GOOD LIFE

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Bob Sinclair

Miami Style

Jeff Bridges Richard Branson

Cigar Club

Jack Nicholson

Miguel Angel Jimenez

Pebble Beach

Don Alejandro Robaina

Delizie e piaceri


Riad Jnane Allia

in Marocco con il tucano A Marrakech l ’eccellenza e il fascino dell ’ospitalità più discreta

Riad Infinity Sea


Riad Nashira & Spa

VIAGGI D’AUTORE

il tucano ha scelto per voi

Riad Jnane Allia, Riad Infinity Sea e il Riad Nashira & Spa

Il Marocco oltre i luoghi comuni: viaggi su misura, itinerari sahariani, soggiorni in campi tendati, riad e hotel di charme.

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Editoriale

Quella schiena arcuata

insegue

che ci

ovunque…

C

’è un’immagine, stupenda, che ci insegue ovunque, in ogni momento della vita. Gli amanti del bello, gli esteti, i buongustai sanno di cosa stiamo parlando: la schiena arcuata di una donna, di un corpo giovane, luminoso, vellutato, morbido, sensuale, caldo, intenso. L’endorfina attinge il suo massimo, si scatena. Ecco, per noi la vita è solo questa, un susseguirsi di momenti idilliaci, entusiasmanti, pieni di luce e charme, di estasi e piena felicità, eleganza e piacere. Che si tratta di un sigaro voluttuoso, di un piatto delizioso, uno scatto memorabile, oppure una vista mozzafiato dalla stanza di un resort di lusso, poco cambia: quello che cerchiamo è il nirvana, la bellezza assoluta, il piacere totale. Sono i nostri valori e cerchiamo di trasmetterli anche a voi. Si dice sempre che una rivista rispecchia l’anima di chi la realizza: probabilmente è vero, nel caso di Good Life sicuramente. Ci interessa solo un mondo pieno di sogni, voglia di vincere, ambizioni, grinta, soddisfazioni, tenacia, bellezza assoluta. Per questo non riusciamo a capire la gente cupa per hobby. Ok, ok ci siamo promessi di non dare mai spazio alle persone negative e tediose, però davvero a volte è più forte di noi, non riusciamo mai a capacitarci di come uno possa vivere nel livore e senza entusiasmo. Affari loro, ma guardando Facebook diventano un po’ anche affari nostri, anzi, abbiamo una proposta: si può fare come nei ristoranti, una sala fumatori e una per i non? Cioè una Facebook per gente solare,positiva, gioiosa e piena di amore, poi un’altra dove i depressi per sport possano stare a trastullarsi fra di loro? A proposito dei fumatori. Il mondo intero, Italia esclusa, si riempie di posti chic dove gli amanti dei sigari possano deliziarsi: a Londra si stanno superando, negli Stati Uniti pure, nei paesi asiatici ancor di più, perfino nel Medio Oriente e la Cina. Quanta invidia! Per concludere: fanno ridere le riviste che per decenni hanno vissuto esclusivamente grazie alle belle donne in copertina e non solo. Ora le hanno rimosse: niente, nemmeno una. Una strategia comica e ovviamente perdente, perché le vendite sono a picco. Tutti fanno i superiori, l’idea sarebbe “noi offriamo contenuti, è finita l’epoca dei corpi nudi, poi i nostri lettori si sono evoluti”. Si, ciao Pep. Mentitevi ad un altro tavolo. Ps: Sogniamo ancora di ammirare la schiena arcuata di una donna che ci ha ammagliati fin dal primo momento che l’abbiamo incontrata. Si, è nelle pagine di Good Life.

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Sommario

Good Life

La vita ĂŠ una magia

Bob Sinclair

Jack Nicholson

Pag. 6

Pag. 20

Richard Branson

Jeff Bridges

Bistrot Les Gitanes Miami life Pag. 30

Pag. 10

Pag. 22

Pag. 34

Good Life e-mail dominiqueantognoni@yahoo.it

Pebble Beach

Pag. 16

Miguel Angel Jimenez

Pag. 24

Qasr Al Sarab

Pag. 42


Foto: Fabio Raffaeli aka The Iconoclast

Giada Ghittino Woman we love

C

amaleontica. Sensuale. Sexy da morire. Bella da svenire, in ogni momento e situazione: rapper o femme fatale, ragazza acqua e sapone oppure musa, studentessa tipo college americano oppure freaky metropolitana. Scherzando ma non troppo, lei si considera un cartone animato perché le smorfie che fa sono meglio di un qualsiasi personaggio di Walt Disney (guardare per credere le foto che posta sul suo profilo Facebook) Si potrebbe continuare con gli elogi, gli aggettivi e i complimenti, l’elenco è alquanto lungo. Più semplicemente lei è Giada Ghittino. Si trasforma da un momento all’altro, per lei una bevanda all’aloe con

gli amici è uguale alla passerella sul red carpet: stessa disinvoltura, identica nonchalance, le linguacce pure. Corpo vellutato, schiena arcuata, portamento fiero, da un paio di anni è richiestissima come testimonial, il suo magnetismo conquista tutti, ammalia, stordisce, inebria, confonde, esalta. E’ fresca, elettrica, semplice ma allo stesso tempo sfuggente e timida. Modella atipica, zero arie, il problema con lei è di quelli seri: se si dovesse scegliere una sola foto per l’articolo, quale pubblicare? Impresa ardua, un delitto lasciarne fuori alcune, ti salvi e ti consoli pensando che il mondo non finisce domani e allora sì, ci saranno altre occasioni per esaltarla. Il numero scorso vi avevamo regalato

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la fotografia realizzata da Alberto Buzzanca, con Giada in versione sexy da morire, immagine che ti portava con la memoria a Sharon Stone in Basic Instinct. Stavolta stavamo decidendo per lo scatto che fa molto Edie Sedgwick, la musa di Andy Warhol: gambe accavallate, seduta in poltrona gustandosi una sigaretta, rilassata e sognante. Alla fine abbiamo accontentato lei, perché quella che vi mostriamo è la foto che ama di più, in versione rapper: “A me fa impazzire”, racconta tutto d’un fiato, “È la mia preferita perché è naturale, fresca, leggera, senza trucco, senza mega abiti addosso”. D’accordissimo, e voi?


Bob Sinclair Dj superstar

N

on bevo, non fumo e non mi drogo”. Firmato Bob Sinclair, l’immagine pulita della musica che conta e si vende, ovvero quel misto di house e disco nato negli Stati Uniti ma esploso in Europa qualche anno addietro. Rockettari addio, per fortuna. Non abbiamo mai avuto un debole per il mondo troppo rumoroso e vissuto pericolosamente dei rocker e ci pare alquanto patetico vederli con la carne tremola a sessant’anni comportarsi da adolescenti: perdono capelli ma fanno i duri e i puri, ma per favore. Sarà che siamo nati e cresciuti con i valori pragmatici del capitalismo (che ci piace da matti), sarà che preferiamo l’ambizione alla trasgressione, sarà quel che sarà, di sicuro amiamo la musica lounge e la club house, zero ideologie e militanze, tanto ritmo e sensualità. Per questo ci piace da morire la nuova tendenza dei dj superstar: scalano le classifiche dei più pagati, le radio

Christophe Le Friant, questo il suo vero nome, porta a casa sette milioni l’anno fra serate, dischi e performance varie preferiscono la loro musica abbandonando il rock, al massimo relegato in un angolo buio o buono per History Channel. Sono ambiti dalle aziende, fanno da testimonial, come il nostro personaggio Bob Sinclair che da un paio di anni è l’immagine dell’intimo Yamamay e anche dell’Alfa Romeo. Il “six pack” perfetto, ovvero gli addominali, le cuffie perennemente in mostra: Christophe Le Friant, questo

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il suo vero nome, porta a casa sette milioni l’anno fra serate, dischi e performance varie. Per fare girare i vinili chiede e ottiene 40.000 euro a serata, il che lo colloca al quarto posto nella classifica dei compensi, dietro David Guetta (60), Tiesto (50) e Fatboy Slim (45). Tiesto a volte ne chiede 350.000, si narra che alcune volte abbia portato a casa ingaggi da 150.000, ma si tratta di eccezioni. Sono tutti europei, il che può sembrare strano, visto che la musica house sia nata a Chicago e la techno a Detroit. Però le radio trasmettevano solo pop, alcune delle canzoni rock per nostalgici e amanti del mondo che fu. “I Gotta Feeling” e “Sexy Bitch” hanno cambiato le regole del gioco, le radio si sono adeguate ai cambiamenti e così è iniziata l’epoca dei dj, considerati dei veri produttori e artisti. Prima era una cultura underground, ora monopolizza la scena, è amata dal grande pubblico, non a caso si è passato dalle esibizioni nelle disco a stadi


e arene: ci sono 10-15.000 fan per un’esibizione, loro si spostano con degli aerei privati. Ha iniziato a 18 anni, come dj: si faceva chiamare Chris The French Kiss. Lo pseudonimo Bob Sinclar lo ha scelto ispirandosi al personaggio di Bob Saint-Clair, interpretato da Jean-Paul Belmondo nel film Come si distrugge la reputazione del più grande agente segreto del mondo di Philippe de Broca del 1973. La sua prima club hit fu “Gym tonic”, una collaborazione con Thomas Bangalter dei Daft Punk che ne fu coproduttore: il brano raggiunge il primo posto nella classifica dei singoli del Regno Unito. Il successo planetario è arrivato nel 2005 con “Love generation”. Da allora è una fila continua per averlo alle serate, per collaborare ad un nuovo cd. Proprietario della Yellow Productions, diventa famosissimo nel 2007 quando il 16 maggio 2007, in onore della vittoria di Nicolas Sarkozy, e sotto sua richiesta e lauta ricompensa,

mixa per Le President (quanta nostalgia) in Place de la Concorde. Il 12 marzo 2010 pubblica Made in Jamaica che viene candidato anche ai Grammy: è una raccolta dei suoi più grandi successi remixati e riagganciati in chiave reggae più due inediti: I Wanna, dove collabora con ill giamaicano Shaggy e Rainbow of Love che viene estratto come singolo in una versione più dance, rispetto all’originale reaggae chiamato Rainbow of Life, cantata da Ben Onono. Fra l’altro quest’ultima verrà usata come colonna sonora dello spot dell’Alfa Romeo Mito, in cui compare lui stesso come testimonial. Sempre nel 2010 pubblica “Bob Sinclar: The Best Of ”, il 4 gennaio 2011 il suo nuovo singolo “Tik Tok”, in collaborazione con Sean Paul. Un vero colpo da maestro il 15 aprile 2011: lancia il video di Far l’amore, remix del brano composto da Carmelo Carucci e portato al successo da Raffaella Carrà nel 1976 A far l’amore comincia tu, brano che raggiunge la sesta

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posizione nella classifica dei singoli più scaricati in Italia. Conclude l’anno con il cameo nel cinepanettone Vacanze di Natale a Cortina interpretando se stesso e curando anche la colonna sonora: lancia inoltre Fuck with You (con la cantante Sophie Ellis Bextor). Diciamolo, è anche molto vanitoso, il che non guasta: ama circondarsi da ballerine e donne nude (d’altronde è un grande collezionista di Playboy), il che probabilmente gli crea qualche grattacapo a casa: si sussurra che la moglie Ingrid sia un tantino gelosa. Lo ammiriamo anche perché non butta mai nei discorsi o nelle interviste delle frasi che alcuni si sentono obbligati di dire: no, lui è un cultore del fisico, è per il Viagra, spera che un giorno ci possa essere una pillola anche contro l’invecchiamento. Se lo sentono i bacchettoni nostrani avranno da impartirgli qualche sermone, ma per fortuna sua loro hanno altro a cui pensare: sono impegnati nel salvare il mondo. Un mondo che però vuole Bob Sinclair.


Kate Moss Kate she’s back

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ate she’s back. Erano 17 anni che si rifiutava di posare per la copertina di un mensile maschile, l’ultima volta fu nel 1996 per il mensile Arena, nel frattempo spirato. Fra le riviste ancora in vita, riavvolgendo il nastro scopriamo che fu proprio per lo stesso Esquire a regalare gli ultimi scatti dedicati ad un prodotto editoriale per gli uomini: era il 1993. I motivi sono vari: è molto più amata dalle donne che dagli uomini e allora non vuole spostarsi dal suo target di riferimento, ovvero le riviste fashion, che hanno monopolizzato le copertine di Kate.

Fatto che finalmente ha cedute alle richieste e le lusinghe del direttore di Esquire, edizione britannica. Merito di Alex Bilmes, il nuovo editor del mensile che manca in Italia (troppo sofisticato e lontano dai buonismi esageratamente sbrodoloni nostrani, impegnati ormai a dimostrare che l’uomo vuole dei prodotti evoluti e di conseguenza senza donne nude, ma per favore). Si conoscono da anni, ma solo adesso è stato possibile convincerla, fra l’altro con un “trucchetto”: il numero di settembre è dedicato alle persone e le aziende più stylish dell’Inghilterra, chi meglio di lei poteva impersonare l’eccellenza dei sudditi? Appena avuto il suo “si” Alex ha contattato Craig McDean, uno

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dei fotografi più in voga del momento, nato nei pressi di Manchester ma ormai stabile a New York. “Per quelli come me Kate è l’icona di una generazione intera, è un misto di glamour, sensualità, edonismo e quel modo di essere cool”, scrive Alex nel suo editoriale, visibilmente eccitato. “Non riuscivo immaginare un’altra sulla copertina dove esaltavamo il meglio del nostro paese a livello di moda e stile”. Come dargli torto? Una buona notizia tira l’altra: a gennaio la vedremmo sull’edizione di Playboy, il maschile per definizione: si festeggiano sessant’anni di gloria. Pure loro hanno scelto Kate.


