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CARLO CRACCO Sono Cracco
Foto: Monica Cordiviola
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Editoriale Milano, my love E’ un fatto assai singolare: in duecento metri ci sono sei ristoranti stellati. Accade a Milano. Record. Mondiale.
E’
un fatto assai singolare: in due cento metri ci sono sei ristoranti stellati. Accade a Milano. Record. Mondiale. In più, ci lavorano tutti. E bene. Da Carlo Cracco non trovi un posto e sarebbe strano il contrario, viste le attese create: sarà full per i mesi avvenire, speriamo anche dopo. Da Felix Lo Basso, l’altro chef stellato in Galleria, idem. A due passi fuori dal salotto milanese c’è Andrea Aprea, al Park Hyatt: lo chef napoletano ha appena conquistato la sua seconda stella e va fortissimo con la sua cucina creativa. Due metri più in là, c’è Roberto Conti, l’unico neo stellato fra i sei. Cenare da lui, al Trussardi, è diventata un’impresa: sempre pieno e liste d’attesa. Una mezza fermata di tram più avanti trovi Antonio Guida e il suo ristorante, Seta: elogi a non finire per la sua cucina prettamente francese. Chiude la lista l’Armani, oggi senza chef dopo l’addio burrascoso di Filippo Gozzoli. Probabilmente a fine anno l’hotel e il ristorante si troveranno senza stella, perché una tale mancanza di rispetto e di interesse verso la guida non si era mai vista. Hai la stella e non corri a sostituire lo chef ? Vai avanti così, per mesi? E’ improponibile, inaudito, soprattutto per un gruppo e un nome di una tale importanza. Affari loro. Vuol dire che rimarranno in cinque. Il punto però è un altro: il rinascimento milanese è evidente,
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scoppiettante. Lo si vede proprio dai ristoranti di altissimo livello. Fino a pochi anni addietro il centro ne vantava uno, quello di Cracco. Poi arrivò Berton, al Trussardi. Altri tempi, anche se sono passati solo dieci anni. Pare un’eternità. Nel frattempo è esplosa la gastromania, il food ormai prevale sulla moda. Bene così. C’è anche una spiegazione: forse non sempre riesci a regalarti una borsa di Louis Vuitton, una cena stellata in Galleria oppure altrove invece sì. Di Cracco e del suo nuovo regno ne parliamo a lungo all’interno del numero che state per sfogliare. Felix tornerà in copertina fra un mese, con la sua nuova apertura a Trani, sul lungomare. In bocca al lupo a entrambi. La seconda cover spetta a Roberto Conti, uno chef in grandissima ascesa e soprattutto un ragazzo d’oro. Arrivò da Trussardi nel 2010 quando in cucina c’era Andrea Berton, già a quei tempi un mostro di bravura. “Mi dissi, chissà se un giorno riuscirò a essere capo partita qui”, ricorda Roberto. Ora è l’executive chef, con una stella Michelin sul petto. Merito anche di Carlo Cracco, il suo mentore e consulente quotidiano. I due si apprezzano, ora si trovano a cinquanta metri uno dall’altro. Abbiamo scelto loro due proprio per il legame e perché sono davvero due personaggi di primo piano. Diversi fra di loro, ma con il fuoco dentro. Passionali al massimo. All’apice della carriera. Gente come piace a noi e anche a voi.
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Carlo Cracco Viaggio all’interno del nuovo mondo di Rosa e Carlo. Per loro è un cambiamento epocale: dal piano di sotto in Via Hugo alla Galleria. Lui, da chef bistellato (fino a pochi mesi fa) al re della Galleria. E’ innegabile, punta alla terza stella. In Bocca al lupo.
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Roberto Conti
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Roberto Conti E’ arrivato da Trussardi per l’espressa volontà di Andrea Berton, a quei tempi
già bistellato e probabilmente miglior chef milanese. Poi é diventato executive grazie a Carlo Cracco, storico consulente della maison. Ora brilla di luce propria e non intende fermarsi, anzi: “Vorrei conquistare la seconda stella prima di compiere quarant’anni. Ne ho 34, per cui ne ho di tempo”.
Un piatto di Stefania Corrado
Il ristorante Viu di Morelli
Stefania Corrado Probabilmente l’aspetto più difficile è trovare una definizione. A se stessa. Perché
“inquadrarla” sta diventando un problema. Agisce su tanti, troppi fronti, peraltro in maniera egregia e superlativa. “Cucino, scrivo, faccio consulenze”, dice. Vista la sua preparazione (laurea in economia, lavoro come account in una potente agenzia pubblicitaria) può davvero proporsi come esperta: lo è. One woman show si avvicina di più al suo profilo e alla sua personalità. Forse.
Giacarlo Morelli Ci sono ristoranti e ristoranti, stellati e stellati, chef e chef. Non è detto che se
mangi da Dio ti senti altrettanto bene. Alcuni vogliono sembrare dei tempi, altri sono asettici e freddi. Entri, ti siedi, assaggi però hai paura di dire mezza parola perché c’è un silenzio monastico. A volte ti sembra di stare in un ospedale e ti irrigidisci. Poi ci sono quelli che sanno fare della ristorazione uno spettacolo. Giancarlo Morelli è uno di loro.
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Addio Marchesi Due appunti due La storia delle stelle fu un autogol pazzesco. Probabilmente non ammetteva di essere messo in discussione e di non potere dominare e controllare i giudizi della Michelin.
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ra tutto assai prevedibile. Appena comparsa la notizia sulla scomparsa di Gualtiero Marchesi tutti hanno postato di tutto e ricordato di tutto, alcuni esagerando a manetta. Il primo giorno è così, un misto di emozione compulsiva e voglia di protagonismo. Ci sta. Adesso però proviamo a essere seri, un po’ alla volta. A me dava molto fastidio vedere come si approfittavano di lui. Lo tiravano per la giacca come se fosse un pupazzo. C’era una in particolare che pensava di ottenere dei favori presentandosi con Marchesi. Fingeva di fargli da badante, quando era solo interesse e tornaconto personale. Era uno spettacolo pietoso. Come dire: “Oooo guardatemi, valgo tanto se vengo con lui, per cui non potete negarmi una consulenza, una collaborazione, qualcosa”. Pare che anche in ambiti più intimi la situazione non fosse delle migliori, ne parleremo più avanti. Poi c’erano quelle cene ed eventi dove si faceva la gara a chi voleva dimostrare più intimità, vicinanza e affinità con lui. A onor del vero, negli ultimi anni Marchesi non si ricordava quasi di nessuno. Una sera, a La Griglia di Varrone, si presentò all’improvviso e si sedette accanto a me. Il motivo era semplice: unica sedia vuota. Non potete immaginare, si scatenò una bagarre mai vista per impossessarsi della sedia accanto alla sua. Le giornaliste più lontane stavano per esplodere, eravamo vicini all’isteria collettiva, si sentivano escluse (da cosa, poi?). Spintonavano e sgomitavano, eravamo ad un passo dalle tirate per i capelli. Venivano a baciarlo, ad accarezzarlo, una addirittura lo spettinò come si fa con i bimbi. Ad un certo punto lui mi guardò esterrefatto, come per dire: “Ma chi diamine sono queste qui?”. A La Griglia veniva spesso, perché ci passava ogni sera Lo Priore, quando aveva il locale a due passi (I tre Cristi). Si vedeva che aveva per lui un’attenzione particolare, gli chiedeva sempre cosa cucinava, come andava. Ricordo un Lo Priore sempre stravolto, come se avesse finito una maratona. Da Varrone Marchesi impazziva per le patate affumicate, ne mangiava a iosa. Tutte le volte che ci incontravamo dovevo presentarmi da capo, un po’ si vergognava di non ricordarsi i nomi, anche se il viso gli sembrava familiare. Sorrideva impacciato, come per dire “so che ci siamo visti altre volte, ma non chiedermi dove e perché”. Si figuri. Una sera mi diede il suo nuovo numero di cellulare. Chiamai per una mini
intervista, era a lezione ma rispose lo stesso. “Ora devo mettere giù, ci sentiamo fra un’ora”. Non ti metteva mai a disagio, gli veniva spontaneo rassicurarti: era educatissimo. Mi sarebbe piaciuto conoscerlo da giovane e dirgli che quella storia delle stelle fu un autogol pazzesco. Probabilmente non ammetteva di essere messo in discussione e di non potere dominare e controllare i giudizi della Michelin. Probabilmente pensava di dover e poter decidere lui cosa e come. Immagino si fosse sentito dominato. Il suo ego non glielo poteva permettere. Per il resto posso parlare poco, sono arrivato in Italia quando lui aveva già chiuso il ristorante. E poi lascio la scena a quei malati di protagonismo che soffrono di autoreferenzialità cronica.
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Carlo ha 52 anni, l’età giusta per iniziare la più grande sfida della sua vita. E’ innegabile, punta alla terza stella. Deve.
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apita di rado. Hai in mente un tipo di articolo e poi man mano che vai avanti cambi tutto. Stravolgi l’intera storia. Con lui è successo. Avevamo ben chiara l’idea dell’intervista, idem per le foto: una lunga chiacchierata esclusiva con Carlo Cracco. Ci immaginavamo già risposte frizzanti, frecciatine, frasi leggendarie, insegnamenti e altro. Poi abbiamo visto il suo nuovo tempio e la prospettiva è cambiata. Il personaggio non poteva più essere lui, lo chef, bensì il ristorante e il lavoro colossale che si è fatto per anni. “E’ stato un parto trigemmellare”, dice con un sorriso assai tirato. Lo sforzo è stato devastante. Economico, fisico, psicologico. C’è un però: il difficile inizia adesso. Perché non si è trattato di una ristrutturazione, non è come rimettere e tirare a lucido la Capella Sistina. Il vero lavoro inizia ora: riempire il ristorante giorno dopo giorno, farlo andare in attivo, riprendere le stelle e provare a conquistare la terza. Mission Impossible, fatturare 26.000 al giorno? Ni, perché grazie agli eventi ospitati e organizzati al terzo piano si può arrivare addirittura al segno più, a fine anno. Glielo auguriamo. Carlo Cracco meriterebbe l’Ambrogino d’Oro solo per la pazienza e lo sforzo titanico, economico e non. Forse lo riceverà, anzi, a questo punto ci pare una pura formalità. Siamo a inizio anno, fino a dicembre c’è tempo e poi la presenza del sindaco all’inaugurazione la dice lunga. Un sindaco che quasi si è scusato per i grattacapi e gli sforzi titanici di Cracco: “Per troppo tempo la Galleria non è stata al massimo del suo splendore, ora le cose stanno cambiando”. Come dire, forse dovevamo consegnarti i locali in uno stato diverso. Ci scusiamo. Speriamo Carlo possa avere qualche agevolazione: con i propri soldi ha ridato lustro alla Galleria, il che era il compito, l’obbligo del Comune. Andiamo oltre. E’ per questo che le nostre intenzioni sono cambiate in corsa. Pensavamo ad una infinita serie di domande e risposte, poi abbiamo fatto un passo indietro: stavolta ampio spazio al lavoro e non alla filosofia dello chef. Il lavoro suo e di Rosa Fanti, la moglie. E’ bellissimo vederli insieme, è straordinario sentire lui come parla del progetto “mio e di Rosa”. Quello che pensa Cracco su varie ed eventuali lo posticipiamo. Magari già per il prossimo numero. Stavolta pubblichiamo un assaggio, nelle pagine successive. Ora iniziamo il viaggio all’interno del nuovo mondo di Rosa e Carlo. Che, va detto, galoppa fin dal primo giorno. E’ impossibile sorseggiare un caffè in santa pace, il bistrot è preso d’assalto dalla mattina alla sera. Ci sono code fuori (quasi mille scontrini al giorno), aspetti anche dieci minuti prima di entrare per un caffè. “Siamo stati travolti dalla gente”, ammettono i coniugi Cracco, compiaciuti ma anche assai trafelati. Diciamo di più: non si era mai vista una situazione del genere, un tale interesse. La città assedia la Galleria, il bistrot: vuole partecipare, vuole dire “io ci sono già stato”. Un selfie, una sensazione, un pezzettino di storia. Perché piaccia oppure no, Carlo è qui per entrare nella storia. Della Galleria, della città, della ristorazione. “E’ il più importante progetto della mia vita”, dice. Ci crediamo, eccome.
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Il regno di CRACCO.
Carlo Cracco
Foto: Monica Cordiviola
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Foto: Monica Cordiviola
La città ha accolto l’apertura con un interesse folle. Lo ha adottato, si sente coinvolta. E’ bellissimo. Vedere quelle file fuori, per entrare e sorseggiare un caffè, è fantastico. Il bistrot a piano terra è un posto assai piccolo: una ventina di posti, intimità poca. Quando sarà pronto il dehors si aggiungeranno altri venti, di sicuro non basteranno. Per il resto é chic, elegante, per l’atmosfera vi sapremmo dire più in là, quando potremmo sederci nel silenzio. Certo, Cracco si augura le code, vuol dire scontrini a non finire. Noi invece preferiamo un po’ di spazio e quiete per poter assaporare con calma le sue brioche. Al banco, assaggiate al volo, sono mirabolanti. Sanno di burro, tanto burro. Eccezionali. Degne di un tempio dell’alta cucina. Il suo lo è già, ancor prima dell’apertura. L’ascensore che vedi accanto all’ingresso ti porta ovunque, all’enoteca al piano di sotto e al ristorante a quello di sopra. Diciamolo: il ristorante in sé non è di facile lettura. Forse troppo sofisticato e carico. Sicuramente non per un pubblico giovane. Azzardiamo: i sessantenni si sentiranno a casa loro. Gli altri, noi compresi, un po’ meno. Gli spazi fra i tavoli, a parte poche eccezioni, sono ridottissimi. Questo è da capirlo, si deve ottimizzare e ammortizzare il tutto. Molto chic invece il fumoir: è il nostro posto preferito, più vivo. Pare una sala da thè d’altri tempi, elegantissimo. La hall, idem. Formidabile. Vecchio stampo, hai quasi la sensazione di tornare indietro nel tempo, a metà del diciannovesimo secolo. Sono gusti, opinioni, sensazioni: gigantesco il lavoro, un po’ così l’atmosfera. D’altronde il lavoro dello studio Peregalli è questo, pesantissimo, privo di vita e sorrisi, niente leggerezza e sogni. Non ci piace e non piace nemmeno ai tanti che lo esaltano pubblicamente, ma è difficile criticarlo, la stampa di settore preferisce sorvolare per il quieto vivere. Però rispettiamo così tanto Cracco e Rosa da farci andar bene anche il lavoro un po’ fanè dell’architetto e del suo studio, in voga una trentina di anni addietro (un aggiornamento, ogni tanto?). Certo, l’intenzione dei coniugi Carlo era di riportare la Galleria ai fasti di una volta e di far sembrare il ristorante un salotto nel salotto: gli architetti avrebbero potuto far di meglio, ma è una sensazione personale. Transeat, anche perché si viene qui soprattutto per mangiare: non dimentichiamolo, anzi. La clientela li ha travolti, prendendo d’assalto il loro nuovo tempio. I pareri sulle pareti e sugli arredi sono poca cosa rispetto al menù e agli abbinamenti . Piccola aggiunta: la brigata, i ragazzi in sala sono entusiasti, però stanchissimi. Prendere le misure, trovare il ritmo giusto è stato impegnativo. E’ andata benissimo, la fatica sparirà. Comunque per lui è un cambiamento epocale: dal piano di sotto in Via Hugo alla Galleria. Da chef bistellato (fino a pochi mesi fa) al re della Galleria. Ha 52 anni, l’età giusta per iniziare la più grande sfida della sua vita. E’ innegabile, punta alla terza stella. Deve. Certo, deve riconquistare la seconda, poi si vedrà. Però il progetto è chiaro: essere il migliore, lasciare un segno. Lo ha sempre lasciato. Ricordate? A metà del decennio passato imperava con la sua insalata russa caramellata,il tuorlo d’uovo e la cotoletta a cubetti. Forse era un po’ avanti rispetto ai tempi. Ora i tempi sono giusti. Giustissimi. In bocca al lupo.
