Angelo Inglese Una camicia per Donald. Donald Trump
Marisol Dalle
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Marisol Dalle
Marisol Dalle
viaggi d’Aut ore
IL GIORNALE DEL VIAGGIATORE, articoli curati da studiosi, giornalisti e scrittori, su temi di attualità e di interesse storico, geografico, etnografico e naturalistico, corredati da spunti per viaggi e vacanze. Ed inoltre un supplemento con il calendario annuale di tutte le partenze del Tucano Viaggi Ricerca.
Editoriale
Sognare L’ATTIMO PERFETTO
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arebbe folle voler vivere il cibo e l’erotismo in maniera separata. Intanto perché non avrebbe alcun senso, poi perché non sarebbe possibile: la golosità punta diritta alla lussuria. Ci sono dei piatti che ti girano nella testa per giorni, in maniera molto piacevole: il motivo è semplice, vengono associati a delle persone, sensazioni e situazioni altrettanto piacevoli. L’altra sera non potevo togliermi dalla mente lo snack mille foglie di Andrea Asoli, un insieme di croccantezza e delicatezza, morbido e intenso allo stesso tempo. Fresco e sensuale, lo assaggiavi e i pensieri volavano ad un seno giovane, elegante, rosa, fiero, vellutato, un seno delicato, di un sublime gusto estetico, proprio come lo snack. Lo morsicavi e venivi conquistato dal piacere, mentre i pensieri volavano alle carezze del giorno prima, al capezzolo color rosso ciliegia e ai movimenti felini della donna. Da lì è partita anche l’idea dell’editoriale: sono quasi gli stessi gli aggettivi che utilizzo quando provo a raccontarvi piatti favolosi e donne fiabesche. Bocca arroventata, aroma unico, saporita come un bacio, piatto amoroso che richiede lumi di candele, labbra piene di fuoco, avventura eccitante, sprigiona seduzione, pungola il desiderio, forti raffiche di brividi, sublimi frivolezze, conquistato dal piacere, sublime gusto estetico, passione insaziabile, abbandonarsi alla seduzione: ecco alcune espressioni che mi piace usare
quando uno chef mi fa sognare con i suoi piatti, quando osa e si spinge oltre. Stesse parole che mi avvolgono e mi invadono la mente se si tratta di una bellezza mozzafiato. Ricordo una serata di qualche mese addietro in un ristorante argentino, Don Juan: ci andai con una ragazza argentina bella come nessuna. Quando disse “sabrosa como un beso”, la traduzione di “saporita come un bacio”, pensai di svenire all’istante. E poi ammettiamolo: quando ti esalti assaggiando un piatto, automaticamente i pensieri volano ad una donna, al suo corpo inlanguidito dal piacere, al suo sorriso, ai suoi occhi. Oppure pensi immediatamente che la vorresti portare con te. Ecco, difficilmente chi ama il buon cibo disdegna le bellezze femminili. E chi ammira la bellezza lo fa sempre, in tanti ambiti, compreso quello della moda. Sono tre elementi che dominano le pagine di Good Life, sono tre elementi che vanno di pari passo, sono la vita di molti di noi. Cenare in un ristorante favoloso assieme ad una donna stupenda vestita in maniera elegante e sensuale: il massimo. Sognare dei momenti che possano valere una vita: è il mantra di Good Life. Quando realizzo le pagine spero di farvi portare con i pensieri alla donna che tanto desiderate di invitare in uno dei ristoranti che trovate qui. Vale anche per le lettrici, ovviamente: in più sono sicuro che le donne, oltre a scegliere il ristorante, immaginano già un vestito che farà si che la serata diventasse un sogno interminabile Life is now.