Foto:Carlo Mari

Lory Ladydiabolika Burlesque, my love

“S

ono Lory. Lory Ladydiabolika. La cosa più difficile quando si tratta di un’intervista o di parlare di me stessa è decidere da quale parte iniziare. Anche perché spiegare bene di cosa mi occupo è francamente una missione complicata anche per me. Potrei sinteticamente dire che mi occupo di un’attività “multitasking” che ruota intorno al pianeta “Femminilità”. Entrando nello specifico attualmente mi occupo di styling, hair -styling e make up in ambito fotografico e allo stesso tempo mi occupo di design e realizzazione artigianale su misura di abbigliamento e accessori glamour. Come mi sia venuto in mente di buttarmi in questo campo è presto detto, ho lavorato diversi anni e lavoro tuttora nel settore “paillettato” dell’intrattenimento notturno, ballando nei locali di mezza Italia, ed è lì che ho iniziato a trovare lo spunto e a ideare le mie prime creazioni, volte a sedurre un pubblico, o molto più semplicemente, a valorizzare ed enfatizzare la femminilità più ammiccante. C’è da dire che nella

mia attività di performer ho sperimentato un po’ di tutto e c’è molta differenza tra lavorare sul palco di un locale rock, o esibirsi nel contesto di uno spettacolo burlesque, ecco perché le mie creazioni spaziano tra più generi e a volte si fondono anche tra loro dando vita a una sorta di “fusion” di stili. Detto questo, quando inizi a creare una linea di abbigliamento devi capire qual’è il filo conduttore di quello che fai e questo è stato successivamente individuato nel “personaggio” provocatorio di Ladydiabolika che poi è diventato a tutti gli effetti anche il mio marchio di produzione. Essendo un’artigiana e avendo un piccolo laboratorio ho scelto il “passaparola” e il web come mezzo per commerciare ciò che creo e, anche se al momento è più una vetrina parziale di quello che faccio, uno dei miei progetti è di rifare il sito al più presto e di ampliare la mia collezione. Parallelamente all’attività creativa ho sviluppato poi una piccola carriera fotografica in prima linea come modella. Non so neanche come sia partita a dire il vero, ma ormai sono 8 anni che poso sia per progetti personali che per workshop fotografici e, avendo

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maturato una certa esperienza oltre l’obbiettivo, ho appreso diversi trucchi del mestiere che poi si sono rivelati utilissimi anche per il mio lavoro di styling. A proposito di styling ho poi incontrato sul mio cammino il fotografo Enrico Ricciardi con cui ho intrecciato una collaborazione, ormai consolidata da qualche anno, in ambito glamour. Sostanzialmente noi siamo un glamour team e siamo particolarmente abili a costruire un’immagine di questo tipo a 360°intorno a qualsiasi tipologia di modella. Devo dire che non c’è nulla che mi dia più soddisfazione del vedere una donna risplendere al massimo della sua femminilità, ecco perché amo il mio lavoro, perché me lo sono scelto e creato. Non mi sono mai ispirata a un modello solo in particolare per la mia attività creativa anche se nello style ci sono molte icone femminili attuali e passate che ammiro e a cui mi ispiro : Vivienne Westwood per la trasgressione, Coco Chanel per il look classico sofisticato, Bettie Page per l’adorabile ed eccessivo pin up look e Dita Von Teese per il gusto retrò e al tempo stesso fetish”.


Richard Branson Mister Marketing

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ome sempre il preside non c’ha azzeccato. Un classico, l’errore di valutazione di un professore grigio e impigrito dalla routine statale. In pratica disse di Richard Branson: “finirà in galera”. Difatti diventò miliardario: oggi l’imprenditore ribelle è il più ricco cittadino del Regno Unito, con un patrimonio stimato 4 miliardi e mezzo di sterline, sei miliardi di euro. Visto come sa gestire gli affari può solo migliorare: spregiudicato, selvaggio contro i sindacati, ma anche ruffiano se serve (e serve spesso). Personaggio affascinante e tenace, nonostante quell’aria hippy che nell’immaginario collettivo gli toglie qualcosa a livello di carisma, Richard sta per metterne a segno un’altra delle sue: per i passeggeri di Virgin verranno organizzati degli spettacoli live a bordo degli aerei. Come non lo si sa, ma ancora una volta lui ci è arrivato per primo, come sempre. Ha fiuto per gli affari e osa l’impensabile il ragazzo cresciuto nei sobborghi londinesi. A proposito, da adolescente era una schiappa a scuola, il che dimostra per l’ennesima volta come studio e spirito imprenditoriale non abbiano nulla da spartire: indietro negli studi, avanti nella vita. Rimediava dei pessimi voti, invece, era bravo nello sport: capitano della squadra di cricket, rugby e calcio, di gran lunga meglio che avere dieci in storia sulla pagella. A quindici anni le prime iniziative affaristiche: un terreno dove coltivare

abeti da vendere come alberi di Natale e un giornale scolastico con un nome elementare, Student. Andò male ma il destino era tracciato, il cammino iniziato: sapeva di voler fare soldi, tanti soldi, per cui mollò gli studi (mai avviati a dire il vero) dedicandosi con una tenacia feroce ai suoi obiettivi. La prima attività fu un postal market, un catalogo di vendite tramite posta, poi seguì il commercio di dischi usati ma ancora in buone condizioni, che vendeva dal bagagliaio della sua auto. Virgin nacque proprio così, perché dalla sua macchina al negozio su Oxford Street il passo si fece breve, brevissimo. Dovendo scegliere un nome, decise appunto Virgin, come a voler significare anche di non aver esperienza nel campo degli affari. Poco dopo fondò la casa discografica con lo stesso nome e con la sala di incisione che era la stalla della fattoria dove si era trasferito. Siamo alla fine degli anni sessanta e Londra è la capitale della musica, ci sono il rock e i capelli lunghi, i sogni e le minigonne quando un certo Mike Oldfield va da lui a incidere un album, Tubular Bells, che sappiamo come andò: le canzoni scalarono le hit parade diventando un simbolo per l’intera generazione. Seguiranno altri, oggi famosissimi, ma a quei tempi solamente dei giovani appassionati e sconosciuti: Peter Gabriel, Genesis, Simple Minds, Rolling Stones. In pratica, la storia della musica rock. Ormai Richard è lanciatissimo, ha un impero, dai

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negozi e case discografiche si passa a catene di store e una compagnia aerea. Ricordate la Virgin Atlantic? Non era proprio una low cost ma qualcosa di simile, con cui fu il primo a tenere testa ai colossi del settore, aggiungendo quel tocco spensierato e fresco in un mondo troppo ingessato e rigido. Ha sempre puntato sul marketing, ma il brand da promuovere è se stesso: compare ovunque, si fa fotografare a bordo vestito da hostess con il rossetto, sulla scaletta dell’aereo mentre tiene in braccio Kate Moss oppure la regina del burlesque, Dita von Teese. Uno dei primi ad aver capito quanto possa essere importante abbinare un volto a un nome e a una compagnia, infatti, se vedi lui pensi immediatamente a Virgin. E’ vanitoso, il che non ci pare un difetto, semmai un modo per far parlare di lui: geniale. Oggi, lo sanno tutti, possiede anche una compagnia telefonica, delle palestre, ha fatto il giro del mondo in mongolfiera, vuole portare la gente sulla luna a pagamento e stava per acquistare perfino una banca andata in malora, la Northern Rock, deceduta nel periodo dei mutui subprime. Nell’ultimo periodo ha sposato la linea del capitalismo etico, chissà se per convinzione o per imitare Bill Gates, con la differenza che Branson si esibisce ovunque, mentre l’ex numero uno di Microsoft si nasconde il più possibile. L’idea di voler cambiare il mondo probabilmente sarà una trovata pubblicitaria, l’ennesima, per portare dalla sua anche


i nemici della ricchezza, non sarà un caso che adesso i laburisti siano i suoi fan più scatenati, mentre una ventina di anni addietro era applaudito solo dai conservatori: Margaret Thatcher lo fece baronetto. Studiando le strategie di marketing - si arriva sempre qui - ha scoperto l’importanza di piacere a tutti, perché

volano e vanno in palestra perfino i talebani ecologisti, quindi, tanto vale sedersi a un tavolo con Al Gore e sentir parlare di effetto serra, oppure, far parte di una specie di club esclusivo come The Elders (fra gli altri ci sono Jimmy Carter e Kofi Annan), che tenta di risolvere i problemi del pianeta (ma per favore).

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Ai giorni nostri piace l’immagine (tradotto: si vende meglio) dell’imprenditore sensibile, buono, attento al clima e ad altro. Lui lo fa, senza rinunciare ai profitti e al mondo completamente opposto, quello del petrolio: detiene un team di Formula Uno. Perché tutto fa brodo. E soldi. Tanti soldi.


Diva Resorts Naiade, Maldive

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H

anno speso 45 milioni per ricostruirlo. Prima apparteneva alla catena Sandals, ora invece è di proprietà della Diva Island Resort & Spa: eccolo tirato a lucido, splendente con le sue 84 water villa, una presidential, 3 water villa per famiglie, 12 beach pool villa, 45 bungalow sulla spiaggia ed ben 48 suite Junior. Ai romantici suggeriamo la Water Villa Prestige numero 414: stanza fenomenale, spaziosa, terrazzino privato, sdraio e accesso diretto al mare con una vista mozzafiato e vasca da bagno che guarda l’oceano (in più il wi-fi è gratuito e anche veloce!). A dire il vero le Water Villa sono le preferite della stragrande parte degli ospiti: si trovano nella zona più bella dell’isola, mentre le Prestige e le Beach Villa, pur avendo tutte la spiaggetta privata e attrezzata con lettini, occupano la parte leggermente meno scenografica dell’isola, che forse risente un po’ dalle correnti marine che portano a riva molte alghe, comunque tolte costantemente. Il livello è davvero eccelso: housekeeping due volte al giorno, in spiaggia lettini e towels, grande privacy, la spa firmata Anne Semonin, il miniclub e un centro diving all’avanguardia. Oltre alle camere e le spiagge qui ci si esalta per la qualità del cibo nei sei ristoranti. Al pranzo quasi tutti scelgono il Season, situato sulla spiaggia accanto al water sports: buffet con scelta ampia e variegata, ottimo per uno spuntino leggero a due passi dai lettini, praticamente con i piedi nella sabbia in riva all’oceano. Strepitoso il Noo, dove probabilmente si preparano i migliori pancakes con sciroppo d’acero del mondo (migliori di quelli che si mangiano negli States, assicurano i fan). La colazione si serve pure all’East: propone una vista sulla laguna da toccare il cielo con un dito per il piacere. Pure a pranzo ci si torna, vista la ricchezza del buffet. Si va anche per un aperitivo verso il tramonto per vedere mangiare razze e squaletti. Senses é ottimo per cenare con piatti multietnici, ovviamente nel caso foste amanti del genere. Si consiglio comunque di andarci per un aperitivo: il bar è molto fornito, in più il tramonto visto da qui è spettacolare. C’è anche un ristorante italiano, Allegria: bella atmosfera, ottimo per le cene romantiche, difatti le coppie in luna di miele lo scelgono quasi ogni sera. Molto raffinato il Pure, ristorante giapponese di alto livello. Veli offre soprattutto dei spunti fra i pasti, è più che altro un bar dove ordinare snack e altre delicatesse, ma l’esperienza di pranzare alla carte al bordo della piscina circolare è da non perdere assolutamente. Può sembrare strano, però vi consigliamo gli spaghetti ai frutti di mare. Per un buon sigaro e un drink dopo cena suggeriamo l’Iru. Il resort si trova nell’isola di Didhoonolhu, una delle più grandi delle Maldive.

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La Sultana

Marrakech, Marocco

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ncora poche settimane e inizierà “l’esodo” dei golfisti verso mete più calde. Le destinazioni sono le stesse: per dei lunghi weekend si opterà per città a non più di tre di volo, per una settimana si potrà anche spingersi oltre oceano, verso la Repubblica Dominicana oppure Mauritius. Ma per un “tre giorni romantico” la città rossa è da sempre una delle preferite degli italiani: negli ultimi anni il numero degli ospiti, non solo golfisti innamorati di “Cash” è aumentato in maniera impressionante, anche perché sta diventando sempre più occidentale e invitante. Il suo fascino è irresistibile, c’è un fermento contagioso, si sta costruendo sempre, ad ogni passo ci sono alberghi

a cinque stelle e ristoranti gourmet (Jo’s, Fogo de chao, Matisse), riad e lounge bar, la vita notturna è pari alle notti di una grande metropoli (Theatro e Pasha non hanno nulla da invidiare alle discoteche di Ibiza e New York), le strade sono larghe e silenziose (stiamo parlando dei nuovi quartieri, costruiti interamente per le esigenze degli stranieri) . In più ci si arriva veloce e gli orari di alcune compagnie facilitano gli amanti della città a frequentarla più spesso. Facciamo l’esempio di Ryanair oppure Easy jet : partenza alle 8 da Malpensa oppure Bergamo, arrivo dopo tre ore in punto il che significa che, con la differenza di due ore (da fine settembre) sei a Marrakech non più tardi delle 9,30. In pratica alle dieci ti puoi gustare la colazione al bordo della piscina e poi via sul green fino all’ora di

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pranzo. Dovessimo scegliere opteremmo per La Sultana, una riad da mille e una notti: nel pieno centro storico della città, a pochi passi dall’ingresso delle mura imperiali, molto vicino al Palazzo Reale e alla piazza Jemma El Fna. Propone un lusso totale, assoluto e sfarzoso, si respira ovunque il fascino dei palazzi d’epoca, tutto è stato ideato, pensato e realizzato per una clientela super esigente, che sa apprezzare e pretende la qualità spinta fino all’estremo. Marmi e mobili antichi, opere d’arte e una completa insonorizazzione, 28 stanze maestose, una spa con hammam da favola, piscina riscaldata e dei giardini curatissimi. Il ristorante non è da meno, anzi: provate il foie gras a cottura media con pomodori di Ourika.