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Confessioni. Insegnamenti. Pensieri. Idee
La hall del ristorante, al secondo piano
• La mia cucina? Ricca di sfumature e di esperienze. • Il nuovo ristorante? Non mi aspettavo fosse così bello. E’ stato studiato passo dopo passo, non c’è stato un progetto iniziale definito. L’idea era di restituire la Galleria ai milanesi e di raccontarla. • Quanto sono contento da 1 a 100? 1000. • Aprire in Galleria era il sogno di Gualtiero Marchesi. Quando gli ho raccontato di volerlo fare, mi disse di lasciar stare perché sarebbe stata una follia. Invece eccomi. • La mia cucina si è evoluta nel tempo, in più anche il contesto è diverso. Oggi è tutto più complesso, c’è tanta offerta, la gente seleziona. Io ci tengo a migliorarmi, vivo per questo. • Negli anni il nostro mestiere è cambiato. E’ diventato più articolato ed è tornato a essere un mestiere nobile, come nella Francia del settecento, quando i cuochi erano dei veri architetti e dovevamo ingegnarsi per presentare i cibi e le bevande in modo fastoso. In Italia siamo arrivati tardi, da noi è stato tutto più semplice e genuino, prima imperava la cucina casalinga e ai fornelli ci stavano le donne. • Se esiste l’alta ristorazione? Diciamo che esiste la cucina di qualità, la differenza la fa il servizio. Si può mangiare molto bene in una maniera semplice e poi ci sono i ristoranti che mettono il servizio al primo posto. • Masterchef o Hell’s Kitchen? Mi sento più affezionato a Masterchef perché è stato il primo, ma Hell’s Kitchen è più vicino al nostro mondo. • Prima di iniziare ho guardato le puntate con Gordon Ramsay, ma non mi sono ispirato a lui: non avrebbe avuto alcun senso, ognuno è fatto a modo suo e poi hai davanti concorrenti e situazioni differenti, agisci in maniera spontanea. All’inizio non mi sentivo molto a mio agio, ma lo trovo normale: con gli anni ho acquisito sicurezza. • Un episodio che mi è rimasto impreso durante le annate di Masterchef ? Nella prima edizione ho abbracciato una ragazza di Treviso, dopo averla eliminata. Sembrava davvero brava, poi non ha confermato le aspettative. Mi è dispiaciuto tantissimo. • Perché nessun concorrente di Masterchef risponde male ai giudici? Semplice, si è lì per imparare, non per discutere. Loro vedono in noi dei punti di riferimento: l’obiettivo, sia nostro che loro, è di far bene. Ci carichiamo a vicenda.
• Cosa mi ha lasciato Masterchef ? Ho capito che la tv è il miglior modo per comunicare il mondo della cucina. L’intenzione era di cercare di insegnare qualcosa alla gente che ci guardava. • La Segheria è un’alternativa all’alta ristorazione in un ambiente più cool e rilassato. Garage invece è impostato sui valori di Lapo e del suo mondo, quello dei motori. E’ un posto incredibile, uno show. • Dicono che rispetto a tanti bistellati e tristellati io abbia lasciato un segno? Mi fa piacere, ma è un problema di quelli che non lo hanno lasciato, il segno. Ognuno prova a esprimersi a modo suo, se poi rimani nella storia oppure no, sta agli altri giudicarlo. • Un episodio toccante dei giorni successivi alla perdita della stella? I nostri clienti, che ci chiedevano come fosse stato possibile. Erano sbigottiti, delusi, arrabbiati, increduli. Le cattiverie? Pazienza, ognuno vive come meglio crede. Più sei in alto, più ti attaccano e ti invidiano, è naturale. • I tre piatti che più mi rappresentano? L’insalata caramellata, gli spaghetti al tuorlo d’uovo e la Sea Salad. • Se sono soddisfatto di quello che ho fatto finora? Mi trovo ad un buon punto, ma la strada è ancora lunga. Mi sento ancora molto giovane e con tanti traguardi da raggiungere. Ne sono certo, li raggiungerò. Tutti.
Aprire in Galleria era il sogno di Gualtiero Marchesi. Quando gli ho raccontato di volerlo fare, mi disse di lasciar stare perché sarebbe stata una follia. Invece eccomi No 9
Foto: Monica Cordiviola
Roberto CONTI Un piatto che avrei voluto inventare io? L’insalata russa caramellata di Cracco. L’avrò mangiata trenta volte e spero di farlo ancora
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u Istagram gira un post di Eric Ripert, chef tristellato del già famoso Le Bernardin. Nell’immagine lo si vede indicare verso la brigata il segno delle tre dita mentre è al telefono con la Michelin, che lo informa di aver conquistato il massimo dei riconoscimenti. Passa qualche giorno, e, siamo il 15 novembre, ore 19, a Milano squilla il telefono di Roberto Conti: sa già chi si trova dall’altra parte, o per lo meno spera di saperlo. E’ il direttore della guida suprema, Sergio Lovrinovich. Ricordando la foto di Ripert si gira verso i suoi ragazzi facendo capire che finalmente la tanto attesa stella è arrivata. Difficile capire cosa passi per la testa in quegli istanti. E’ come aver vinto il Pallone d’Oro, l’Oscar, il Nobel. Perché, inutile girare attorno, la Michelin è l’unica, unicissima guida che conta e che sposta i giudizi, i numeri e l’attenzione. Si è nell’Olimpo solo se si ha un loro riconoscimento. Roberto ce l’ha, dopo aver sofferto, e tanto, la stella tolta nel 2016. Si è rimboccato le maniche, ha lavorato più di prima, sapendo che prima o poi l’avrebbe conquistata. Lo ha fatto con quel fuoco dentro che commuove chi lo conosce, con quella determinazione feroce e fame di successo propria solo ai grandi. Ha vissuto come una ingiustizia la decisione della guida, anche se oggi la pensa diversamente: “Se l’avessi mantenuta non sarebbe stata mia, ora invece è diverso, nessuno può avere dei dubbi, malizie e cattiverie. Si sa esattamente chi l’ha ottenuta”. Vero. E’ arrivato da Trussardi per l’espressa volontà di Andrea Berton, a quei tempi già bistellato e probabilmente miglior chef milanese. Poi é diventato executive chef grazie a Carlo Cracco, storico consulente della maison. Ora brilla di luce propria e non intende fermarsi, anzi: “Vorrei conquistare la seconda stella prima di compiere quarant’anni. Ne ho 34, per cui ne ho di tempo”. - Cos’è cambiato da quel 16 novembre? - Tutto e niente. Nel senso che si va avanti come prima, umilmente. Certo, è aumentata l’autostima, la voglia di fare ancora di più. Di sicuro prima non esistevano liste d’attesa e ora invece siamo costretti a tenere un gran numero di clienti in stand by, oppure dire che non c’è posto ad una marea di persone incuriosite dalla stella. All’ora di pranzo viaggiamo ad una media di
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35 persone, il che è assolutamente oltre ogni previsione. La guida ha questo potere. In più, so che non c’è alcun margine di errore, che tutto deve essere perfetto. Tutti gli occhi sono su di noi, se prima in qualche modo facevo passare qualche minimo errore, adesso no, sono inflessibile, draconico. - Il menù cambia, ti senti in dovere di essere più creativo, di osare di più? - Rimane la mia linea classica, così come il menù degustazione di dieci mini portate. Di sicuro sarò più creativo e toglierò qualcosa, sono nella fase della sottrazione. - Come hai vissuto la mattinata del 16? Sorridevi come un bambino a Disneyland? - E’ stata un’emozione indescrivibile salire sul palco e sentire il mio nome e tutti quei applausi. Il primo ad avermi abbracciato è stato Bottura, mi ha detto: Ce l’abbiamo fatta! Lui viene assai spesso da me, al Trussardi. Ci conosciamo assai bene. Il secondo è stato Monco Riccardo, di Enoteca Pinchiorri, stiamo studiando insieme un progetto gastronomico per la Pramac, siamo amici. Poi tramite sms si sono congratulati con me Alajmo, Scabin, Santin, Metullio e, ovviamente, Cracco, ma lui è una storia a parte. - Perché sarebbe una storia a parte? - Gli devo tutto, o quasi. E’ presente sempre, ogni giorno. Perfino ora che ho una stella e posso camminare con le mie gambe ci sentiamo per discutere sui menù, i piatti, i prodotti. Tornando indietro, fu lui a suggerire il mio nome a Berton, che a quei tempi era lo chef di Trussardi. E fu sempre lui a credere in me quando se ne andò Taglienti e la maison si mise alla ricerca di un nuovo grande nome. Mi disse di creare un menù come se fossi l’executive chef e di proporglielo. Assaggiò e si convinse che avrei potuto restare in sella. Era il novembre del 2014. Sempre novembre, un mese magico per me: pensa che il 25, a meno di due settimane dalla stella, è nato il mio primo figlio, Adem. Due giorni dopo è stato il compleanno di mia moglie, Samuela. Chissà, forse fra due o tre anni avremmo un altro mese del genere, altra stella e altro figlio. - Speriamo. Chi hai chiamato per primo? - Mia moglie, Samuela, e poi Tommaso Trussardi.
- Ora facciamo un passo indietro, anzi, otto anni indietro: 2010, arrivi a lavorare da Trussardi. - Lo ricordo come se fosse oggi: il primo giorno ho pensato a quanto sarebbe stato bello diventare sous chef in un ristorante del genere. Lavoravo a Vigevano. In pratica, sognavo a occhi aperti. Dopo due anni Berton è andato via, lasciandoci due stelle Michelin. Al suo posto venne Taglienti e come prima condizione mise la mia permanenza. Io ero quasi in parola con Sergio Motta, che poi ha preso Andrea Alfieri. Fatto sta che il 27 settembre del 2014 lascia anche Luigi Taglienti. Il resto è storia, con Carlo che mi chiese se mi andava di provare a diventare il nuovo executive. Tre piatti che ti hanno reso famoso ma soprattutto fiero. Di sicuro lo spaghetto cacio, pepe e ricci. Ormai è un must. Poi la costoletta alla milanese. Come terzo scelgo il piatto che si chiama “Il giardino”.
Foto: Monica Cordiviola
- Lo spaghetto lo hanno mangiato tutti i tuoi clienti, al Taste ha fatto faville: - lo conosciamo a memoria. La costoletta invece… Va forte, fortissimo. L’altro ieri su 55 clienti l’hanno presa in undici. Una volta veniva chiamato “La meneghina” perché a Milano le donne non battevano la carne. E’ la chiusura del
Novembre é un mese magico per me: il 16 ho preso la stella, il 25 è nato il mio primo figlio, Adem. Due giorni dopo è stato il compleanno di mia moglie, Samuela No 11
Devo tutto, o quasi, a Carlo Cracco. E’ presente sempre, ogni giorno. Perfino ora che ho una stella e posso camminare con le mie gambe ci sentiamo per discutere sui menù, i piatti, i prodotti
cerchio della mia cucina. 250 grammi di costata di vitello frullato quindici giorni senza osso e tre fuori dall’osso. Poi, appunto, senza essere battuto, lo impano con uovo e pane panko, il miglior pangrattato al mondo. Lo fanno solo in Giappone ed è costosissimo, 18 euro al chilo. Ma ne “stravale” la pena, è leggerissimo. Poi lo friggo cinque minuti nel burro, badate bene che qui chiarifichiamo 35 chilogrammi di burro a settimana! Alla fine lo metto a riposare due minuti sulla carta assorbente, la croccantezza è assicurata: va da sé che dentro rimane roseo e morbido. - Come possiamo definire oggi la tua cucina? - Elegante, perché lavorando da Trussardi non può venire meno il lato legato alla moda. Italiana, perché al novanta per cento uso ingredienti nostrani, a parte l’astice e alcune salse. Tecnica, anche se non eccedo. Diciamo abbastanza tecnica. - C’è una materia prima che ti esalta e ti piace esaltare più delle altre? - Decisamente la carne. Sono un fanatico, la mangio e la preparo in tutti i modi, dal semplice barbecue alla selvaggina. E poi ammettiamolo, cucinarla e calibrarla è una prova non indifferente per uno chef. - A proposito di chef, ci elenchi alcuni che ti piacciono in maniera particolare? - Il podio è scontato: Cracco, Berton e Wicky, li apprezzo molto sia come cuochi, sia come uomini. Poi Philippe Leveille, Felix Lo Basso ed Enrico Cerea. - Un piatto che avresti voluto fosse creato da te. - L’insalata russa caramellata di Cracco. L’avrò mangiata trenta volte e spero di farlo ancora. Strepitosa. - Breve giro per il mondo: i tuoi ristoranti preferiti. - El Celler della famiglia Roca, andai con Berton: il servizio è straordinario, quello che mangi fiabesco. Poi l’Eleven Madison, per il concetto e per la teatralità. Come terzo metto The Square, stessa proprietà del The Ledbury, a Londra. - Il complimento più bello che ti hanno fatto, appena conquistata la stella? - Una coppia di francesi è tornata da noi, perché lo avevano promesso: nuova stella, nuova visita. “Congratulazioni per le due stelle”, hanno detto appena entrati. Erano convinti ne avessimo già una.
Foto: Monica Cordiviola
Speriamo torneranno ancora. Vorrà dire che la Michelin avrà premiato di nuovo Roberto ed i suoi.
