionale e online ”. Sicuramente apprezzeranno gli orologi Eberhard.
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Diesel Farm
La Borgogna del Nord
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on lo conosciamo di persona. Non ancora, per lo meno. Però è uno di quei personaggi che fanno bene al capitalismo, per quanto la parola sia bandita in Italia da quasi tutti i media. E’ ferocemente ambizioso e visceralmente passionale, sprizza un’energia rara, contagiosa. Donald Trump, in uno dei suoi innumerevoli successi editoriali, scrisse che negli occhi di certe persone si legge subito quel qualcosa in più, quella scintilla, quell’essere vincenti, dando gli esempi di Tiger Woods e pochi altri. Ecco, Renzo Rosso è uno così, lo si capisce subito: si alza la mattina per vincere, per stravincere. Lo fa con una passione che gli permette di muovere le montagne, di andare sempre oltre l’ostacolo e soprattutto di emozionarsi, di vivere di adrenalina, di esaltarsi davanti ad ogni sfida. Dalai Lama, uno dei suoi grandi
ammiratori, lo spinge sempre a continuare a “istigare” i suoi dipendenti:”Metti a faccia, pensa a quanta gente potresti invogliare a venirti dietro, continua a fare quello che sai fare, creare posti di lavoro, dare dei salari alle famiglie”. Lui, ovviamente, istiga a fare di più, chiede ai creativi di farlo sognare, acquista altre aziende, fa beneficenza, spinge il microcredito e le start up, entra nel mondo dei cibi bio, finanzia il restauro di Rialto e soprattutto si gode la vita. Una delle sue attività più intriganti si chiama Farm, tenuta a pochi chilometri da Bassano del Grappa, dove produce tre tipologie di vino, 15.000 bottiglie l’anno, poi olio e grappa, oltre ad allevare animali. Tutto è nato da un ricordo d’infanzia, quando veniva introdotto dal padre nelle botti di vino per pulirle: era mingherlino, poteva farlo.
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Il progetto Diesel Farm è nato nel 1994: i proprietari dell’intera tenuta, 100 ettari estesi su sette colline a Marostica, volevano creare una stupenda Beverly Hills, casse di lusso con giardino e piscina, un paradiso. Non sappiamo cosa ne pensa Renzo del mattone, a noi piace da morire la gente che ama costruire, saremmo stati felici di scrivere delle ville. Lui però l’ha acquistata non per lottizzarla ma per tenerla così com’era. “Oggi è una bellissima tenuta, divisa a metà da una strada percorsa ogni mattina dagli amanti del jogging, come me. Qui si trovano tutte le vigne, molti animali da allevamento, orti biologici, un intero oliveto. Insomma, un vero e proprio paradiso naturale! Ed è diventato il luogo in cui organizzo pranzi e cene con gli amici e la mia famiglia, oltre a una lo-
cation segreta, dove invito le persone per stringere contratti e accordi lavorativi: una zona protetta, dove spesso mi ritiro, mi nascondo. Diventerà la mia residenza per la vecchiaia”, raccontava a D Repubblica. Poi continua, con lo stesso entusiasmo:”Un giorno chiamai il famoso enologo Roberto Cipresso. Dopo un’attenta analisi e dopo aver concluso sondaggi per ottenere dei dati tecnici, mi ha espresso il suo parere più che positivo riguardo la risorsa che avevo appena acquistato: per lui la tenuta sarebbe potuta diventare una piccola Borgogna del nord Italia. Insieme, quindi, abbiamo deciso di progettare il vigneto: trovare la posizione giusta per i tralci è stato facile, perché la tenuta si trova a 300 metri dal livello del mare, a 55 chilometri dalla costa e dalle pre-Alpi, in mezzo alle diverse correnti che danno vita a un microclima unico. Fare vino è davvero come realizzare il più bell’abito d’alta moda in atelier: ci vuole passione, energia, attenzione, cura nei particolari e soprattutto creatività”. Ecco, proprio i nostri valori, quelli di Good Life: alta moda e alta cucina, stesso mondo, stessi valori.
ventano il mio pranzo e quello della mia famiglia. Amo talmente tanto questa alimentazione che non tornerei più indietro. Vorrei che il vino ‘di Rosso’ diventasse un must have del beverage per qualità e stile, come può esserlo un paio di jeans Diesel. Da alcuni anni, inoltre, è in fase di sperimentazione un nuovo tipo di vino, uno champagne, che per ora è stato solo assaggiato dagli invitati della mia festa di compleanno. Infine, perché no, mi piacerebbe aprire le porte della tenuta al pubblico e realizzare un ristorante”, conclude nell’intervista al settimanale del gruppo De Benedetti. Oltre al mondo dei jeans e del vino sta portando avanti perfino un progetto legato alla casa, progetto di cui se ne occupa soprattutto suo figlio Andrea: hanno appena realizzato una cucina con Scavolini, i mobili in collaborazione con Moroso, le lampade con Foscarini, il tessile con Zucchi. E fino all’uscita del nostro numero chissà cos’altro bolle in pentola.
Dicevamo che Diesel Farm produce 15 mila bottiglie l’anno per tre tipologie di vino, sentiamolo: ‘Bianco di Rosso’, uno Chardonnay fermentato in botti di rovere francese; ‘rosso di Rosso’, ottenuto dalla combinazione di uve Merlot e Cabernet Sauvignon, che vengono vendemmiate rispettivamente la seconda decade di settembre e la prima di ottobre, e il Pinot ‘nero di Rosso’. Inoltre, produciamo due tipologie di ‘olio di Rosso’ extravergine di oliva e la ‘grappa di Rosso’, ottenuta dalla distillazione delle nostre vinacce. Ovviamente, diamo molta importanza anche al packaging, fattore di marketing oggi indispensabile per vendere: la stampa della bottiglia è fatta nello stesso modo di 80 anni fa, e ciascuna è chiusa, rigorosamente a mano, anche con la cera lacca. La grafica dell’etichetta è dolce, elegante e a tratti dorata, per sottolineare l’aspetto luxury del prodotto. Sono diventato un manico dell’eco food: ogni mattina, per esempio, il contadino consegna allo chef l’insalata appena colta, i pomodori maturi che di-
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Eleven Madison New York, New York
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“must” proposti da Daniel Humm è l’anatra laccata al miele e lavanda: viene tagliata intera al tavolo, poi rispedita in cucina per essere cucinata ulteriormente e riportata dopo poco. Da non perdere nemmeno il ribeye cotto lentamente, magari abbinato ai pinot noir dell’Oregon. Chi invece gradisce piatti più veloci, potrebbe optare per lo storione con caviale, uovo di quaglia e bagel. Il menu di Humm, chef del ristorante dal 2006, è ben strutturato, segue una linea guida precisa, ovvero il viaggio alla scoperta delle tradizioni statunitensi, e soprattutto newyorkesi, utilizzando ingredienti di altissimo livello a chilometro zero, e reinterpretazioni di piatti tipici. Qualche esempio? Si inizia con il Cheddar Cookie, biscottino al cheddar e mele, poi Sabayon, ovvero un guscio d’uovo con dello zabaione affumicato e dei pezzettini di storione, anch’esso affumicato (il piatto è favoloso). Segue tartare di sola carota macinata al momento, con condimenti intriganti tra cui molti semi, una vinagrette al peperone, olio al miele e tanto altro. Si continua con un piatto di nome Venison, filetto di cervo cotto alla brace all’interno di una fava di cacao: non esistono aggettivi per descriverlo e raccontarlo. Non manca il Pic-Nic basket: portata simpatica, un cesto con dentro una birra, uva, bretzel salato e una paradisiaca fetta del
adison Avenue, New York. Già l’indirizzo ti porta a sognare, trattandosi di una delle vie più belle, famose e affollate del mondo. Poi, il ristorante, al civico 11, ricavato in una ex banca è uno dei migliori in assoluto, quarto nell’ultima classifica dei Best 50 stillata da San Pellegrino, pluri stellato e multi premiato. Se si entra con un leggero timore reverenziale, basta oltrepassare la soglia per veder scomparire qualsiasi tipo di soggezione. Sorrisi sinceri, un “welcome” e la festa può avere inizio, grazie ad un modo di fare completamente diverso dalla gran parte dei ristoranti europei, spesso troppo rigidi e ingessati. Soffitti alti, arredi di buon gusto, stile art déco: spesso si viene accompagnati ad un tavolo dove si sta seduti entrambi dalla stessa parte, per poter guardare la sala. L’aspetto interessante è che tre giorni prima del proprio arrivo si riceve una mail dall’Eleven Madison dove, oltre a domande su intolleranze o richieste particolari, si viene informati sulla durata della cena, tre ore per le 15 portate del menu degustazione. Solitamente occorre prenotare con 28 giorni di anticipo, ma nel caso vi troviate nella Grande Mela e gli passiate davanti, potreste comunque avere la fortuna di trovare un posto al bar, dove il servizio è alla carta. Uno dei piatti
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formaggio tipico greensward. Dunque Egg-cream, reinterpretazione di un tipico cocktail newyorkese: latte, sciroppo alla vaniglia, selz e olio di oliva (lascia un retrogusto perfetto in bocca). Andiamo avanti: bretzel ricoperti di cioccolato fondente e fiocchi di sale. Molto chic i cocktails analcolici di lime, cetriolo e selz, perfetti per accompagnare la cena senza disturbare i sapori delle portate: leggeri e soprattutto fuori dallo schema obsoleto ristorante di lusso-vini costosi. I costi non sono esagerati, anzi: 230 dollari per il menù degustazione. Chi ha la curiosità di visitare la cucina viene invitato a tornare alle 18 (ovviamente parliamo dei clienti all’ora di pranzo), quando le attività di chef e staff sono al massimo. Si viene accolti con sincera simpatia, e con un drink preparato al momento. Lo raccontano in molti, facendo paragoni fra i ristoranti stellati americani ed europei: il modo easy degli yankees piace molto di più dell’atteggiamento snob degli stellati del Vecchio Continente. Parlavamo dello chef, Daniel Humm, 38 anni: assieme a Wiil Guidara é il patron del ristorante (i due possiedono e gestiscono anche il NoMad, all’interno dell’albergo con lo stesso nome). Lo hanno comprato da Danny Meyer, proprietario fino al 2012. Il motivo della cessione lo ha raccontato Meyer stesso: “Nel 2008 i due sono venuti da me informandomi che avrebbero voluto continuare a lavorare per Eleven Madison e, nello stesso tempo, aprire un ristorante tutto loro. Per me era inconcepibile: me li sarei ritrovati come dipendenti e come concorrenti, una situazione alquanto strana e inconsueta. Se li lasciavo andare avrei dovuto iniziare da capo, così ho pensato fosse meglio cedere l’Eleven proprio a loro, tenendomi gli altri cinque ristoranti che possiedo”. Saggia scelta.