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di Dominique Antognoni
Sommario
Good Life FOOD IS ART
Andrea Asoli UN PULEDRO DI RAZZA pag. 08
Matteo Bisol VENISSA, MY LOVE pag. 10
Elisa Dilavanzo LA REGINA DEL MOSCATO pag. 14
Paolo Cappuccio FOIE GRAS, MON AMOUR pag. 16
Leo Damiani IL PREDESTINATO pag. 18
Il visionario MARIO BOGLIOLI pag. 22
Angelo Inglese IO E DONALD pag. 24
Born to cook TERRY GIACOMELLO pag. 26
Anna Gambarova SHIFT EXPECTATIONS pag. 42
Good Life | dominiqueantognoni@yahoo.it
Beringer FIABA AMERICANA
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e favole esistono, eccome. Esistono ovunque, basta saper cogliere l’attimo e soprattutto essere leggeri, pronti ad abbandonarsi e avventurarsi, lasciarsi andare, crederci, volerci credere. Il romanticismo e le fiabe le trovi ad ogni angolo, forse ad alcuni manca la voglia di scoprirle, forse ci vuole un click per liberarli, scuoterli, farli guardare il mondo e la vita come un susseguirsi di momenti indimenticabili, per riscoprire il piacere del brivido, del desiderio, della passione insaziabile. L’azienda vinicola Beringer ha trovato la chiave, ha saputo che tasti toccare per farci sognare e ovviamente per farci avvicinare ai suoi prodotti e parlare di sé: una campagna pubblicitaria straordinaria, semplice, una storia d’amore permanente, quotidiana, dove ognuno può creare e postare la propria foto, basti che abbia un sussulto pieno d’amore e di fantasia. Il successo è stato immediato e meritato: oggi vedi spesso delle coppie di giovani innamorati che stanno imitando le immagini realizzate da Murad Osmann, fotografo specializzato in scatti e idee che viaggiano benissimo su instagram, riscuotendo un successo immediato. E’ tutto nato a Barcellona, dove il fotografo era in vacanza assieme all’allora fidanzata, ora musa e moglie, Nataly. Giovani, spensierati e felici ebbero l’intuizione di creare un momento diventato poi cult: lui la tiene per mano, standole dietro, in pratica si vede solo il suo braccio. Lei davanti, come se volesse volare. Da quel giorno è un continuo, un susseguirsi di viaggi e scatti che hanno il sapore della fiaba ottocentesca, quasi anderseniana: davanti al ponte di San Francisco con il cestino per il picnic, poi con il castello dell’azienda vinicola californiana come sfondo e via discorrendo. Hanno creato perfino un hashtag, followmeto.
Una campagna spettacolare, brillante, trasversale, rivolta ovviamente al pubblico giovane, una trovata geniale per avvicinarlo al vino: perché l’azienda è una che va forte, si trova a Napa Valley dal 1876, producendo Pinot Grigio,
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Chardonnay, Cabernet Sauvignon, Merlot, Pinot Noir, Sauvignon. Sono stati dei pionieri per molti versi, ora stanno diventando conosciuti anche ai non amanti del vino per via delle fotografie di Murad.
Geranium RASMUS E SOREN
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Di Copenhagen ne abbiamo parlato in più di una occasione e lo rifaremo senza’altro, perché la capitale danese è un gioiello che non smette mai di stupire e impressionare. Non importa l’età che abbiamo, l’estrazione sociale, gli interessi, gli hobby, le nostre ambizioni, il conto in banca, il ruolo che copriamo, il mestiere che svolgiamo: la città nordica piace a tutti, proprio a tutti. E’ chic, pulita, tecnologica, sorridente e poi si mangia divinamente. C’è una concentrazione di ristoranti stellati che non si trova da nessun’altra parte, a cominciare dal sovra esposto Noma, dove il rivoluzionario Rene Redzepi ha cannibalizzato l’interesse dei media e dei gourmet. Se Noma ha forse esagerato con le tecniche e la sua filosofia estremista ed estremizzante, da Geranium hanno trovato una via più morbida e ragionevole, più piacevole per il gourmet innamorato dell’alta cucina ma non del talebanismo spinto. Ricerca, e tanta, ma non fino all’esasperazione: questa l’idea intrapresa dallo chef patron Rasmus Koefoed, tre stelle Michelin e tre Bocuse d’Or all’attivo. Certo, nella sua cucina mancano quasi del tutto i grassi, ovvero l’essenza della cucina intesa in senso largo, però qui si viene per quello che si chiama in maniera ormai inflazionata un’esperienza, ovvero ti lasci nelle mani dello chef, pronto ad assaggiare piatti che non riuscirai a gustare altrove. E’ ovvio che non si tratta di un ristorante