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Foto: Monica Cordiviola
Sono un fanatico della carne, la mangio e la preparo in tutti i modi, dal semplice barbecue alla selvaggina. E poi ammettiamolo, cucinarla e calibrarla è una prova non indifferente per uno chef
Stefania Corrado One woman show
Coniglio laccato alla cacciatora
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robabilmente l’aspetto più difficile è trovare una definizione. A se stessa. Perché “inquadrarla” sta diventando un problema. Agisce su tanti, troppi fronti, peraltro in maniera egregia e superlativa. “Cucino, scrivo, faccio consulenze”, dice. Messa così pare un po’ vago, ormai tutti vantano competenze infinite, tranne poi scoprirsi dei bluff totali. Lei no, anzi. Vista la sua preparazione (laurea in economia, lavoro come account in una potente agenzia pubblicitaria) può davvero proporsi come esperta: lo è. Ecco, “esperto culinario” potrebbe essere un’idea, ma suona male lo stesso, pomposo e riduttivo. Meglio food writer, anche se, lo ammette lei stessa, “sono una persona pratica, niente vena letteraria”. One woman show si avvicina di più al suo profilo e alla sua personalità. Forse. Scherzando ma non troppo, è l’unico grattacapo da risolvere. Per il resto, Stefania va come un treno. Ha appena pubblicato un altro libro di ricette per Mondadori, The Revolution of Taste, sta per iniziare come docente un master in gestione della ristorazione, scrive, inventa, propone, suggerisce e consiglia i suoi vari clienti. Partiamo dalle origini. Padre pugliese e madre istriana. Piemontese di adozione. Gli studi in economia. Ero affascinata dal mondo delle aziende, volevo capire meglio come funzionavano le realtà che producevano ricchezza. Ha studiato economia, però ha lavorato in una agenzia pubblicitaria. Una grande agenzia, una multinazionale con clienti di prim ordine. Però covavo questa passione per il cibo: in cinque, sei anni l’amore per la cucina ha avuto il meglio, prevalendo sul mondo pubblicitario. Poi è arrivato il social eating e la consacrazione. Lo confesso, è stato un colpo di genio. Stavo pensando a come poter emergere
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e farmi conoscere. A quei tempi avevo un blog (www.4youfood.it) e così mi è venuta l’idea di proporre delle cene al buio, nel senso che arrivavano trenta persone che non si conoscevano fra di loro e assaggiavano la mia cucina, senza saper nulla sul menù. Pian pian ho iniziato a sviluppare un metodo, codificando le ricette, perché la gente si aspettava la qualità. Ormai è un format, funziona alla grande: nonostante i miei impegni riesco a proporlo almeno una, due volte al mese. All’inizio c’era tanta curiosità, io avevo dei dubbi che potesse funzionare, invece è stato un gran bel trampolino. Il costo? 50 euro a testa. Studi in economia, lavoro come account nel mondo della pubblicità, le ricette, la cucina: diventare docente alla Food Genius Academy è stata una tappa e una conseguenza quasi logica. Vero. Ora sono pronta per lo step successivo, sto preparando le lezioni che dovrei tenere all’Università Lumsa di Roma: sono 40 ore di marketing e strategie nel settore agro alimentare, c’è un filo conduttore. Cerco di inserire e insistere sull’aspetto della comunicazione perché lo ritengo fondamentale: d’altronde sono corsi post universitari, chi viene vuol sapere cosa ti serve per far conoscere un prodotto, un’azienda, come si gestiscono i vari aspetti dal punto di vista professionale. A me l’argomento appassiona tantissimo: per sei mesi sono stata a Yale, che è un mondo così diverso rispetto alle università italiane. In pratica ho imparato di più lì che in tanti anni sui banchi della penisola. Da noi manca l’attenzione per la fase di analisi, ti danno solo informazioni: all’atto pratico serve a poco. Gli americani invece sono superlativi in tutto. Proviamo a fare un gioco: scelga tre ricette che la definiscono in maniera quasi totale. Sicuramente la lingua arrosto con salsa verde, albicocca e Marsala, è un piatto che racchiude le mie origini. Poi il risotto al limone, acciughe, capperi e caffè. Infine terzo, le cime di rapa.
Le mie ricette preferite? Sicuramente la lingua arrosto con salsa verde, albicocca e Marsala, è un piatto che racchiude le mie origini. Poi il risotto al limone, acciughe, capperi e caffè. Infine terzo, le cime di rapa
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Guardo molto il programma di Joe Bastianich sulle start up, è più vicino al mio mondo. Mi piacerebbe anche fare qualcosa alla Anthony Bourdain, oppure di presentare delle ricette tradizionali
Minestrone a base di frutta
Una delle sue specialità sono i risotti, scegliamone tre. Quello al limone, appena menzionato. Poi il risotto con gamberi, burrata e maggiorana. Il terzo è quello in cagnone con la salvia, molto piemontese. Lei cucina ancora a domicilio? Si, mi sono creata una brigata, molto flessibile. Diciamo che ormai ho una clientela selettiva. La gran parte del tempo lo passa facendo consulenze: viene da domandarle se la gente la ascolta e la segue, oppure la guarda con diffidenza? All’inizio c’è tanta diffidenza, anche perché sono donna e giovane. In Sicilia, per esempio, il mondo della cucina è dominato da chef possenti, per cui pago anche per il mio fisico esile. Però dopo due ore di lavoro si ribalta tutto. L’impatto è difficile, lo ammetto. Le hanno mai proposto di condurre un programma tv? Finora mi hanno solo proposto di partecipare a Masterchef, però come concorrente: ho declinato. Guardo molto il programma di Joe Bastianich sulle start up, è più vicino al mio mondo. Mi piacerebbe anche fare qualcosa alla Anthony Bourdain, oppure di presentare delle ricette tradizionali, fatte bene. In pratica, vorrei che la gente a casa potesse imparare qualcosa. A proposito di ricette, quanto tempo ha impiegato per il suo ultimo libro, “La rivoluzione del gusto”(realizzato per la Mondadori, ndr)? Tre anni, fra lo studio e il lavoro in sé. Si cucina con gli estratti dal 2000, è un argomento nuovo, ci si deve preparare bene. Le consulenze, a volte, sono assai inutili: nel senso che basterebbe il buon senso per rendersi conto di quello che si sta per fare. Il punto è proprio qui, in tanti non si rendono conto di quello che stanno per fare. Un esempio? Ad un matrimonio volevano servire aria di zenzero. Per duemila persone, poi.
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Ha mai rinunciato ad un incarico di consulenza? Si, più di una volta. Di solito “mollo” i ristoranti che insistono nel tenere nel menù 70 piatti diversi. C’era uno che era arrivato a 120 fra panini, toast, insalate: assurdo. Oppure quelli dove i patron ti dicono di aver aperto “per hobby”. I suoi ristoranti preferiti? Il Reale di Niko Romito, senza dubbio. All’estero invece vado pazza per l’Eleven Madison. Come chef invece ammiro molto Fabio e Alessandro, i due ragazzi di Aimo e Nadia. Mi piacerebbe andare al Relae, a Copenhagen, dove cucina il nostro Christian Puglisi: non sono una grande fan della ristorazione nordica, però lui mi intriga parecchio. Capitolo street food, altra sua passione. Polpette, panelle, arrosticini: sono la nostra tradizione, piatti immediati, da conoscere assolutamente. Lei è ancora giovanissima e per certi versi solo agli inizi della carriera. Però, nel caso dovesse fare un primo e breve bilancio della sua vita, da uno a dieci quanto si considererebbe soddisfatta del percorso professionale? Nove. Finora è andata esattamente come doveva andare. Per di più ho fatto tutto con le mie forze. Qualcosa da aggiungere? Si, il progetto Black Celebration. Sono una fatica della musica, soprattutto dei Depeche Mode. E’ così che, anni addietro, ho ideato un menù creato solo con ingredienti neri, alcuni rarissimi. Sono anche andata a conoscerli, a Los Angeles: siamo in contatto, forse le ricette stanno per diventare qualcosa di importante. Per ora ne ho undici, l’intenzione è di arrivare almeno a trenta. Ha un motto nella vita? Non ci sono scorciatoie. Devi lavorare sodo. Sa, ho fatto il liceo dai salesiani, l’impronta è quella.
Insalata di lenticchie beluga, vongole e sedano
Mi piacerebbe andare al Relae, a Copenhagen, dove cucina il nostro Christian Puglisi: non sono una grande fan della ristorazione nordica, però lui mi intriga parecchio. No 17
Pommery, mon amour
Abbinamenti stellati
A
vete fatto caso? Sempre, o quasi, mentre sogniamo ad occhi aperti e corriamo con l’immaginazione, mentre il cuore ci batte all’impazzata per l’emozione, abbiamo in mano una coppa di champagne. E’ come se fosse un incantesimo, un miraggio: un sorso e compare la magia. E poi, mentre la sorseggiamo siamo più propensi a lasciarci andare a promesse, progetti e proposte. Più semplicemente lo champagne emoziona, perché è uno stato d’animo, libera la mente e mette allegria, pensi subito a spiagge deserte con la sabbia bianca, tramonti e ristoranti poggiati sugli scogli. Lo champagne è il posto da cartolina, la ragazza con la schiena arcuata, il silenzio assoluto e la festa allo stesso tempo, lo scampo siciliano e la pizza gourmet, il ristorante stellato e l’ora dell’aperitivo glam, è il semplice e il sofisticato, è tutto. “Bevetelo a tutte le ore”, diceva lo slogan. In tanti pasteggiano solo a suon di champagne, indifferentemente dal menù: sarà perché lo si beve senza pensarci e inebria più del vino perché l’alcol, grazie alle bollicine, entra più rapidamente nel sangue. Oppure sarà perché viene considerato soprattutto un vino femminile
Michelangelo Mammoliti
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e si ritiene abbia più effetto sulle donne che sugli uomini. In più, ci sarebbe l’eleganza del rituale: la profonda armonia dei gesti di chi la offre, la quieta gratitudine di chi la assaggia. Tutto concorre nella sensuale esperienza del pasto E’ sempre l’ora delle bollicine, soprattutto se si tratta di Pommery, maison prestigiosa che ti ispira, ti coinvolge, ti conquista, ti seduce con la sua eleganza infinita, la sua purezza e la raffinatezza che le sono proprie da più di due secoli. E’ un mondo pieno di storia e di agrumi canditi, di note burrose e di tabacco, un mondo raffinato che va dal Rosé Apanage al Brut Royal, dal Cuveé Louise al Pommery Noir, atmosfere romantiche, passione, sensualità ed un perlage maestoso. Uno champagne amato, esaltato, a volte addirittura venerato dagli chef più rinomati. Abbiamo chiesto ad alcuni di loro di abbinare le bollicine della maison ai loro piatti più rappresentativi. Piatti potenti, creativi, vigorosi, che impediscono la conversazione, per gente dal gusto sicuro, i così detti inguaribili amanti del bien vivre.
E ora ispirate a fondo per godervi la poesia delle bollicine e della cucina dei “nostri”. Di Michelangelo Mammoliti abbiamo parlato spesso. Andare da lui, a Guarene, è sempre un piacere misto a emozione e meraviglia, perché riesce a stupirti ogni volta. E poi, lo si sa ormai, è uno dei nostri preferiti, per via di quella luce negli occhi che è propria solo ai grandissimi. Allievo nonché sous chef di Yannich Allenò, grande amante del vegetale e delle tecniche, ha conquistato la sua prima stella due anni addietro: si è confermato a novembre, ora va spedito verso la consacrazione, puntando alla seconda. Uno dei suoi piatti cult, lo spaghetto cotto con un’estrazione di acqua e di scampi, insalate marine e plancton, lo proporrebbe assieme al Cuvée Louise Nature. “Tutta la vita”, dice deciso. “E’ uno champagne fine ed elegante, con sentori fruttati e floreali, con una persistenza raffinata e una buona acidità per la pulizia e la preparazione del palato al successivo assaggio: così, il burro profumato agli agrumi e la particolare untuosità dello scampo vanno ad equilibrarsi ad ogni assaggio dello champagne”. Da parte sua, Misha Sukyas, allievo di Moshik Roth e fanatico della cucina emotiva, non ha dubbi: “Nature con l’ostrica affumicata, Rosé invece con il mio nuovo piatto che ho messo in carta a I mori, ovvero pesce spada e dashi di piccione. Nell’ostrica abbiamo bisogno di acidità. Di una realtà più bianca, diciamo così. Il rosè invece va bene perché in quel piatto manca la parte fruttata, che la prendiamo dalle bubbles di Pommery. Il gioco è la compensazione, la necessità del palato di ricevere determinati sapori e trovare un supplemento alternativo al piatto. Le due Cuvée Louise sono ideali.”. Per chi non ne fosse al corrente: Misha è il volto di punta di Food Network e la trasmissione “Effetto Wow” supera di gran lunga la media della rete. Comprensibile, conoscendolo. E’ geniale, gli abbinamenti non possono che essere, pure loro, “effetto wow”.
Il risotto di Felix Lo Basso
Roberto Conti, grande intenditore di champagne nonché fresco stellato al Trussardi, innesca la quinta e parte diritto, dopo un confronto con il maitre Carlo Tinelli: “Il Nature? C’è poco da dire qui! Una bollicina carica, strutturata, “ muscolosa” , lunghissima persistenza, un equilibrio che si può trovare solo nei più grandi champagne. Si sposerebbe con il nostro spaghetto cacio pepe e ricci di mare, piatto cult del ristorante. Il rosè invece è fresco, elegante, ottima annata quella del 2000. Sentori intensi e delicati allo stesso momento, in bocca è rotondo, bellissima acidità, perlage fine ma persistente. Potrei vederlo bene con i nostri Gamberi rossi di Mazzara (giochiamo con i colori), variegato del Castelfranco e sifonata di Zabaione salato”.
Felix Lo Basso: “Il mio risotto all’astice e champagne o proporrei con il Cuvée Louise Rosè, perché avendo meno Pinot Noir è una bollicina meno intensa, lasciando che il risotto potesse fare da protagonista”
Cuvèe Louise anche all’esame cotoletta: lo si sa, lo champagne è ideale per sgrassare un po’, per non dire che è un piatto assai complesso, per via della carne, l’impanatura, il burro chiarificato e tutto il resto della preparazione. Quella assaggiata da Giancarlo Morelli, al Viu, è al limite della libidine, pur essendo classica: alta ma non altissima, vitello olandese di non più di otto mesi. Non ti aspetti di trovarla in un ristorante così elegante come il suo (stellato, of course), ma è sempre una garanzia. Spiega, Morelli: “Per il Nature l’abbinamento proposto sono sicuramente delle carni, in questo caso carne di vitello e bue. Mi allontano dal classico abbinamento champagne e ostriche per proporvi quello di uno dei miei grandi classici: cotoletta milanese. Il residuo zuccherino del Brut Nature è più basso rispetto ad altre etichette e di conseguenza è meno abboccato, favorendo quindi l’equilibrio di un piatto di carne che ha subito la cottura con l’uso del burro chiarificato. Voglio osare ancora di più e oltre alla cotoletta propongo anche la Coda di bue brasata, crema di patate affumicate a zabaione al fieno. Per il Cuvèe Louise Rosè invece proporrei il radicchio all’aceto di vino rosso con tuorlo d’uovo su fonduta di caprino e resina. Abbinamento coraggioso tra uovo e la bollicina, ma qui si tende in particolare a richiamare la balsamicità e il mentolato contenuti nella fonduta di caprino in cui viene aggiunta una resina di abete. E poi anche il raviolo farcito di patata dolce, burrata al pepe rosa e pesto di alici e pinoli, piatto dedicato al mondo femminile, come il raviolo in sé che rappresenta una
L’ostrica affumicata di Misha Sukyas
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Giancarlo Morelli: “Voglio osare ancora di più e con la Nature oltre alla cotoletta propongo anche la coda di bue brasata, crema di patate affumicate a zabaione al fieno”.