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Julie Mechali Peinture culinaire
Copyright photo Julie MECHALI / Stylism Didier Hagege / “Lyric” Series
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na rivoluzionaria, come Picasso e Dali. Sì, nessuna esagerazione: Julie ha praticamente inventato uno stile, la peinture culinaire, che tradotto in italiano, “pittura culinaria”, non suona affatto sexy, non fa sognare e non rende l’idea. Spesso il lessico non ci è amico, per fortuna le immagini parlano e raccontano più di ogni parola, semplice o pomposa che sia. Pure qui si potrebbe cadere nel banale se non fosse che l’occhio rimane davvero sbalordito davanti alla magia che riesce a creare Julie, francese nata in Normandia e parigina di adozione, con lo studio a pochi passi dalla Chapelle. Ancora nessuno è riuscito a copiarla, imitarla, scimmiottarla: probabilmente sarebbe un esercizio
Impossibile trovare altrove una tale ricchezza di elementi, profumi, sapori, sensazioni, colori, una tale diversità di materie prime
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al limite dell’impossibile, vista la difficoltà estrema dei suoi scatti, la preparazione maniacale di ogni dettaglio e la sensibilità pazzesca di una ragazza che sta dipingendo meraviglie con la macchina fotografica. Quando l’abbiamo scoperta, quasi per caso, siamo rimasti ammutoliti davanti a tanta bellezza: e voi? Avevate mai visto qualcosa di simile, prima di sfogliare le nostre pagine? Semplicemente sbalorditiva. Con la speranza di poterla ospitare sempre, proviamo a capire come si possono creare e scattare immagini di tale fascino. -Quando hai cominciato? - Non troppo presto, ero adolescente, avevo sui 17 anni. Mi sono avvicinata alla fotografia un po’ per caso, nel senso che prima la mia grande passione
Copyright photo Julie MECHALI / Stylism Mélanie Martin / “Grèce” Book - Hachette Cuisine
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Copyright photo Julie MECHALI & Laura Catala / “The J.M. photographer’s Eye
era la musica: organizzavo perfino degli eventi, mi occupavo principalmente delle luci, collaborando a stretto contatto con i tecnici. E’ così che ho cominciato ad apprezzare ed amare il mondo della fotografia, grazie al fascino della lumiére, al modo nel quale riusciva a evidenziare, dare e creare la sensazione di profondità, addolcire oppure contrastare. Ecco, questo modo e mondo trascendentale della luce mi ha cambiato la vita: può raccontare una storia, nasconderla, metterla in evidenza. Poi ho avuto io stessa come una illuminazione, nel senso che sì, tutto bellissimo, ma senza il ricordo dell’impronta della luce non resterebbe nulla. Quel ricordo si chiama fotografia. A quel punto avevo capito tutto, era come la chiusura del cerchio, sapevo cosa avrei fatto da grande, che la fotografia sarebbe stata il motore della mia vita, della mia vocazione. Sentivo le così dette vibrazioni positive, riuscivo a guardare oltre, dove solo pochi eletti arrivano, quelli toccati da un dono misterioso; una specie di bacchetta magica che mi regalava la possibilità di immortalare la bellezza in un solo istante, in un attimo di vita. Il mio destino era tracciato. - Poi? - Con l’entusiasmo di chi ha trovato la sua strada piena di luci e sogni, mi sono iscritta ad una scuola di fotografia per capire, apprendere, sperimentare le basi tecniche per poter “creare” fotografia, per
dipingere immagini. - Come sei arrivata a fotografare dei piatti? - Agli inizi, nei primi anni, ero attratta dai vari mondi: moda, gioielli, profumi, per puro caso mi sono trovata in un contesto legato alla photographie culinaire. Inutile aggiungerlo, fu amore a prima vista. Impossibile trovare altrove una tale ricchezza di elementi, profumi, sapori, sensazioni, colori, una tale diversità di materie prime. La cucina ha il pregio, unico, di risvegliare tutti i sensi, di esaltarli: hai il privilegio di poter toccare un impasto, guardarlo lievitare e sentire il rumore del forno. Magia, pura magia, un’esperienza sensoriale straordinaria - D’accordissimo. Come sei arrivata a “dipingere” i piatti? - E’ stato quasi un passo naturale, un passaggio morbido e forse obbligato. Mi rendevo conto di avere a disposizione tutto quello che serve ad un pittore: la materia prima, un’infinita paletta di colori, la possibilità di mescolarli. Sarebbe stato folle non provare a creare proprio come Michelangelo e Raffaello. Ci sono voluti anni prima di arrivare a dei risultati soddisfacenti, poi altri per rendere un’immagine esattamente come desideravo. La “peinture culinaire” è nata poco a poco. Ho avuto tanta fortuna, perché conosco tanti food stylist: mi hanno incoraggiata e dato la possibilità di superare
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alcuni limiti e confini tecnici per andare oltre. Solo così le mie idee folli hanno trovato la giusta strada, passando da utopia a realtà, prendendo forma e concretezza. - Esiste una materia prima, un prodotto, un alimento che proprio ti manda in estasi, che ti ispira in modo particolare? - Adoro sia la materia animale che quella vegetale. Il motivo è semplice, sono una gourmand, per cui apprezzo il cibo in sé, ogni componente trasmette e scatena in me un fremito particolare, una vibrazione. Per non parlare dei momenti di autentico nirvana, quando si mescola animale e vegetale, oppure quando un semplice dettaglio, un momento della preparazione ti sorprende, ti ammalia. Comunque, è evidente che fra le due esistono delle differenze e che anch’io le percepisco: la frutta e la verdura sono così semplici, a volte nobili, quasi vive. In una parola, sublimi. La carne invece crea l’effetto acquolina in bocca e ti affascina perché si contrae, si ossida, si distende: è intrigante. Poi esistono oli, salse, aceti, tutti elementi preziosi per la realizzazione di un quadro: creano momenti sorprendenti, brillanti, dei riflessi straordinari. E cosa dire di spezie e condimenti, che sono dei piccoli punti nel quadro, nell’immagine, oltre a profumare divinamente? Tutto è così pieno di passione e bellezza…
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Copyright photo Julie MECHALI o / Stylism Mélanie Martin / “Cocktail” Series
I love Italy
Francis Ford Coppola
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etta così, telegraficamente, potrebbe passare per una banalità: Francis Ford Coppola è innamorato pazzo dell’Italia. Non è il fatto in sé a destare curiosità, oppure clamore, bensì la passionalità che il regista di Il Padrino e Apocalypse Now mette e trasmette in ogni suo gesto quando cammina felice per le strade dei paesini del sud, quando assaggia i suoi amati lampascioni o quando tocca i tessuti meravigliosi di Angelo Inglese, il suo artigiano preferito. Coincidenza vuole che lui sia il camiciaio che più apprezziamo e seguiamo da vicino, motivo che ci ha spinti di provare a capire di più sulle loro conversazioni e future collaborazioni. Confessiamo che un anno addietro, mentre stavamo sfogliando Cigar Aficionado, una delle nostre riviste di riferimento, pensavamo proprio ad Angelo e Francis: per chi non lo sa, il regista è un grandissimo amante di sigari, non a caso è stato perfino in
copertina e fra l’altro ha creato una sua linea personalizzata di robustos, Carmelo, come il nome del nonno. Più di una volta, vedendo le pagine pubblicitarie del bimensile americano, ovvero sterminate piantagioni di tabacco e uomini gioviali con cappelli panama e
E’ una persona straordinaria, un personaggio da film, ha una personalità e un’energia contagiose larghe camicie di lino, abbiamo accennato ad Angelo di creare una linea intitolata proprio a Francis Ford, una linea per la clientela statunitense benestante e robusta di fisico: sarebbe un trionfo. Ora tutto sta per diventare realtà, perché Coppola è
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un uomo d’affari lungimirante, ha capito subito di aver incontrato un artigiano unico, mani sapienti e una creatività sconfinata. Oltre alle camicie Francis lo ha incaricato di realizzare per lui un tuxedo per la serata degli Oscar, in più si sta parlando di una complessa linea Marcello (nome di uno dei suoi nipoti, figlio di Roman, suo primogenito). Stanno realizzando insieme anche un portabottiglie, una specie di manica di camicia che si stringe verso il collo della bottiglia come se fosse un polsino. “E’ una persona straordinaria, un personaggio da film, ha una personalità e un’energia contagiose”, racconta Angelo. “Appena entra il mondo cambia, si riempie di colori: gioca con i bambini, tenta di parlare in italiano, è di una esuberanza incredibile. I suoi amici sono ammirati, pur conoscendolo da una vita: difatti sono diventati pure loro nostri clienti, tornano anche senza di lui. Preferisce le camicie con il collo Capri, largo, oppure quelle sportive in lino: ho
sempre la sensazione che l’aspetto che più lo esalta quando viene da me sia farsi prendere le misure, è come un bambino in un parco giochi”. Parlare di Francis Ford Coppola come business man e non come regista fa un po’ impressione, però ne vale la pena soffermarsi. L’uomo è appassionato di alberghi, non a caso ne possiede cinque, tutti racchiusi nel gruppo Coppola Resorts: Blancaneaux Lodge e Turtle Inn alle Belize, La Lancha in Guatemala, Jardin Escondido a Buenos Aires. Il quinto è il Palazzo Margherita, costruito nel 1892, acquistato da Francis una decina di anni addietro e trasformato poi in albergo di lusso.
Lo inaugurò nell’occasione del matrimonio di Sofia: per la verità si è trattato delle sue seconde nozze, con il chitarrista Thomas Mars dei Phoenix, oggi entrambi assidui frequentatori dell’albergo e del sud dell’Italia (Sofia ama tornare anche da sola, pare che ormai passi qui tutte le sue vacanze). “Un hotel è come un film, un’esperienza creativa che trasforma i sogni in realtà”, ama enfatizzare. A Bernalda ha trovato tutto quello che desiderava: un posto meraviglioso, pieno di storia e bellezza, dove si sente protetto, amato, e dove è in contatto con la terra dei suoi avi, riscoprendo piaceri antichi; in più invita i suoi amici ed i collaboratori più stretti. Più
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semplicemente si sente a casa e ama sbandierare ai quattro venti le sue origini italiane. Non è raro vederlo in gita assieme ad altre dieci-venti persone che ospita al Palazzo Margherita: si muovono in gruppo, come piace agli americani. Ha stretto delle preziose partnership con alcuni imprenditori e artigiani locali, cercando perfino di investire seriamente nell’aeroporto di Pisticci, burocrazia permettendo: ora atterra a Grottaglie, piccolo aeroporto militare che accoglie i voli privati. Francis ha riscoperto l’amore per l’Italia e soprattutto si sorprende ogni giorno dei valori tradizionali e artigianali. Letteralmente impazzisce di gioia e orgoglio nel far scoprire loro le meraviglie di Matera e dintorni, soprattutto le masserie (ha appena finito di realizzare un libro di immagini proprio sulla vita quotidiana in masseria, compresi i mestieri antichi). Tutto quello che è lifestyle italiano lo esalta, per non parlare delle pietanze: va matto per i lampascioni pugliesi, per i cipollotti selvaggi dal gusto amarognolo, per pane e latticini locali. Pur essendo un produttore di vini (in California), Francis chiede per cena, nel suo albergo, dei prodotti del posto: la full immersion nella cultura dei suoi avi deve essere totale. Se di giorno è un instancabile turista curioso, la sera ama ricevere all’interno del Palazzo Margherita: adora l’atmosfera familiare del luogo, all’interno di un parco secolare pieno di cortili e con un giardino tutelato dall’Unesco (c’è perfino un orto). “Palazzo Margherita è come un set cinematografico d’eccezione, mentre lo staff e gli ospiti sono gli attori”, ripete spesso (non può essere un caso che il bar dell’albergo si chiama Cinecittà). Ogni camera dell’albergo ha un nome di famiglia: c’è la Suite Francis, ispirata dalla nonna tunisina del regista con le caratteristiche piastrelle nordafricane; la suite Sofia, dedicata ovviamente alla figlia, con affreschi
Francis con Angelo Inglese in colori pastello e un’aria raffinata; la suite Roman (l’altro figlio) con mobili e decorazioni in stile Art Decó e la suite Gia, romantica, in stile rococò, dedicata alla prima nipote di Francis. Le serate cinematografiche sono un must: nel grande salotto si alza il lampadario e scende un maxi schermo Made in Italy, così come il proiettore realizzato nel Veneto, a Pordenone, dall’azienda Sim2. La cineteca comprende trecento film in lingua originale con sottotitoli in inglese. Ama far vedere ai suoi amici quelli di Fellini, Totò e, ovviamente, i suoi: Il Padrino e Apocalypse Now vanno per la maggiore. Ma è la vita di Francis in Italia ad essere il miglior film possibile…
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Il Mercato di Firenze Tappeto Volante
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rte contemporanea e botteghe artigianali, musica classica e prosciutti straordinari, schizzi in stile Picasso e pizza appena sfornata: benvenuti a Il Mercato Centrale di Firenze, laddove passato e presente vanno a braccetto, un luogo che pulsa di profumi e sapori, idee e progetti. Prima di tutto, la struttura: opera di Giuseppe Mengoni, lo stesso architetto che progettò la Galleria Vittorio Emanuele nel 1863. Sei anni dopo inizia i primi bozzetti per Il Mercato di Firenze e in parallelo anche per il Mercato di Sant’Ambrogio, nella stessa città. A cento cinquanta anni di distanza ecco il perfetto punto di incontro fra mondi passati e contemporanei: il Tappeto volante di Daniel Buren e il rumore frizzante, godereccio e piacevole della clientela. 1344 lampade realizzate con cubi di plexiglass colorati a facce alterne, bianco-rosse bianco-blu, sospese perfettamente allineate in modo da formare un tappeto luminoso omogeneo, che di notte si accendono come lanterne cinesi: opera scandita da una cromia rigorosa, basata sui colori primari, bianco, blu e rosso, peraltro le stesse della bandiera francese, paese d’origine dell’artista
nato nel 1938 a Boulogne Billancourt. Buren, Leone d’Oro alla Biennale di Venezia nel 1986, è un signore d’altri tempi che ama i progetti tridimensionali, la modulazione dello spazio. Il mercato,aperto 365 giorni l’anno, riaperto solo otto mesi addietro, vive il suo periodo migliore. Una tale effervescenza forse non si era mai vista, nemmeno ai tempi dell’inaugurazione. Gran parte del merito va a Umberto Montano, imprenditore lungimirante e mecenate moderno, uno che ci crede per davvero nell’arte e nel suo impatto con la realtà solitamente impermeabile a dei messaggi intellettuali. “Proponiamo la cultura gratis, in un ambiente giovane e rilassato, perché Il Mercato è uno spazio che riesce ad assorbire e trasmettere energie positive, dove le opere d’arte vengono percepite con simpatia e facilità”. Ci ha investito 100.000 euro per portare a Firenze il Tappeto Volante, sa che sono soldi a fondo perso o quasi, però non demorde, insistendo sulla necessità di fare cultura, per far incuriosire e convincere i scettici. La sua è una missione chiara e va avanti come un treno: restituire agli fiorentini gli spazi storici e significativi della città, far vivere un atmosfera piena
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di energia e cultura, mescolando aspetti pragmatici e attività intellettuali. E’ così che nasce l’idea di istallare e ospitare l’opera di Buren: “Mi piace credere che la gente sia ricettiva, che possa apprezzare il regalo che stiamo facendo loro, la cultura nella quotidianità, in uno spazio ridisegnato e riprogettato. Noi diamo la possibilità al milione di persone che entrano a passare del tempo al mercato di San Lorenzo di ammirare l’arte moderna mentre sta passeggiando, degustando oppure acquistando le eccellenza toscane, i prodotti degli artigiani del gusto fiorentini. In questo modo il mercato diventa contenitore d’arte e di relazioni, di conoscenza e di cibo, epicentro di molteplici interessi. Ho voluto ridare centralità sia a loro che alla cultura, spero di essere riuscito”. E’ da ammirare, chapeau. L’opera, un’istallazione site-specific appartiene. Il Tappeto Volante è visibile sia di giorno sia di notte: presenta una cromia rigorosa, basata su colori primari (bianco, rosso e blu). Di notte i cubi si accendono come lanterne cinesi, trasformandosi in un tappeto volante sospeso a mezz’aria. Le luci si sono accese il 7 dicembre e resteranno così fino al 31 marzo.