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Pebble Beach

Cartolina da Monterrey

Nel 1972 qui si giocò l’US Open e tutto cambiò: i quattro giorni del major furono trasmessi in tv e la gente se ne innamorò. Per la cronaca, vinse Jack Nicklaus che dopo la premiazione dichiarò: “Dovessi scegliere un campo dove giocare l’ultimo giro della mia vita verrei qui”. Gli chiesero di trovare un aggettivo per definire Pebble: “Majestic”, rispose.

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U

n cambio epocale, un affare colossale che a noi piace da morire: Clint Eastwood e Arnold Palmer hanno acquistato Pebble Beach. E’ il quarto cambio di proprietà negli ultimi dieci anni, ma i campi sono rimasti intatti e ci mancherebbe altro. Però avere come patron un divo come Clint e un mostro sacro come Arnold aumentano la voglia, già pazza, di andare a giocare a Monterrey, California, peraltro non lontano dalla casa di Eastwood, a Carmel, dove possiede anche un campo da golf, Tehama. Gli altri due soci sono Peter Ueberroth e Richard Ferris, in tutto hanno sborsato 820 milioni per diventare i patron del posto più bello del mondo (Bank of America ha finanziato parte dell’acquisto). Oltre al Pebble l’affare comprende anche Spyglass Hill Golf, The Links al Spanish Bay e Del Monte Golf Course, in più i resort The Lodges a Pebble, The Inn a Spanish e 17 Mile Drive dove inizieranno i lavori per un nuovo percorso e 300 ville. L’anno prossimo Pebble ospiterà il Us Open, che festeggerà così nel migliore dei modi la sua centesima edizione. Tutte le classifiche lo mettono in cima, nessuno ha mai avuto dei dubbi: è il campo più bello in assoluto. Facciamo un passo indietro, 22 febbraio 1919: Jack Neville e Douglas Grant, due golfisti dilettanti oltre che architetti, hanno la fissazione e l’ambizione di creare un campo con tantissime buche vicine all’oceano: nasce così l’idea di costruire Pebble Beach, diventato poi il sogno di tutti i giocatori, amateur oppure professionisti. Il patron si chiamava Samuel Finley, un lontano cugino dell’inventore del telegrafo, Breese Morse: nei primi anni del secolo scorso era un importante manager di una compagnia immobiliare, così che ebbe la facilità di acquistare il terreno. Fosse per noi lo metteremo sempre fra le pagine della rivista. E’ troppo bello, non resistiamo alla sua magia. La tentazione c’è sempre, perché tutte le classifiche, per quanto possano essere relative e soggettive, lo incoronano come il migliore, il più spettacolare. A noi fa sempre vibrare, ci esalta solo l’idea di tornarci e di farvi venire la voglia di partire e di rigiocare al Pebble. E cosa dire della soddisfazione di sentire gli amici raccontare le

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proprie imprese sui green californiani mentre stanno sfogliando Good Life? E pensare che agli inizi Pebble non godeva di grande considerazione: gli americani gli preferivano Del Monte. Poi arrivò l’Us Open del 1972 e tutto cambiò: i quattro giorni del major furono trasmessi in tv e la gente se ne innamorò. Per la cronaca, vinse Jack Nicklaus che dopo la premiazione dichiarò: “Dovessi scegliere un campo dove giocare l’ultimo giro della mia vita verrei qui”. Gli chiesero di trovare un aggettivo per definire Pebble: “Majestic”, rispose. Se la 18 è la cartolina la buca più amata dai giocatori (il Pacifico sullo sfondo, il green a due passi dall’oceano), le più difficili sono la 8, la 9 e la 10, fra l’altro

considerate fra le cinquanta più tremende dei campi americani. “E’ un crescendo di bellezza”, scriveva esaltato un cronista statunitense, “solo a guardare le ultime tre buche del percorso ti rendi conto della fortuna che hai nella vita, sono delle emozioni davvero uniche”. Come dargli torto? Dicevamo della buca 18, uno spettacolo nello spettacolo: Chandler Egan la trasformò dal par 4 al par 5 a dieci anni dall’apertura, nel 1929. Poi nel 1999 fu ridisegnata e in seguito venne rimosso il grande pino posizionato una ventina di metri prima del green. Per quanto possano amare il campo, alcuni golfisti non fanno salti di gioia se devono giocarci nei mesi così detti invernali: al famoso AT&T Pro Am, in

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calendario sempre nei primi di febbraio, non sai mai che tempo troverai: freddo asciutto, piogge insistenti, addirittura neve (nel 1962 ma fu un caso estremo) e perfino l’uragano (El Nino, nel 1996). Già che ci siamo: fu il primo campo ad aver introdotto il sistema dell’irrigazione automatico, nel 1919. Comunque la pro am è una passerella imperdibile di attori per davvero famosi e personaggi di spicco: Kevin Costner (handicap 13), Clint Eastwood (16), Andy Garcia (16), Michael Douglas e Don Johnson. Il costo di un green fee è di 380 dollari più i 30 per il cart. Moltiplicate per 65.000, quanti giri si giocano all’anno e potrete farvi un’idea degli incassi: un affarone.


Hotel Fasano Ipanema, Rio

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panema, davanti i Dois Irmaos, i massicci rocciosi a strapiombo sul mare, ottavo piano di una terrazza con vista a 360 gradi sulla baia più famosa del mondo: benvenuti a Fasano, boutique hotel con vista che più bella non si può. Probabilmente Philippe Starck è un tantino sopravvalutato, ma non sarebbe la prima volta, anzi. Sarà che la spiaggia è di per sé un capolavoro, sarà che il profumo di Rio ti porta direttamente in paradiso, fatto sta che l’albergo progettato da lui, una costruzione in acciaio e cristallo a forma di transatlantico, regala delle emozioni da far tremare i polsi per il piacere. Prima di tutto, il nome: Fasano. È lo stesso del cognome del proprietario, origini italiane, figlio di immigrati, famiglia nota per le attività nel settore della gastronomia prima ancora che in quello degli hotel: il suo bisnonno, Vittorio, arrivò da Milano nel 1902 e aprì la Brasserie Paulista a Sao Paulo, poi Fabrizio, il nipote, scelse di abbandonare la ristorazione per

produrre whisky con l’etichetta Old Eight. Nel 1982, Rogerio, l’attuale patron, studiava a Londra e stava per diventare regista quando arrivò una chiamata, qualcuno voleva aprire assieme ai Fasano un locale con il loro nome, così, un po’ controvoglia, ritornò a casa per dirigerlo. Il risultato? Il ristorante fallì dopo sei mesi, ma lui ormai era totalmente preso dalla passione per il cibo che la seconda iniziativa, Les Jardins, andò alla grande e gli affari decollarono. Difatti, ora, Rogerio Fasano, un perfezionista ossessionato dai dettagli, ne possiede parecchi di ristoranti in giro per il paese, da Sao Paulo a Rio, da Brasilia fino a Punta del Este, nel vicino Uruguay, e ha preso gusto anche per il mondo degli hotel, aprendone uno dietro l’altro, tant’è che sono in procinto di essere ultimati quelli di Salvador da Bahia e Trancoso. Lobby luminosissima, atmosfera elegante e un po’ felliniana, vetri e specchi sfaccettati, arredi in stile anni cinquanta firmati Sergio Rodrigues (in gran

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voga a Rio), clientela fashion, bar sofisticato - e modelle mozzafiato - dove si possono fumare sigari e sorseggiare cocktail straordinari: la festa è qui. 81 stanze e 10 suite tutte affacciate sul mare - si consigliano quelle agli ultimi piani, dove non si sente il rumore della strada - colori chiarissimi, bianco e beige, legni di noce sbiancata che impreziosiscono e rilassano, poi, ci sarebbe il ristorante Fasano al Mare, due stelle Michelin, con lo chef Paolo Lavezzini, appena arrivato dall’Enoteca Pinchiorri, sostituendo Luca Guzzoni (passato al Fasano di Sao Paolo) che mescola piatti brasileiros e profumi mediterranei, ottimo il pesce, una meraviglia il filetto al foie gras e tartufo nero. Per deliziarsi non c’è da aspettare l’ora della cena, già la colazione è qualcosa di sublime. A proposito della piscina che vedete nella foto, all’ottavo piano: pranzare è fantastico, sorseggiare un cocktail all’ora dell’aperitivo divino.


Jack Nicholson Il mattatore

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uardatelo! Solo lui poteva divertirsi tanto nel farsi ritrarre fumando un sigaro. Pare un bambino con il giocatolo preferito, difatti lo è: Carlos Serrao, il fotografo delle star, non ha perso l’occasione di regalarci uno scatto che rimarrà nella storia, così come la copertina di Jack su Cigar Aficionado nel 1995. Il suo amore per i cubani risale a quasi mezzo secolo addietro. Prima fumava delle semplici sigarette, poi smise quando si sposò con Sandra Knight, nel lontanissimo 1962. Entrambi decisero di farne a meno e per dieci anni lui ci è riuscito. Come ama ripetere, “l’unica via per interrompere una brutta abitudine è di sostituirla con una migliore”. Nel 1973 iniziò le riprese di The Last Detail e volle che il suo personaggio fosse un fumatore di sigari, così cominciò accendere dei robusto: da quel momento non ha più smesso. Come si sa negli Stati Uniti esiste dai tempi di Kennedy l’embargo verso il soviet caraibico, per cui impossibile trovare dei prodotti provenienti da Havana: di conseguenza andava in Canada ad acquistarli. Ne fumava pochi, fino a quando ha cominciato a giocare a golf nei

primi anni novanta. “Paradossalmente il gioco che di solito rilassa a me innervosiva. Quando arrivo alla buca cinque già fremo e allora per calmarmi mi accendo uno. L’ho visto fare per la prima volta a Larry Laoretti, un giocatore del Senior Tour. Sarà un caso ma ho migliorato il mio gioco, ora ho 12 di handicap”. Ne è passato di tempo: da allora ha preso a interessarsi sempre di più sui sigari, diventando quasi un esperto. Come maestro ha avuto Roman Polanski: è stato il regista a insegnarlo come accendere i robusto nella maniera migliore, con i fiammiferi di legno, girandolo per bene. In materia di gusti opta sempre per un Montecristo, oppure un Romeo e Giulietta fra i cubani, poi ci sarebbe il Macanudo, il re dei sigari sul mercato americano. Quando non va lui stesso in Canada oppure altrove per comprarli se li fa portare dagli amici: ha un humidor di dimensioni gigantesche nella sua casa di Los Angeles, su in collina, la stessa da cinquant’anni. Rimpiange i tempi nei quali si poteva fumare ovunque, perfino quando andava a vedere i Los Angeles Lakers: “Prima ti accendevi un sigaro e guardavi la partita, poi ci hanno vietato di farlo, spostandoci nella hall, dopo qualche anno ci hanno buttati fuori. Poco male, nell’intervallo

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vado a fumare nella toilette come ai tempi della scuola”. L’attore nato a New York all’ospedale Bellevue di Manhattan é uno dei più noti fumatori in assoluto. Di recente è stata stillata una lista con i cento più celebri: al primo posto, ovviamente, Winston Churchill, il quale si gustava dai otto ai dieci al giorno. Ad una cena con il re dell’Arabia Saudita, Ibn Saud, ebbe la sorpresa di sentirsi dire che non gli era consentito fumare: rispose piccato che le sue regole impongono un sigaro fra un pasto e l’altro. Ovviamente vinse. Poi ci sarebbe Kennedy, il quale prima dell’embargo alla Cuba chiese al suo segretario personale, Pierre Salinger, di procurargli 1.200 Petit Upmann, i suoi preferiti: per noi rimane uno dei suoi pochi momenti da ricordare. Arnold Schwarzenegger ha iniziato grazie al padre della sua futura moglie (siamo nel 1977): dopo una cena Sargent Schriver gliene offrì uno e da allora non ha mai smesso. Visti i divieti californiani si istallò una mega tenda fuori dagli uffici governativi, dove nessuno poteva e osava tediarlo. Ci sarebbero altri mille: Michael Jordan, Groucho Marx, Al Capone, Bruce Willis, Harrison Ford: promettiamo che ne parleremo, a lungo, nei prossimi numeri.


Robaina

Don Alejandro

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ui desiderava di essere ricordato come un “campesino humilde”, ovvero un contadino umile. La gente invece considerava Don Alejandro Robaina il Mozart della terra, per la dolcezza con la quale sapeva parlare e ascoltare le foglie del tabacco. “Si schermiva sempre, quando le manifestazioni di affetto lo travolgevano: “Sento che molta gente i vuole bene e mi rispetta, non tanto per quello che sono ma perché per molto tempo ho lavorato con le mie proprie mani. La gente mi tocca come se avessi dei poteri speciali ma non è così, so solo fare bene il mio lavoro”, amava ripetere il produttore di sigari che non ha mai lasciato la sua terra natale, nonostante l’invasione di Fidel Castro e la distruzione del paese dal 1958 in poi. In tanti hanno lasciato Cuba con l’arrivo delle orde rosse, emigrando nella vicina Repubblica Dominicana, lui invece ha deciso di restare laddove i suoi avi, arrivati dalle Canarie, avevano costruito la fabbrica di tabacco nel 1845. Nato nel 1909, non è mai andato a scuola e non ha mai lasciato la sua fattoria della Vuelta Abajo, vicino a San Luis, provincia Pinar del Rio. Ha iniziato a fumare a nove anni, Spesso gli occidentali gli chiedevano cosa ne pensasse

dei divieti contro le sigarette: “Fanno male, così come il tabacco che le avvolge, il sigaro invece no, è puro, trattato in modo naturale al mille per cento, come potrà mai nuocere?”. Era un mago nel produrre la così detta capa, ovvero la foglia sottile che avvolge il tabacco: sapeva renderla

elastica, resistente, consistente, fine. L’ottanta per cento della capa cubana viene prodotta dalla sua fabbrica nei suoi 16 ettari di terra: serve per rifinire dieci milioni di sigari l’anno.