La cotoletta di Giancarlo Morelli
pasta fresca tipicamente e anticamente prodotta dalle donne. Infatti la forma che ho voluto dare a questo raviolo è proprio quella del diamante. L’abbinamento con il Cuvèe Louise diventa naturale, oltre che per il sapore delicato del piatto, per la storia di questo Champagne. Jeanne Alexandrine Luoise, alla morte del marito, prese le redini della maison di famiglia facendone in breve tempo una delle grandes marques con l’obiettivo di volere vini puri, fini ed eleganti”. Felix Lo Basso invece gioca con i suoi ultimi piatti e osa l’abbinamento con un risotto a dir poco fiabesco: mare e montagna, tartare di astice e champagne, sa di tutto e di mille cose insieme, viene nel latte e poi nello champagne, appunto. Il risotto canta, la tartare di astice è così gustosa e delicata da rischiare un infarto. Il fondo, sempre di astice, sussurra segreti. “Lo proporrei con il Rosè, perché avendo meno Pinot Noir è uno champagne meno intenso, lasciando che il risotto potesse fare da protagonista”. Chiudiamo con una chiccheria che va di moda ultimamente: pizza e bollicine. Certo, nessuno la propone in carta, è più un binomio che si incontra e gusta agli eventi, ma arriverà: per ora lasciamoci guidare dal gusto di Matteo, patron di Garage, posto cool e cult per gli amanti degli impasti particolari, in Corso Sempione al 42: “Abbinerei lo champagne Rosè con la nostra Portofino, ovvero fiordilatte, cipolla rossa sbollentata, gamberoni argentini, fiori di zucca e zest di lime. Mentre la Contemporanea la assaggerei, eccome, con il Nature: ci sono fette di tonno rosso in crosta di sesamo, salsa yogurt, salmone selvatico, avocado, maionese artigianale e zest di lime. Non riesco a immaginare accostamento migliore”. Nemmeno noi. Dopo la cena, un sigaro è doveroso: Marco Tonelli, giornalista enogastronomico, sommelier esperto di champagne, distillati e
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habanos, si esalta appena sente la parola Pommery: Cuvée Louise Rosé e Cohiba Robusto, la dolcezza e l’eleganza sono le linee guida di questo matrimonio di sensi». Confessiamo: ce lo ha detto tre anni fa. Ma nulla è cambiato, né il Cohiba né il Cuvèe Louise. E ora abbandonatevi alla seduzione.
Roberto Conti: “Cuvèe Louise è una bollicina carica, strutturata, muscolosa, lunghissima persistenza, si sposerebbe con il nostro spaghetto cacio pepe e ricci di mare”
Andrea Berton Nuova stella sul lago Ha tutto per ambire al massimo del massimo: il ristorante, la brigata, la personalità, la creatività, la cucina. I motori sono accesi a mille e a mille andranno anche in futuro.
Andrea assieme a Raffaele Lenzi
M
ettiamola così, la stella conquistata con Il Sereno ha leggermente affievolito il dispiacere per non aver ottenuto la seconda con il suo ristorante principale. A dire il vero, sono due anni che l’aspetta e, onestamente,
che la merita. Perché il suo regno in Via Mike Buongiorno, zona Porta Nuova, le vale davvero, le due stelle: dall’estetica al servizio, dall’atmosfera ai piatti è tutto perfetto. Ogni volta che mettiamo piede rimaniamo incantati. Forse siamo di parte, non importa. Anzi, non vediamo nulla di male nell’avere un’ammirazione sconfinata per uno chef straordinario. In più, ha una capacità e una voglia devastante di fare, di migliorarsi, di guardare avanti: un vincente. I suoi piatti sono facilmente riconoscibili: leggeri, eleganti, non ti stanchi mai di assaggiarli. Perfetti, quasi tutti. Eppure la seconda stella tarda ad arrivare e per lo chef diventa quasi una ossessione, perché si fa fatica a capire la ragione. Tutte le volte che usciamo dal suo ristorante abbiamo quella piacevole sensazione e convinzione di aver mangiato qualcosa di speciale. Piccolo elenco delle ultime magie: l’insalata di gamberetti di laguna leggermente arrostiti è velluto puro. Gli spaghetti alle erbe con lumache di mare, anche. I fegatini di vitello cantano, sono favolosi. Oltre alle novità che propone c’è sempre il menù dei brodi, l’evergreen che piace sempre, non a caso continua ad essere il più richiesto in assoluto. E’ un menù da tristellato, non ci sono dubbi. Certo, la seconda stella arriverà, può essere l’anno prossimo come quello prossimo ancora, però capiamo lo stato d’animo e l’impazienza di Berton. Intanto, perché sa di aver lavorato duramente e seriamente, poi perché, anche se non lo ammetterà mai, vuole già volare verso la terza. Ha tutto per ambire al massimo del massimo: il ristorante, la brigata, la personalità, la creatività, la cucina. I motori sono accesi a mille e a mille andranno anche in futuro. Lui non si ferma mai e non si fermerà: è nato per spingere sempre sull’acceleratore. Non c’è
dubbio che arriverà a due e, perché no, a tre stelle: intanto medita sul perché tarda, senza trovare una spiegazione logica. L’uomo è navigato, conosce i meccanismi, ha già vissuto l’ebbrezza da bistellato, ai tempi del Trussardi: forse per questo fatica a mettere a fuoco i motivi, sa di cucinare meglio di sette anni fa, quando guidava il ristorante del levriero. Si può consolare con la stella guadagnata con Il Sereno, l’hotel della famiglia Contreras progettato da Patricia Urquiola: primo anno ed eccoci, già premiato il ristorante Berton al Lago. Si è partito da zero assoluto, con una certa diffidenza, perché lo chef aveva chiesto alla proprietà uno sforzo non indifferente, ovvero costruire una cucina degna di questo nome: qualche perplessità ci fu, però ha avuto ragione lui, come sempre. Sul palco è salito Raffaele Lenzi, l’executive chef: se lo merita. Piccola nota: per la prossima stagione vorrebbe proporre un menu degustazione interamente vegetariano. Intanto, andrà in California per uno stage in un ristorante tristellato.
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Giancarlo Morelli Good vibes Il foie gras é troppo gustoso, troppo indecente, si scioglie in tutto il corpo, ti inonda la testa, ti tocca l’anima, ti stordisce, ti acceca, ti seduce, è saporito come un bacio.
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i sono ristoranti e ristoranti, stellati e stellati, chef e chef. Non è detto che se mangi da Dio ti senti altrettanto bene. Alcuni vogliono sembrare dei tempi, altri sono asettici e freddi. Entri, ti siedi, assaggi però hai paura di dire mezza parola perché c’è un silenzio monastico. A volte ti sembra di stare in un ospedale e ti irrigidisci. Poi ci sono quelli che sanno fare della ristorazione uno spettacolo. Giancarlo Morelli è uno di loro. Ogni sera é tutto pieno, fin qui nessuna notizia: quasi una cinquantina nella grande sala, poi un’altra dozzina in cucina, al tavolo sociale. La gente ride, parla, c’é un atmosfera coinvolgente, quasi da festa. Good vibes, direbbero gli anglofoni. Il merito è esclusivamente suo: la gran parte della clientela ci va per lui. Se un giorno lasciasse il timone del ristorante, non verrebbero più. E’instancabile, con quei modi cordiale e felpati, passa da tavolo a tavolo, si siede, parlotta, scherza, spiega. Il locale è pretenzioso e sofisticato, lui lo rende easy e leggero. D’inverno splende di più. Forse è solo una sensazione. Però è bello, bellissimo vederlo pieno di clienti che rimangono fino a mezzanotte e oltre, rilassati e felici, come se fossero a casa loro. E’ pieno di coppie innamorate e sorridenti. Raramente in un ristorante del genere vedi baci intensi e persone sognanti. Da Giancarlo Morelli succede. L’atmosfera è calda, le luci perfette, lo spazio fra i tavoli anche. Pare di vivere in una favola, o forse lo é. Poi, i menu: quello impostato sulla selvaggina, adesso, ahimè, già fuori dalla carta, era una degustazione per gente affamata di nuove sensazioni. Giancarlo, cacciatore di lungo corso, sa cosa piace alla gente innamorata della carne, energia sessuale maschile per eccellenza. Menù che è sentimentalismo puro, l’inizio da lasciare il segno, perché il foie gras presentato come se fosse una fetta di torta al cioccolato sembra una gran bella idea: la gelatina di porto sopra, il pane sotto, è uno di quei bocconcini che ti rimangono impressi per tanto tempo. Perfino il sangue più freddo si sarebbe riscaldato al suo tocco. E’ uno di quei piatti che induce alla lentezza, che vorresti
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non finisse mai, da includere nello scafale dei migliori ricordi. E’ vigoroso e garbato, il primo morso è un colpo al cuore, ti proietta lentamente in una sorte di nirvana. Troppo gustoso, troppo indecente, si scioglie in tutto il corpo, ti tocca l’anima, ti stordisce, ti acceca, ti seduce, è saporito come un bacio. E’ talmente buono che il suo ricordo ti accompagna per gran parte della cena. Poi arrivavano le pappardelle, un’esplosione di dinamite nel sangue: profumo immediato, piacere autentico, ti sembrava di assorbire gli odori con la pelle. La pasta, arrotolata e portata alla bocca, sussurrava segreti. Piatto semplice ma elettrico, violento, il capogiro assicurato, il jus straordinario, il ragù fatto con cioccolato e lepre ancor di più. Okei, ci siamo dilungato sul menù che non potrete assaggiare, semmai fra qualche mese, al ritorno della stagione. I nuovi piatti non sono da meno, anzi. Le animelle di vitello cantano, il pane appena sfornato anche, la pasta di farina di canapa pure, la tartare di cervo non ne parliamo. E per chi si illumina pensando ai piatti classici, suggeriamo la milanese: profuma di burro ed è di una bontà infinita. E’ regale. Chapeau.
Animelle di vitello
Ristorante Olio Puglia, my love
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a dove cominciare? Dalla fine, con il gelato all’olio? Dai proprietari, Angelo Fusillo e Paolo Totaro, splendida coppia anche nella vita di tutti i giorni? Dallo spaghetto semplicemente devastante per intensità? Dallo chef Marco Misceo? Dal guanciale di maiale lucano? Dalla tartare che ti fa cantare per la bontà? Dal carpaccio di gamberi? Dall’olio Muraglia? Dal profumo di Puglia che si respira in ogni angolo e piatto? Tutto sommato, conta poco l’incipit dell’articolo. La baraonda di profumi è infinita, ma d’altronde lo sai che va così con Misceo in cucina. Ha estro, mano, idee, tecnica, entusiasmo, è la persona ideale per esaltare la sua terra, perché Olio è soprattutto questo, Puglia allo stato puro, Puglia nella sua espressione migliore, un’esplosione di aromi territoriali, ricordi di mare e sublimi frivolezze. Vive per il cibo, arde in lui il desiderio di stupire, i profumi sono nitidi, ogni ingrediente è perfettamente definibile. La sua cucina è cromatica e creativa, articolata, accattivante, passionale. Un puledro di razza. C’è una logica, un senso, c’è la dedizione totale verso i prodotti di una regione e soprattutto tantissima voglia di stupire, vedere la clientela sorpresa e meravigliata. Si vuole riempire il ristorante e allo stesso tempo far vivere un crescendo di emozioni pugliesi, dalla carne dei fratelli Vanvara alle mandorle di Toritto, dal caciocavallo della Masseria Colombo ai limoni del Gargano. Le portate sono di un’estrazione geografica molto chiara, la matrice è schietta. Dovessimo scegliere un antipasto e un altro piatto punteremmo sul carpaccio e lo spaghetto, per poi concludere con il gelato all’olio. Il primo richiede lumi di candela, regala la felicità immediata, pare velluto, sprigionando seduzione. Il secondo pungola il desiderio amoroso, è un esperienza esplosiva, eccitante, il sangue inizia a rombare nelle vene, provi scosse di piacere, è un piatto quasi tenebroso, aggressivo, testosteronico. La prima forchettata è un’emozione violenta, fa un effetto quasi psichedelico. Il gelato invece induce alla lentezza, è cremoso e gustoso, con il sale e le mandorle che ti portano su e giù sul rollercoaster dei contrasti. Se poi tornassimo una seconda volta sceglieremmo il guanciale di maiale, morbido come la seta, anche se a qualcuno potrebbe urtare il paragone. Poi la tartare di manzo, manzo pugliese, perché i Fratelli Varvara sono di Altamura, hanno un’azienda straordinaria, difatti la loro carne la trovi solo nei migliori ristoranti, per esempio da Felix Lo Basso (ovviamente pugliese pure lui). È una tartare scandalosamente buona, sa di paradiso e schiena arcuata, è come fare all’amore con la donna dei sogni. Provatela, ve ne innamorerete. Esci da Olio con il desiderio di tornare e ti svegli con la voglia di ricordare ogni forchettata, ogni boccone.
Un crescendo di emozioni pugliesi, dalla carne dei fratelli Vanvara alle mandorle di Toritto, dal caciocavallo della Masseria Colombo ai limoni del Gargano. Tartare di manzo pugliese
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Tempi d’oro Per la carne
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sempre pieno. Anzi, sono sempre pieni. Tutti. I ristoranti di carne, almeno a Milano, fanno dei numeri da capogiro. Attenzione, non parliamo delle steak house che si trovano fuori città, quelle sale immense con centinaia di coperti (che poi, volendo, potremmo aggiungere pure loro, sempre di carne si tratta). Ci riferiamo ai ristoranti veri e propri, argentini e non, che vivono un periodo d’oro. Ad una prima lettura potrebbe sembrare strano, visto il terrorismo mediatico e l’isteria dei talebani salutisti (forse ci ripetiamo, le stesse parole le troverete spesso nelle nostre pagine). Eppure, forse proprio come una reazione verso il mondo degli invasati, la gente vuole sentirsi libera di assaporare la carne, materia succosa, potente e primitiva, che riesce a sprigionare istinti ed emozioni animalesche, nel senso buono della parola. Da qualche anno c’è un continuo crescendo: La Griglia di Varrone, Il Carnicero, poi il secondo Porteno e anche il secondo Carnicero, aperto laddove per anni fu l’Ibiza di Alessandro Costacurta (in Corso Garibaldi). Non trovi mai un posto, martedì o sabato che sia. Nel frattempo, nemmeno i ristoranti storici, vedi il Don Juan, conoscono la crisi: con altre parole, l’apertura dei nuovi non ha intaccato minimamente gli incassi degli altri. Tutto questo significa semplicemente che è aumentato il numero dei “carnivori”, il che è un ottimo segnale. Va detto che alcuni stanno cercando di offrire molto oltre alla solita picanha, oppure il black angus: certo, basterebbe quello per far felice la clientela, però si cerca di dare di più. Qualche esempio? Le empanadas che trovi da Don Juan sono deliziose, rischi di abbuffarti a tal punto da non poter più inebriarti con l’entrana: ne mangeresti all’infinito. Squisite. A La Griglia di Varrone è ancora meglio: Massimo Minutelli è instancabile nella sua ricerca della perfezione. Lo diciamo sempre, vive per saperti felice: l’ultima trovata, lo snack “copiato” dal suo amico Davide Scabin, è da leccarsi i baffi. Un tacos magico, a base di black angus e guacamole, con l’aggiunta del grasso di Kobe. Ricetta rubacchiata e migliorata, perché inizialmente il “Pongo” di Scabin era un impasto a base di pasta emulsionata con il frullatore a immersione. Certo, sono dei mini piatti, chi va in un ristorante del genere sa già che si delizierà con il profumo profondo della carne che sa di pascolo e aria aperta, erba alta e colline selvagge. Però la tendenza è chiara: funzionano i ristoranti di nicchia e la carne torna a essere cool, oltre a essere apprezzata. Difficile capire quanto possa essere una reazione al fanatismo salutista, però un certo effetto tipo Brexit o Trump ci sta. La gente non ne può più di lezioni pedagogiche sul cosa sia giusto, sano e morale. E risponde così. Che poi, sia chiaro, la qualità delle carni proposte dai ristorante appena elencati è altissima, l’atmosfera anche, il servizio idem. Non manca nulla, assolutamente nulla. Gusto, piacevolezza, ovvero tutto quello che uno può desiderare. Piccola aggiunta: la “Rubia Gallega” proposta da Massimo Minutelli. E’una razza galiziana, rivestita da un cappotto di grasso cremoso, una carne forte, dal sentore speziato, particolare, ideale per la brace, non proprio tenerissima, solo per intenditori. Per grandi intenditori. Questa gente, dal gusto sicuro, non frequenta posti salutisti.