Locanda Locatelli The Italian Job
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qualcuno può suonare strano, ma Locanda Locatelli, nella centralissima Seymour Street, è il ristorante che da anni viene preso come metro di paragone per tutti, o per la gran parte dei nuovi locali italiani e non solo. Ancor più strano potrebbe sembrare che Giorgio Locatelli fosse lo chef nostrano più famoso fuori dalla penisola (in tv è arrivato prima, molto prima dei vari Cracco e Bastianich). Certo, stiamo parlando di un ristorante stellato (ben due), dove spesso incontri Madonna oppure David Beckham, Johnny Deep e Robbie Williams, ma quello che impressiona, esalta e conforta è la qualità del cibo, non certo i nomi dei clienti. Ne ha fatta di strada, Giorgio Locatelli da Corgeno, piccola frazione di Vergiate, nella provincia di Varese. Poteva rimanere nel ristorante di famiglia (Cinzianella), sul lago di Comabbio, invece ha preferito andare in giro per il mondo, partendo dalla vicina Svizzera per poi arrivare a Londra nell’ormai lontano 1986, al The Savoy. Rimane qui per quattro anni, poi va al Laurent e
Qui spesso incontri Madonna oppure David Beckham, Johnny Deep e Robbie Williams al Tour d’Argent a Parigi. Segue un anno sabbatico, da lui considerato il più importante per il proseguimento della propria carriera: dopo, il ritorno nell’attuale capitale europea della haute cuisine, ovvero la stessa Londra. Va a lavorare all’Olivo e poi apre Zafferano, nel 1995. Il menù? Lingua di manzo in salsa verde, linguine agli scampi, coniglio al forno, maialino arrosto, branzino alle erbe, ovvero la più tradizionale cucina italiana. Per la cronaca, ad oggi potete ordinare le stesse pietanze, che sono rimaste un evergreen. Perché la cucina italiana e non quella francese? Semplice: “non
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la sento mia, quella dei cugini transalpini”. Ha sfondato puntando e credendo visceralmente nei suoi concetti: pian piano ha acquistato anche una visione manageriale dell’affaire, imparando a gestire il bilancio economico. Lui, umilmente, da i meriti al valore del suo team, aggiungendo che “siamo stati i primi italiani a creare un ottimo gruppo che si rinnova continuamente senza perdere il filo dell’eccellenza, gli inglesi questo lo apprezzano tantissimo”, raccontava a Maurizio Bertera per Linkiesta. Nel 2002 ha aperto la Locanda Locatelli: l’ottanta per cento dello staff è nato in Italia, anche se alcuni di loro lavoravano già nella capitale. Gente preparata, non studenti o avventurieri in cerca di un impiego temporaneo: d’altronde la stella, ottenuta a quattro mesi dall’apertura, fa si che arrivino dei curriculum importanti. La Locanda fattura sui cinque milioni di sterline l’anno, pur avendo un locale di soli 80 coperti (e settanta stipendi da pagare). Già che ci siamo, sentite Locatelli: “In Gran Bretagna, le banche prestano anche mezzo
milione di sterline, senza farti i raggi X come da noi, a patto che tu abbia un’idea interessante per la ristorazione. Da noi, piove sempre sul bagnato: chi non ha soldi, non riesce a farseli dare, chi li ha trova il finanziamento. Ma bisognerebbe dare fiducia, no? Io sono partito dal lago con 450 sterline e qualche anno dopo, con tanto sacrificio sia chiaro, ho comprato un ristorante che oggi vale otto milioni di sterline”. Piccola delusione per chi magari si aspetta un ritorno, oppure un’apertura di Locatelli in Italia: “ Sarebbe stupido lasciare una posizione così importante che mi sono costruito in venti anni di lavoro. E poi è sbagliato “mollare” un team così numeroso e valido, che ho creato nel tempo. Siamo cresciuti insieme, insomma. Ma se proprio dovesse succedere, penso che aprirei un locale in Sicilia: mi piace la sua cucina e poi c’è quel clima caldo che qui e anche sul mio lago si trova ben poco. Il paese dove ha senso fare ristorazione è la Cina. Ho un progetto in ballo, di grande livello perché è lì che oggi ne vale la pena investire: la clientela ricca è salita del 20% rispetto a qualche anno fa. Ma ripeto, bisogna arrivare seriamente, con grande professionismo e non con l’idea di fare business come fosse un gioco da ragazzi”, continua nel suo racconto per Linkiesta. E l’Italia? “Si fatica a capire come un Paese con tante eccellenze non le esprima, anzi spesso le rovini. Qui ci amano alla follia, più di tutti gli altri europei, e il professionista italiano è considerato uno dei più bravi in qualsiasi settore”.
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Don Juan Pasión argentina
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ppena entri capisci che passerai una serata memorabile: l’atmosfera è caliente, con le mura color rosso fuego, o per stare in tema color sangue di bue. La sangria offerta all’ingresso ti mette subito a tuo agio, quasi per prepararti, come a dire i giochi stanno per iniziare La prima sensazione, l’impatto è formidabile. Tavoli pieni, tante donne, il che per un ristorante che propone esclusivamente la carne è assai raro. La voglia di assaggiare subito le pietanze proposte e preparate dallo chef Rodrigo Rivarola è tanta, visti i presupposti. Quello che vale la pena sottolineare è che le attese non verranno infrante, spesso accade che la confezione possa fare a botte con i contenuti, qui invece no, è un continuo susseguirsi di emozioni culinarie, un crescendo rossiniano. Dai primi stuzzichini, dal pane fino al dolce non sbagliano un colpo, sono sempre ai più alti livelli, uno standard che riescono a mantenere identico dal 2000, quando Marlene Gomes e Giorgio Beretta hanno aperto le porte del loro paradiso in Via Altaguardia al civico 2, due passi dalla Porta Romana. Furono quasi i primi ad aver intuito l’amore degli italiani per le carni argentine. E’ un insieme di fattori che porta all’innamoramento totale verso l’asado: la sensazione di
libertà che trasmette l’idea della pampa, le infinite praterie, il verde, poi il tango. Si crea quell’atmosfera sensuale che ti porta a sognare, per non parlare delle carni, succose e appetitose. Fa sorridere il fatto che Marlene non sia argentina bensì brasiliana: “A Sao Paolo me ne occupavo di tutt’altro, facevo fotografie pubblicitarie, non avrei mai immaginato di aprire un ristorante. Poi sono arrivata in Italia e per una serie intera di situazioni alquanto casuali ho iniziato ad organizzare dei catering. Da lì il passo verso l’apertura di un ristorante fu relativamente breve: prima ho incontrato il mio marito (Giorgio Beretta, il factotum del posto, ndr) al festival latino americano, poi ci siamo decisi di aprire Don Juan, il 26 maggio 2000. A quei tempi eravamo i primi che proponevamo carne argentina, in pochi credevano saremmo sopravvissuti. Eccoci qui, dopo 15 anni: non solo siamo sempre pieni ma in tanti ci hanno copiati e, ahimè, spesso rubati i dipendenti. Non importa, andiamo avanti con Don Juan e anche Don Juanito, che è più un bistrot per un target giovane”. Marlene ha ragione: non ha motivi per preoccuparsi degli altri. Gli chef passano, lo staff anche, il ristorante rimane. In cucina ora c’è Rodrigo Rivarola, un omone simpaticissimo di Cordoba, 27 anni di cui dieci passati
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qui. “Nella classifica dei piatti più succosi e richiesti mettiamo al primo posto il baby beef, seguito dal maialino di sei mesi( il Patanegra iberico) e il lomo. Le donne preferiscono la entranas, sottile e delicata”, racconta. Il vino che ti suggeriscono è quasi sempre El Enemigo, un Malbec del 2010: maestoso. Piccola incursione fra le meraviglie del menù: le patatine fritte sono da antologia, le empanadas al pollo pure, le animelle anche, idem la purea di zucca: “In molti vengono da noi fin dal giorno dell’apertura. Alcuni erano bambini e ora tornano da adulti, con le fidanzate oppure le mogli. Javier Zanetti era sempre qui, l’idea del ristorante argentino gli è piaciuta a tal punto da aprirne due a Milano”. Ogni tanto arrivano Palacio e soprattutto i brasiliani dell’Inter: Hernanes, Dodo, Jonathan e Juan. Per rimanere al calcio, Adriano Galliani è pure lui un fan di primo livello, come i figli di Berlusconi, Barbara e Luigi. Per tornare un attimo allo staff, sono tutti argentini, a parte due ragazzi provenienti dal Brasile. Carolina, bellezza boccaccesca e sorriso disarmante, è il sogno dei clienti milanesi. Che poi, davanti al suo no, si accontentano delle carni preparate da Rodrigo. Si è felici comunque.
Playa Grande P
Solo per intenditori
er i golfisti che cercano, sognano un attimo, una giornata che possano ricordare per tutta la vita, che valga per sempre, non a caso lo chiamano il Pebble Beach dei Caraibi. A vederlo e giocarci in tanti lo considerano ancora più scenografico e commovente del campo statunitense. Le piccole montagne da un lato, il mare dall’alto, le rocce che affascinano e fanno paura per il timore di caderci mentre cerchi un colpo ad effetto, l’altitudine che provoca l’ebbrezza delle vertigini appassionate: una sensazione adrenalinica che deve essere vissuta almeno una volta dal golfista amante delle vacanze spettacolari, delle emozioni forti. Diciamolo subito, non è proprio facile arrivare fin qui, nel senso che non si tratta della solita destinazione
dominicana, tutta resort e spiagge con aeroporto nei pressi. Siamo in una zona abbastanza esclusiva, poco commerciale, nulla a che fare con Bavero e Bayahibe. Di conseguenza qui nei dintorni di percorsi ce ne sono pochissimi, i più vicini si trovano a Puerto Plata, a più di un’ora di macchina. Chi ha giocato al Playa Grande è solitamente venuto senza i ferri e la sacca, ha scelto la zona per godersi il mare e le spiagge, il sole e il profumo di aragoste, i sigari prodotti manualmente ovunque nel vicinato. I golfisti incalliti vanno altrove, a Punta Cana oppure a Casa de Campo, dove ci sono molti più campi. Le 18 buche disegnate da Robert Trent Jones Senior sono una specie di grosso regalo fatto a se stessi. E’
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come regalarsi un orologio preziosissimo. Inaugurato nel 1997, situato a due passi della spiaggia più bella della zona e forse dell’intero paese, Playa Grande Beach, il campo offre tutto quello che si possa desiderare: impatto di una bellezza devastante, un vento che ti mette a dura prova, green veloci e fairways ondulati al massimo. Si trova a una trentina di chilometri da Cabarete, destinazione vacanziera strepitosa per gli amanti del kyte surf, altro spettacolo pazzesco di un paese favoloso. Prima di arrivarci si passa anche da Sabaneta de Yasica, Gaspar Hernandez e Rio San Juan, mentre poi si prosegue per Cabrera: tutti posticini con resort nascosti fra le palme e con vista sul mare. Senza dubbio la parte più bella, elettrica ed affascinante dell’intero paese.
Jenson Button Il bello della F1
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ome: Jenson Alexander Lyons Button. Nato a: From, Somerset, il 19 gennaio 1980. Professione: pilota di Formula Uno. Segni particolari: bellissimo e campione del mondo nel 2009, vice campione due anni dopo. Motivo per il quale lo abbiamo incluso nelle pagine dello speciale Pitti: è il perfetto ambasciatore del nostro mondo, glamour e vincente, raffinato e grintoso, elegante e frizzante. Grande fan di Hugo Boss, con un culto per la moda degli anni cinquanta e sessanta, Jenson predilige gli opposti: si veste in maniera impeccabile, oppure va per jeans, maglietta e spesso flip flop. Ha sempre avuto un debole per Alain Prost, perché “molto intelligente e perché ha vinto puntando sull’aspetto mentale”. Cresciuto con i poster di Pamela Anderson e Ferrari, ama guardare i film con Steve McQueen, ovviamente in primis Le Mans: “Sono innamorato delle sue smorfie, la sua faccia prima del via o di fronte ad un pericolo, anche perché immagino siano le mie stesse facce”, racconta divertito. Di lui e della fidanzata Jessica Michibata si è scritto spesso: non poteva essere diversamente vista la sua bellezza. Modella affermata, ha incuriosito fin dall’inizio della carriera per via delle origini: padre argentino, nato
da genitori italiani e spagnoli, madre giapponese, ovvero il classico misto che “spacca”. The Sun l’ha eletta la compagna più bella fra le donne che vivono accanto ai piloti: certo, una classifica che lascia il tempo che trova, ma stiamo parlando del quotidiano più letto al mondo. Jessica “vinse” davanti a Jenny Dahlman, la moglie di Kimi Raikkonen e Raquel Del Rosario, la fidanzata di Fernando Alonso.
Cresciuto con i poster di Pamela Anderson e Ferrari, ama guardare i film con Steve McQueen Jessica e Jenson si erano separati per un periodo, nel 2010, quando gli impegni professionali dei due impedivano loro di vedersi, la quotidianità di un rapporto stabile non c’era più. Accadeva nello stesso periodo della rottura fra Lewis Hamilton (a quei tempi suo collega alla McLaren) e Nicole Scherzinger, la famosa e sfavillante cantante delle Pussycat Dolls. A dire il vero sarebbe stato davvero un peccato non vederli uno accanto all’altro.