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Pensate, non ha mai utilizzato il tagliasigari, preferendo il così detto perforador, ovvero forasigari: ne aveva uno che mostrava la stessa età di Don Alejandro. Fidel, nella sua continua opera di rovinare un intero paese, stava per distruggere anche la fattoria di Robaina: voleva dividere le coltivazioni di tabacco in delle cooperative, proponendo a Don Alejandro, bontà sua, di dirigerne una. “Comandante”, disse il nostro, i sigari vivono solo se prodotti nelle fattorie di famiglia”. E chiuse la bocca al simpatico dittatore. Per anni c’è stato un vero e proprio pellegrinaggio a casa sua: ospiti famosi e semplici turisti, re e presidenti. L’elenco è alquanto lungo: Churchill, Hemingway, Sting, Juan Carlos. Garcia Marquez passò una delle più belle giornate della sua vita nella fattoria assieme a Robaina. Nonostante il giusto embargo degli Stati Uniti verso la Cuba, Bill Clinton fumava di nascosto i suoi sigari, mentre Kennedy preferiva gli Upmann, solo in poche occasioni tradiva con i Robaina. E’ scomparso tre anni fa ma i suoi sigari continuano a deliziare gli appassionati. Ora l’azienda è gestita da uno dei suoi cinque figli, Hirachi: prima si è fatto le ossa ad Havana, prima da Upmann e poi da Partagas. La leggenda della famiglia continua…


Jeff Bridges

Sogni rock e sigari

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rmai lo sanno anche i muri, Cigar Aficionado è la nostra rivista di riferimento, per quanto consapevoli che sia impossibile realizzare un gioiello del genere in Italia. Tratta di sigari, le pubblicità sono quasi esclusivamente di bevande alcoliche, macchine e ovviamente tutto il ben di dio creato dal tabacco. Un paradiso di carta, ne siamo così innamorati da consigliarvi di non tralasciare una chicca come la rubrica della posta, le lettere mandate al direttore-editore della rivista, polaroid di vita esaltanti e momenti speciali di uomini e donne che sanno godersi la vita, veri amanti dei piaceri terreni. Esce ogni due mesi, immaginate la spasmodica attesa per sfogliarla, ancora un po’ e dormiamo con Cigar Aficionado sotto il cuscino. L’ultima copertina ci ha davvero fatto sussultare sulla sedia appena l’abbiamo vista in anteprima sul sito della rivista (prima di acquistarla nella versione cartacea): c’era Jeff Bridges, il grande Lebowski, con sigaro scuro fra le dita. Ok, ok, l’inizio del suo racconto non è dei migliori: “Prima fumavo la marijuana, poi non mi è sembrata più un granché e sono passato ai sigari, forse per quel senso di essere in contatto con il tabacco, come ai tempi dell’erba. Mi piaceva provare i vari tipi, per questo ora mi

sono avvicinato ai robusti, ci sono vari aromi e formati, ognuno è diverso dall’altro, una varietà notevole di gusti e dimensioni”. Essendo totalmente contrari a qualsiasi tipo di droga, fingiamo di non aver letto, però, la storia vale la pena di seguirla, qui comincia la parte deliziosa... “Non mi piacciono quelli troppo forti. Amo il Montecristo numero 2, apprezzo i Partagas per come sono costruiti, poi i Padrón e i Fuente Don Carlos perché la cenere rimane lì, senza cadere, una sensazione favolosa. Non sono un vero aficionado, non ho studiato né approfondito il discorso, a parte all’inizio, quando presi dei libri per capirci qualcosa di quello che fumo, però, so cosa mi piace e mi rendo conto delle sottili differenze fra di loro. Vado a periodi, ci sono quelli in cui ne fumo uno al giorno, comunque, adoro quando me lo gusto come se fosse un rituale. Mi piace andare su in collina con un sigaro e un bicchiere di vino, un buon libro e della bella musica. Me lo accendo, mi siedo e guardo il tramonto”. Uuuuuh, che meraviglia. Premio Oscar come miglior attore protagonista nel 2010 per il ruolo di Otis “Bad” Blake in Crazy Heart, Jeff rimane per tutti il grande Lebowski dei geniali fratelli

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Coen, che ha conquistato almeno due generazioni tra la fine degli anni ‘90 e l’inizio del nuovo millennio, diventato un film cult per il carattere rilassato e scazzato del personaggio principale, uno slacker, Jeffrey Lebowski, detto “Drugo”. Una commedia spiazzante, senza smancerie e pistolotti moraleggiati, in rete si trovano tantissimi siti con le frasi di Drugo: “Quella non è una mia amichetta, quella è una signora amica mia! Le sto dando una mano a concepire, capito!”, “A volte sei tu che mangi l’orso e a volte è l’orso che mangia te”, per fare solo due esempi e per non parlare dell’appellativo “Dude”, che in quel periodo divenne un vero e proprio tormentone. Il premio Oscar ha una grande passione per la musica e ama esibirsi alla chitarra con la sua band, The Abiders, infatti, da giovane voleva fare il rocker, sogno in un certo senso realizzato visto il successo che riscuote adesso. La canzone che gli piace di più cantare è “So you Want to be a Rock’n Roll Star”, del gruppo pop-rock californiano The Byrds, in auge negli anni sessanta, ed è talmente felice che non riesce a nasconderlo: “Sto vivendo il mio sogno adolescenziale”, racconta esaltato, con un sigaro e un bicchiere di vino in mano, ovviamente.


Nigella Lawson Una pin up ai fornelli

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lamour e sex appeal, forme morbide e dimestichezza in cucina. Aggiungete una dose surreale di bellezza casalinga, rassicurante, un sorriso ideale per un pubblico come il suo ed eccoci qui: signore e signori, vi presentiamo La Dea della Casa, ovvero Nigella Lawson, la golosa appassionata che impera sui teleschermi come e più di Oprah Winfrey. Per gli inglesi è la “sexiest television chef ever”.Esagerazione?Importa poco.Non è una cuoca, è una star. Non è una chef, è una food writer. Sforna torte e bestseller con la stessa dimestichezza. A noi piace, e molto. Ormai i suoi show sono anche sulla piattaforma Sky: deliziosi. Colori caldi, atmosfera rilassata, tutto perfetto. Nella Gran Bretagna e non solo è pieno di trasmissioni con lei protagonista: Nigella Bites, Nigella Feasts, Nigella Express e Nigella’s Christmas. Per tutti è la Domestic Goddess (Dea della casa), sopranome arrivato da quando ha pubblicato l’omonimo libro How to be a Domestic Goddess. Impartisce sorrisi e ricette, consigli e idee. Si lecca le dita (copiata anche da Barbara Parodi), è golosa, ha appetito, passione, ama il cibo e lo spettatore, non finge, flirta per davvero. Si lascia andare ai piaceri, facendo nascere altro tipo di sogni e pensieri. Ti viene una gran voglia di cucinare e mangiare, ma anche di corteggiarla e averla come amante, ora anche come moglie, visti i rapporti con il marito. Perfetta. Ideale. Nigella non buca il teleschermo, lo spacca, lo divora: è very curvy, fa all’amore con lo spettatore. Poco addietro ecco cosa scriveva di lei Vogue (Vogue!!!!!): “Ha un fisico formoso, capelli neri e lucenti, una pelle di porcellana. Occhi scuri e profondi, senso dell’umorismo e il sorriso

di chi non si prende troppo sul serio. Nigella non solo è un’icona della tv gastronomica, ma è una delle donne più amate della Gran Bretagna: è desiderata dagli uomini ed è ammirata dalle donne che vorrebbero avere il suo fascino e le sue curve”. Altro che programma di ricette. Veste spesso abiti dal taglio vintage, che fasciano i fianchi e mettono in evidenza il seno. “Scopre le spalle, stringe la vita e si lascia cadere icapelli sulla schiena. Quando cucina, ricorda le casalinghe americane degli anni sessanta, con il fascino e le movenze di un’eleganza semplice e alla

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mano. Impeccabile, elegante, Nigella ha insegnato che non c’è niente di più sexy di una donna che apprezza il cibo. Perché dimostra così di essere una donna libera”, analizza l’ottima Martina Liverani su Vogue. Qualche tempo fa, a Milano, alla presentazione del suo nuovo libro, si potevano vedere scene a dir poco inusuali per una scrittrice che parla di polpette e ragù, torte e minestre: gente che aspettava da un paio di ore, perfino una piccola folla davanti al tavolo per gli autografi. Donne giovani, mamme con dei bambini, uomini sulla cinquantina: un target vastissimo. Tutto brilla, un pò meno nella vita privata: il matrimonio con Charles Saatchi, nome famoso nel mondo della pubblicità nonché magnate dell’arte contemporanea, pare sia agli sgoccioli: per la cronaca, per lui si tratta del terzo matrimonio. A breve, il terzo divorzio. Auguri vivissimi. Qualcheepisodio di sofferenzanelpassato (ilcancro le ha strappato la madre e ilsuo primo marito, padre deisuoifigli) la rendepiùumana, sicuramentemenoinvidiata, perché state certi, le donnesonocariche di livore verso chi vinceed è pure bella. Figlia di un ex ministrodelleFinanzenellasplendidaepocata rgata Margaret Thatcher e di unaereditiera molto mondana, Nigella ha iniziato con piccolerubrichegastronomiche per poi arrivare al Sunday Times nel 1986. Il primo libro lo ha pubblicatododiciannidopo, con un successo da far impallidiregliinutilibenpensanti: 300.000 copie. Il secondo, uscitonel 2000, la consacradefinitivamente. Segue unprogrammatelevisivo con una audience da capogiro e lo sbarconegli States, nel 2005: il boom planetario è assicurato. E cosìorastadiventandounmito.


Miguel Angel Jimenez Sigari, whisky e pancetta

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audente fino al midollo, rilassato come un panda, fuma sigari, mangia senza curarsi della panza che abbonda, beve, ha il codino nonostante abbia già compiuto 49 anni, due mogli e altrettanti divorzi, se ne infischia di pressioni e tensioni pre e post gara: pensa come Lebowski, gioca ai più alti livelli e soprattutto si diverte come nessun’altro nel tour. I compagni lo adorano, i giornalisti ci vanno pazzi, nel suo paese è un idolo. “Il meccanico” , come lo chiamano visti i suoi trascorsi , è un personaggio che non può passare inosservato, non puoi non amarlo alla follia, fai il tifo per lui a prescindere. Il suo moto è “ho dedicato tutta la mia vita al golf e il golf mi ha dato tutto”. Miguel Angel Jimenez è il ritratto della felicità 24 ore al

giorno. Al Muirfield, al The Open Championship, terzo major della stagione, si trovava in testa alla classifica dopo le prime due giornate: gli chiesero come gestirà la pressione nei giri successivi. Lui cadde dalle nuvole e sorpreso rispose: “Pressione? Quale pressione?”. Nel 2009 ci fu una risposta quasi identica: a Turnberry girò in 64 e la domanda fu cosa ne pensa del suo gioco e della sua giornata. “Vorrei bere un buon whisky”: fantastico. Cigar Aficionado lo ha chiamato il più divertente golfista da sempre. Ovvio: se lo intervisti si presenta con un cognac in una mano e un sigaro nell’altra. Per una rivista come la loro Miguel è un Dio. Non esiste torneo senza che l’andaluso non stia con un Cohiba fra le dita. In un mondo pieno di talebani salutisti lui se ne infischia altamente: non della propria salute, perché il sigaro

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è tabacco puro, ma dell’immagine che magari la Pga vorrebbe si trasmettesse in giro. Nel mondo però non tutti possono essere magri, muscolosi, politically correct e grigi nelle dichiarazioni: anche perché i giornalisti si suiciderebbero. Va detto che nei quattro major stagionali cerca di fumare di meno mentre gioca: le pressioni dei capi del tour si fanno sentire, non lo obbligano (e ci mancherebbe), ma glielo chiedono gentilmente. Per lui è una sofferenza, perché solitamente ne fuma quattro, cinque al giorno: il primo mentre si prepara per il giro, nel putting green. Il secondo durante le 18 buche, il terzo nell’allenamento post gara e l’ultimo a cena. Il quinto eventualmente dopo i piatti divorati al calar della sera, con uno dei suoi whisky preferiti, Lagavulin. Il record di sigari in un giorno lo ha battuto al Festival


del Habanos nel 2010: nove. “I cubani mi esaltano”, dice. “Hanno quella dolcezza e quel pizzico di spicy, unico”. I suoi preferiti sono i Cohiba Siglo VI ed i Behike, che poi sono anche fra i più costosi. Nei suoi humidor ci sono sempre almeno 400 pezzi, da gustare magari con uno dei suoi rum preferiti, Barcelo Imperial, Brugal oppure Zacapa. Non da meno la sua collezione di vini, quasi tutti spagnoli. Da buon andaluso ne va fiero del suo paese e della sua regione: colleziona delle bottiglie alquanto rare e preziose, quasi sempre produzioni locali (Cirsion, Ardanza, Torre Muga, Marques de Riscal e Roda, poi alcune della zona di Ribera del Duero: Pesquera, Protos, Vegas Sicilia, Emilio Moro, Abadia Retuerta Mauro). “Mi dovrebbero chiamare Miguel Angel Riojas”, ripete spesso divertito, dove rioja sta per vino rosso. Colleziona pure scarpe: una cinquantina di paia tutte rigorosamente Gigi Nebuloni, artigiano di Parabiago. Le indossa da undici anni e non le cambierebbe per nulla al mondo. “Non mi piacciono gli sneakers, nemmeno quelle sportive, solo scarpe di pelle”. Chubby Chandler, uno degli agenti più influenti del mondo golfistico (nella sua scuderia ci sono o ci sono passati Rory McIlroy, Graeme McDowell e tanti altri)è il suo fan numero uno: “Miguel è la felicità fatta persona, nessuno sa gustarsi le giornate in una tale maniera, riempirsi di gioia e piaceri, respira positività e sprizza

ottimismo dalla mattina alla sera”. Non ha mai vinto un major, non è mai stato uno da primi posti nel ranking, ma comunque finora ha portato a casa 18 titoli: è più uno da Ryder, anzi, la competizione a squadre lo fa impazzire, ne ha vinte due pur non ottenendo nessun successo individuale in tre edizioni. “Per me è il paradiso, non potete capire quanto mi eccita la competizione a squadre”, dice divertito. Come tutti gli spagnoli è cresciuto con il mito di Seve Ballesteros: immaginate la sua gioia quando fu proprio Seve a sceglierlo come vice capitano del team europeo, a Valderamma. In Spagna la gran parte dei giocatori ha iniziato ammirando Seve: Miguel ebbe la fortuna di apprezzarlo da vicino quando era ancora un caddie e nulla più, nel 1979. L’Open di Andalucia si disputò proprio dove il nostro personaggio iniziò a familiarizzare con il golf grazie ad uno dei suoi sei fratelli, mosso dalla voglia di far soldi: a Torrequebrada. Quando vide Ballesteros, già un mito a quell’epoca, capì che da grande sarebbe diventato un golfista professionista: così fu. Tornato dal servizio militare si mise seriamente a praticare. Tre anni dopo diventa un giocatore professionista senza mai essere un prodigio, difatti raggiungerà l’European Tour soltanto nel 1988. Il primo successo arriva soltanto nel 1992 (Peugeot Open), la fama nel 2004 quando si impone in quattro tornei(BMW Pga Championship, Volvo Masters, Omega