Ristorante Don Juan
La gente vuole sentirsi libera di assaporare la carne, materia succosa, potente e primitiva, che riesce a sprigionare istinti ed emozioni animalesche.
La Griglia di Varrone
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Osteria della Bullona
Bandierina da piazzare Piatti di carattere, quasi da bistrot: immediati, ricchi, generosi, saporiti, ambiti, riconoscibili, gusti pieni.
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Piatti di carattere, quasi da bistrot: immediati, ricchi, generosi, erché sì, la ristorazione stellata e creativa, il tocco saporiti, ambiti, riconoscibili, gusti pieni. Tutto molto semplice e asiatico, la filosofia nordica. Tutto fantastico. Niente da molto buono, rassicurante e rilassante, esattamente come dovrebbe dire. Investimenti spesso mirabolanti, piatti al limite del essere. surreale, per idee e tecniche. Superlativo. Il menù impostato dal cuoco Daniele Ferrari (fra l’altro è anche Però volete mettere l’osteria? Profumo di casa, menù semplice, uno dei soci, l’altro è Daniele Carretoni, l’oste) pare azzeccatissimo: ghiotterie a buon prezzo: impareggiabile. la pizza è leggerissima, la Margherita pare seta. I mondeghili, la Peccato che in tanti abbiano perso il gusto e la voglia di lavorare in polenta e il risotto alla milanese trasmettono e diffondono il senso un locale del genere: le nuove leve pensano solo ed esclusivamente di appartenenza, ricordandoti dove ti trovi. Gli altri risotti sono al mondo dorato delle stelle, tranne poi scoprire che la strada è più cremosi e coccolosi, come direbbe qualcuno: abbiamo assaggiato dura di una puntata di Masterchef. Alcuni proprietari inseguono quello all’acqua con grana padano stagionato e tartare di gambero mode e tendenze, ma in modo goffo, trascurando la materia prima e rosso e melograno, strepitoso. La pasta, inutile aggiungerlo, è fatta la qualità, restando con un nulla di fatto fra le mani. Pure la clientela in casa: tagliatelle e tagliolini. Il pane, idem, homemade, con lievito ondeggia insicura, spesso optando per una via di mezzo, quel vorrei madre. ma non posso assai patetico. Vince però la cotoletta, anzi, la costoletta, perché il “manuber”, l’osso, Certo, l’osteria è un mito e come tale vien difficile trovarne non manca mai: la carne è delicata e succosa, fassona piemontese una manifestazione reale, autentica, che ne soddisfi tutte le di primo livello, trenta giorni di frollatura. Le patatine fritte sono caratteristiche. Ovviamente, in pieno centro milanese si fa fatica fatte in casa, ovviamente. Pure l’acqua è opera loro, niente acquisti incontrarne una con vista sulle colline, oppure nascosta nella esterni, altra carezza per il cliente, perché così facendo i prezzi natura, ancor meno situata nella piazza principale del borgo. possono restare ancora più bassi: può sembrare una scemenza, non Ci sono però i piatti, che sono alla base di tutto. Ecco, L’Osteria lo è affatto. Due euro la bottiglia, quasi nulla. Già che parliamo dei Della Bullona, in via Piero della Francesca, sarebbe l’esempio ideale prezzi: si va dagli otto euro per una Margherita superlativa ai 18 di un piccolo ristorante che riesce a fondere la buona cucina con i per il risotto appena nominato. prezzi contenuti, l’atmosfera familiare con la qualità dei prodotti. di Varrone da piazzare, assolutamente. E’ tutto perfetto: sei antipasti, sei primi, otto secondi e poi sei dolci. GrigliaBandierina
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Albufera Giostra iberica
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alotto spagnolo a Milano, giostra deliziosa di profumi iberici, ricette regionali e rivisitazioni contemporanee. Loro la chiamano experiencia espanola, tradotto sarebbe la Spagna a modo nostro, ovvero non aspettatevi banalità per turisti bensì piatti cerebrali e allo stesso tempo autentici. Certo, non mancano la paella, le tapas e le costine di maiale, però lo chef Mateus Coelho, brasiliano innamorato della Spagna, vuole portarvi oltre, in un mondo, il suo, pieno di contaminazioni regionali, soprattutto basche. Ci riesce, eccome. Il ristorante in sé aiuta molto a creare un atmosfera giusta ed internazionale. Pare un salotto immenso, luminoso, vivo, coinvolgente: merito di Alice Paglia Coelho, proprietaria nonché moglie dello chef. Architetto, appassionata di terre iberiche, ha voluto trasmettere l’amore per la Spagna alla clientela milanese, prima in un ristorante in Via Lecco e ora in Via Settembrini, al 26. Da notare che fra la chiusura al vecchio indirizzo e la nuova apertura sono passate tre giornate soltanto, ovvero un piccolo grande miracolo. E’ gente operosa e volenterosa, instancabile, tenace e talentuosa, che raccoglie i frutti di un lavoro senza soste. I risultati parlano chiaro: al terzo giorno dall’apertura non solo era tutto pieno, ma hanno dovuto mandare indietro 84 clienti arrivati sognanti però senza aver prenotato. Numeri che dicono molto, se non tutto, di un ristorante solido, vivace, che pur vantando settanta posti a sedere non riesce a soddisfare la richiesta. D’altronde, chi assaggia le loro costine non riesce farne a meno. Certo, la paella e le tapas, però la bomba di guanciale di maiale iberico stufato, ripieno del proprio sugo e soprattutto le costine sono la porta spalancata verso il paradiso. Cotte per venti ore a bassa temperatura, glassate con salsa barbecue: immagina, puoi.
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Certo, la paella e le tapas, però la bomba di guanciale di maiale iberico stufato, ripieno del proprio sugo e soprattutto le costine di maiale sono la porta spalancata verso il paradiso.
5stelle senza stelle Il non marketing
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robabilmente qualcuno se la prenderà, ma forse dovrà prendersela con sé stesso. Certo, di autocritica non se ne parla, figuriamoci, mai accaduto, loro sanno tutto su tutto, vengono dalle migliori scuole e anche se non fosse ti guardano sempre con quell’aria superiore di chi non ha nemmeno voglia di stare lì ad ascoltare. D’altronde, lo stipendio corre. I fatti. Prendete i ristoranti degli alberghi cinque stelle milanesi: la gran parte non ha il minimo interesse di avere un ristorante e una ristorazione all’altezza dell’hotel. L’elenco sarebbe davvero lungo, facciamo solo tre nomi: Four Seasons, Palazzo Parigi, Bulgari (in arrivo la consulenza di Romito). E’ assai strano vedere come hanno investito decine di milioni per arredare le stanze per poi non trovare spicci (al confronto) per ingaggiare uno chef che possa ottenere la stella Michelin, il che avrebbe significato pubblicità, introiti, bella immagine e prestigio. Per andare ancora più in profondità con l’analisi, gli stessi alberghi hanno spesso rifatto il ristorante, acquisendo sempre le migliori poltrone, sedie, piatti e arredi vari, tranne poi offrire una cucina spersonalizzata, triste, grigia, loffia. E pensare che, visti soprattutto gli affitti milanesi, loro sarebbero gli unici a potersi permettere una ristorazione di altissimo livello, intesa come costi e, di conseguenza, qualità, incassi e benefici. Certo, alcuni lo hanno fatto, basta guardare il Mandarin, già due stelle per merito di Antonio Guida: idee chiare fin dall’apertura. Da almeno due anni tutti ne parlano del ristorante (Seta) e mai dell’hotel. Il motivo è assai elementare: una volta lanciato l’albergo, cosa mai si potrà scrivere e informare su di esso? Le stanze sempre quelle sono. Con un ristorante ci si potrebbe andare avanti all’infinito, fra chef, stelle, premi, riconoscimenti, per non dire che il milanese ha poca dimestichezza con gli hotel, visto che non ha la necessità di alloggiarci. Però al ristorante ci va, eccome se ci va. Vale per i Ristorante Bulgari
Spesso si ha la sensazione che il ristorante viene tenuto in vita solo per garantire i servizi utili richiesti da un cinque stelle. milanesi come per i romani, oppure bolognesi. Hanno speso tanto per allestirlo per poi lasciarlo lì, quasi in disparte. Non serve nemmeno per le colazioni, perché spesso hanno delle sale apposta. La mancanza di ambizione, voglia di stupire e di lungimiranza fa effetto fino ad un certo punto, perché poi basta scambiare due parole con loro per capire il basso livello di conoscenze. Spesso si ha la sensazione che il ristorante viene tenuto in vita solo per garantire i servizi utili richiesti da un cinque stelle. Dalla serie, “dobbiamo avere il concierge, parcheggio, sala eventi e ristorante”. Di recente ci è capitato di parlottare con un genietto del genere che, ovviamente, faceva comunicazione, e da tempo, in un cinque stelle: “Sarebbe bello se riusciste a trovare un’identità al vostro ristorante”. Con un’espressione che la diceva lunga, ci ha risposto: “In che senso?”. Fine dei giochi. Ci sfugge quale parte della frase non gli fosse stata chiara. Quando non sanno come argomentare la loro non scelta, tirano fuori questioni di budget, scordando che per piatti e sedie abbiano speso l’impensabile. Altri teorizzano, per pura pigrizia, la storia delle complicazioni che possano apparire nel caso uno chef importante lasciasse l’incarico. E’ vero fino ad un certo punto, perché sì, un bistellato vuole, chiede e pretende determinate posate e lavori che poi scombussolano l’andamento del ristorante nel caso abbandonasse la nave. Però è un modo di nascondersi e di non voler fare. C’è una tale tristezza nei piatti dei ristoranti su citati che vale la pena rischiare, per non parlare dei benefici economici, questo per mettere a tacere anche i coloro che invocano motivi di budget e food cost. Sono tutte scuse che poi, a conti fatti, vanno solo a discapito del proprio blasone. E incassi.
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Rovello18 La cucina della nonna
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abato sera. Corso Garibaldi. Rovello 18. Il ristorante è colmo di gente. Cucina classica, gustosissima. Gli agnolotti del plin sembrano caramelle. Il coniglio, il migliore mai assaggiato, è tenerissimo e saporito oltre ogni immaginazione. La tagliata pare seta. Il tortino di riso al salto con crema di parmigiano è croccante, vibrante. Tutto squisito. Lo chef, Michele De Liguoro, figlio di Cinzia, la patron ora in pensione, è giovanissimo (31 anni appena compiuti): di solito alla sua età si sogna una cucina creativa, spinta, sperimentale, spesso vuota di contenuti. Lui ha scelto la tradizione, puntando al sodo. E’ un cuoco vero, nel senso che cucina e stop. Niente grilli per la testa, niente sifoni e schiume. Si vede che è un bravo ragazzo, con i piedi per terra. Complimenti davvero. Ci siamo seduti a parlare due giorni dopo, il lunedì pomeriggio, mentre si stava coccolando Bonnie, un bulldog di quattro mesi che dorme sempre. Piccoli appunti. “Praticamente sono nato e cresciuto nel ristorante di mia madre, prima al Molin de la Paja, a Buccinasco, poi in Via Rovello. Ho iniziato a lavorare quando avevo 15 anni e fino ai 22 confesso che è stata dura, i miei amici andavano alle feste mentre io faticavo in cucina. Poi mi sono convinto che voglio fare sul serio, ma proprio sul serio. Perché questo mestiere o lo fai dando il miliardo per cento o sei fuori dai giochi. Difatti nell’ultimo anno ho cambiato quasi tutta la brigata, voglio gente con il fuoco dentro. Mi vien
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da sorridere, prima criticavo mia madre perché stava troppo in cucina e non aveva una vita privata, io invece sono addirittura peggio”. “Mi piace da impazzire fare la pasta fresca tutti i giorni: vivo e lavoro per far ricordare alla mia clientela la cucina dei nonni, forse perché io sono stato molto legato alla mia, scomparsa tre anni addietro. Si chiamava Patrizia, in pratica mi ha cresciuto lei”. “Nel mio ristorante vengono avvocati, gente della Borsa, perfino il sindaco, è pieno di famiglie milanesi d’antan che a volte chiedono un semplice riso in bianco, oppure l’amatriciana. Arrivano anche tanti chef (Oldani, Wicky e perfino Cracco), quasi tutti prendono la gallega, carne devastante, da infarto. Poi la polenta con salame, la tartare e le tagliatelle con ragù di Bra, un mio vanto, sono di una bontà rara”. “Sono un grande amante dei vini, soprattutto piemontesi e bollicine. Ho ereditato una cantina impressionante, se ne occupava Gualtiero, il compagno di mia madre ai tempi del Rovello. Mi piacciono molto anche i bianchi macerati”. “Sarebbe fantastico riuscire a riempire del tutto anche all’ora di pranzo, perché la sera lo siamo. Nei fine settimana arrivo a 180 coperti complessivi”. “I miei ristoranti preferiti? La Trattoria del Gallo, a Gaggiano, fanno quel tipo di piatti che a me piacciono da impazzire, che ricordo dai tempi della nonna. Poi Il Ronchettino dove lavora
Tagliatelle con ragù di Bra
Michele di Liguoro
La tagliata proposta al Rovello
Federico Sisti, prepara delle lasagne da urlo e dei nervetti grigliati fiabeschi”. “Il più grande complimento che ho ricevuto? Una sera è entrato Gualtiero Marchesi: ha preso la tartare e il gelato, poi prima di partire mi ha suggerito di continuare così, dicendomi che con la tradizione non si sbaglia mai”. “Non ho tante amicizie fra gli chef perché lavoro sempre, però con Diego Rossi di Trippa ci vediamo spesso, parlando soprattutto di cotture e preparazioni”. “Sono qui sette su sette, abito a due passi dal ristorante, per cui fatico di andare altrove e provare dei nuovi piatti. Però quando ci riesco faccio il botto: ultima volta a Madrid, da David Munoz, tre stelle. Prenoti al suo DiverXo e aspetti un anno, ma ne vale la pena. Una sua creazione mi rimarrà impressa per sempre: ti serviva un riccio di mare assieme ad una alga, però te la serviva nel palmo della mano. Fantastico”. “Il mio sogno? Aprire a Maiorca, perché la mia fidanzata proviene da lì, ora vive a Milano con me. Mi piacerebbe avere una cucina più grande, tipo bancone, tipicamente spagnolo”. Sarà, però se lei apre a Maiorca noi come facciamo?
Il più grande complimento che ho ricevuto? Una sera è entrato Gualtiero Marchesi: ha preso la tartare e il gelato, poi prima di partire mi ha suggerito di continuare così, dicendomi che con la tradizione non si sbaglia mai No 29
Nadine Greeff L’effetto wow
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l suo stile si chiama “chiaroscuro”. Piace, e molto. Anzi, stupisce. Nadine, sudafricana di Cape Town, pare di dipingere invece di fotografare. Qualcuno ha paragonato le sue immagini agli oli su tela e ai ritratti religiosi della Francia di una volta: ci sta. “Sembrano quadri dei maestri fiamminghi”, sostengono i suoi fan, altro paragone con la pittura. Ha portato drammaticità nella foto gastronomica, giochi di ombre e luci che piacciono e spiazzano. Sa come attirare l’attenzione, sa distinguersi. Non è poco. La gran parte (ma vale per qualsiasi altro settore di attività) non ha uno stile, manca di una forte personalità: lei invece le ha entrambe. Le sue foto creano l’effetto wow, roba rara. Godiamocela.