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Ora stanno sempre insieme, praticano il triatlon e cucinano, lei lo segue spesso e già da tempo ha imparato tutto quello che c’è da sapere sulla Formula Uno, dal set up alle telemetrie. Jason ormai lo possiamo considerare un nipponico di adozione: lo si capisce anche dalle scelte culinarie, non a caso considera il ristorante Robataya di Tokyo il suo preferito in assoluto. Ovviamente tutti vogliono sapere le macchine che usa nei giorni liberi, i gioielli che tiene nel garage: cambiano in continuazione, si è andati, in base alle mode, dalla prima McLaren da strada (la MP4-12C9 alla Mercedes C63 AMG, 460 cavalli fino alla Bugatti Veyron appena venduta per un milione di euro. Ma le sue preferite sono le Camper Van della Volkswagen, pulmini old style curati da suo padre, ex rallista. Ora un po’ meno, però nel passato, per le gare in Europa, sceglieva di muoversi con il camper, rinunciando ai fasti degli alberghi cinque stelle. “Mi sento a casa mia, l’ho riempito di dvd”, raccontava. Usa spesso anche la sua Herley. Colleziona orologi, alcuni pezzi rari: ne conta 24. Niente anelli e altri gioielli, solo una collana con una piastrina, regalatagli, ovviamente, da Jessica. Lo chiamano “il mago della pioggia” fin dai tempi nei quali correva con il kart: “Papà non aveva i soldi per le gomme da bagnato, così che usavo sempre quelle lisce,
in quel modo ho imparato l’equilibrio, le traiettorie, i segreti”. Brevemente, la sua carriera: dal kart passa alla Formula Ford e poi alla F3, dove viene scoperto dal team di Alain Prost. Passa poi alla Williams e Benetton, prima
di essere allontanato per far posto a Fernando Alonso, il pupillo di Flavio Briatore, nel 2003. Il primo podio lo conquista l’anno seguente, quando finisce terzo anche nella classifica generale, dietro Schumi e Barrichello. Dopo 114 gare senza vittoria eccolo trionfare in Un-
gheria, nel 2006: tre anno dopo vince i mondiali, con la McLaren. Nel 2011 chiude secondo dietro Vettel. Il suo moto è alquanto stravagante, una frase che non è sua ma che l’ha “adottata”: “La perfezione è richiesta, l’eccellenza è tollerata”.
Corneliani
Man as a masterpiece
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an as a masterpiece, suona uno degli slogan della famiglia Corneliani, artigiani mantovani che da generazioni stupiscono con eccellenza sartoriale. Sarà un caso, ma negli ultimi mesi, viaggiando per il mondo, ci siamo imbattuti nei loro negozi monomarca quasi ovunque e, lo confessiamo con fierezza, siamo rimasti piacevolmente sorpresi dal mondo patinato, austero ed elegante che stanno proponendo e coltivando, promuovendo il Made in Italy ma anche un modo di vestire e di vivere. Una way of life di altissima qualità. Da Strasburgo a Vienna, da Bruxelles a Praga, continuando con Copenhagen, Helsinki e Monterrey (l’elenco è così lungo da far impallidire d’invidia la concorrenza,
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per sapere di più basta dare un’occhiata al loro sito, www.corneliani.com), Corneliani stupisce e impera. Non è retorica, non stiamo dicendo che appena vediamo un negozio italiano il cuore batte all’impazzata, semplicemente la classe si distingue sempre e l’impatto con la bellezza delle loro collezioni è fortissimo. Abbiamo scelto tre capi fra i tanti che propone il loro catalogo, quattro capi che rappresentano lo stile Corneliani e che soprattutto ci piacciono, ci caratterizzano e li caratterizzano. Eccoli: la giacca dell’abito monopetto due bottoni con rever stretto, realizzato in lana/cashmere jacquard nel tono del blu; la cintura piatta in camoscio con bordi e fodera colorati ed il desert boot in camoscio con contrasti di colore.
Simon Baker Australian Gentleman
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icordate Il Diavolo veste Prada? Decisamente, ma di sicuro non per i nostri stessi motivi. Per noi il film significa la scoperta di Simon Baker, nei panni del giornalista Chris Thompson: sugli scalini, prima di entrare ad un evento chic, indossava una giacca Boglioli e soprattutto un fazzoletto rosso. Il giorno dopo ci siamo messi freneticamente alla ricerca di uno identico, dello stesso colore, trovandolo a fatica, in un negozio nel centro di Vienna. Dopo quel film non abbiamo più abbandonato l’idea di prediligere un fazzoletto rosso fuoco e soprattutto non ci siamo persi di vista l’attore australiano, uno che
incarna i nostri stessi valori estetici e comportamentali. A quanto pare, pure gli altri la pensano allo stesso modo: nello spot pubblicitario di Givenchy interpreta un perfetto gentiluomo che protegge dalla pioggia una ragazza raffinatissima. Longines, da parte sua, lo ha scelto come testimonial e ha creato un contesto altrettanto chic e glamour, con Simon che accarezza un cavallo di razza. L’attore australiano, un passato da sportivo (surf e pallanuoto), conquista tutti con i modi garbati ed eleganti, la voce morbida: “Dalle mie parte siamo fatti così, gentiluomini e affabili, crediamo nei valori dell’autenticità”, si schermisce quando lo riempiono di complimenti.
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Il Diavolo veste Prada è stato il suo primo grande successo (2006), seguito poi di un altro film con dei buoni incassi, Tutti i numeri del sesso, nell’anno seguente. Quasi logico un trasferimento definitivo a Los Angeles assieme alla moglie Rebecca Rigg ed i tre figli, Stella, Claude e Harry. Per la cronaca, Naomi Watts è la madrina del secondogenito Claude, mentre Nicole Kidman ha tenuto a battesimo Harry. Non ha trovato un ambiente simpatico e cordiale, ma se lo aspettava: “ “A Los Angeles c’è una terribile mancanza di umanità nei rapporti. Qui tutti hanno un’agenda da rispettare,
vogliono soldi e successo, e non si preoccupano di calpestare i piedi degli altri, perché sono tutti in competizione. Non è facile mantenere modi gentili quando le persone sembrano voler approfittare sempre di te. In Australia il senso di galanteria è più radicato nelle persone, si ha più rispetto verso chi ci sta attorno. Io sono cresciuto in una zona di campagna, in Tasmania, uno di quei posti dove tutti salutano tutti senza distinzione. Ci torno spesso: è importante per me e per la mia famiglia ricordare quel senso genuino di comunità», raccontava a Grazia in una intervista organizzata dallo sponsor Givenchy all’hotel Chateau Marmont. A proposito della
maison: “ «Quando mi hanno spiegato il concetto che c’è dietro la fragranza Gentlemen Only mi sono sentito vicino alla loro idea contemporanea di cavalleria e mi ha interessato la storia di questa casa europea di moda con radici aristocratiche. Ho imparato molto sui profumi, un mondo bellissimo che mi ha ricordato quello dei vini”. Sul grande schermo lo si vedo poco, il pubblico lo conosco più per il ruolo di Patrick Jane, il consulente investigativo di The Mentalist, fortunata serie tv che pare non andrà più avanti, dopo sei anni e decine di episodi. E ora cosa farà?”Mi piace l’idea di mettermi alla prova
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in ruoli nuovi, magari dedicarmi alla regia. Ho diretto varie puntate della serie nel corso degli anni e ora voglio approfondire di più questo mestiere e possibilmente dirigere un film, anche se non ho ancora progetti specifici. Ma più di ogni altra cosa voglio dedicare tempo alla mia famiglia. Una delle ragioni principali per la quale ho deciso di lavorare in televisione era di rimanere in città e stare di più con mia moglie e i ragazzi. Mi sembra ieri che ci siamo trasferiti a Los Angeles e oggi mia figlia va al college, gli altri due sono quasi adolescenti, e io ho sempre lavorato. Direi che prima di tutto mi serve una vacanza. Con loro”.
Inga Verbeeck Cupido a cinque stelle
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e come riesci a socializzare? A malapena hai il tempo per cenare. Poi, nel caso tu avessi una compagna, siamo sicuri che lei possa accettare di vederti di rado? A quel punto ti trovi in una posizione strana: nel giro delle tue conoscenze non ci sono altre donne che possano, che potrebbero piacerti. Alcune sono sposate, altre non ti garbano, alle altre sei tu a non andar bene. Il tempo scarseggia, le opportunità anche, mentre tu vorresti avere una compagna. Come fai?”. Non fa una piega. Idem per la situazione successiva. “Immaginate un amministratore delegato di una multinazionale. Impartisce ordini dalla mattina alla sera, tutti lo ascoltano e ossequiano. Sappiamo come funziona, no? Il capo ha sempre ragione, per cui si crede spesso onnipotente. Ecco, ve lo vedete correre il rischio di essere respinto da una donna? Non oserà mai. Preferisce starsene alla larga piuttosto che incassare un due di picche”. Confessiamo, non ci avremmo mai pensato, però come dar torto alla 30 enne di Anversa? “Ci sarebbe poi la difficoltà di entrare in contatto con altri gruppi di persone identiche a te”, continua. “Nelle grandi città non puoi conoscere tutti: ecco, noi siamo un club esclusivo che li mette in contatto”. Fin qui non fa una piega. Desta sospetti e ci fa venir la voglia di nasconderci la frase conclusiva: “L’ottanta per cento degli uomini non ha il coraggio di chiedere ad una donna di uscire”. Un colpo basso per chi ci crede ancora nel maschio inteso come alpha. Semmai, zeta. Girando per il centro di Milano di alpha non ce ne sono, anzi. Giovani mollicci, pallidi, alcuna personalità e grinta, un futuro tiepido grazie alle ricchezze probabilmente create dai nonni e bisnonni. Certo, l’azienda di Inga è, appunto, un’azienda. Offre un servizio, come la Rolls Royce e Le Calandre di Alaimo, il Four Seasons e Louis Vuitton: ci sono dei costi, perché la qualità va pagata. “La quota annuale parte
Foto:Monica Cordiviola
a prima volta che abbiamo incontrato Inga Verbeeck, patron dell’unica grande azienda di dating per ricchi, ci siamo fatti delle gran risate all’idea che una persona benestante, soprattutto un uomo, potesse avere delle difficoltà nel trovare una compagna. Attenzione, una compagna, non parliamo di avventure, turismo disinibito o altro. Trovare una persona con la quale condividere la vita ed i piaceri, ma soprattutto una donna con dei valori simili ed una educazione di alto livello. A pensarci bene, non è affatto facile. Invece ci vuol poco avere attorno delle opportuniste pronte ad aggrapparsi per prendere l’ascensore sociale con tutti i privilegi economici che ne seguono: casa in centro, al mare e in montagna più un livello di vita quotidiana impensabile con le proprie forze e capacità. Se all’inizio l’avevamo presa alla leggera, considerando i benestanti un po’ ingenui e prede facili per le professioniste del settore, man mano che abbiamo iniziato ad approfondire l’argomento ci siamo resi conto che, in effetti, ci possono essere delle difficoltà oggettive anche se, ovviamente, fa un po’ impressione rivolgersi ad una agenzia per la tua donna dei sogni (ma probabilmente chi cerca una compagna non cerca l’amore assoluto). Inga ribatte e risponde con la sicurezza e la certezza di chi ne ha viste (e risolte) tante: “Se una persona si può permettere il miglior avvocato, il miglior medico, la Ferrari, una vacanza cinque stelle, ristoranti di grido e via discorrendo, perché non dovrebbe affidarsi ad un consulente come Berkeley? Non si tratta di incapacità dell’individuo, spesso ci sono delle situazioni che ti impediscono di incontrare persone con un livello di vita e un modo di vivere pari al tuo. Qualche esempio? I banchieri, gli avvocati, i manager ed i medici spesso lavorano con orari folli, viaggiano di continuo. Quando
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dai 10.000 euro: per una somma del genere noi ti cerchiamo la compagna adatta nel suo stesso paese e ti garantiamo una media di otto incontri. Per 15.000 hai la possibilità di scegliere fra due paesi, per 25.000 hai a tua disposizione i nostri 3.000 clienti europei”. Ora passiamo alla parte più divertente: “Il maschio italiano non vorrebbe una moglie della penisola: la considera troppo esigente e, ahimé, costosa. In cambio la donna italiana punta sul maschio britannico, considerato pieno di humor, classe e con dei modi raffinati, da gentleman. In alternativa, il maschio scandinavo”. Sorvoliamo sull’utopia del maschio britannico elegante, con giacca da tweed e proprietà nel Kent: esistono solo nei film. Quando la incontriamo le facciamo mille domande e ci sorprende sempre con aneddoti ed episodi seri. Seri come la sua azienda: “Abbiamo sedi ovunque, da Londra a Parigi, da Ginevra a Copenhagen, da Bruxelles a Milano, l’ultimo aperto. In un anno siamo riusciti a convincere 360 persone del vostro paese ad affidarsi ai nostri servizi. Che sia chiaro: non è automatico essere ricevuti nel club, non bastano i soldi. Lavoriamo con un’agenzia di investigatori privati che vanno a vedere se per davvero la persona è single, non c’è spazio per i furbetti, abbiamo una montagna di dati computerizzati a disposizione. Poi il nostro staff è davvero molto preparato, ore e ore di special training, perché nel primo incontro facciamo un centinaio di domande per capire al meglio possibile il tipo di persona che abbiamo davanti, i suoi gusti, i suoi scopi. Alcuni hanno delle pretese esagerate, capita spesso di spiegare loro che non potrà funzionare. Mediamente dopo sei incontri si trova la persona giusta, la media è più alta per gli uomini che per le donne, perennemente insoddisfatte ”. Però pure loro ringraziano Berkeley: spesso solo grazie a loro trovano la felicità.