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Hong Kong, Celtic Manor e Omega Dubai Dessert). Sa che ha avuto molto dal golf e non se lo dimentica mai, cercando di ripagare: è da cinque anni che metti soldi da tasca sua perché l’Open di Andalucia possa andare avanti. La crisi ha fatto scappare gli sponsor e il torneo rischia di non potersi disputare senza il suo aiuto. “Amo la mia gente, si meritano una manifestazione del genere, per gli spagnoli il golf è una fetta importante di fatturato, mi fa piacere poter fare qualcosa di concreto”. Standing ovation. Sa come godersi anche la Ferrari 550 Maranello, acquistata nel 1999: quando vive e gioca in Spagna gira sempre con la rossa. L’unico neo è che non può mettere le mani nel motore: prima di diventare pro lavorava in un service, da lì il nome “Il Meccanico”, ma da quando è tutto elettronico non riesce più a districarsi e gli spiace assai. Divorziato prima da Montserrat Bravo e poi da Marion Jimenez, padre di due figli (Miguel Angel e Victor), Miguel si è presentato a Muirfield mano nella mano con la sua ultima fidanzata, la gallese Susanne Styblo. E come sempre tutti lo hanno invidiato.


Ana Ivanovic

L’arma della bellezza

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l tennis femminile è sempre più muscolare e noioso, roba da uomini di serie B. Uno dei motivi per non rinunciare a guardarlo è Ana Ivanovic, secondo i suoi detrattori più bella che brava: come se essere belle, oltretutto in maniera non artefatta, fosse un crimine… Non sappiamo però quanti di questi siano stati numero uno al mondo nella loro professione, traguardo che la Ivanovic ha tagliato nel giugno 2008 dopo la vittoria al Roland Garros: a tutt’oggi rimane l’unico torneo dello Slam conquistato, in mezzo a diversi ottimi risultati: una finale agli Australian Open (nel suo magico 2008), una finale sempre al Roland Garros (2007), una semifinale a Wimbledon (2007) e un quarto di finale agli Us Open (2012). Nata in una famiglia ricca della defunta Jugoslavia (padre imprenditore, madre avvocato), Ana viene folgorata dal tennis a 5 anni guardando in televisione le gesta della connazionale Monica Seles, fra l’altro nella sua migliore stagione (il 1992, quando vince 3 tornei su 4 dello Slam e va in finale

Secondo i suoi detrattori é più bella che brava: come se essere belle, oltretutto in maniera non artefatta, fosse un crimine a Wimbledon). La sua non è la classica storia tennistica di genitori fanatici, è proprio lei che chiede di provare dopo avere visto la pubblicità di un corso. Viene accontentata e diventa quasi subito un piccolo fenomeno, anche se la situazione a Belgrado farebbe pensare a tutto tranne che al tennis. Nel 1999 durante il bombardamento NATO (con anche l’Italia coinvolta) la famiglia decide di non abbandonare Belgrado, ma Ana non perde nemmeno un giorno di allenamento: nella leggenda, ma una leggenda basata sulla realtà, rimangono i suoi allenamenti in un

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piscina vuota dopo che il suo circolo è stato distrutto dalle bombe. Suo compagno di gioco e amico (ma non più di amico) per la vita diventa un vivacissimo ragazzino suo coetaneo, tale Novak Djokovic. Appena la situazione politica migliora, Ana comincia a viaggiare e a farsi largo nei più importanti tornei giovanili del mondo: nel 2004 arriva in finale nello Wimbledon juniores e da lì parte la sua scalata, con la vetta raggiunta quattro anni dopo. Il suo gioco in progressione non è certo una rarità nel circuito femminile, ma lei non ha paura di nessuno e i fatti le danno ragione. Vittorie e guadagni ben oltre i premi dei tornei: Ana sa di essere bella, di quella bellezza quasi solo le atlete possono avere, e il suo manager Dan Holzmann sa come sfruttare la situazione. Anche se ancora non sa che i problemi fisici condizioneranno la carriera della sua assistita per tutti gli anni a venire. Fra infortuni un po’ ovunque, dimagrimenti eccessivi, amori finiti male (su tutti quello con il golfista Adam Scott), stress vari, la discesa è relativamente veloce. A questo


punto una meno motivata si sarebbe ritirata a godersi gli almeno 30 milioni di dollari guadagnati in carriera, fra premi e sponsorizzazioni, ma lei ha tenuto duro ed è tornata in zona top 15. Visto che il tennis femminile ha meccanismi, anche mentali, stranissimi (basti pensare al caso della Bartoli, che ha mollato subito dopo aver vinto Wimbledon 2013), Ana sa bene che ha tutte le possibilità di infilarsi in una di quei ‘vuoti di potere’ che ogni tanto si verificano nel circuito e di avere quindi ancora in canna un grande risultato in uno Slam. Rispetto alla maggioranza delle colleghe forti, Ana ha un gran servizio (non come Serena Williams, ma comunque potente) che le fa guadagnare punti gratis, unito a colpi da fondocampo stereotipati ma sostenuti da un ritmo che poche possono reggere. Il tocco non è fatato, c’è di sicuro più grazia nei suoi lineamenti che nei suoi colpi, ma quando è in forma non è che abbia bisogno di grande fantasia. Le fantasie le hanno semmai i suoi tanti ammiratori, che per certi aspetti potrebbero essere definiti ‘guardoni’. Ma non c’è niente di male nel cercare il bello. E pazienza se non vincerà mai Wimbledon. Stefano Olivari www.indiscreto.info

Marissa Mayer Bella, ricca e potente

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e una volta il femminismo faceva ridere a crepapelle ora ha smesso di farlo, non suscita nemmeno commenti e attenzioni (non le nostre, comunque). Ricordate, quei ridicoli sermoni e le marce? Noi no, perché non eravamo nati e anche se lo fossimo stati non avremmo mai prestato attenzione a quel tipo di donna. Almeno si rendessero conto di quanto sono patetiche. Prendete come esempio l’ultimo attacco: hanno preso di mira ovviamente una donna bella, ricca e famosa, una colpa secondo i loro valori. Il motivo? Marissa Mayer, donna manager di immenso successo, Ceo di Yahoo, ha posato per Vogue e dobbiamo ammettere che gli scatti sono

favolosi. Guardatela, in versione languida pin up sdraiata su una chaise longue: strepitosa. Il servizio sulla rivista di moda é più ampio, si tratta di una decina di immagini, ovviamente che l’occhio e l’attenzione ci siano caduti sulla foto che abbiamo scelto di pubblicare, come d’altronde la gran parte dei media che hanno ripreso il servizio di Vogue. Al di là degli schiamazzi non richiesti delle femministe, Marissa, ingegnere 38enne, è un personaggio davvero straordinario: arrivata come amministratore delegato nel luglio del 2012, in poco più di un anno ha riportato in auge Yahoo, che veniva dato per moribondo. Nuova

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veste grafica, il rilancio di Flickr, l’acquisto di una ventina di start up (compreso Tumblr, la piattaforma per microblog, un nuovo fenomeno social). In poco tempo il valore del titolo dell’azienda è raddoppiato, tanto da far commentare a Jeffrey Goldfarb, columnist della Reuters: “Marissa ha ridato il punto esclamativo a Yahoo!”. L’anno scorso ha portato a casa 6 milioni, forse troppo poco, però al momento dell’assunzione le è stato assegnato un pacchetto di azioni pari a 39 milioni. Bella, ricca e potente. In barba alle femministe, alle quali ovviamente non ha perso tempo per rispondere.


Entre Amis Made in Napoli

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radizione. Creatività. Eleganza. Qualità. Ricerca. Sviluppo. Raffinatezza. Credo forsennato nel Made in Italy. In una parola, anzi due, “entre amis”, azienda creata dalla seconda generazione di imprenditori tessili della famiglia Casillo, napoletani doc innamorati pazzi dalla loro città, non a caso le maestranze sono campane. Nel settore tessile da oltre 40 anni con la distribuzione di tessuti greggi e finiti provenienti da tutto il mondo, la famiglia Casillo, grazie ad un’idea di Angelo Aniello, ha creato la CA Group srl, titolare del marchio entre amis. Lo scopo? Diversificare il core business della Holding, difatti è specializzata nella produzione e

commercializzazione in tutto il mondo di pantaloni da uomo, donna e da bambino. La vestibilità ed il comfort diventano contagiosi una volta provati, grazie ai tessuti, compresi quelli di lana, che hanno tutti una piccola percentuale di elestan. La sede operativa, 25.000 metri quadri, si trova nel noto polo produttivo del CIS di Nola. Piccolo elenco dei negozi dove potete provare, ammirare ed eventualmente acquistare i pantaloni di “entre amis”: Cuccuini a Livorno, La Coupole a Venezia, Leam spa a Roma, Foti a Reggio Calabria, Luciano Coppola a Napoli, La Caprese a Ischia, poi alcuni dei più importanti shopping mall nel mercato giapponese, spagnolo e scandinavo.

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“Ci piace sempre scovare nel passato glorioso della nostra città di Napoli per attingere nuove idée e ispirazioni per le nostre collezioni sia da un punto di vista stilistico che comunicativo”, racconta entusiasta Antonio Casillo. “Infatti abbiamo deciso di nominare il nostro prodotto di punta Gaga’, appellativo che veniva dato agli estrosi Signori del ‘900 che amavano frequentare Piazza dei Martiri ( parafrasando una canzone dell’epoca, la Piazza dei Gaga’) o il Salone Margherita, salotti della Belle Epoque Napoletana. Tutto questo e’stato affiancato da una ricerca fatta presso La Biblioteca Nazionale di Napoli dalla quale abbiamo preso riferimenti e citazioni storiche che abbiamo poi inserito all’interno dei nostri pantaloni”.



Bistrot

Les Gitanes

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hiudete gli occhi e immaginatevi di essere seduti al bistrot Les Gitanes, in Via Tortona angolo Via Forcella. Lo chef Davide Callegari vi porta un piatto dall’altro mondo, millefoglie di baccalà con peperone dolce e polvere di capperi. La vostra compagna invece si delizia con un tentacolo di piovra alla griglia su crema di fave e velo di pecorino. Tutto innaffiato con lo champagne millesimato Marguerite Guyot. Vogliamo salire di livello? Pluma di maiale iberico con salsa d’ostrica e spinacio novello, oppure maccheroncino crema di patate viola e julienne di iberico saltato al foie gras. Siete più spartani? Nessun problema. C’è il club sandwich ma è quasi un peccato mangiarlo, pare un’opera d’arte. L’hamburger ti piange il cuore morsicarlo, ma poi l’endorfina va in visibilio appena la carne di manzo accarezza le papille gustative. Se il cibo è un’arte allora al bistrot Les Gitanes sono dei maestri. Difatti non siamo lontani dalla verità se scorriamo il curriculum dello chef: prima nello staff di Heinz Beck, poi in giro per il mondo ai fornelli dei ristoranti più famosi prima di fermarsi per qualche anno al Waldorf Astoria e nella catena Sheraton. La sua specialità rimane il baccalà cotto a bassa temperatura, mentre la ricetta segreta sarebbe la salsa che ti mette in pace con

il mondo ma di cui non svelerà il segreto nemmeno sotto tortura. Non è un caso che spesso ci sia la fila per entrarci e, per darvi un esempio che sa di Guiness dei primati,

nella settimana del salone del mobile hanno deliziato 1258 persone: badate bene, la cucina del bistrot misura tre metri per tre e a sedere, volendo esagerare, si può arrivare a cinquanta posti. Miracolo.

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Il menù cambia ogni tre mesi, con almeno un piatto quotidiano fuori menù ed altri che però rimangono sempre nella carta, vedi il club sandwich e l’hamburger, d’altronde sono pietanze internazionali che trovano sempre degli estimatori. Le materie prime sono eccelse, basta citare il nome del fornitore: Longino Cardinal, inutile aggiungere altro, roba per intenditori. Poi ovviamente ci sarebbe la proprietà, quattro soci di cui uno, Stefano, ha preso in mano le redini del bistrot. In tanti, forse troppi, appena aprono un locale iniziano a lanciare messaggi pomposi del tipo “volevo che fosse come il salotto di casa mia dove invito gli amici”. La frase fa effetto, peccato che fra le parole ed i fatti ci sia spesso un lungo viaggio: loro ci sono riusciti. Tre anni addietro l’intenzione era di creare un american bar, le cene si sono aggiunte dopo, per via delle richieste dei clienti. Il posto, va detto, è favoloso: colori caldi, atmosfera newyorkese, target alto e comunque trasversale, mobili d’epoca (sedie Giò Ponti e Fornasetti, tavoli firmati Bossani, famoso negli anni trenta, poi i divani sono di Versace). Di sicuro la realtà supera gli intenti al bistrot Les Gitanes, aperto tre anni addietro in Via Tortona quando la zona stava esplodendo, i prezzi avevano raggiunto picchi assurdi e le previsioni erano rosee. Oggi la via splende poco, tranne che al numero 10.