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Clare Barboza La storyteller
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Il mio sogno è di poter lavorare un po’ ovunque negli Stati Uniti senza perdere di vista la priorità, ovvero la famiglia. Perché io passo tutto il tempo libero con mio marito Joe, il figlio Hugo e il cane Nina
e vivesse in Italia sarebbe la più grande sostenitrice di quello che qui chiamiamo chilometro zero. E’ una fanatica, nel senso buono, della tracciabilità dei prodotti. Attraverso le immagini racconta storie legate agli animali, fattorie, insomma si concentra su tutto quello che accade prima che il piatto fosse fatto e finito in tavola. “Il dietro le quinte” del piatto, come ama ripetere. Laureata in belle arti, sa come combinare e maneggiare i colori. Assieme al marito e al figlio si sono trasferiti nel Vermont, in un piccolo paesino dove vivono in perfetta simbiosi con la natura: “Nel 2014 abbiamo venduto l’appartamento che avevamo a Seattle, con l’arrivo del bambino avevamo bisogno di un altro tipo di vita, più lenta e tranquilla, soprattutto più sostenibile. Ora siamo a Brattleboro, nel cuore del New England, ho anche aperto uno studio qui, mantenendo pure quello di Seattle. Torno regolarmente, lavorando ancora per i clienti del passato. Il mio sogno è di poter lavorare un po’ ovunque negli Stati Uniti senza perdere di vista la priorità, ovvero la famiglia. Perché io passo tutto il tempo libero con mio marito Joe, il figlio Hugo e il cane Nina. Andiamo sempre in giro per mercatini e fattorie, spiagge e negozi di antiquariato. Ci piace il vino rosso e il buon caffè, viaggiamo tanto”. Una vita perfetta.
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Pizza e champagne E’ tutto made in Napoli: alici di Menaica, capperi di Salina, fichi del Cilento, aglio rosso di Nubia, l’antico pomodoro di Napoli, poi quello di Pienolo, verde e soprattutto quello giallo, dolcissimo
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o champagne. Lo vuoi ordinare. Istintivamente. Appena ti arriva la pizza. La guardi, la annusi, la assaggi lentamente e poi chiedi senza pensarci un attimo: “Potrei avere una coppa di bollicine?”. Si è parlato spesso dell’abbinamento fra pizza e champagne, tante volte si è cercato di proporlo e spingerlo, ma nessuno ci ha mai creduto per davvero, a parte qualche evento sparso e isolato. Qui invece sarebbe una follia non ordinarlo ogni santa volta, perché “Capperi che pizza” è davvero il luogo ideale per regalarti momenti di autentico piacere pizzaiolo. Certo, Milano è ormai piena di locali del genere, pizzerie d’autore e gourmet a iosa, le aperture si fa fatica a contarle, l’ultima quella di Sorbillo in Via Foscolo, fra l’altro a dieci metri da un’altra appena inaugurata, Gino’s (i proprietari sono gli stessi del ristorante Regina Margherita, ovvero la famiglia Iorio). Ma qui è diverso, perfino l’atmosfera: mediterranea, mattonelle dipinte a mano, manca solo il mare davanti. Ti senti in vacanza. E’ un nuovo format ideato dalla famiglia Acciaio, napoletani doc: un po’ birreria, un po’ pizzeria. Hanno investito tanto, tantissimo, più di 700.000 euro. Il locale era abbandonato, tanta incuria in una zona centrale di Milano non si era mai vista: d’altronde la piazza Santa Maria del Suffragio ha vissuto decenni di inspiegabile dimenticatoio. Ora pare torni a vivere i splendori d’antan e la pizzeria aiuta, e tanto. Giuseppe Acciaio, il capostipite, è uno che sa il fatto suo, è sempre stato un passo avanti: ci ha visto giusto anche stavolta. Oltre ai tre locali già aperti (dopo Milano è stato il turno di Lugano e Salerno) è un veterano del mondo dell’import export e della distribuzione di prodotti di alta qualità. Ha coinvolto tutta la famiglia, a cominciare dalla sorella Anita che gestisce il locale meneghino. Ha anche aperto una scuola di formazione per pizzaioli gourmet, diretta dal figlio Luigi, a Moncalieri. Perché diciamolo, la professione di pizzaiolo sta ritrovando una sua dignità, non c’è più spazio per improvvisazioni e approssimazioni. Ci vuole tecnica, una capacità quasi innata. In più ci vuole gusto e palato per dei buoni abbinamenti. Tornando al Capperi…che pizza, qui si punta sulla lavorazione a mano dell’impasto con l’utilizzo di una macchina in bella vista
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all’ingresso: come dire, si fa sul serio, ai massimi livelli. Per la cronaca, è stata ideata e progettata dallo stesso Luigi Acciaio, il che aumenta la sensazione e la certezza che la famiglia conosce davvero il settore. Gli interni sono napoletaneità pura, colori accesi e piatti dell’art designer Giuseppe Bottiglieri, poi i profumi ti portano direttamente lì: alici di Menaica, capperi di Salina, fichi del Cilento, aglio rosso di Nubia, l’antico pomodoro di Napoli, poi quello di Pienolo, verde e soprattutto quello giallo, dolcissimo. Durante l’inverno hanno la stessa intensità, perché la famiglia produce e controlla l’intera filiera dei Sapori di Corvara. Gli impasti sono integrali, semi-integrali e biologici, tutti ad elevata idratazione, si usano solo le farine Petra. Un solo grammo di lievito per quattro chilogrammi di farina, il che significa effetto zero dopo 36 ore di maturazione e lievitazione. Non le abbiamo assaggiate tutte e sarebbe impossibile, ce ne sono una trentina: voto altissimo per la Margherita Corberì, così come per la Re Borbone e Simon Bon. Vengono tutte servite a spicchi, perché la pizza gourmet presuppone la degustazione e la condivisione. E le bollicine.
Alan de Herrera Giungla e food
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a iniziato come documentarista, girando reportage in giro per il mondo: squali, giungla, missioni umanitarie a guerre. A volte alternava la videocamera con la macchina fotografica, di sicuro non avrebbe mai immaginato di arrivare un giorno al food: fare giornalismo embedded accanto ai marines è tutto quello che può essere più lontano dal mondo del cibo. Da Guantamano alla Coca Cola. Si è avvicinato quasi per caso, nel 2006, tranne poi prendere gusto: libri su libri (dodici), campagne pubblicitarie (Jack Daniel’s, Coca Cola, Subway), piatti di grandi chef (Ramiro Arvizu, Jaime del Campo, Guy Fieri, Gianfranco Chiarini, Stephane Treand) “Sono affascinato dalla natura e dai progetti umanitari, così come dai viaggi e, ultimamente, dal cibo: per una bella foto ci vuole la composizione, lo stile, l’improvvisazione e un grande soggetto, inteso come materie prime”. Vive a Laguna Beach assieme al suo cane Rio: particolare non da poco visto che la sua email è riofilms@.
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Steve Hansen Il guru tuttofare
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ersonal chef, food stylist, digital artist. Steve è tutto questo ed eccelle in ognuno dei tre settori. Vince premi, sbalordisce, impressiona, fa parlare di sé e dei suoi lavori. E’ una macchina di marketing, spaziando dal packaging fino ai video pubblicitari. Decine di aziende, alcune multinazionali, vanno da lui come da un guru, mettendosi nelle sue mani: i risultati sono assicurati. Vale anche per i ristoranti: Le Cirque e Daniel, per citare i più famosi. Originario di Seattle, si è sempre occupato di food: difatti ha studiato al Culinary Institute of America, dove si è laureato in arti culinarie. Gli è stato d’aiuto perché in ogni scatto ha la prospettiva del cuoco e in più l’occhio fotografico. Il massimo. E’ tutto iniziato a San Francisco, dove lavorava come private chef: è lì che ha avuto la scintilla, iniziando a costruire una carriera a tavolino. Si è messo a studiare food styling, photoshop, le luci, perfino cinematografia. Solo così ha potuto poi cimentarsi nella pubblicità, il livello più alto del settore: il cliente è molto esigente, quando si tratta della propria immagine. Lo studio fotografico è arrivato quasi come un must: “Ce l’hanno in pochi, quasi tutti preferiscono lavorare in esterna, però mi serviva per poter gestire al meglio i lavori, per preparare la scena”, ci racconta. Agli inizi amava scattare paesaggi, altro che food. “Però paesaggi drammatici, nella parte ovest degli Stati Uniti, oltre a essere di una
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Il mio stile? Mi piace l’abbondanza, caricare con dei dettagli e dei contrasti. Poi preferisco le immagini che danno un senso dell’urgenza e del movimento
bellezza folle ti impongono di concentrarti e di dover lavorare in circostanze particolari”. “Il mio stile? Mi piace l’abbondanza, caricare con dei dettagli e dei contrasti. Poi preferisco le immagini che danno un senso dell’urgenza e del movimento. Uno stile è la somma degli errori e dei metodi che hai usato e utilizzato”. “Non ho un fotografo al quale ispirarmi, i miei artisti preferiti sono dei pittori, musicisti, scultori e chef. Mi sembra importante prendere ispirazione
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da altro, che non sia fotografia. Mi piacciono i piatti di Dominique Ansel e Daniel Boulud, i quadri di Monet e Dalì”, continua. Per poi concludere: “Solitamente lavoro poco con gli chef, perché ormai faccio quasi sempre advertising. Però mi piacerebbe collaborare con Thomas Keller, MassimoBottura e Victor Arguinzoniz, oltre che il sopracitato Ansel”. Anche a noi piacerebbe vedere le immagini scattate da Steven nei loro ristoranti.
X Oven
Ristorante Cenerè
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e non lo avete visto, ve lo consigliamo. Il film The Founder racconta la nascita di McDonald’s, una delle aziende icona del mondo americano e capitalista, ovvero il massimo del massimo. E’ una lezione di marketing straordinaria, dall’inizio alla fine, dal primo all’ultimo frame e parola. C’è una scena che ci è rimasta impressa più delle altre: ad un certo punto i due fondatori cercano di ottimizzare i movimenti del personale in cucina, portandoli su un campo da tennis dove provare e riprovare le mosse da fare per non calpestarsi a vicenda. Ci vuole un po’, poi pian piano gli automatismi vengono in maniera naturale, fino a quando non diventano un esercizio tipo catena di montaggio: una specie di fordismo in piccolo. La scena ci è tornata in mente di recente mentre guardavamo il forno dell’azienda XOven: in pratica riesce a fare per tre, quattro persone, con dei risultati straordinari. Così, la cucina può essere progettata in maniera diversa, c’è bisogno di un minor spazio e soprattutto ci vogliono meno addetti ai lavori, il che significa un risparmio di soldi e di persone. Il massimo, per un imprenditore. L’attrezzo è impressionante: nasce da una intuizione di Enrico Piazzi, ristoratore-inventore che ha avuto l’idea di sostituire il tradizionale portellone frontale dei vecchi forni a brace con un sistema a cassetti griglia laterali estraibili, singoli o multipli disposti a diverse altezze e quindi in grado di cucinare a temperature diverse piatti differenti. Così capita di iniziare la cottura della carne da una parte per poi finirla da un’altra, idem per le patate e la verdura, che fra l’altro la si può perfino essiccare. L’azienda, fondata nel 2013, produce e distribuisce a livello internazionale.
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Giocattolo per chef
Breve elenco degli chef che utilizzano il forno XOven: Lorenzo Cogo, entrato nella storia come il più giovane italiano ad aver conquistato la stella Michelin (aveva 25 anni). Il cuoco vicentino non sa più farne a meno, nel suo nuovo ristorante in Piazza Garibaldi. Perfino Enrico Cerea ne fa uso, seppur non sempre nella cucina del suo tristellatissimo “Da Vittorio”. Lo si trova perfino a Londra, da Locanda Locatelli, ristorante storico (una stella Michelin). Andando oltre, da segnalare l’accordo dell’azienda con alcuni punti Autogrill, così come con il Marriott di Berlino e con Pierchic di Dubai, uno dei ristoranti più scenografici e romantici al mondo: all’interno dell’albergo Jumeirah, con vista sul famoso Al Burj. Noi abbiamo potuto assaggiare le pietanze preparate con XOven andando da Cenerè, ristorante appena aperto in Piazza Virgilio, in pratica un rinnovamento dell’Acero Rosso (la proprietà è rimasta la stessa ). Intanto complimenti, perché in un mese e mezzo hanno finito i lavori, creando un locale di ampio respiro internazionale: bella atmosfera, cucina a vista e, ovviamente, il forno XOven che funziona a pieno regime. E’ sbalorditivo quello che riesce a fare, dai gamberi grigliati alla carne dal pesce alle patate. Lo chef Daniele Tursi, mano sicura e idee chiare, lo usa come se ce l’avesse da sempre. Perché l’attrezzo si fa anche guidare, oltre che stupire.
L’attrezzo è impressionante: nasce da una intuizione di Enrico Piazzi, ristoratore-inventore che ha avuto l’idea di sostituire il tradizionale portellone frontale dei vecchi forni a brace con un sistema a cassetti griglia laterali estraibili
Ristorante Pierchic, a Dubai
Remko Kraaijeveld
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uno dei nostri preferiti, in assoluto. Premi ovunque, clienti, riconoscimenti: ci mancherebbe altro, visto come lavora. E’sempre un passo avanti rispetto agli altri: oggi lo stile che propone viene spesso copiato e di conseguenza è meno d’impatto, ci siamo abituati a questo genere di foto che, anni fa, fu una sua intuizione. Olandese, punta molto sul minimalismo, come d’altronde quasi tutti i fotografici nordici. Essenziale, tenebroso, riconoscibile: Remko.
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Ars Italia Stelle e caviale
Risotto con pesto di pinoli, lattuga di mare, telline e caviale Oscietra Royal
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etti insieme uno chef bistellato e un’azienda di prim ordine come Ars Italia: la cena può essere solo maestosa. Guardate le tre immagini che abbiamo selezionato: facile immaginare il livello della serata organizzata al Mudec, il ristorante di Enrico Bartolini, uno di quelli che, da almeno quattro anni, viene dato come possibile tristellato. Per chi ha poca dimestichezza con i suoi principi, rieccoli, dettati proprio da lui: “Gusto, tecnica ed estetica: vale per me, mentre per il cliente il percorso è opposto. Prima c’è l’impatto visivo, poi scopre la tecnica dell’impiattamento e solo dopo il gusto”. Ars Italia non poteva scegliere ambiente e partner migliore, per il lancio della propria “collezione” di caviale. Fin dall’inizio è stato tutto pirotecnico: il bocconcino perfetto era lì, sotto i tuoi occhi, quasi a rassicurarti sulla serata e a invogliarti ancor di più. Pane, burro, Caviale Sevruga Imperial e nocciole, ovvero la semplicità e la qualità in un morso soltanto. Rewind: il nostro primo incontro con lo chef avvenne cinque anni addietro, quando regnava al Devero. Ricordiamo come ora, gli avevamo chiesto cosa si prepara quando si trova a casa sua: “Un attimo”, disse, per poi tornare con pane nero, burro di Normandia e alici. Ecco, ora ha sostituito le alici con il caviale Ars Italica, per il resto la sostanza è rimasta la stessa. Dopo il pane arrivò il turno della classica melanzana alla brace, amuse bouche che è diventato un must e un evergreen quando ti siedi da Enrico.