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Foto:Monica Cordiviola
Luca Gardini
Dieci vini da dieci e lode
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er tutti i gusti. Per tutte le tasche. Per intenditori. Per principianti. Per i palati fini. Vini con un profumo lieve, gentile, carezzevole, oppure intensi, complessi e aristocratici. Vini color rubino, paglierino tenue con dei riflessi oro antico. Le scelte di Luca Gardini, campione del mondo dei sommelier cinque anni addietro, per un 2015 sorprendente. Ettore Germano Langhe Riseling Herzù 2012 Riesling dal Piemonte. La componente varietale si mescola con quella territoriale grazie ad un’attenta gestione del vigneto, accompagnata da una filosofia di cantina che privilegia la neutralità aromatica dell’acciaio. Profumi di agrumi, frutta tropicale e sale. In bocca è immediato e al tempo stesso complesso.
Giuseppe Mascarello Barbera d’Alba Codamonte 2010 Dai terreni di Castiglione Falletto una Barbera dal tratto verace e nitido. L’affinamento, realizzato per 18 mesi in botte piccola, serve a dare complessità ad un vitigno che all’assaggio mostra profilo floreale, maturità di frutto (mora, e ciliegia matura) e carattere varietale. Tannino vellutato ma ben avvertibile. Monte Rossa Franciacorta Brut Cabochon 2009 Il nome richiama un taglio caratteristico delle pietre preziose, in particolar modo del diamante. In realtà è una gemma della spumantistica italiana a base Chardonnay, che effettua la prima fermentazione in legno e completa il proprio ciclo produttivo con 40 mesi sui lieviti. Il sorso è aristocratico quanto versatile.
Ennio Ottaviani Caciara Romagna Sangiovese Superiore 2013 Realizzato esclusivamente con uva Sangiovese delle prime colline del riminese. Il Caciara all’assaggio ha una forte matrice fruttata, complice anche una vinificazione molto lineare, che richiama nitidamente la ciliegia matura e la mora di rovo. Tannino dolce. Molto adatto ai primi piatti della tradizione emiliano romagnola. Tenuta Setteponti Crognolo 2012 Dal matrimonio tra Sangiovese e Merlot un vino che coniuga il carattere potente dei terreni argillosi, con una maturazione di frutto davvero ineccepibile. Profumi di frutto scuro, ciliegia, cannella e cacao amaro. In bocca è ampio, ricco di materia, articolato. Tannino presente ma mai prevaricante. Ottimo con una fiorentina. I Balzini White Label 2011 Sangiovese e Cabernet Sauvignon affinati in barrique per un anno. Colore rubino intenso. Proprio l’intensità è il carattere distintivo di questa etichetta, che si manifesta al naso con abbondanti note di frutti di bosco e liquirizia. In bocca è ampio, fruttato, speziato ed avvolgente. Il tannino potente gli garantisce buone doti d’invecchiamento. Feudo Maccari Grillo 2013 Il trio formato da varietà (Grillo), terreni di matrice calcarea e vinificazione in acciaio, genera un vino tipico e al tempo stesso di grande abbinabilità. Il sorso è caratterizzato da note molto realistiche di bergamotto, pompelmo, frutta a pasta bianca ed erbe aromatiche. Eccelle in accompagnamento con un rombo al forno. Santa Giustina Ortrugo frizzante 2012 Nome buffo ma vitigno serissimo, visto che si coltiva, come in questo caso, sui colli piacentini sin dall’epoca pre-cristiana. Al naso esprime profumi di pompelmo e rosa canina. In bocca, complice anche una carbonica solleticante, mostra buone doti di beva ed eccellenti qualità in fase di abbinamento. Buona la persistenza. Santa Barbara Verdicchio dei Castelli di Jesi Doc Classico Le Vaglie 2013 La vinificazione di questo vino è talmente semplice da risultare quasi elementare. La scelta è quella di non celare aromaticamente un vitigno di grande espressività come il Verdicchio. In bocca è asciutto, sapido e fruttato (in particolar modo frutta a pasta gialla). Sul finale compare una gradevole nota fumè. Livio Felluga Picolit 2009 Varietà d’uva nobilissima e moto rara, visto che la pianta produce pochissimi acini per grappolo. Dopo l’appassimento riposa in piccole botti per circa 18 mesi. Profumi di zagara, zeste di arancia, dattero, albicocca candita e miele. Bocca elegante, articolata, che alterna accenti golosi a rinfrescanti acidità agrumate.
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La Sultana Marrakech
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k, la sveglia suonerà presto, prestissimo. Però alle ore nove e dieci minuti si è a Marrakech e, tempo mezz’ora, potreste fare colazione a due passi dalla Piazza Jemma El Fna, a La Sultana, uno dei posti più romantici che abbiamo mai “scovato”, proposto e frequentato, un scrigno segreto dove abbandonarsi, dove sparire assieme alla donna dei tuoi sogni. Per un weekend lungo è il rifugio d’amore ideale. Riescono a infonderti e trasmetterti una tale serenità da voler tornare il prima possibile: lo diciamo con cognizione di causa. C’è un’atmosfera che difficilmente abbiamo incontrato altrove nella città rossa, seppur piena di riad alberghi e resort da mille e una notti. La Sultana riesce a isolarti come nessun’altro posto a Cash, forse perché si trova su una stradina dove nulla fa pensare ad un miraggio del genere, una stradina viva e popolare.
Un silenzio monastico, tutto curato nei minimi dettagli, 28 stanze che sono dei veri appartamenti, arredamenti ricercati, sfarzosi, armoniosi, marmi e mobili antichi, opere d’arte Poi, all’improvviso, ecco il grande portone dorato e l’ingresso a La Sultana: magia. Un silenzio monastico, tutto curato nei minimi dettagli, 28 stanze che sono dei veri appartamenti,
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arredamenti ricercati, sfarzosi, armoniosi, marmi e mobili antichi, opere d’arte e una completa insonorizazzione . Dopo una manciata di minuti eravamo già cotti, conquistati dai colori del riad: non hai bisogno di un soggiorno intero per sentirti innamorato, così come un vino lo apprezzi fin dai primi sorsi. La ristorazione, poi: è davvero un tripudio di profumi raffinati, volendo si può cenare al bordo della piscina, vi consigliamo il foie gras a cottura media con pomodori di Ourika La colazione sul terrazzo con vista panoramica sulla città non è da meno. La spa sembra disegnata: c’è un tale calore, indescrivibile. Per gli amanti del genere, l’hamam, nel più classico stile marocchino, propone lo scrub con il sapone nero. Lo staff è a dir poco delizioso, ti seguono e ti trattano come un sultano.
e una completa insonorizazzione . Dopo una manciata di minuti eravamo giĂ cotti, conquistati dai colori del riad: non hai bisogno di un soggiorno intero per sentirti innamorato, cosĂŹ come un vino lo apprezzi fin dai primi sorsi.
Palais Rhoul Heaven in Marrakech
A pochissimi minuti fuori dal centro, architettonicamente impressionante, arredato come se fosse la residenza del re, una specie di Versailles con un profondo tocco arabeggiante, tendaggi imperiali e suites a bordo piscina, giardini e spa, caminetti e quadri antichi.
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arrakech mon amour, una città che pulsa sensualità e bellezza, passione e quel misto di tensione positiva mescolata alla rilassatezza più totale, una città che segue un percorso preciso, diventando sempre più occidentale e moderna. E’ una meta che gli europei premiano, prendendola d’assalto in qualsiasi periodo dell’anno, soprattutto quando sul vecchio continente inizia l’inverno. I golfisti la adorano, gli amanti del bel tempo anche, non a caso cresce in maniera continua l’acquisto e la costruzione di quartieri, appartamenti di lusso e residence per stranieri.
Il suo fascino è irresistibile, c’è un fermento contagioso, si sta costruendo sempre, ad ogni passo ci sono alberghi a cinque stelle e ristoranti gourmet (Jo’s, Fogo de chao, Matisse), riad e lounge bar, la vita notturna è pari alle notti di una grande metropoli (Theatro e Pasha non hanno nulla da invidiare alle discoteche di Ibiza e New York). Poi ci sono i posti come Palais Rhoul, impossibile da classificare, imprigionare e incasellare nella categoria alberghi, non a caso si chiama Palais. A pochissimi minuti fuori dal centro, architettonicamente impressionante, arredato come se fosse la residenza del re, una specie di Versailles con un profondo tocco
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arabeggiante, tendaggi imperiali e suites a bordo piscina, giardini e spa, caminetti e quadri antichi. Oltre alle suites ci sono le tende gigantesche: la più romantica è la Tente Yasmine, appartata e con una veranda privata. Per chi cerca di isolarsi è un rifugio straordinario: dopo una giornata intera passata all’interno, fra spa e piscine, consigliamo di uscire per cena, magari al vicino Abysin, cucina fusion che vi sorprenderà, oppure la kasbah Tamadot di Richard Bransons Sbirciando fra i commenti trovi parole esaltanti ed estasiati: “Heaven in Marrakech”, “The best escape”, l’elenco è infinito. L’esaltazione dei clienti è davvero giustificata.
Thudufushi Chic retreat
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little piece of paradise, sta scritto sulla home page del sito. Forse parole che non fanno più impressione, le senti ad ogni passo, ma guardate un po’ le immagini: che altro potevano inventarsi, per mandare un messaggio chiaro, per uno slogan conciso e veritiero, emozionale ed invitante? Per arrivarci ci vogliono 25 minuti con l’idrovolante da Mahé: il volo è una poesia per via della vista, un susseguirsi di isolette, lagune e acqua turchese. Il resort 47 bungalow e 23 ville, lascia senza parole. Camere confortevolissime e rifatte più volte al giorno (per togliere la sabbia cumulata nelle ore), con le wa-
ter villa che ti fanno innamorare all’istante: terrazzo privato e accesso diretto al mare, salottino bianco in rattan con tavola e sei sedie, 2 lettini matrimoniale prendi sole. Il bagno è amplio con la doccia a cielo aperto, guardando le palme, come spesso accade alle Maldive. Il ristorante Water offre una scelta vastissima, sia internazionale che maldiviana, il livello è davvero ottimo, con i cuochi (uno degli chef, Giacomo Gaspari, é italiano) ed i camerieri di spiazzante gentilezza. Una sorpresa gustare una pizza mica male, anche se ovviamente si eccelle con il pesce: il carpaccio buonissimo e pure gli altri modi di cottura sono sorpren-
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denti, voto alto anche per i piatti asiatici. Fa sognare il sorbetto con i frutti della passione, oppure al mango, papaya, cocco e ananas. Si mangia a buffet sulla spiaggia (Giacomo’s Beach Restaurant), oppure a la carte, con i piedi nell’acqua. Per la cronaca, perfino il caffè è buonissimo, il che accade di rado fuori dall’Italia. Lo staff, poi: c’è sempre qualcuno che parla la tua lingua, perfino il giapponese. I fondali sono spettacolari, trovi dal pesce palla al pesce flauto, c’è perfino il balestra picasso e via discorrendo, fino alle tartarughe e altre specie rare come le aquile di mare o i cuccioli di squalo. Come dice lo slogan, la vie est magnifique…
Steve
McCurry Calendario Lavazza
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ndici libri e una quarantina di premi, un numero infinito di scatti entrati nella storia. In più, Eastman Kodak gli ha regalato l’ultimo rullino di pellicola prima di chiudere per sempre, nel 2010: probabilmente il riconoscimento professionale più alto, più emozionante per un fotografo. Stiamo parlando di Steve McCurry, famoso fotografo americano, nato a Philadelphia 65 anni addietro, noto per i suoi reportage di guerra. Il suo ritratto più conosciuto, Ragazza afgana, scattato in un campo profughi vicino a Peshawar, in Pakistan, è stato nominato “la fotografia più riconosciuta” nella storia della rivista National Geographic. L’identità della ragazza è rimasta sconosciuta per oltre 17 anni finché McCurry ed un team della rivista trovarono la donna, Sharbat Gula, nel 2002. Steve disse: “La sua pelle è segnata, ora ci sono le rughe, ma lei è straordinaria come lo era tanti anni fa”. Altri piccoli spunti per aiutarvi a inquadrare il nostro personaggio: ha studiato fotografia all’Università di Penn State, per poi prendere una laurea in teatro, nel lontano 1974. Gli inizi furono come freelance per il quotidiano locale The Daily Collegian, poi al Today’s Post: ma è in India che la sua carriera prende una svolta. Lì impara ad aspettare: “Se lo sai fare, le persone si dimenticano della tua macchina fotografica e la loro anima esce allo scoperto”, dichiarava. Il primo passo verso l’Olimpo della fotografia lo fa quando, travestito con abiti tradizionali, attraversa il confine tra il Pakistan e l’Afghanistan per poi tornare con dei rullini di pellicola cuciti tra i vestiti: le immagini, pubblicate successivamente in tutto il mondo, mostrarono per la prima volta il conflitto russo-afghano, grazie alle quali fu premiato con il Robert Capa Gold Medal for Best Photographic Reporting from Abroad, riconoscimento assegnato ai fotografi che si sono distinti per coraggio e talento. Da lì inizia un continuo spostarsi a fotografare conflitti internazionali: Iraq, Iran, Cambogia e via discorrendo. McCurry si è sempre concentrato sulle conseguenze dei conflitti, il che è assai raro: solitamente si punta sui fatti cruenti, sui danni immediati, lui ha preferito mettere l’accento sul lato umano: “La maggior parte delle mie foto è radicata nella gente. Cerco il momento in cui si affaccia l’anima più genui-
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na, in cui l’esperienza s’imprime sul loro volto. Cerco di trasmettere ciò che può essere una persona colta in un contesto più ampio che potremmo chiamare la condizione umana. Voglio immortalare il senso viscerale della bellezza e della meraviglia che ho trovato di fronte a me, durante i miei viaggi, quando la sorpresa dell’essere estraneo si mescola alla gioia della familiarità”. Guerre e dolori, miseria e sofferenza sono state il suo pane, non proprio un mondo glamour pieno di sogni e speranze. Difatti in tanti si sono meravigliati quando Pirelli lo ha scelto per realizzare il calendario 2013, presentato a Rio: diciamolo, fu una pessima idea, oltre che una delusione totale per gli affezionati del genere. Due mondi che non si possono parlare, due mondi paralleli, lontanissimi, agli antipodi. C’è una differenza abissale fra un reportage di guerra e il lato patinato del mondo dei calendari: a fatica ricordiamo uno scatto, forse quello di Isabel Fontana (ma solo per la bellezza della modella). L’idea fu di fotografare undici donne impegnate nel sostegno di fondazioni e organizzazioni no profit: nessun nesso con il passato lussuoso del mondo Pirelli. Un esperimento sfortunato (eufemismo), capita. Quest’anno ci riprova e va detto che i risultati siano decisamente migliori: il calendario Lavazza gronda energia ed idee. Va aggiunto che, forse, il mondo del caffè è più attinente alla visione di Steve, sensibile ai problemi del continente nero. Tutto è stato ambientato e fotografato in Senegal, al confine con l’isola di Fadiouth. “Un’emozione enorme partecipare a questo progetto”, racconta a Panorama. “Perché credo sia un modo per onorare l’Africa ed i suoi abitanti, con la loro dignità. Mi ha molto impressionato la passione con cui queste persone mantengono e portano avanti le proprie tradizioni, preservandole per le ge-
nerazioni future”. Parlavamo prima di Kodak: anche se McCurry fotografa sia in digitale che in pellicola, ha ammesso la sua preferenza per quest’ultima. Eastman Kodak concesse a McCurry l’onore di utilizzare l’ultimo rullino di pellicola Kodachrome, prodotto nel luglio 2010 da Dwayne’s Photo a Parsons in Kansas. “Ho fotografato per 30 anni e ho centinaia di mi-
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gliaia di immagini su Kodachrome nel mio archivio. Sto cercando di scattare 36 foto che agiscano come una sorta di conclusione, per celebrare la scomparsa di Kodachrome. È stata una pellicola meravigliosa”. La pellicola Kodak non c’è più, la visione di Steve invece sì. Il calendario Lavazza, anche.