Ruth Reichl

La regina della critica

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eggere Ruth quando parla di cibo è bello quasi come mangiare”. Parola del Washington Post nel 1993, quando Ruth Reichl iniziava a recensire ristoranti per il concorrente New York Times. Dopo pochi mesi le chiesero in un’intervista quanto valesse in soldoni un suo articolo, rispose: “Svariati milioni di dollari. Se il NYT ti da quattro stelle, sai di avere davanti a te almeno tre anni fino alla prossima recensione e che in quegli anni sarai pieno tutte le sere, il tuo catering sarà il più richiesto, la fortuna del tuo ristorante principale ricadrà sugli altri minori, avrai contratti per programmi televisivi, libri di cucina, linee di pentole e altro ancora”. Tutto vero, lo si sa. Era solo per darvi un’idea del potere che aveva Ruth già in quel periodo: veniva considerata la più temuta e influente al mondo, e poi, passando alla rivista Gourmet, la sua fama aumentò. Per la cronaca, la prima recensione la fece sul ristorante Le Cirque di Sirio Maccioni e la storia vale la pena essere raccontata. Ruth ci andò varie volte a mangiare, alcune volte allo scoperto, altre in incognito. Sorpresa sorpresa, fu trattata in maniera a dir poco differente: quelle volte che informò del suo arrivo, fu accolta, senza esagerare, proprio come

una principessa. Un giorno le dissero al suo ingresso: “Il re Juan Carlo sta aspettando ancora al bar ma il suo tavolo è pronto”. Mangiò in maniera divina e diede a Le Cirque quattro stelle, il voto massimo, invece, quando ci andò con una parrucca e un abito polveroso, fu trattata diversamente: mangiò meno eccezionalmente e di conseguenza bollò il ristorante con due stelle, che significavano solo “molto buono”.

Sirio diventò paonazzo, sorvolò sulla differenza di trattamento e tuonò contro di lei: “Ruth ha portato acqua al suo mulino, è diventata famosa, ha fatto i suoi interessi. Non sa che io lotto ogni giorno e che dormo sul bancone”. Ok, ma il trattamento diverso? Silenzio. Da quel giorno la carriera di Ruth è stata un continuo crescendo: trasmissioni tv, rubriche su riviste, libri (in Italia pubblicati da Ponte alle Grazie, straordinario il

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suo romanzo “La parte più tenera”), soldi e gloria. Chi meglio di lei potrebbe raccontarci le regole per essere un buon critico? Ascoltiamola. “Per iniziare, si deve essere onesti, imparziali e andare piano con le stroncature. Tradotto significa che se lo chef è un tuo amico, non ti devi lasciare condizionare mentre recensisci, così come devi essere in grado di apprezzare un piatto pur non amandone particolarmente il genere. La seconda regola è scrivere bene, perché il mio lavoro permette di trovare dall’altra parte un pubblico curioso, che legge molto, quindi, non puoi annoiarli, devi farli sedere a tavola con te, come se ti accompagnassero. Scrivere con passione, sempre. La terza regola sarebbe di godersela sempre. Può sembrare strano ma Bryan Miller, il mio predecessore al NYT, viveva il tutto come un peso. Nella sua ultima recensione scrisse che si sentiva come di uscire da una prigione. Assurdo. L’ultima regola impone di non ubriacarti mentre vai a recensire un ristorante. Purtroppo fra i critici ci sono troppi alcolisti: si esce a mangiare tutte le sere, si sta a tavola per ore e in più si tratta di un lavoro molto stressante che ti porta a bere”. Quest’ultima forse non l’abbiamo capita del tutto, ma va bene lo stesso.


Cigar Lounge London Style

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OSA. Ovvero Comfortable outdoor smoking area. Accade a Londra, dove i talebani del salutismo fanno danni a non finire, calpestando piaceri e diritti altrui, d’altronde niente di diverso rispetto all’Europa tradizionale dove ormai vige il politically correct. Gli amanti del bon vivre, gli innamorati dei sigari e della vita non demordono, nonostante i divieti continui. Viviamo per sentirci bene, non per essere presi a bastonate, ma vai a farlo capire a certa gente, nata con l’unico pensiero di distruggere la felicità altrui. Londra, dicevamo. Dopo il 2007, triste anno per chi ama fumare (si può ancora provare simpatia per chi si gusta il tabacco, oppure è vietato?), è iniziata la rivoluzione degli appassionati che si sono organizzati: lounge e cigar bar creati nei posti più esclusivi, negli alberghi extra lusso o nei ristoranti stellati, tutti spazi eleganti, raffinati, caldi, invitanti. Ce ne sono tanti ormai: rimanendo nella capitale britannica ne abbiamo scelti quattro, probabilmente i più famosi.

Il primo è senz’altro Cognac and Cigar Garden, al Dukes, bar arcinoto all’interno dell’hotel che porta lo stesso nome: viene preso d’assalto dai hedge funders e dai turisti esigenti che non resistono al fascino dei cocktail preparati da Alessandro Palazzi, sempre vestito di tuxedo e che usa sempre i limoni di Amalfi per completare i Martini. La sala fumatori ha venti posti a sedere, un numero giusto e soprattutto uno spazio che assomiglia ad un santuario del lusso. Non da meno il Cigar Lounge and Terrace al The Wellesley Hotel: il rinnovamento dell’albergo situato in Knightsbridge 11 è costato 60 milioni di euro, ma ne è valsa la pena. Una vera e propria esaltazione dell’art deco, con il Cigar diventato subito punto di incontro per i fumatori più esigenti, anche perché spesso sono forniti di limited edition: l’ultima è stata una speciale collezione di Behike e poi dei sigari realizzati da Norma Fernandez, la “torcedora” di Castro. Il lounge si distingue per la varietà di sigari e per avere il più grande l’humidor del paese, creato su misura, per non parlare dei 40 creati dall’azienda parigina Elie Bleu, capolavori in perla e sicomoro.

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Il Cigar Room di Mayfair è invece molto dark come atmosfera. Tanta varietà e dei cocktail particolari, come il Rococo Chocolate Martini con vodka Belvedere, oppure Smoky Martini con Blonde Lillet, Lagavulin 16 e vodka, poi dei cognac rarissimi, vedi il Chateau de Gaube 1962 Armagnac. Da segnalare che durante gli weekend c’è la musica dal vivo e che una volta al mese ci sono corsi per imparare come fumare i sigari. Se al Dukes trovate Palazzi, al Garden Room del The Lanesborough c’è Davide Guidi: assieme al sommelier Neil Millington stanno ideando e sfornando cocktail che possano abbinarsi divinamente con i sigari. Un esempio? Il Havana Connection: rum invecchiato di 15 anni, whisky Laphroaig di dieci, lime, liquore di tabacco e sciroppo di zucchero. Lo consigliano con un Ramon Allones. Neil è una vera star: ha scritto un bel po’ di libri e ora si sta specializzando nel trattare da re i fumatori. Siccome gli amanti dei piaceri abitano anche fuori dalla Gran Bretagna, girando la pagina troverete i migliori cigar lounge in giro per il mondo: come dice lo slogan della catena Sofitel, la vie est magnifique.


Studio Home Design Investire in Florida

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na delle conseguenze ed esigenze più evidenti dovute alla crisi della eurozona è la scelta nonchè la necessità di diversificare i propri investimenti ed evitare di trattenere solo investimenti in Euro a protezione, in un mercato altamente volatile come quello attuale , del proprio portafoglio. Spesso la differenza tra investimento immobiliare ed investimento mobiliare non è poi cosi marcata. Oggi è possibile e necessario considerare un ‘acquisto all’estero come un investimento canonico in titoli, fondi e simili proposto dal consulente finanziario di fiducia che evidenzia e propone un qualcosa di non tangibile ma caratterizzato da redditività lorde e nette. Avvicinarsi ad un investimento immobiliare all’estero, considerando quello che non offre il nostro mercato interno con redditività ormai sempre più irrisorie, vuol dire approcciarsi ad un investimento vero e proprio con considerazioni da farsi su redditività, rivalutazione nel tempo del valore immobiliare , location, servizi e indici di locazione. E’ quello che ormai da tempo fanno i tanti nostri clienti

Porsche Building

Lussuoso condo affacciato sull’oceano provvisto di tre ascensori che permettono ai proprietari di parcheggiare la loro macchina a casa. Questa torre di 57 pieni sarà terminata nel 2016 e vedrà al suo interno solamente 132 abitazioni, tutte con terrazzo privato e piscina. L’edificio, tra i molti servizi offre: palestra e sala yoga con vista oceano, spa e salone parrucchieri.

che si approcciano e queste compravendite valutando esclusivamente i ritorni economici e i reali vantaggi al fine di crearsi una rendita ed entrata mensile e costante. Per capirci, proviamo a mettere a confronto due investimenti immobiliari. In Italia la redditività è di 1,5% - 2% netto del valore dell’immobile con una rivalutazione del valore immobiliare decisamente incerta In Florida e soprattutto a Miami la redditività è 8 % netto da tassazione, spese di gestione, spese condominiali con una rivalutazione del valore immobiliare sui 20 % negli ultimi anni e con previsioni di 50 % nel prossimo quinquennio. I motivi sono sempre gli stessi : minore pressione fiscale, maggiore trasparenza, proprietà privata molto più tutelata, maggiore redditività dovuta ad un clima tropicale per 12 mesi l’anno che permette di avere l’immobile costantemente locato. Le proiezioni e i dati pubblicati su tutte le più importanti testate danno i mercati immobiliari esteri in continuo movimento e crescita in controtendenza con quello italiano

Biscayne Beach

Il nostro obiettivo è quello di coniugare le attrattive di una città affascinante come Miami ad esempio, con le possibilità di entrare in un mercato con ancora ampi margini di sviluppo e crescita, la possibilità di comprare a prezzi decisamente accessibili che si rivaluteranno sempre di più nei prossimi anni. L’acquirente ha la possibilità di gestire direttamente l’acquisto anche dall’Italia e avrà la possibilità di essere seguito da un’intera organizzazione prima dell’acquisto con la fase preliminare, durante l’acquisto e post acquisto con l’ importante e fondamentale gestione del proprio bene. Bisogna valutare realmente che queste redditività e questi numeri non sono frutto di promesse future su interventi in costruzione, ma realtà esistenti e consolidate da anni che vanno colte ora!! Basta solo saperle trovare e cogliere tempestivamente una valida opportunità.

Torre di 399 unità che, dopo il completamento nel 2016, porterà la spiaggia direttamente in città, Miami potrà quindi vantare il primo beach club artificiale direttamente sulle acque di Biscayne Bay. Biscayne Beach è situato lungo la baia di Biscayne, nel quartiere di East Edgewater che sta vivendo una rapida crescita - a est di Biscayne Boulevard tra il Venetian e Julia Tuttle Causeways - accanto al rinomato Design District, Wynwood Arts District, Midtown e Downtown di Miami.

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Per info www.studiohomedesign.it e-mail falvella@studiohomedesign.it + 39 340 7529116


Miami Life Sole e affari

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Ci sono dei progetti ovunque, dall’area che collega Biscayne Boulevard a Miami Beach (si parla di 10 miliardi), dal Continuum South Beach (edificio avveniristico dotato di spiaggia privata con appartamenti a partire da 800.000 dollari) al First on

Oggi Miami è frizzante come non mai, frenetica e amichevole, offrendoti davvero mille opportunità: oltre al solito clima mite e le lunghe spiagge, che finora erano il motivo principale per il quale veniva presa d’assalto, ci sono le firme degli archistar (Zaha Hadid, Frank Gehry, Richard Meier) che ridisegnano la città, poi gli Heats che hanno rivinto il titolo della NBA, uno skyline di grattacieli da favola e molto altro, dalla cultura al design, dalle fiere alla moda.

Lincoln (sulla via dello shopping, accanto ai vari Meat Market, Segafredo Café e altri) fino al Vizcayne (due edifici di 50 piani e 900 appartamenti con vista su Biscayne Bay, da 200.000 fino ai due milioni). Poi ci sono le vendite delle ville stile art deco, molto anni trenta, eleganti edifici color pastello, oppure degli

his is the place to be. Lo dicono tutti, ma proprio tutti gli addetti ai lavori, rafforzando con i fatti le loro dichiarazioni: Miami é la New York del futuro, perché rispetto alla Grande Mela i prezzi delle case sono ancora inferiori del 60 per cento con una crescita dei valori immobiliari pari al 23-24 per cento nell’ultimo anno e con il capitale che si rivaluterà del 50 per cento nei prossimo quinquennio, per non parlare della messa a reddito che si aggira attorno al 7 per cento. Miami Beach, per esempio, è un luogo apprezzato non solo dai nordamericani e canadesi che passano qui l’inverno ma anche dai miliardari russi, brasiliani, argentini e messicani alla ricerca di un luogo sicuro dove vivere. Si aggiungono i tanti italiani e, più recentemente, i francesi che non gradiscono le misure imposte dal governo per impoverirli. E visto l’andazzo ce ne saranno sempre di più.