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Pane, burro, Caviale Sevruga Imperial e nocciole
Il seguito è stato un crescendo rossiniano, partendo dalla zuppetta di uva fragola, cioccolato bianco, cipollotto e Caviale Oscietra Imperial “puro sale”. Il manzo piemontese con emulsione al curry, sorbetto di mandorle e Caviale Sevruga Royal ha fatto calare il silenzio totale, perché ogni boccone lo volevi degustare in religioso mutismo. Standing ovation per il sorbetto, che in realtà era più un gelato cremoso, cremosissimo. Per quello che riguarda la carne, altro flash da un recente incontro con lui: “Dopo aver preso la prima stella ho notato, analizzandomi, un cambio di mentalità. Se prima assaggiavo dieci tipi di manzo, ovviamente tutti di altissima qualità, la tendenza era di scegliere quello meno costoso. Dopo la stella, in maniera quasi involontaria, sceglievo quella più costosa perché, ovviamente, era anche la più pregiata”. Si è continuato con il risotto con pesto di pinoli, lattuga di mare, telline e caviale Oscietra Royal, per concludere con uno storione strepitoso, con ristretto di cocco (ottima intuizione) e pepe verde, il tutto “condito” con il caviale Da Vinci Royal. A dire il vero, l’intera serata è stata royal. Molto royal.
Ristorante: Mudec. Chef: Enrico Bartolini. Livello: superlativo. L’azienda ha scelto il partner ideale per lanciare la sua prima “collezione”
Manzo piemontese con emulsione al curry, sorbetto di mandorle e Caviale Sevruga Royal
ITALIAN CAVIAR
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’ iniziato tutto una quarantina di anni addietro, all’interno di quello che sarebbe in futuro diventato il Parco del Ticino, ovvero il primo parco regionale creato in Italia (1974). La famiglia Mandelli, origini trentine, converte una tenuta di caccia di circa 300 ettari di superficie in un’area destinata all’allevamento di trote, bovini ed agricoltura tradizionale. Poi, alla fine del millennio, ecco la genialata: alcune aree della tenuta vengono trasformate in allevamento di storioni, pesci più adatti ad acque calde. L’idea di riprodurre gli storioni e di sperimentarne fu condivisa con la famiglia Giovannini, proprietaria di circa 50 riproduttori selvatici nell’Adriatico. Nel dicembre 2001, avviene l’unione di intenti fra le due famiglie con l’obiettivo di produrre un caviale di eccezionale qualità, avendo un totale controllo su tutta la filiera. In seguito si è aggiunto un terzo socio, Agroittica Lombarda s.p.a., azienda già affermata a livello mondiale nell’allevamento dello storione bianco del Pacifico e produttrice di caviale italiano. Così, nel giugno 2008 nasce Italian Caviar s.r.l., azienda commerciale esclusivista di tutta la produzione di storioni cresciuti nel Parco Lombardo della Valle del Ticino. Il risultato? Guardatelo nella fotografia di Modestino Tozzi.
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King (s) Cracco 110 di questi anni
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l 16 novembre scorso è stata la prima giornata di Carlo Cracco come semplice stellato, è stata la prima giornata da declassato. Poteva e aveva mille motivi di essere su tutte le furie, deluso, depresso, quello che volete. Ci stava. Poteva anche inveire contro la Michelin. Eppure. Quella sera stessa da lui alla Segheria c’era un evento che lo vedeva protagonista: un’azienda (la prosciutteria King’s) si era affidata a lui per festeggiare 110 anni di vita. Ha fatto almeno due cento foto, sempre sorridente come se niente fosse accaduto. Mai un cenno di nervosismo, mai un attimo di fastidio, anzi. Poteva concedersi per tre foto e via, invece ha perfino firmato autografi e si è intrattenuto con gente che mai aveva visto nella vita. Si è comportato come se avesse preso la terza. Diciamo la verità, gli organizzatori e forse anche l’azienda stessa temevano un atteggiamento al limite dello scontroso. Forse altri si sarebbero comportati proprio così: lui no. E’ qui che si vede la stoffa, stelle o non stelle. Perché l’assegno lo avrebbe incassato lo stesso, se volete appuntare che per i soldi uno deve sorridere e stringere mani. Si, certo, ma lo puoi fare tirato, palesemente scocciato, oppure farlo come Carlo: pareva davvero felice di trovarsi lì. Certo, avrà inciso il nome dell’azienda, Kings, gente vicentina come lui, prosciutteria che fa parte dell’infanzia dello chef. “Quando ero bambino c’erano poche aziende e poca scelta, da noi era normale trovarsi i loro prodotti a tavola. Poi quando ho iniziato a muovermi nel mondo della ristorazione ho continuato a preferirli agli altri perché espressione del nostro territorio”. Sono passati trent’anni da quei giorni ed eccoci ai nostri tempi, con la famiglia Dukcevich che decide di festeggiare i 110 di vita e successi proprio da lui, Carlo Cracco. “Storicamente siamo riconosciuti come l’azienda del Prosciutto di San Daniele nel Cestello, grazie al caratteristico contenitore di vimini che da sempre racchiude come uno scrigno le nostre meraviglie”, sostiene Vladimir, figlio di Mario, padre padrone e amministratore delegato della Kipre Holding, società di partecipazione e servizi della famiglia Dukcevich. Piccolo elenco dei prodotti dell’azienda di Sossano Veneto: da una parte i DOP, come il Prosciutto di San Daniele, il Prosciutto Veneto e il Prosciutto di Parma, e dall’altra le specialità, come il Rebello, il Val Liona, il Granspeck, lo Snocciolato, lo Sbucciatello e l’Original 1907. Durante la serata è stato presentato l’ultimo gioiello della Kings, ovvero il Prosciutto Veneto Berico Euganeo Dop: gusto pieno, rotondo, elegante, avvolgente. E’ stata l’occasione ideale per lanciare prodotto del genere. A proposito di Cracco, per concludere il discorso: quella sera ha guadagnato mille punti, umanamente parlando. E’ stato grande, grandioso. Come i prodotti della Kings.
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Durante la serata è stato presentato l’ultimo gioiello della Kings, ovvero il Prosciutto Veneto Berico Euganeo Dop: gusto pieno, rotondo, elegante, avvolgente
Chef&maitre La casa dei cuochi
La Moussaka scomposta di Opera Viva
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Ci reputiamo dei facilitatori di incontri che si possono concretizzare nell’immediato su larga scala e soprattutto grazie al migliore strumento di comunicazione al mondo, i social
na volta si diceva che i libri di ricette fossero prettamente uno strumento di lavoro, nel senso che gli chef, quasi sempre presi dal proprio ristorante, non riuscivano a viaggiare e ad assaggiare i piatti altrui. In pratica, acquistavano i libri per imparare, capire cosa stessero facendo gli altri, le loro filosofie, le tecniche e altro. Idem per le riviste di settore, la gran parte ideate per gli addetti ai lavori, cuochi e dintorni. Le pagine con le ricette erano le più seguite, proprio per i motivi raccontati prima. Ora sì, il meccanismo funziona ancora, però la rete ha cambiato le carte in tavola, velocizzando il tutto. Non devi aspettare l’uscita del nuovo libro di uno chef, basta cliccare, entrare in uno dei tanti siti e portali dedicati. A noi piace, e tanto, www.chefemaitre.it. Lo seguiamo soprattutto su Facebook ed è uno spettacolo: dalla mattina alla sera, sette giorni su sette, c’è un continuo di ricette casalinghe e stellate. Torte, carpacci, bolliti, piatti creativi e classici, dolci e pizze. Di tutto di più, in un tripudio di colori ed entusiasmo. Quasi duecentomila iscritti, numeri da capogiro se si pensa che nessuno ci arriva per caso. E’ una comunità che partecipa attivamente, che vuole sapere il più possibile sui colleghi, sulle nuove aperture e sulle ricette. Postano, leggono, interagiscono: un mondo ideale, una Disneyland per gli amanti della cucina. C’è chi si vanta per il proprio pane appena sfornato, chi esalta piatti assaggiati in un ristorante. Un target trasversale che è la chiave di lettura, il segreto del successo di Chef e maitre. Per saperne di più, sentite il fondatore Massimiliano di Stefano: “Ci reputiamo dei facilitatori di incontri che si possono concretizzare nell’immediato su larga scala e soprattutto grazie al migliore strumento di comunicazione al mondo, i social. Tutto è nato grazie alla passione per il food: lavorando nel campo dell’abbigliamento professionale sono stato sempre legato sia per lavoro che per passione a questo settore. L’idea è di diventare il primo network in Italia sul web, al momento siamo il primo al mondo sui social. I professionisti hanno un’alta considerazione del brand e tutti ne vogliono fare parte, questo per noi è già motivo di orgoglio e soddisfazione, perchè siamo un network con le mani libere. Fra gli iscritti abbiamo tantissimi stellati, alcuni in incognito, ormai tutti conoscono chef&maitre social e il blog : non è una cosa circoscritta in Italia, ma in tutto il mondo anche se l’Italia è prevalente. Chef&maitre sta diventando uno strumento utile, sono tanti gli appassionati che imparano grazie alla naturale partecipazione degli utenti scambiandosi consigli e prendendo spunto fra loro. Stiamo andando verso una direzione che è quella del networking : abbiamo
creato un “laboratorio” che&maitre Lab per l’appunto, dove i professionisti realizzeranno i loro lavori con ricette uniche, utilizzando i prodotti che verranno fatti recapitare dalle aziende aderenti al nostro circuito. E’ un modo di fare sinergia volta a creare delle opportunità per le aziende di entrare nei migliori ristoranti d’Italia, basta andare e dare un’occhiata su www.chefemaitre. com/blog Il professionista che partecipa anche a livello social su chef&maitre gode di una visibilità importante dove con un semplice click 300mila attori e appassionati del settore possono conoscerlo, stessa cosa per le aziende aderenti al Lab.E’ bellissimo vedere tantissimi appassionati e professionisti crescere , nella tecnica, nella presentazione dei loro lavori e nello scatto fotografico che sui social è il primo biglietto da visita , ovvio che poi c’è tutto il resto, ma l’estetica per noi è livello, pulizia, professionalità, passione e gusto. Un nostro moto? Scegli un lavoro che ami e non dovrai lavorare neppure un giorno in vita tua. Sottoscriviamo. Gnocchi di tuberi, Rafael Rodriguez
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Versace, my love Solo per intenditori Mentre scorrevano le immagini della serie tv, ci immaginavamo Gianni Versacesorseggiando il caffè proprio dalle tazzine che pubblichiamo qui sotto. Iniziarono a produrle nel 1992
Foto: Monica Cordiviola
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orse è una coincidenza, però probabilmente no. Nella stessa settimana dell’inizio di “American Crime Story-The Assassination of Gianni Versace”, serie tv in onda su Fox Crime, siamo rimasti folgorati (si, folgorati) dalla nuova collezione di tazzine della maison, creata in collaborazione con Rosenthal. Una edizione speciale per i 25 anni di partnership: è per davvero speciale, visto che la finissima porcellana viene rivestita di oro e argento, il tutto ispirato dalla scala di marmo del Palazzo Versace. Nel primo episodio della serie americana lo stilista scende a fare colazione, la sua ultima, nel cortile della casa di Miami, la famosa Casa Casuarina, situata nell’Art Deco Historic District, lungo l’Ocean Drive, meta di curiosi e turisti già a quei tempi, poi trasformata in un albergo, villa di una straordinaria bellezza. Mentre scorrevano le immagini della serie, ci immaginavamo Gianni sorseggiando il caffè proprio dalle tazzine che pubblichiamo qui sotto. Iniziarono a produrle nel 1992, si presume che ne avesse alcune anche a Miami: per un attimo ci siamo immedesimati, provando a immaginarci in mattinata al bordo della piscina, proprio come lui, gustandoci un espresso intenso e sfogliando i quotidiani. Probabilmente il momento più bello della serie, per edonisti puri, per esteti raffinati. L’edificio è stato costruito negli anni trenta dall’erede della Standard Oil, che ci passava le vacanze estive assieme al fidanzato, architetto di giardini. Fu disegnata in omaggio al palazzo del governatore di Santa Domingo: vista sul mare, dieci camere da letto, piscina, un salone di 250 metri quadrati. Per la cronaca il nome, Casuarina, deriva dalla raccolta di novelle di Somerset Maugham, “The Casuarina Tree”. Fu acquistata da Versace per dieci milioni e ristrutturata con altri trenta. Oggi l’albergo appartiene al magnate americano Peter Loftin, si chiama V e tutte le meduse, i mosaici, gli affreschi sono rimasti identici. Mentre stiamo scrivendo pare che i coniugi Beckham abbiano acquistato la villa per 60 milioni: lo speriamo per loro. Chissà se i Beckham si siederanno al bordo della piscina a sorseggiare il caffè dalle tazzine Versace…
Foto: Monica Cordiviola
Foto: Monica Cordiviola
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Marco Pierre White Il libro dei libri
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amilla Baresani sostiene che solo scrivendo un libro hai la possibilità di dire quello che pensi. Tradotto, sui giornali non si può: il direttore non vuole grane, scatta l’autocensura, impera la dittatura del politically correct e mille altri impedimenti più o meno assurdi. La stampa muore per colpe solo sue. Poi certo, uno deve anche la personalità e il coraggio di esporsi, qualità che a Marco Pierre White, il più giovane chef ad aver conquistato tre stelle Michelin non manca. Il suo ultimo libro, “La vita dannata di uno chef stellato”. Frasi cult, concetti chiari, alcun giro di parole. Sarebbe bello un mondo pieno di gente come lui. Qualche estratto. “Essere autodidatta è una macchia impossibile da lavare per uno chef che voglia far parte dell’elite. Nel mondo reale è un po’ come dare a uno del bastardo”. “Alcuni trovavano curioso che avessi vinto tre stelle Michelin senza aver mai messo piede sul suolo francese. I giornalisti venivano a intervistarmi e mi chiedevano di parlare del miglior pasto che avessi consumato in un ristorante d’Oltremanica. “Non so che dirvi”, rispondevo. “Non sono mai stato in Francia”. Mi limitavo a dire: “Beh, che ci volete fare? Sarà la prova che non occorre andare in Francia per vincere tre stelle Michelin”. Ah, facevano loro, e passavano alla domanda successiva”. “Riflettei sul fatto che avevo passato la mia intera carriera a farmi giudicare da persone che ne sapevano meno di me, che fossero ispettori o critici gastronomici. C’erano altre ragioni per cui avevo deciso di appendere il grembiule al chiodo. Il continuo processo di rielaborazione dei piatti, della ricerca della perfezione, mi aveva esaurito. Non volevo spingermi oltre. Le tre stelle non bastano a garantire un pò di tranquillità, perchè bisogna migliorarsi costantemente. La gente ti considera uno chef affermato e le sue aspettative diventano sempre più alte. Si tratta di spingersi oltre i
Un ristorante stellato deve rendere onore alla sua fama, altrimenti é inutile che resti aperto No 44
limiti. Purtroppo, però, non c’è mai fine a un processo del genere”. “Perché mai, vi chiederete, questi poveri giovanotti continuavano a lavorare per un despota violento come me? Buona domanda. E molti non solo continuarono a lavorare come me, ma rimasero per anni, fino al giorno in cui mi ritirai, nel 1999. Il fatto é che le sgridate non erano cose personali. Servivano a creare un breve-a volte non tanto breve- attimo di shock. Una mia scenata fungeva da sveglia. Era la tazzina di espresso di cui avevamo bisogno. Nel bel mezzo del servizio non avevo tempo di dire: “Arnold, scusa, ti spiacerebbe accelerare, per favore?”. Non potevo distrarmi e astrarmi dai miei doveri per dire educatamente: “Gordon, quando ritieni che sarà pronta quella faraona, amico?”. Il messaggio doveva arrivare forte e chiaro. Tutti lo capivano” “Al fine di realizzare il mio sogno credevo di aver bisogno di una brigata dalla disciplina militaresca e, come avevo imparato al Gavroche, la disciplina era figlia della paura. Quando hai paura, ti fai delle domande. Se non hai paura di qualcosa non ti interroghi alla stessa maniera. E se hai paura in cucina, non prendi scorciatoie. Se non temi il tuo capo prenderai delle scorciatoie, ti presenterai in ritardo. La mia brigata doveva soffrire, spingersi oltre i limiti- solo così avrebbe scoperto fin dove poteva spingersi. Io li costringevo a prendere delle decisioni. Se se ne andavano, tanto meglio: avevano deciso che una cucina stellata non era cosa per loro”. “Un ristorante stellato deve rendere onore alla sua fama, altrimenti é inutile che resti aperto. Quante volte siete usciti a cena e vi è capitato di mangiare un ottimo antipasto e un ottimo dolce, ma una portata principale così così? Non posso permettermi di mostrare alcuna debolezza. Qualunque essa sia, dal pane all’amuse bouche, dall’antipasto al piatto di pesce, dalla portata principale al dessert, dal caffè ai petit fours, dai cioccolatini al formaggio, tutto deve essere di suprema qualità. Costantemente”.