Scatti d’autore Io soy Legeyda
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iao, mi chiamo Natasha Legeyda Ho 20 anni, sono del 1994. Mi diletto nella fotografia da poco, solo dal gennaio del 2013 l’hobby è diventato professione. Sono acquario ascendente scorpione, due segni che devo ringraziare per il mio caratteraccio. Ho cominciato a posare in Italia, però da qualche mese mi sto “espandendo” in tutta Europa. Non sono la classica modella che siamo tutti abituati a vedere sulle copertine, non ho quei canoni di bellezza, ho le mie forme anche se un fisico abbastanza snello. In futuro mi piacerebbe aprire un agenzia di moda, difatti ho intrapreso la strada da booker oltre che quella da modella. L’esperienza con Monica Cordiviola è stata bellissima, peccato sia finita, le ore sono volate”. Fin qui le parole di Natasha; ma la fotografa più dark e pop che conosciamo cosa ne pensa? “Scattare con lei é stato molto divertente e interessante. Una bellezza viva, spontanea, prorompente ma nello stesso tempo indifesa, determinata e risoluta. Davanti alla macchina si muove splendidamente Scatteremo nuovamente a breve”. Non vediamo l’ora.
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Sonja Pev Rising star
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rriverente e spumeggiante, ironica e adrenalinica. Elettrica, elegante, immediata, proprio come i suoi scatti, una sinfonia allegra, allegrissima, piena di vita e colori, di grande impatto e personalità. Sempre carica, sempre in movimento, sorridente e con una voglia infinita di stupire e stupirsi. A primo impatto potrebbe sembrare facile farsi un’idea alquanto decisa su di lei, pare facile da ‘inquadrare’. In realtà, conoscendola meglio ci si accorge che è così imprevedibile, perfino per se stessa, da rendere inutile lo sforzo e da far sbriciolare ogni certezza o commento
Riesce sempre a colpirti: le immagini sono nitide, decise, taglienti, il contrasto è evidente, di grande personalità
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definitivo. Il suo motto è il più semplice mai sentito: “La vita è meravigliosa”. Nel suo caso però risponde a pura verità, verità che mette in pratica in ogni momento della giornata, o quasi. Comunica un’energia coinvolgente e sprizza entusiasmo e simpatia contagiosi. Per caso, un giorno si è svegliata decidendo di intraprendere la strada della fotografia. E lo ha fatto. Poteva rivelarsi la solita bufala che dura due giorni, il mondo è pieno di appassionati della domenica, e invece i suoi lavori ci fanno essere qui a raccontarla. Provare a inquadrare il suo modo di fotografare è impresa ardua: nella vita quo-
tidiana, come nel modo di scattare, il suo è un continuo zigzagare fra stili, epoche e modi di interpretare. Va detto che riesce sempre a colpirti: le immagini sono nitide, decise, taglienti, il contrasto è evidente, di grande personalità. Come le sue parole: “Rewind: tre anni addietro ho ricevuto in regalo una macchina Polaroid da un famoso fotografo milanese. Senza che me ne rendessi conto al momento, è come se quel gesto avesse in qualche modo segnato una sorta di destino, quasi a mia insaputa. Da sempre mi piaceva parlare di immagini e foto, ma poi tutto finiva lì. Grazie al mio fidato smartphone, ho iniziato un paio d’anni fa a scattare delle foto. Era un gioco e facevo soprattutto autoscatti, che non sono la stessa cosa dei selfie, tengo a precisarlo. Mi interessava riuscire a fare dei ritratti che giocassero con luci ed ombre, finivo infatti quasi sempre per trasformarli in bianco e nero. Poi una Nikon è finita sotto l’albero di Natale ed eccoci, il resto è sotto gli occhi di tutti. Non pensavo di poter ricevere tanti messaggi e complimenti in poco tempo. Sono stati un incoraggiamento, anche perché non mi sento brava, per lo meno non ancora. Con il mio bianco e nero desidero trasmettere l’idea che le fotografie possono parlare più di un
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discorso, una frase. Sul portale Nikon sto registrando numeri che mi sembrano fantastici, la gente apprezza. Non ho un fotografo come punto di riferimento, ovvio che seguo i più grandi, come Cartier Bresson, Helmuth Newton, Ruben Afanador, Steve McCurry. Amo molto anche gli scatti di due donne che a mio avviso hanno lasciato il segno: Francesca Woodman e Vivian Maier. “ Le più belle che hai scattato ad oggi? “Non c’è dubbio, quelle in Tanzania. Un viaggio emozionante che mi ha permesso di fotografare i bambini, tra i miei ‘modelli’ preferiti perché la loro gioia è il nostro futuro. In quei villaggi i loro sguardi fin troppo adulti e i sorrisi disarmanti mi hanno conquistata ed emozionata. Vorrei andare al più presto in India, ma potendo viaggerei quasi ovunque. La prossima tappa potrebbe essere il Congo. Chi vorrei scattare? Non ho mai pensato a un personaggio in particolare: quando vado a fare shopping mi può capitare di chiedere alla commessa se vuole farmi da modella. Le persone mi colpiscono per motivi diversi e visto che sono quasi alle prime armi, vorrei restituire un po’ di fiducia e incoraggiamento ricevuti. Quindi vorrei scattare un ‘talento’ emergente. L’unica condizione è che abbia davvero qualcosa da dire al mio obiettivo.”
Igor Oussenko Dalla Russia con amore
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iamo dei grandi ammiratori di Steve Shaw, non manchiamo mai l’occasione per ribadirlo. L’uomo è un genio: ha creato una rivista, Treats Magazine, come nessun’altra. E’ un susseguirsi di nude art, servizi fotografici di una classe infinita, realizzati dai più grandi maestri dello scatto. La lista è lunga, si va da Davide Bellemere a Ben Tsui, da Tony Duran a Harry Peccinotti.
Steve ha visto lungo, ma forse nemmeno lui immaginava un successo del genere. Negli Stati Uniti lo considerano l’erede di Hugh Hefner, anche se lui prende le distanze dal leggendario creatore di Playboy: non perché non lo ammirasse e rispettasse, ma fra i due esiste una gran bella differenza per via di un linguaggio diverso. Steve é meno pruriginoso, d’altronde sono cambiati i tempi. Punta esclusivamente sul nudo, ma non sbattuto in faccia al lettore. E’ altrettanto esplicito, però meno didascalico: propone una donna raffinata, mentre Hugh badava al sodo e
al gusto popolare. E’ riuscito a coinvolgere i migliori, promettendo loro uno spazio sconfinato sulle pagine di Treats!. Il successo è stato ed è totale, forse più veloce rispetto alle aspettative. Qualche mese addietro abbiamo pubblicato un ampio articolo su di lui e la sua creatura, così come sulla sua musa ispiratrice, Emily Ratajkovski. Ora la potete guardare ovunque, perfino al cinema, ma fu Steve a lanciarla, fotografarla, regalarsi il piacere di vederla in copertina. Evidente che ogni mattina, appena accendiamo il computer diamo un’occhiata al sito della rivista (www. treatsmagazine.com), per tornare più volte durante il giorno. Non siamo fan delle notizie, ancor meno di quelle negative, ragion per quale restiamo sempre sugli stessi indirizzi web, quelli che ci creano una sensazione di piacere estetico. E’ così che abbiamo scoperto Iuri Oussenko, per poi diventare i suoi fan: pochi fotografi ci hanno colpiti in tale maniera. Per motivi di ipocrisia e censura ci
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vediamo costretti di mandarvi al sito di Treats! per regalarvi dei momenti di autentico piacere: alcuni scatti sono di una intensità rara, sono geniali, straordinari. Ha iniziato relativamente da poco, nel 2008: un anno dopo apriva il suo studio, ad Ekaterinenburg. Come idoli ha Mert and Marcus e Richard Avedon, anche se, ammette, “potrei elencare una cinquantina di fotografi che adoro. Mi piacciono molto le forme, le geometrie, non mi basta la bellezza in se stessa, troppo facile scattare una donna con un fisico mozzafiato. Una modella che mi piacerebbe poter fotografare? Natasha Poly, fra l’altro abita in una città vicina alla mia. Non mi accontento mai, proprio come cantano i Rolling Stones I can get no satisfaction ”. Fin qui le sue impressioni e desideri, la sua storia ed i suoi sogni. Ci piacerebbe vederlo fotografare alcune modelle che ammiriamo e conosciamo, prima di tutto Alysa Krav, poi Aurora Marchesani e ovviamente Giada Ghittino, la nostra musa per molto tempo. Il tempo è dalla nostra parte.
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Felice Lo Basso Orgasmico e...Unico
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utti i cronisti ce l’hanno e lo custodiscono con gelosia: stiamo parlando del blocnotes segreto dove si annotano frasi, iperbole e aggettivi letti altrove, rubati dai libri dei nostri idoli letterari, oppure parole e idee che teniamo da parte per i grandi momenti. Ecco, per descrivere il mondo di Felice Lo Basso abbiamo tirato fuori dal cassetto il quaderno magico ma, per quanto sia ricco di appunti, a fatica siamo riusciti a scegliere quelle giuste per raccontare la poesia della sua cucina. Gli anglosassoni amano usare il termine “orgasmic”, quando vogliono concentrare in una sola parola una emozione intensissima. Ci piace molto perché comprende, racchiude un insieme di sensazioni fantastiche, da abbandonarti e farti perdere la testa completamente. Rende, eccome se rende l’idea dei piaceri vissuti
all’Unico, il ristorante più “alto” dell’intero continente (si trova al ventesimo piano del grattacielo WJC, zona Portello).