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appartamenti all’interno delle stesse, con prezzi che partono dai 4 mila dollari al metro. Infine ci sarebbe la zona oltre il Design District, dove gli immobili residenziali partono da 1.300 dollari al metro ma, attenzione, stanno crescendo. Si sconsiglia il lusso estremo e i quartieri troppo periferici, dove solitamente i valori stentano a rialzarsi, si punta invece sul South Beach, una zona da 4-5 mila dollari al metro quadro, con il mercato residenziale in continua salita. Molti scommettono sul Design District, dalla 50ima strada in poi, dove i valori attuali partono da 1.300 dollari ma le previsioni parlano di una crescita del 50 per cento nei prossimi cinque anni. Certo, Miami è anche la città senza un futuro, nel senso che la gente che ci abita è pronta per lasciarla in ogni momento. Nessuno si spaventa all’idea degli uragani perché, dicono in coro, “in caso di tragedia ce ne andiamo subito”. E’ una città senza radici, non a caso è l’unica dove i residenti arrivati da fuori sono più numerosi del nativi. Se aggiungiamo che nel 1950 la popolazione era di mezzo milione di abitanti, mentre ora supera cinque milioni e mezzo si può avere un’idea sulla situazione. Forse anche per questo motivo gli affari legati all’immobiliare sono i più allettanti e interessanti: si compra oggi, la città si espande, in caso di disastro naturale o altro si torna alle origini.


Calvisius

Dall’Italia con amore

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na tonnellata l’anno scorso. Una nel 2013. Nel medio termine si ipotizza, si spera, si conta di superare le cinque tonnellate di caviale all’anno nel mercato russo. Pare incredibile, vero? Un’azienda italiana che produce caviale vicino a Brescia riesce a invadere il mercato dei produttori di caviale per eccellenza. Dal 2004 Calvisius ha iniziato ad esportare in Russia il pregiato storione bianco a seguito della diminuzione dell’offerta di storione “pescato”. In

seguito sono arrivate le certificazioni ed i permessi sanitari necessari intensificando, quindi, i contatti con le aziende russe fino ad individuare i migliori partners per la distribuzione di Calvisius Tradition, caviale caratterizzato da un delicato sapore fruttato. Come appena detto si ottiene dallo storione bianco, uno dei più grandi al mondo e si distingue per le sue uova di un notevole diametro, dal colore grigio scuro e dalla irresistibile fragranza. Il basso contenuto di sale consente al conoscitore di percepire in pieno la

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delicatezza. Il caviale italiano, dunque, è arrivato alla corte degli zar, nel paese per eccellenza di questo prodotto, simbolo di tradizioni gastronomiche, usi e costumi di un intero popolo Per concludere, un’altra nota di merito per l’azienda bresciana: difatti Calvisius, ad oggi, ha il primato di servire in esclusiva le first class di compagnie come la Lufthansa, la Singapore Airlines e la Thai Airways International.


Angelo Inglese

Il braccialetto della felicità

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ate a mano. Ovviamente. Dopo le camicie, le giacche, le cravatte e i foulard. Ecco anche i braccialetti. E’ nato tutto per caso. Nei laboratori di Ginosa si stava realizzare il piccanello, ovvero il nastrino dietro il collo della camicia, che loro lo creano ad uncinetto. Per scherzo una delle tante ragazze che “dipingono” le opere dell’azienda l’ ha avvolto al polso: è sembrata un’ottima idea che si è trasformata all’istante in un oggetto cult, trendy, di tradizione e anche molto fashion. Successivamente è avvenuto lo studio più completo del bracciale: “Lo dovevamo rendere identificabile con il nostro brand: il fiorellino !”, racconta con il solito entusiasmo Graziana, moglie e braccio destro di Angelo Inglese. “Dietro questo semplice braccialetto c’è molto di più, il coraggio di aver attinto e guardato al passato ed andare ben oltre i propri confini. Questo è quello che ci ha premiato. Dell’antica tradizione ne abbiamo fatto la nostra fonte di ispirazione: l’uncinetto. C’è la cultura non scritta del nostro paese tramandata di generazione in generazione, c’è il lavoro di tanti, e la coscienza di sé e della propria dignità. E’ un lavoro meticoloso ma

soprattutto fatto con amore e passione. Rifinito nei dettagli con il bottoncino logato in vera madreperla. Inoltre ci sono i Bracciali Gioiello, Connubio di alta artigianalità : uncinetto e ceramica pugliese, il tutto realizzato interamente a mano”.

Mossa azzeccata e anche astuta, perché apre ad un target nuovo,più giovane e spensierato. Ora non c’è scusa che tenga: tutti, indifferentemente dell’età, possono e devono indossare almeno un capo realizzato da Angelo Inglese. Perché è il dettaglio a fare la differenza…

Daniela Lapenna F Bella e impossibile

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orse ve lo ricordate. Qualche stagione fa un (allora) noto tour operator, ora ridotto male, aveva ideato e creato una campagna pubblicitaria di grande effetto, con una ragazza bionda vestita succintamente, sulla spiaggia. Camicia stracciata di jeans, sguardo languido e invitante. Bionda, splendida, diventò famosa per un flirt con George Clooney, incontrato ad una stazione di benzina. Gigantografie ovunque, uno spettacolo. Pochi giorni dopo aver pubblicato un articolo su di lei andammo ad Agadir, proprio in un villaggio del tour operator di cui parliamo. Era iniziata la stagione dei golfisti, perché in Marocco, da ottobre in là, c’è l’esodo dei giocatori che amano il caldo e il mare, ci andavano in 30.000 ogni anno. All’improvviso, una visione al bordo della piscina, sorridente, sensuale, delicata, abbronzata, innamorata dal sole forte dell’Atlantico. Ci siamo subito detti: ma è lei che dovrebbe fare da testimonial per loro, visto che, lo abbiamo scoperto pochi istanti dopo, lavorava per il gruppo. Non avevamo dubbi, l’effetto sarebbe stato dieci volte più forte rispetto alla pur incantevole ragazza ammagliante dei poster. Da quel giorno la sua immagine ci insegue, oppure noi inseguiamo lei, non importa. Non siamo riusciti a rubarle uno scatto in quei giorni, il rammarico c’è ed è enorme, ma l’amico Roberto Trovò ci regala una polaroid che conserveremo a lungo fra i ricordi: per la cronaca, Daniela diventa sempre più bella, morbida e vellutata. Attenzione però: lei è come Julia Roberts nel film “Se scappi ti sposo”. La lista dei feriti e dei cuori infranti è alquanto lunga. Intanto lo condividiamo anche con voi, ma fra poche settimane, quando sarà pronto il prossimo Good Life, la pagina con Daniela finirà diritta diritta nel cassetto dove custodiamo i momenti più preziosi. Oppure i sogni più intimi.


Muse

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Chiara Tosi

iente atmosfere anni trenta, niente profumi parigini che ti fanno tornare ai tempi del French Can Can, niente morbidezza e ambiente ricercato, alcun richiamo all’opulenza del periodo d’oro. No, stavolta le foto di Monica Cordiviola, ritrattista toscana molto in voga, sono completamente diverse: un esplosione di sensualità, un’intensità oltre il limite di guardia, taglienti, dirette, un’irruzione di sex appeal e pensieri proibiti.

Merito anche di Chiara Tosi, ragazza di Massa Carrara, cresciuta e ammirata tra le estati e le spiagge versiliesi, dove illumina le notti dei locali inn. Innamorata degli Stati Uniti, dieci anni di danza classica, ambiziosa e tenace, misteriosa forse troppo, sogna di viaggiare ovunque. Monica invece sognava di fotografare Greta Garbo: visto che pare alquanto difficile, si esalta con Chiara.

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L’angolo di Luca www.lucaboiocchi.com

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Speci

In passere

Giorgio Ciccone Sardo di origine ma milanese da sempre, Luca Boiocchi è un personal stylist che da anni veste Vip italiani e stranieri. Cool hunter e brand manager lancia brand giovani che amano differenziarsi senza tralasciare qualità e originalità. Redattore e docente, ama i social network che utilizza per tessere relazioni in tutto il mondo. È attivo su fb: lucaboiocchi/personalstylist, Instagram:instagram.com/lucaboiocchi, e twitter:boiocchi_luca Per saperne di più www.lucaboiocchi.com

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Giovanissimo eppure già colla­b o­r ato di importanti magazine online. Per lui la moda é un’arte dalle mille espressioni che ama studiare ad una ad una. Adora i look stravaganti e i capi vintage. Il suo blog: groundbreaking.com - A quale sfilata vorresti proprio partecipare? - Quella di Marni, senza dubbio - Cosa domanderesti al tuo stilista preferito? - Un favore grande... Di confezionare la giacca in pelle nera perfetta per me - Cosa indosserai per una giornata della Fashion week? - Un completo minimal black di Saint Laurent Paris dal look un po’ ribelle - Quale sarà la parola più inflazionata? - Tartan - Quale il colore o tema dominante ti aspetti di vedere, dal vivo o nei reportage? - Colori pastello e tonalità delicate, dal rosa antico alla carta da zucchero.


Scaldacuore di Nicoletta Ferarra Da annodare al petto, in cachemire impalpabile, lo scaldacure é un capo versatile che non può mancare nell’armadio in questo periodo. Perfetto da indossare sia sugli abiti che con tshirt e jeans. Prezzo: 125,00. www.nicolettaferrara.com

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Desert boot LeCrown per un look casual decisamente raffinato. Le fodere con stampe di Keith Hearing danno un tocco stravagante a calzature perfette sia per Lui che per Lei Prezzo: euro 149 www.lecrown.it

ale fashion week

lla ci sono loro, noi li intervistiamo.

Marie Zamboli

Frank Gallucci

Raffaella Catania

Campana, dai lunghi capelli bellissimi, adora il suo micio, i risvegli con le colazioni delicate e la moda in tutte le sue forme. Blog: mariezamboli.com - A quale sfilata vorresti proprio partecipare? - Mi piacerebbero moltissimo Dolce&Gabbana e Fendi. - Cosa domanderesti al tuo stilista preferito? - Chiederei a cosa si è ispirato maggiormente per le proposte di questo Autunno/inverno - Cosa indosserai per una giornata della Fashion week? -Sicuramente alternerò giorni in cui indosserò capi color rosso o bianco e nero a giorni con mise dai colori sobri quali panna e cipria. - Quale sará la parola più inflazionata? - Credo che il Tartan style sarà la parola usataovunque! - Quale il colore o tema dominante ti aspetti di vedere, dal vivo o nei reportage? -Il tema dominante sarà “ il dettaglio”. Cappelli, foulard, occhiali, gadgets.

Calabrese, sorriso accattivante e fisico atletico. Per lui la moda é un mix di dettagli importanti studiati per impreziosire look casual che ama osare. Il suo punto di vista sulla moda on line su frankgalluci.com - A quale sfilata vorresti proprio partecipare? -Giorgio Armani senza dubbio, colui che ha cambiato la moda come nessun altro. - Cosa domanderesti al tuo stilista preferito? - Vorrei sapere da lui se all’inizio della sua carriera avrebbe mai immaginato o anche solo sognato di diventare così importante e responsabile dello stravolgimento di alcuni canoni della moda. - Cosa indosserai per una giornata della Fashion week? - Sceglierei un look elegante ma allo stesso tempo sobrio scegliendo un doppio petto senza cravatta, pochette e ai piedi dei mocassini con nappe che mitigano l’eleganza dell’abito - Quale sará la parola più inflazionata? - Glamour - quale il colore o tema dominante ti aspetti di vedere, dal vivo o nei reportage? Vedremo la donna androgina con riproposizione di cravattine,bretelle e tessuti solitamente maschili come tweed o flanella

Siciliana, amante degli orecchini grandi, dell’arte e dei dettagli che fanno stile Il suo blog: thecoloursofmycloset.com - A quale sfilata vorresti proprio partecipare? - Sicuramente quella di Re Giorgio Armani, a mio avviso ancora lui sul trono della moda made in Italy - Cosa domanderesti al tuo stilista preferito? - Come riesce ancora dopo tanti anni a trovare l’ispirazione e proporre sempre qualcosa di nuovo, sfilata dopo sfilata. - Cosa indosserai/indosseresti per una giornata della Fashion week? - Alla Fashion week tutti pensano farsi notare e a stupire. Io sceglierei qualcosa che mi faccia sentire a mio agio e anche comoda e, come faccio di solito, punterei tutto sugli accessori. - Quale sará la parola più inflazionata? - Non so quale potrà essere, ma posso dire quale spererei... stile ed eleganza, spero che siano le protagoniste della settimana della moda. - Quale il colore o tema dominante ti aspetti di vedere, dal vivo o nei reportage? - Per le collezioni estive io mi aspetto sempre colore, colore e ancora colore. Spero in un ritorno del viola come protagonista, un colore seducente e molto suggestivo.

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Italia La

desert boot pi첫 venduta in


Abu Dhabi

Opulenza senza fine

L’oro nero forse un giorno finirà, ma Abu Dhabi deve continuare a splendere. Firmato: Zayed Bin Sultan, padre fondatore dell’Emirato, scomparso nel 2004 dopo aver stanziato 115 miliardi per la diversificazione delle fonti di guadagno. Gli affari sono passati nelle mani dei suoi figli Mohamed Bin Zayed , Khalifa e Mohammed Bin Rashid, con dei risultati favolosi: la Ferrari World, alberghi fiabeschi, il circuito della Formula Uno, Guggenheim e Louvre, resort nel deserto e campi da golf, città giardino e isole della cultura chiccosa. Abu Dhabi possiede il dieci per cento delle riserve planetarie di petrolio, però nel 2050 probabilmente finirà e ci si deve orientare verso altre fonti di guadagno: eccole, nelle prossime pagine. Però the best yet to came, dicono gli americani: il meglio deve ancora arrivare.

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Qasr Al Sarab U

Un te nel deserto

n tè nel deserto, sotto un cielo di zaffiro purissimo, con le sabbia d’oro, le dune rosse davanti e un silenzio assoluto attorno. Confessiamo, non ci aspettavamo un miraggio del genere. Diventa impresa ardua tentare di raccontare il resort della catena Anantara, ci vorrebbe la prosa del miglior Hemingway per riuscirci. Probabilmente l’espressione “vivere un’esperienza unica” si sta inflazionando, ormai la si sente ovunque e te la vendono per qualsiasi tipo di situazione, anche per le più banali, tanto per darsi un tono. Ci sta, ognuno cerca di piazzare il proprio prodotto, magari rubacchiando frasi ad effetto nella speranza funzionino. Ma quando si arriva al Qasr El Sarab, due ore da Abu Dhabi, una dal confine con l’Arabia Saudita, dove regna il silenzio e il deserto impera in solitudine, pochi misteri e tanti colori, ne sei sicuro: questa si che è proprio una destinazione dove vivrai un’esperienza da paura.