FAB
Food PAIRING
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iete rilassati. Anzi, rilassatissimi. Avete ancora nella mente le sue labbra ebbre di piacere e il languore del suo corpo. E’ stata una giornata straordinaria. Fuori fa freddo. Cercate un posto cool, silenzioso, chic, elegante ma non troppo, dove godervi un’ora con voi stessi. Volete un cocktail sofisticato, intrigante, forte, dal gusto sublime e raffinato. Entrate da Fab, sui Navigli, zona diventata finalmente urbana e civile, quasi un’oasi di felicità. Ordinate un Lateral Thinking, a base di cognac e whisky affumicato che induce alla lentezza e ti inonda la testa. Arrivano anche le mini portate creative e cromatiche preparate da Gigi Rana. Ispirate, pittoriche, gustose, intuitive, passionali. Il food pairing è servito. Sono parole magiche per chi vive sognando ad occhi aperti. E’ una specie di incantesimo, dove si incontrano mixologist e chef. Il risultato? Fuochi d’artificio, piaceri inebrianti, contrasti e accostamenti, sensazioni e gusti mai provati prima. Il locale di Fabio Federico è stato creato appositamente per gli eterni romantici del food e dei piaceri della vita: a breve, con l’arrivo della primavera, sarà pronto anche il dehors. Per ora puoi “nasconderti” solo all’interno. Il bar è assai piccolo, stretto, però rilassante e piacevole, coinvolgente. Il personale, gentilissimo e preparato. L’idea di base è che puoi scegliere un cocktail in funzione del tuo umore: si va dalla proposta malinconica a quella allegrissima. Si dice vada per la maggiore “Never a joy”: siamo a Milano, la gente si lamenta sempre, lo si sa. I grandi classici sono reinterpretati in maniera creativa e audace, spesso spiazzante: la “mente” è proprio lui, Fabio, il patron. In cucina invece impera il genio di Gigi, uno che ha l’argento vivo addosso: inventa in continuazione e lo fa spesso divinamente. Ha la testa “stellata”, con lui non corri il rischio di annoiarti. Piccolo elenco sparso: tartare di fassona con bietola e zenzero (da abbinare ad un gin tonic), filettino di maiale (perfetto con il Bloody Mary, il “loro Bloody Mary), crema di patate con fegato d’oca e quinoa saltata (ideale per un Mezcal), la battuta di gambero rosso e melagrano, caponatina. Volendo ci sarebbe anche l’hamburger , sempre Rana style, ovvero gourmandissimo. Perché oltre alle mini degustazioni (che poi tanto mini non sono) trovi anche dei piatti veri e propri, così come dei dolci intensi e decisi. Lasciatevi conquistare dal piacere. Da Fab.
Ordinate un Lateral Thinking, a base di cognac e whisky affumicato che induce alla lentezza e ti inonda la testa. Arrivano anche le mini portate creative e cromatiche preparate da Gigi Rana. Ispirate, pittoriche, gustose, intuitive, passionali.
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La grande fuga Futuro, non passato
Nei ristoranti storici si batte la fiacca, c’è odor di polvere, il menù non attira, fra l’altro senza che i patron se ne rendessero conto
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vete fatto caso? A Milano le trattorie e i ristoranti tradizionali sono stati scavalcati, sono in via di estinzione, c’è la grande fuga, nessuno sotto i 40 anni vuol più mettere piede in un ristorante del genere. Giustamente , diremmo. Il presente vince a mani basse, è un mondo a colori, scintillante, pieno di soldi e sogni. Chi invece finge di non capire l’andazzo, aggrappandosi ciecamente alle frasi di legno, alla retorica cheap, alle tradizioni capite male e al mondo di una volta, sta soccombendo (altrettanto giustamente). Vale per la ristorazione come per qualsiasi altro settore di attività, vita privata compresa: il passato è un peso, è come camminare con un armadio sulle spalle, ti appesantisce, ti impedisce di sorridere e di guardare avanti con leggerezza. Si sente subito quell’atmosfera ammuffita nei ristoranti di una volta, a parte pochissime eccezioni (Giacomo eccelle ed è sul nostro podio personale, l’appena fallito Bagutta è invece il bocciato dei bocciati). I bicchieri, i piatti, le mura ingiallite, tutto ti porta alla disperazione, manca quel charme coinvolgente e di conseguenza la voglia di spendere. Sono pesanti. E poi chi mai vuole oggi la cucina toscana o lombarda (perché anni fa a Milano c’erano solo questi due tipi di ristorazione), per di più in un ambiente triste e polveroso? I numeri dicono che nessuno o quasi, non a caso ce ne sono a migliaia quelli che stanno chiudendo. In Italia si fatica a dirlo chiaro e tondo, si mente come al solito per non toccare la sensibilità di uno o l’altro (e basta con tutte queste anime sensibili, qui si tratta di affari), ma per fortuna esistono i numeri crudi. La gente prende d’assalto i nuovi ristoranti belli e luminosi, abbandonando e bocciando i posti dove non si
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investe per modernizzare il proprio locale: nessuno vuole passare il tempo libero in un ambiente buio e privo di energia positiva. Chi guarda indietro è perduto, ma vai a spiegarlo ai paladini del mondo di una volta, quando fra l’altro si stava decisamente peggio, perché mai nella storia si è vissuto così bene (parliamo di ristorazione, ma non solo: nessuno è così fuori di testa da voler tornare ai tempi di Rai 1 e l’Unità). Morale? Chi rimane attaccato al passato è un morto che cammina. E poi, diciamolo: nei ristoranti storici si batte la fiacca, c’è odor di polvere, il menù non attira, fra l’altro senza che i patron se ne rendessero conto. Spesso i piatti sembrano preparati da manine dispettose, alcuni sono spugnosi e untuosi, mollicci. D’altronde, stare dentro lo stesso locale per decenni ti offusca i sensi, la mente, non hai più il giusto contatto con la realtà che cambia. Tyler Brulè, sul Financial Times si dichiarò costernato dal fatto che in un ristorante di Sankt Moritz si stesse per cambiare il menù, turbando le abitudini dei coloro che bazzicano la stube da anni e anni. “La gente ama vedere lo stesso cameriere, lo stesso arredamento, lo stesso ambiente, vuole l’abitudine”, sostiene, in maniera assai folcloristica e sorprendente per uno che vive nel lusso e produce riviste cool. Siamo sicuri? Forse vale per quelli che hanno messo piede per la prima volta quando avevano ancora i calzoncini corti e hanno passato decine di vacanze assieme ai nonni e ai genitori. Ecco, l’esercito delle famiglie che da generazioni va negli stessi posti, loro sì potrebbero essere turbate, ma si tratta di poche centinaia di persone. Però in questo modo non si attira alcun nuovo cliente. Guardando troppo al passato si ammazza il futuro.
Food is art La rivoluzione
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a quando l’espressione “Food is art” é diventata uno slogan, il mondo dell’arte è tutto un sotto sopra. Sono nervosi, irritati e fin qui nulla di nuovo, lo si sa come sono fatti: presuntuosi, permalosi, privi di umorismo, convinti di essere superiori a prescindere, una specie di diritto divino di avere la ragione in tasca. Qualità poche, difetti tanti, vengono letti da due gatti e presi in considerazione da nessuno (ovviamente non parliamo di Sgarbi e Daverio, loro si che sono giustamente seguiti e ascoltati). Vivono con questo ridicolo complesso di superiorità e, per arrivare al punto, non tollerano che il mondo dell’alta ristorazione abbia rubato loro la scena. Se l’alta cucina possa o non possa essere riconosciuta come arte lo devono decidere loro e solo loro. Insomma, si sono sentiti scavalcati e di conseguenza schiumano rabbia e frustrazione (sai che novità). La visibilità straordinaria del mondo della ristorante e degli chef ha mandato in manicomio gli intellettuali, convinti che non si deve muover foglia senza il loro assenso (si,ciao pep). Nessuno si è preso la briga di chiedere a loro se per davvero “food is art”: apriti cielo, lesa maestà, l’hanno presa male, malissimo, come un crimine contro l’umanità. Tradotto, sarebbe più o meno così: “Come si permettono questi qui di conquistare le prime pagine, le prime serate in tv, l’amore e l’apprezzamento della gente? Chi sono loro, per invadere il campo dell’arte, dove siamo noi a decidere?”. E pazienza se nessuno presta attenzione ai critici, mentre agli chef sì. Il punto è proprio questo. Sbraitare oggi, sbraitare domani, ecco che pian piano qualcuno, per pietà o per puro interesse, si è preso la briga di intervistarli, spesso malvolentieri (i soggetti non sono facili da maneggiare, contano due di picche ma esigono attenzioni particolari). Apriti cielo parte seconda: non aspettavano altro. Logorroici come sono, hanno iniziato con dei discorsi da convegno, quelli dove la platea si addormenta subito. Man mano che leggevi iniziavi a provare un’orticaria assai fastidiosa. Un fiume di frasi autoreferenziali, tanto da spostare subito le luci sul critico e non sullo chef. “Come ho ben spiegato nel mio primo libro sull’argomento”, e bla bla bla. Va da sé che nessuno mai abbia aperto oppure acquistato il tomo del suddetto. Al netto della loro insopportabile boria, dopo fiumi di righe e parole spese esclusivamente per guardarsi allo specchio e auto complimentarsi, qualcosa di interessante si può trovare. Breve elenco: lo chef, oltre a essere un artigiano e un businessman, propone nuovi metodi di manipolare le materie prime. In più, ha il compito di sorprendere e di stupire, interagisce con il mondo del design e la tecnologia, per certi versi sono simili ai movimenti rivoluzionari dell’arte, sono all’avanguardia. Vi abbiamo risparmiato la fatica di centinaia di pagine boriose e tristi, riducendo all’osso i concetti: se un giorno capiranno come parlare alla gente, la stessa gente capirà a cosa servono i critici. Nel caso servissero.
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Lo chef ha il compito di sorprendere e di stupire, interagisce con il mondo del design e la tecnologia
Mc Donald’s Splendere ancora
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iamo tutti cresciuti con il McDonald’s. Nella stragrande parte del mondo c’è l’ammirazione totale per la multinazionale americana, in Italia ci sono state e continuano ad essere alcune ridicole resistenze ideologiche, ma tant’è, il mondo va avanti nonostante le loro isterie militanti. Un colosso, un punto di riferimento per il capitalismo e per il Made in Usa. Certo, ci sono ristoranti migliori, ci mancherebbe, ma nessuno nella storia è riuscito a creare un tale mito e ancor meno di diventare un luogo di aggregazione, giovanile e non. Qualcuno storcerà il naso, pensando che probabilmente non dovremmo occuparci di loro, vista l’impostazione della rivista, piena di chef stellati e ristoranti sognanti. McDonald’s però non è un fast food qualsiasi, non è junk food: è un mondo, una filosofia vincente. E’ la storia. Del capitalismo e della ristorazione. Non a caso di recente se ne è occupato anche il Financial Times. L’articolo di Anna Nicolau è straordinario. In breve: il nuovo amministratore delegato, Steve Eastbrook, è riuscito a riportare da McDonald’s gran parte della clientela che, a partire dal 2012, aveva iniziato di abbandonare la catena. Ft parla di mezzo miliardo di persone in meno: numeri impressionanti. Già immaginiamo i caroselli dei salutisti invasati, che si pregustavano la sconfitta e la sparizione del colosso degli hamburger. E invece no: con una strategia semplice, il nuovo Ceo ha riportato la gente alla base. Come? Riproponendo quello che la catena ha sempre fatto meglio. Per cui addio tentativi di accontentare “gli altri”, addio insalate tristi, si torna al core business, ovvero carne, carne e ancora carne. Addio hipster pallidi, addio gente urticante che vuole centrifugati senza gusto e insalate di quinoa, si torna ai pasti popolari e gustosi, ai prezzi bassi.”Reinvent McDonald’s as a modern, progressive burger company”, il suo mantra. Ha tutte le ragioni del mondo, anche perché, scrive Nicolau, i clienti disinnamorati non tradivano per andare a mangiare veg, ma si spostavano da Burger King o da Wendy’s. Non da Chipotle Mexican Grill, una specie di fast casual che ti fa pagare di più con la scusa di mangiare più sano: no, anche se c’erano dei timori per una fuga del genere. Semplicemente la gente voleva ancora il fast food, ma non quello proposto da McDonald’s: non si riconoscevano più in
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un menù assai folcloristico e ancor meno apprezzava i nuovi prezzi. Si torna dunque a splendere, negli ultimi mesi le azioni della compagnia hanno aumentato il proprio valore del 70 per cento, le previsioni parlano di altri rialzi. Il piano di Eastbrook prevede un investimento di 1,1 miliardi di dollari per modernizzare migliaia di ristoranti sul territorio statunitense. In Francia e Germania almeno un terzo dei locali è stato rinnovato: altri paesi seguiranno. Il mondo ha bisogno di un McDonald’s forte e potente, scintillante e vincente. E’ cool, chic e soprattutto un’arma potente contro l’avanzamento malato del mondo veg e affini. Che hanno dalla loro l’intera stampa progressista, qualsiasi cosa volesse dire la parola progressista.
McDonald’s però non è un fast food qualsiasi, non è junk food: è un mondo, una filosofia vincente. E’ la storia. Del capitalismo e della ristorazione.
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