La filosofia di Felice è un continuo omaggio alla sua terra, i profumi sono nitidi, l’entusiasmo traspare da ogni piatto Ebbrezza di alta cucina, atmosfera e ambiente internazionale, hai la sensazione di essere a Hong Kong, oppure a Londra: vetrate, vista della città a 360 gradi,
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ampi spazi fra i tavoli, arredi moderni. Superlativo, davvero. La prima volta che siamo andati si era appena insediato e, nonostante questo, il servizio funzionava a perfezione, gli automatismi sembravano perfetti. Il merito va ovviamente a lui perché ha saputo costruire un gruppo, una brigata coesa, con un intento comune, quello di stupire. Si è portato da Val Gardena undici ragazzi più il sommelier e il maitre: .”L’unione fa la forza, lo chef che vuole fare il protagonista solitario dura poco”, dice.” Nel nostro mestiere ci vuole umiltà, pazienza, spirito di sacrificio, non c’è spazio per i divi. Difatti i tanti programmi di cucina, se da una parte hanno dato una visibilità impensabile fino a qualche tempo addietro, da un’altra creano false aspettative ai nuovi allievi delle scuole alberghiere, si fa credere che la fama è tutto e deve arrivare subito”. Si è subito calato nell’atmosfera metropolitana mila-
nese, una città che rispetto alla tranquilla e vacanziera Val Gardena ha dei ritmi, delle esigenze diverse: l’impatto con la clientela è più immediato, più brusco, la gente è severa, preparata e non perdona, nel caso venisse delusa. A Felice però piace così: sa di essere all’altezza, sa di poter stupire. D’altronde con la sua esperienza non potrebbe andare diversamente: sette anni all’Alpen Royal lo hanno forgiato, così come le avventure precedenti, soprattutto gli anni da Vincenzo Cammerucci, il suo mentore negli anni al Lido di Cesenatico. In Alto Adige ha imparato parecchio: “il rispetto per la natura e lo spirito di organizzazione sono straordinari”, racconta. Dalla montagna si porta l’amore per le affumicature (“quanto mi piaceva il fieno bruciato”), anche se per lui la pura felicità è “il pesce crudo, ma in un contesto fatto di tecniche e abbinamenti”. Alpen Royal rimarrà sempre ben impreso nella sua memoria, anche perché qui ha conquistano la sua prima stella Michelin, nel 2011. “L’ho saputo da un amico: alle 8.30 del mattino, mi mandò un messaggio alquanto strano, qualcosa del tipo come hai dormito?. Poi iniziai a capire, fu un’emozione straordinaria, soprattutto comunicarlo alla brigata”. La filosofia di Felice è un continuo omaggio alla sua terra, i profumi sono nitidi, l’entusiasmo traspare da ogni piatto. Non gli piacciono le cotture lente, predilige una cucina espressa. Se gli chiedi come si potrebbe caratterizzare la sua, risponde subito, senza esitazione alcuna: “Intuitiva. Passionale. Armonica. Nostalgica, perché in ogni mio piatto c’è un ricordo legato ai miei due figli e a mia moglie”. Se invece tocca a noi provare a raccontare i suoi piatti, l’elenco degli aggettivi diventa robusto assai: cotture, equilibri e consistenze perfette, com’è perfettamente definibile ogni ingrediente, le tecniche sono padroneggiate in maniera eccelsa. La mano è decisa, la personalità dello chef anche, l’entusiasmo lo si carpisce subito. Felice ti porta per mano in un viaggio fantastico, fatto di contaminazioni. Creatività allo stato puro, il piacere della vita attraverso il cibo: la patata liquida con miele e tartufo, la tartar waygu con biscottini ai pinoli (si evapora letteralmente in bocca) . Il menù cambia ogni mese (in arrivo il riso con zucca, maialino iberico e caffè), a parte alcuni piatti storici che hanno fatto la fortuna dei ristoranti dove ha lavorato: il risotto con formaggio di capra, scampi e carote lo propone da tre anni e, non si accettano scommesse, a Milano diventerà un cult, un must, un piatto da leggenda (il maitre Gianluca Lo Russo, pugliese pure lui, assieme a Felice da cinque anni, suggerisce uno champagne Florence Guyot, oppure un Bruno Payard rosé come abbinamento). Idem il cervo arrostito nel burro chiarificato, tecnica antica
e presentazione moderna. Nel poco tempo libero ama andare a mangiare altrove, magari nei ristoranti degli chef amici: Aimo e Nadia, Andrea Aprea, Enrico Bartolini., Ilario Vinciguerra, Luigi Taglienti, Andrea Alfieri Altre men-
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zioni speciali: Alain Ducasse, Vincenzo Cammerucci (“E’ lui ad avermi cresciuto e formato”, dice). Sta per ultimare il suo secondo libro di ricette: almeno 6-7 piatti del primo, “La grande cucina dell’Alpen Royal”, li potete trovare sempre nel menù di Unico.
I Salentini Profumi di Puglia
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’ l’unico posto al mondo dove potete assaggiare i prosciutti di pesce. Già questo è un motivo più che valido per varcare la porta del bistrot di Francesca Micoccio e Antonio Ingrosso, in Via Solferino 44, a Milano. Un angolo salentino nel cuore di Milano, profumi di vera Puglia, nitidi, ricchi, perché tutti i prodotti arrivano quotidianamente dalle loro terre: il pane arriva da Tuglie, l’olio da Sannicola, le paparine anche, i gamberi viola da Gallipoli. E poi ci sono i prosciutti di pesce, assoluta rarità e infinità bontà che proviene da Torre Colimena, dove la famiglia Manno, pescatori da generazioni e veri maestri nella lavorazione del pesce artigianale, realizzano in un piccolo laboratorio dei piccoli grandi gioielli gourmet. “I Salentini” sono l’unico ristorante che viene fornito: il motivo è semplice, la quantità che possono produrre è davvero bassa e le richieste dei clienti di Francesca e Antonio l’assorbono per intero. Oltre a loro ci sono pochi altri acquirenti privilegiati, ma si tratta di privati: peccato, perché qualsiasi gou-
met, ogni persona con il palato fine dovrebbe poter gustarsi un San Daniele di tonno, ovvero il cuore del filetto. “La chicca più pregiata rimane la mortadella di bottarga”, chiosa Antonio. Magnifico il colore, mentre il gusto ti provoca un languido benessere. Ci sarebbe poi la bresaola di pesce spada, altra bontà fuori da ogni canone e immaginazione. Piatti seducenti, stupendi, raffinati, da abbinare al miglior champagne rosè possibile: chiudete gli occhi e scegliete in base ai vostri gusti o meglio, venite per Prima avevamo accennato al gambero viola di Gallipoli: sentite Antonio. “Non ci sono storie, è il più delicato e intenso, davvero sublime. Rispetto ai gamberi siciliani non ha quel odore pronunciato di mare”. Aggiungiamo: sarebbe un delitto non assaggiarlo crudo, perché rispetto al gambero rosso ha la carne più bianca e soda. Non solo prosciutti di pesce e gamberi viola: la lista delle prelibatezze continua, il viaggio gastronomico pugliese è infinito fra leccornie e peccati di gola per tutti i gusti, fra succulenti squisitezze del calore me-
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diterraneo: frisa salentina con pomodorini d’inverno, trippa di pescatrice (morbide guance di pescatrice con sughetto di pomodoro profumato allo zenzero), il purè di fave bianche di Carpino e cicorie selvatiche. I dolci vengono fatti in casa pure loro: vi consigliamo il classico pasticciotto salentino, un tortino di pasta frolla con ripieno di crema pasticcera, poi i ficchi mandorlati oppure lo spumone salentino, un gelato artigianale al cioccolato e nocciola con ripieno di meringa e granella di nocciole. Un vero omaggio alla loro terra, una cucina legata alla tradizione ma travolta dalla passione. Succulente squisitezze anche al Town House, ristorante che aprirà a breve al primo piano nella Galleria Vittorio Emanuele: lo chef Alberto Citterio, grande temperamento, ha già pronto il menù, vi conquisterà con il spaghetto tiepido con crudo di calamari, fili di peperoncino e colatura di alici di Cetara, possibilmente da abbinare ad un Bellavista Gran Cuvèe.
Black Pearl
Paradiso d’alta quota
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’ stato costruito secondo i suoi gusti. Philippe Capezzone, il patron e anche l’architetto dello chalet, lo stesso di Le Kilimandjaro e K2 a Courchevel, ha pensato a come amerebbe passare la sua vacanza ideale e, seguendo passo passo il suo modo di intendere il tempo libero, si è messo all’opera: il risultato lo potete ammirare prenotando al Black Pearl. Se avete fatto caso, solitamente questi sono gli alberghi migliori: quando una persona si immedesima nel cliente e crea in base alle proprie esigenze, ai desideri e ai sogni, il risultato è sempre straordinario. Detta così sembra banale: però avere la possibilità e il privilegio di costruire uno chalet che prima di tutto debba esaltare i tuoi gusti personali porta solo dei vantaggi. Vantaggi di cui usufruiscono gli ospiti dello chalet situato a pochi passi fuori da Val d’Isère, vicino alla funivia di Daille. Un capolavoro d’architettura moderna, un paradiso di alta quota, ambiente contemporaneo, lusso minimal, legno e pietra in stile savoyard, silenzio, tre piani, piscina, hammam, cinema privato, chef a disposizione, butler, spazi ampi, cinema. Chi non desidera un weekend del
genere, una settimana, una vita intera? Philippe è partito dal concetto più elementare possibile: costruisco un chalet dove io vorrei starci, il mio buon retiro permanente, passare le vacanze. Non conosciamo i suoi gusti personali ma alloggiando al Black Pearl ci siamo fatti un’idea. Sappiamo solo che ama l’arte, non a caso i suoi chalet
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sono pieni di pezzi unici di Andrew Martin, uno dei più en vogue artisti londinesi. Distribuito su quattro piani, 300 metri quadri, può ospitare dieci persone nelle cinque camere, ognuna con il proprio bagno e terrazzo. Come dicono da quelle parti, la via est magnifique.
Angelo Inglese Il re di Ginosa
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o conosciamo da così tanto tempo e abbiamo scritto così tanti articoli su di lui che, scusateci, non sappiamo né come iniziare né come continuare. Potremmo dire che basta la parola, ovvero il nome Angelo Inglese, e chiuderla qui. Lo sanno i lettori, lo sa il mondo intero, lo sanno i clienti affezionati ed abituali, coloro che ormai si organizzano le vacanze a Ginosa pur di passare qualche giorno nel suo atelier e fare la scorta di camicie per i mesi successivi. Camicie ma non solo, perché da tempo il brand è ormai conosciuto per il total look fatto interamente a mano: giacche, cravatte, abiti, tuxedo e cappotti. Detta così suona banale, quasi sminuendo la sua arte. E’ diventato un marchio famoso ovunque, seppur il paese dove impera rimane il Giappone, ma ora gli Stati Uniti gli aprono le porte grazie all’amicizia con Francis Ford Coppola, come si può leggere nelle pagine 20, 21 e 22. Prima di ogni edizione del Pitti gli chiediamo cosa porterà, cosa si inven-
terà, pur sapendo che anche se non si presentasse con nulla di nuovo riuscirebbe a impressionare comunque. Avete mai toccato una sua camicia? Un piacere totale e totalizzante, che innesca un meccanismo quasi perverso, compulsivo, da parte degli buyer, degli amici, della stampa. Nei quattro giorni del Pitti c’è una fila incessante, la moglie Graziana non si ferma un attimo, annota e prende ordinazioni, è quasi un pellegrinaggio: a volte ci
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sembra di essere a Wall Street dove i broker urlano per acquistare delle azioni. Ha sfondato e lo sa, ma è rimasto lo stesso signore elegante e umile del sud, legato al suo mondo che, ahime, invece di aiutarlo lo sta portando all’esaurimento, mettendogli i bastoni fra le ruote invece di eleggerlo come testimonial della città. Robe inaudite e impensabili, cattiverie e invidie di piccolo cabotaggio, miserie umane e meschinità degni della gente piccola, ma tant’è. Godiamoci lo spettacolo delle sue creazioni e dimentichiamo le angherie, al Pitti è il primo a farlo, sentendosi protetto dagli amanti del bello, dagli esteti e anche dagli acquirenti. Parlavamo dei clienti che diventano amici con il tempo, che tornano anno dopo anno a Ginosa: prima partivano dai loro paesi con una leggera diffidenza, ora non vedono il momento di respirare l’aria della Puglia, il profumo delle arance e della carne al forno, delle marmellate e le mozzarelle, del pane e della cicoria. Spesso abitano da Mario Pastore,
suo amico da una vita: due anni addietro ha messo a posto un piccolo albergo, Il Casale, albergo restaurato con l’intenzione di conservare ambiente e materiali originali, vedi i tappeti e accappatoi realizzati con tessuti fatti in legno tradizionale e ricamati a mano. Ci sono ovunque richiami a quelli che erano gli arnesi contadini recuperati e restaurati con maestria, in modo particolare il camino. Poi stanze immense, lampade incastonate,ampie volte a botte con tufo tirato a vista e soprattutto le colazioni servite sulla terrazza panoramica: pane casereccio cotto nel forno a legna, confetture fatte con limoni ed arance biologiche, ricotta, salumi tipici. Un paradiso autentico, Angelo dovrebbe essere l’uomo più felice del mondo e invece, per tornare un attimo alle angherie, sentite cosa raccontava in estate: “Vi chiederete cosa c’è che non va, visto che le vendite e la clientela sono in continuo aumento. Nulla, non funziona nulla, e se fosse solo questo il problema: basterebbe lasciarci fare e investire i nostri soldi privati. E invece no: non è possibile andare avanti, ci ostacolano in mille modi. Vogliamo finire i lavori al nostro borgo, dove finora ho investito milioni di euro per poter portare qui l’intera produzione, lo show room e perfino aprire una scuola di cucito. In pratica sto chiedendo alla regione e
alla politica locale di lasciarmi creare posti di lavoro con i miei soldi: il disinteresse è totale. Qualche mese fa una frana ha creato dei problemi, l’unica strada che porta al mio borgo, Via Matrice, è in disuso: nessuno si muove,
nessuno ascolta i miei urli di disperazione, non si sa se un giorno la strada sarà di nuovo agibile. Nel frattempo, il deperimento dei materiali e il degrado si impossessano delle mura. Il mio progetto é molto simile all’idea vin-
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cente di Brunello Cucinelli: lui è venuto personalmente a dare uno sguardo, mi ha sinceramente incoraggiato. Ecco, se lui a Solomeo riesce a portare il mondo intero, a far parlare della regione, dell’Italia, se riesce a creare occupazione, io non posso farlo perché l’imprenditore non è visto di buon occhio in Puglia. Anzi: mi guardano male dicendomi sprezzanti “vuoi guadagnare, furbacchione”. Beh, faccio l’imprenditore e investo i miei soldi, ci mancherebbe, che male c’è? Porto orde di clienti, mesi fa sono arrivati centinaia di austriaci solo per le mie camicie: hanno mangiato qui, dormito, acquistato prodotti locali, erano in delirio, ma è stato tutto organizzato da me, nella parte del borgo appena terminata. Il comune, la regione, invece di venire a chiedermi che fare per aumentare le vendite, per far si che i vari produttori locali possano vendere di più, perché i turisti si esaltino di più, perché tornassero, ebbene si sono inviperiti all’idea che noi guadagniamo. Ma loro hanno speso qui, i soldi rimangono qui, dovrebbero essere felici: e invece… Non ho mai chiesto un euro dalla regione, nemmeno dalla comunità europea: niente soldi, niente prestiti, niente favori. Vorrei solo poter creare posti di lavoro”. No comment Intanto godiamoci le sue opere, nel salone dell’Arsenale.