Il resort in sé è a dir poco affascinante: si sussurra che sia costato un miliardo e non stentiamo crederlo. E’ infinito, favoleggiante, lussuoso fino all’inverosimile, la spa con vista sulle dune più alte del mondo e dei bagni degni di un pasha. E’ una meta anche per i viaggi di nozze: il resort propone la “ Dine By design” una romantica cena araba guardando le stele, con la luna che di notte illumina le immense dune. Il panorama, inutile aggiungerlo, sa di fiaba: ci si trova distesi sui cuscini con un falò e torce che ti aiuta a incamminarti verso il deserto Un tripudio di emozioni, fin dalle prime ore: fare jogging la mattina presto nel silenzio rosso, poi gustarsi la colazione che pare un pranzo di matrimonio, farsi trattare come un re dallo chef Francesco Lattarulo, perugino arrivato qui due anni e mezzo fa, figlio di ristoratori, recentemente promosso a executive chef ma a Bangkok, dove la catena Anantara ha aperto un

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altro resort monumentale e dove si trasferirà a breve. Se ne occuperà dei quattro ristoranti, ci andrà assieme ad Isabelle, sua fidanzata conosciuta proprio qui, nel deserto. Al suo posto verrà Alessandro Toffanelli (prima al Pellicano), il quale oltre ai piatti mediterranei proporrà anche le pietanze locali, molto saporite e profumate, vedi l’hummus, crema di ceci e sesamo (da mangiare con la khoubuz, il pane tipico arabo). Da non perdere il tabouleh, un misto di prezzemolo e menta finemente tritato e servito come un’ insalata assieme al bolghour del grano non germogliato simile al cous cous. Un albergo del genere, pur nel mezzo del deserto, vanta dei prodotti freschi che arrivano ogni giorno da tutte le parti del mondo, Italia compressa: la burrata, i pomodorini datterini, l’oluo dei frantoi umbri, perfino le spezie dall’India sono fresche di giornata, soprattutto il cardamom . Ma è all’ora del tramonto che ti pare di sognare. Non vi rimane che venirci per credere.


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Saadiyat Island Architetti superstar

Guggenheim

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rank Gehry, ci poteva mancare ad Abu Dhabi la firma dell’eccentrico architetto? No, perché uno come lui attira i turisti evoluti ed è proprio attorno a loro che l’emirato vuole costruire le sue fortune future. “La più grande concentrazione mondiale di esperienze e manifestazioni intellettuali”, suona così lo slogan dell’emirato riferendosi all’isola della felicità, perché tradotto Saadiyat Island significa proprio questo ed è ovvio che i grandi nomi aggiungono una patina di credibilità e interesse al progetto. Quando poi si riesce a convincerli tutti (ovviamente a suon di milioni, perché altrimenti non si muovono) diventa quasi un dovere andarci, se non altro per ammirare le loro opere, pur magari non essendo dei grandi intenditori d’arte. Gehry è da sempre una garanzia di successo, inteso come pubblico numeroso: eccolo dunque firmare

il progetto del nuovo Guggenheim, la solita opera inquietante, con la sensazione di essere in procinto di disgregarsi. Quasi 85enne, Ephraim Owen Goldberg (questo il suo vero nome, ha scelto di cambiarlo nel 1956 per motivi pubblicitari), nato a Toronto, ha messo la firma sui progetti più rivoluzionari dell’ultimo mezzo secolo: ad Abu Dhabi non potevano certo farsi scappare l’occasione. Tutto ebbe inizio nel 2006, quando la fondazione Salomon Guggenheim firmò a New York un contratto per l’apertura di un museo nell’Emirato, 30.000 metri quadri di bellezza che esibirà e ospiterà le opere della fondazione, oltre agli artisti contemporanei. Doveva già aprire nel 2011, poi nel 2013: ci furono dei problemi legati ai fornitori, l’emiro cancellò alcuni contratti, ora pare che l’attesa durerà fino al 2017, con

Zayed National Museum

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gli appassionati già in trepidazione. Eccitazione anche per l’apertura del Louvre, prevista per il 2015: il progetto di Jean Nouvel, una sorte di disco volante, va spedito, fra fontane e giardini. Il 68enne architetto francese, già vincitore del Pritzker Prize, il più prestigioso riconoscimento della categoria, é notissimo al mondo intero per le sue opere particolari: la torre Aigues di Barcellona, Reina Sofia Museum, Copenhagen Concert Hall e tanti altre. Quasi pronti altri due musei di arte contemporanea, Zayed National Museum (il progetto è di Norman Foster, altra arcistar) e Performing Arts Center (cinque teatri per 6.300 spettatori), entrambi sulla costa e caratterizzati da un design all’avanguardia e soprattutto ricchi di collezioni private. Perché ad Abu Dhabi di collezioni private non ci sono solo le Ferrari degli sceicchi…

Louvre


Ferrari World

La Disneyland rossa

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’ una chiccheria da mille e una notte, per farsi un’idea basta guardare la cupola d’acciaio modellata sul profilo di una Ferrari GT. Fra l’altro è un parco giochi unico al mondo, il che suscita l’interesse e ne aumenta il fascino. Lungimirante il pensiero degli emiri: se vuoi vivere un’esperienza del genere la puoi assaporare solo qui, ad Abu Dhabi, un motivo in più per prenotare una vacanza. È il primo parco a tema della casa di Maranello: si trova su Yas Island, isola artificiale interamente dedicata all’intrattenimento, costata qualcosa come 40 miliardi di dollari. Continuando con i dettagli e curiosità segnaliamo il logo della Ferrari che adorna il tetto: 3.000 metri quadri, il più grande della Ferrari mai creato. Per sostenere la copertura sono state utilizzate 12.370 tonnellate di acciaio. Per la Ferrari è un’immensa operazione di marketing a costo zero: ha solamente dato in licenza il suo marchio e la sua immagine, incassandone le royalties e un minimo

garantito. Entri e ti sembra di essere nei paesi dei balocchi, in un Disneyland per adulti e non solo. Macchine, ristoranti, bar, giochi, cinema, simulatori, musica: uno spasso, a cominciare dal rollercoaster a velocità folle, 240 chilometri e una accelerazione che in soli quattro secondi va da 0 a 100. Spesso potete incontrare perfino Fernando Alonso, un grande fan del parco, così come non è raro vedere ex piloti della rossa. 400 milioni di euro spesi bene, 200.000 metri quadri e il sapiente tocco del Made in Italy, ovunque: i cinque ristoranti ne sono l’emblema. Il Cavallino (nome scontato, ne esiste uno identico di fronte all’azienda, dove cenava Enzo Ferrari) offre piatti gourmet, Mamma Rossella (il nome proviene dalla cuoca più anziana di Maranello) prepara la pasta fatta in casa, Il Podio è più una pizzeria, Rosticceria Modena propone una selezione ampia mentre Espresso Rosso è un bar davvero simpatico e soprattutto hai la certezza di poter sorseggiare un caffè davvero buono, fatto alquanto

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raro nell’emirato, forse l’unica nota diciamo dolente ad Abu Dhabi. Ovviamente ovunque tovaglie bianco e rosse, un ambiente caldo e rilassato, gioviale e frizzante, insomma una pubblicità a dir poco fantastica per l’Italia e il Made in Italy. L’intero parco ha un successo formidabile, vorresti curiosare da tutte le parti, magari nascondendo un po’ di invidia verso la collezione privata di Ferrari regalata da uno sceicco (il nome dovrebbe essere segreto, peccato che lo tradisca la targa personalizzata ben in vista). C’è la fila per la Formula Rossa, le montagne russe a velocità folle, alcuni appena scendono si rimettono in coda per ripetere l’emozione davvero unica. Dovendo scegliere vi suggeriamo Viaggio in Italia, uno degli spot più belli realizzati per promuovere la penisola: va da sé che l’intento è di far conoscere le bellezze guidando la Ferrari, ma l’insieme commuove e ti rende orgoglioso di vivere in un paese come il nostro. Il biglietto costa 40 euro però puoi divertiti l’intero giorno. Anzi, sicuramente lo si fa, proprio come A Disnelyland.


Jumeirah

Le torri del lusso

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ecisamente sarebbe noioso un titolo del tipo “Dalla Russia con amore”: è diventato un cliché alquanto privo di significato, spesso inflazionato, usato ogni qualvolta se ne parli di una bellezza nata e cresciuta nella terribile Unione Sovietica. Però stavolta ci starebbe, visto che Anna si delizia spesso nel guardare e riguardare i vecchi film con Sean Connery, per lei “l’unico vero 007”. La passione per James Bond unita alle sue origini (è nata a Sevastopol) portano diritti diritti al titolo appena nominato. ecisamente sarebbe noioso un titolo del tipo “Dalla Russia con amore”: è diventato un cliché alquanto privo di significato, spesso inflazionato, usato ogni qualvolta se ne parli di una bellezza nata e cresciuta nella terribile Unione Sovietica. Però stavolta ci starebbe, visto che Anna si delizia spesso nel guardare

e riguardare i vecchi film con Sean Connery, per lei “l’unico vero 007”. La passione per James Bond unita alle sue origini (è nata a Sevastopol) portano diritti diritti al titolo appena nominato. ecisamente sarebbe noioso un titolo del tipo “Dalla Russia con amore”: è diventato un cliché alquanto privo di significato, spesso inflazionato, usato ogni qualvolta se ne parli di una bellezza nata e cresciuta nella terribile Unione Sovietica. Però stavolta ci starebbe, visto che Anna si delizia spesso nel guardare e riguardare i vecchi film con Sean Connery, per lei “l’unico vero 007”. La passione per James Bond unita alle sue origini (è nata a Sevastopol) portano diritti diritti al titolo appena nominato. ecisamente sarebbe noioso un titolo del tipo “Dalla Russia con amore”: è diventato un cliché alquanto privo di significato, spesso inflazionato, usato ogni qualvolta

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se ne parli di una bellezza nata e cresciuta nella terribile Unione Sovietica. Però stavolta ci starebbe, visto che Anna si delizia spesso nel guardare e riguardare i vecchi film con Sean Connery, per lei “l’unico vero 007”. La passione per James Bond unita alle sue origini (è nata a Sevastopol) portano diritti diritti al titolo appena nominato. ecisamente sarebbe noioso un titolo del tipo “Dalla Russia con amore”: è diventato un cliché alquanto privo di significato, spesso inflazionato, usato ogni qualvolta se ne parli di una bellezza nata e cresciuta nella terribile Unione Sovietica. Però stavolta ci starebbe, visto che Anna si delizia spesso nel guardare e riguardare i vecchi film con Sean Connery, per lei “l’unico vero 007”. La passione per James Bond unita alle sue origini (è nata a Sevastopol) portano diritti diritti al titolo appena nominato.


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Golfing Abu Dhabi Buche nel deserto

Yas Links

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a qualche mese i golfisti sognano di imitare Luke Donald e Martin Kaymer, ovvero lanciare la pallina dall’alto delle dune rosse. Due giorni prima dell’inizio dell’Abu Dhabi HSBC Championship ci fu un’esibizione nel deserto di Liwa, a due ore dalla città, con l’inglese e il tedesco impegnati a giocare nel “bunker più grande del mondo”, come scherzosamente fu chiamato Rub Al Khali, la zona sabbiosa più ampia del pianeta. A breve ci sarà la possibilità per tutti, dilettanti compresi: magari con delle palle speciali, che si riesce a trovare dopo averle colpite. Fino ad allora gli amanti del golf e dell’emirato si dovranno accontentare dei campi “classici”, a cominciare dalla gemma firmata Gary Player sull’isola Saadiyat, 18 buche sul lungo mare, fairways a bordo della spiaggia, fra il Park Hyatt, St.Regis, Monte Carlo

Beach Club e il Rotana, un green eco friendly, ovvero una specie di erba davvero speciale che necessita del sessanta per cento di acqua in rispetto alla media. La 3 è la favorita di Hugh Grant, ex attore di successo, oggi cinquantenne immalinconito e assai dimenticato: “La mattina puoi ammirare i delfini e le tartarughe, prima o poi farò una hole in one”, dice divertito. L’assenza di ruoli giova al suo sogno, potrà allenarsi per mesi, di pellicole per lui non ce ne sono all’orizzonte, così potrà mandare avanti anche la sua guerra personale contro i tabloid di Murdoch (che vincerà). Il più rinomato é l’Abu Dhabi Golf Club, 27 buche, padrone di casa deil HSBC Championship, tappa dell’European Tour che si svolge solitamente a febbraio: imponente la club house a forma di falcone gigante in agguato, poi migliaia di palme che disegnano i fairways.

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Il più spettacolare e anche il più difficoltoso rimane il Yas Links, di fronte al Ferrari World e al parco giochi Yas Waterworld, vicinissimo al percorso della Formula Uno, altra recente novità dell’emirato (quest’anno il Gran Premio si svolgerà dal 1 al 3 novembre): 18 buche disegnate da Kyle Philips, un campo mantenuto in condizioni ideali, mai una macchia, i green perfetti, un percorso per nulla facile, seppur senza alberi, come nella miglior tradizione dei links. La club house pare un resort dominicano, la vista è mozzafiato, come la pr Carly Tjader, canadese trapiantata ad Abu Dhabi. A breve apriranno le porte altri campi, ovviamente con delle firme prestigiose: Pete Dye, Greg Norman, Vijay Singh e perfino Tiger Woods, al suo primo tentativo come designer, dopo il fallimento del progetto Al Ruwaya, solo sette buche completate e poi abbandonato per dei motivi misteriosi.


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