Pubbliredazionale
Lugano, mon amour
14.000 metri quadri, un parco ricco di fiori e alberi secolari, giardini curati, il panorama lacustre, appartamenti senior living che vantano arredamenti di lusso e servizi degni di un albergo a cinque stelle, un ristorante gourmet meritevole di almeno una stella Michelin: benvenuti alla Residenza Parco Maraini.
Residenza Parco Maraini Lusso a Lugano
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a terza età può essere una fase della vita ricca di stimoli, di conoscenze e di esperienze a patto di viverla nel posto giusto e con le persone giuste. La Residenza Sanitaria Assistita Parco Maraini è il luogo ideale dove trascorrere molti anni sereni godendo di tutta la sicurezza e l’assistenza che può offrire un team di esperti specializzato nella relazione con gli anziani. I residenti troveranno nel personale altamente specializzato di Parco Maraini le risposte più chiare e precise; e sappiamo quanto sia importante essere informati su ciò che riguarda la propria salute, soprattutto quando si dipende da qualcun altro. Al Parco Maraini al rapporto confidenziale con i residenti si sposa la competenza professionale e il calore di un vero ambiente familiare. Il tutto nella meravigliosa cornice di un parco ricco di fiori e alberi secolari affacciato su uno dei più affascinanti panorami del lago di Lugano: una particolarità unica. La struttura di Parco Maraini è all’avanguardia: può offrire il comfort più completo e la più completa attenzione professionale a una clientela dalle esigenze più diversificate. I clienti non autosufficienti troveranno tutta l’assistenza di cui necessitano 24 ore su 24. Inoltre, negli appartamenti senior living i residenti autosufficienti potranno godere dei comfort di un grande albergo, con in più la sicurezza di una tutela discreta e non invasiva: ogni abitazione è infatti lussuosamente arredata e dispone di un luminoso soggiorno con cucina all’americana, di un ampio balcone vista lago, di tv, telefono e wifi. Inoltre, ogni ospite ha la possibilità di personalizzare il proprio ambiente con i mobili di sua proprietà. Secondo le precise intenzioni del management, diretto negli ultimi due anni dall’Amministratore Delegato Marco Marzorati, Parco Maraini è concepito perché nessuno si debba mai sentire in una struttura sanita-
ria, nonostante il livello dei servizi disponibili, come l’assistenza infermieristica continua, la fisioterapia, un nutrizionista che personalizzerà la dieta di ciascun residente e un articolato programma di animazione che intratterrà gli ospiti quotidianamente. - Proprio al Dott. Marzorati, esperto del settore, chiediamo come vede lo sviluppo dei senior living?
- Dipende dall’area geografica. In Italia ci sono strutture in grado di dare un buon servizio sanitario ma mancano certamente strutture in grado di offrire un servizio alberghiero a cinque stelle mentre vi è una domanda sempre crescente di questa tipologia di offerta. In particolare le cosiddette strutture di “Independent senior Living” esistono ma non in numero adeguato al soddisfacimento della domanda. Operando prevalentemente all’estero ho avuto modo di riscontrare che quest’ultima tipologia di servizio è presente nei principali paesi europei ed è in costante crescita.
- Cosa ne pensa del fenomeno degli expatriates pensionati europei di cui spesso si parla?
Marzo Marzorati
Lusso e confort in un parco secolare sul lago. Vivere a pieno la terza età alla Residenza Parco Maraini di Lugano.
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- Non è un fenomeno nuovo, tuttavia è un fenomeno destinato a crescere. In Italia, la nazione ove vi sono certamente maggiori vincoli di natura affettiva ad allontanarsi dai propri cari, l’Inps conta già più di 400.000 pensionati espatriati. Nei paesi anglosassoni il fenomeno è ovviamente di ben altre dimensioni. La tendenza è verso paesi caldi con un basso costo della vita. In quest’ambito il Marocco è diventata una delle mete più appetibili, non ultimo per il fatto che ha attuato una politica fiscale incentivante per i pensionati riservando loro una imposizione sui redditi da pensione estremamente bassa. - Come si posiziona la presenza di alta tecnologia in questo ambito? Vantaggi? Avete o state già usando al Parco Maraini di Lugano dei sistemi di monitoraggio particolari?
- Le innovazioni tecnologiche hanno portato numerosi vantaggi anche in questo settore. Esistono sempre più strumenti che permettono un costante monitoraggio della salute degli anziani, agendo in maniera non invasiva. Per esempio, sensori wireless posizionati all’interno delle camere o degli appartamenti che in caso di ca-
dute, malori o movimenti anomali provvedono a dare automaticamente l’allarme permettendo un rapido e tempestivo intervento da parte degli operatori sanitari. Non dimentichiamoci inoltre che la diffusione di massa di metodi di comunicazione digitale, ha generato dei risvolti molto importanti anche nell’ambito del senior
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living. Basti pensare alla possibilità, per chi decide di trasferirsi in strutture lontane dalle proprie residenze, di potersi mettere in comunicazione a bassissimi costi sia con i propri cari, sia con dei medici specializzati,attraverso per esempio l’utilizzo di Skype piuttosto che altre applicazioni Web.
La cena seduttiva Where dreams begin
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ntrigo sentimentale a tavola: l’attesa, la speranza di una serata, la cena seduttiva. Il trailer di una commedia romantica americana con un cast di eccezione...o vita realmente vissuta? Chissà. Da qualche mese mi tornano spesso in mente una pagina pubblicitaria e un ritornello musicale. La pubblicità la vedo su ogni uscita di Cigar Aficionado, una rivista strepitosa di cui ho raccontato e racconto quasi in continuazione con la stessa piacevole ossessione con la quale esalto la schiena arcuata di una giovane donna. E’ la doppia pagina di Rocky Patel, eccellente produttore di sigari americano che utilizza un delicato tabacco nicaraguegno: ve li consiglio vivamente, ma non divaghiamo. “Where dreams begin”, suona il claim. Il ritornello: si tratta di un motivetto banale e semplice che mi accompagna dalla prima volta che ho visto One Day, film di qualche anno addietro con Anne Hathaway e Jim Sturgess. Il film ha poco a che fare con il mio mondo, però c’è la folle convinzione dei due che si appartengono: solo verso la fine del film riescono a stare insieme, respirando ogni singolo attimo perso negli anni precedenti. In qualche modo mi ci rivedo nella incessante ricerca di una magia, di una emozione unica, una ricerca spasmodica, adrenalinica e rilassante
allo stesso tempo. E’ il motore della mia vita, mi nutro di magia ed endorfina, di sogni che, ahimè, spesso non si materializzano. Ecco, lo slogan pubblicitario di Rocky Patel potrebbe essere il titolo di un altro film del genere e potrebbe essere ambientato al bistrot Les Gitanes, zona Porta Genova, all’inizio di Via Tortona, angolo Via Forcella. Ci misi piede per la prima volta un anno e mezzo fa e rimasi conquistato all’istante: sembrava di essere a New York, oppure a Londra. Ci sono good vibes ovunque e in più si mangia squisitamente, sapori netti e garbati, percorsi gourmet vigorosi e sorprendenti, merito di Davide Callegari e Alessio Truddaiu. Piccolo suggerimento: ordinate la carbocalamaro con una bollicina, follia gourmet. Tornando al movie: ci sono quattro personaggi, ovviamente diversissimi fra di loro, tutti però legati in qualche modo dall’amore per il profumo del cibo o per chi lo prepara. La trama, spiegata a un bambino di quattro anni: lo chef aspetta lei, una donna conosciuta tramite il terzo personaggio, il giornalista gastronomico innamorato perso dall’amica di lei. Tutto chiaro, vero? C’è lo chef, dunque: uno che guardandolo ti viene subito in mente Bradley Cooper in Kitchen Confidential, prima serie tv impostata sul mondo dei cuochi, un paio di anni in anticipo rispetto all’isteria collettiva dei pro-
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grammi gourmet. L’ha conosciuta solo virtualmente perché lei lavora lontano, in un paese respingente dal punto di vista culinario, diciamo un nome a caso: la Scozia. Si sentono ogni giorno da mattina a notte fonda e alla cena arriverà assieme alla sua miglior amica, sogno infinito dell’altro personaggio. Lo chef, guidato da un irrefrenabile ottimismo, vuole impressionarla (ma finirà per essere lui stesso impressionato) e accarezza le pietanze che sta cucinando per lei, tocca il cibo con sensibilità, immaginando scenari futuri . Il giornalista, nel giorno della cena si trova ancora all’estero. Nevica, il volo è a rischio, la sua tempra romantica lo spinge sempre a immaginare quadri fiabeschi. Non gli piacciono le vittorie fuggevoli, il coraggio lo spinge a osare lontano, stavolta forse troppo. Si bea della solitudine dell’aeroporto, isolandosi dall’agitazione degli altri. Mai aveva incontrato una donna come lei e sa che nulla sarà più come prima, andasse come andasse. Il volo finalmente sta per partire. In cucina arrivano i prodotti ordinati per i piatti cremosi ed estrosi che usciranno fumanti qualche ora dopo. Piatti carnali, perché il primo assaggio deve essere un colpo diritto al cuore della donna sognata. Le due amiche si mettono in viaggio. La giornata si proietta lentamente in una sorta di nirvana. Fine primo tempo.
Alberto Citterio Un mago in Galleria
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ubo di foie gras caramellato con pistacchi di Bronte e tartufo nero: quando incontrerete Alberto Citterio nel nuovo ristorante di Town House, al primo piano della Galleria Vittorio Emanuele, chiedetegli di prepararvi il piatto che lo ha reso famoso. Non resterete delusi, tutt’altro: non lo si trova sul menu, ma conoscendo la sua passione per la cucina e l’amore che ha per l’ospitalità, vi accontenterà di sicuro. E’ uno di quei chef che vive per i suoi ristoranti ed i suoi clienti: “Non ho alcun hobby, non vado in bicicletta e non gioco a golf, non dipingo e non suono il pianoforte, io mi dedico tutto il giorno alla mia cucina”, racconta sorridente, per poi aggiungere il suo slogan professionale: Ci sono chef che cercano ricette e altri che cercano esperienze”. Ovviamente lui fa parte della seconda categoria. Parlerebbe per ore di ristoranti, chef e materie prime: é il suo mondo, il suo parco giochi. Forse così si spiega la forza e la potenza dei suoi piatti, la decisione della sua mano e la creatività: ve ne accorgerete appena vi porterà lo spaghetto tiepido con crudo di calamari, fili di peperoncino e colatura di alici di Cetara, una vera opera d’arte. Piatti elaborati e sanguigni allo stesso tempo, profumi nitidi, come solo chi ha vissuto e lavorato al sud riesce a esaltare. Non a caso fa uso intenso di peperoncino e liquirizia, materie considerate povere ma così ricche: “Vengono sottovalutate, addirittura rinnegate”, sostiene con una punta di rammarico. “E’ un peccato, oltre che un errore. Sono il nostro orgoglio, l’orgoglio del sud, perché le trovi dove la terra è arrida, crescono in maniera
spontanea”. Vanta una esperienza notevole alle spalle, da Joia a Sambuco, dalla Vecchia Viscontea al ristorante di Marco Pier White a Londra, il suo idolo (per chi non lo sapesse, White è colui che ha cresciuto pro-
quel posto in maniera viscerale, mi ha dato tantissimo dal punto di vista umano e anche professionale, mi ha regalato una vetrina unica, per non parlare del quadro da cartolina della costa. In più, una volta al mese si andava al Harry’s Bar di Londra, con l’intento di promuovere la cucina Made in Italy, la gente sognava ad occhi aperti”. A Milano non c’è il mare, in cambio c’è la Piazza Duomo: la vista sa comunque di polaroid della felicità. Il nuovo ristorante aprirà a breve (si entrerà dal civico 21 della Piazza), il menu invece è pronto: cucina classica meneghina con un tocco moderno, ci saranno sei antipasti, sei primi e secondi, poi qualche novità giornaliera, in base alla stagione, perché la filosofia culinaria di Alberto è molto legata al prodotto e alle stagioni. C’è perfino la possibilità di mangiare kosher, così come si può ordinare senza alcun problema un piatto orientale. Sessanta posti all’interno e altrettanti sul terrazzo, apertura dalle undici alle due del mattino, inoltre ci sarà l’enoteca (aperta dalle 16 alle due di notte), una chicca di altissimo livello dove si potranno degustare vini pregiati e prelibatezze italiche di primissima qualità: formaggi, salumi e anche del foie gras abbinato ad un sautern da favola. Cucina per gli altri, ma lui, lo chef, cosa ama preparare per se stesso? “I piatti più semplici al mondo, che poi sono quelli migliori: spaghetti olio, aglio e peperoncino, oppure il riso burro e parmigiano”. Dovesse menzionare un paio di colleghi che apprezza in maniera speciale direbbe Massimiliano Alaimo e Heinz Beck, “i più grandi ma anche i più umili”. Lui non è da meno.
Spaghetto tiepido con crudo di calamari, fili di peperoncino e colatura di alici di Cetara, una vera opera d’arte fessionalmente Gordon Ramsey e Curtis Stone). Poi ci sono stati i dieci anni a Le Sireneuse, ristorante storico sulla Costa Amalfitana: orari folli, dalle sei del mattino alle due di notte. “Un posto magnifico, con dei proprietari straordinari, che riuscivano a far sentire a casa propria sia gli ospiti che lo staff. Ho amato
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