dove tornare ogni giorno, forse nemmeno una volta al mese. Però almeno una volta nella vita lo si dovrebbe fare, una esperienza del genere: per capire come la pensano gli altri, per proiettarsi verso il futuro, per entrare in contatto con mondi diversi, per raccontarlo agli amici o per scriverlo su Good Life. Va detto che la filosofia di Rasmus è stata molto influenzata da Rudolf Steiner, padre dell’agricoltura biodinamica: così si spiegano alcune idee e molti piatti. Si può scegliere fra due menù, uno della durata di due ore e l’altro che ti fa stare a tavola una di più (venti portate, tutte delle acrobazie gastronomiche). Mangiare in base al tempo a disposizione fa un po’ effetto, però da queste parti ”time is money” non è solo una frase buttata lì, bensì l’essenza della vita (ok, in Italia il capitalismo non piace, pazienza). Puoi amare oppure no questo genere di cucina, però non puoi dir nulla sulla dedizione e la voglia di stupirti: gli amuse bouche ti stregano, e tanto. Idee, forme, presentazione, tutto uno spettacolo, uno spettacolo “acido”. Elencare alcuni piatti può sembrare inutile, però non resistiamo: la salsa di tartufo con uovo incendia i sensi, il merluzzo danese con alga vissuta come chips ti devasta per intensità. La gelatina di prosciutto è uno dei pochi piatti “carnivori”, le palline di gelatina di rafano sono come le noccioline, ne mangeresti a non finire. Straordinario il pane, rigorosamente nero e servito con il burro di pecora con fiori.
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Rasmus è lo chef, anche il patron, però a metà: l’altra metà si chiama Soren Ledet, 41enne come lui e sommelier del ristorante. I due hanno fondato il Geranium nel 2007, a quei tempi l’indirizzo era un altro. Si sono trasferiti nel 2010, all’ottavo piano dello stadio del FC Copenhagen (si, nessun errore, il ristorante si trova all’interno, con vista sia sul campo che sulla zona universitaria). Avevano una sola stella, prima di trasferirsi dal King’s Garden: per la cronaca, l’hanno perfino persa, nel primo anno allo stadio: la motivazione della guida è stata semplice e chiara, pensavano ad un ridimensionamento qualitativo. Da quel momento è cambiato tutto: “Pensavamo che la nostra carriera fosse in salita, un atto quasi dovuto averla”, racconta Soren, amico di infanzia di Rasmus. Per la cronaca, tutti i loro vini sono biodinamici: “Quando abbiamo proposto una lista di 300 etichette del genere, la gente rimase senza parole, incredula. Ma da quel giorno tutti gli altri ristoranti e bar della città hanno cambiato la propria cantina, copiandoci”. Ora la carta del Geranium è un capolavoro: volendo si può anche prendere un solo bicchiere di vino, perfino uno di Puligny-Montrachet 2010 (40 euro), di Hirsch Sonoma Coast Chardonnay 2012 (38 euro, )oppure mezza bottiglia di Krug, a 200 euro. Fra le rarità, un Clos d’Ambonnay del 1995 e un Mouton Rothschild del 1899. Se non è un’esperienza questa….
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Andrea Asoli UN PULEDRO DI RAZZA
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onsigliabile e soprattutto con vin cente. Andrea Asoli ha preso defi nitivamente le redini del ristorante Venissa, all’interno del Chateau Monfort e ora lo guida, lo comanda con piglio sicuro ed energie da vendere. Il ragazzo sta crescendo bene, sta diventando un puledro di razza, si vede che è un purosangue. Il suo nuovo menu è molto vigoroso, più del primo che presentò qualche mese addietro. Pareva assai intimorito e disorientato, ha avuto bisogno di qualche mese per metabolizzare i cambiamenti, nella sua vita e nella nuova cucina. In poco tempo ha sistemato tutto, riorganizzando la brigata (azzerando quella passata, in pratica) e ripartendo in pratica dal nulla. Un reset totale,
dovuto e doveroso. In tutto questo non dimentichiamo che ha solo 25 anni, anche se per le esperienze avute finora può già sembrare un veterano: ha iniziato a 17, le stagioni le faceva già ai 14. E’ sveglio, astuto, scaltro, veloce nel capire le situazioni e nell’adattarsi: anche perché una è lavorare sull’isola di Mazzorbo, dove ha preso la stella con il Venissa della famiglia Bisol, un’altra cucinare per la clientela meneghina. Realtà, numeri e dimensioni diverse: fra l’altro al Chateau Monfort deve gestire perfino le colazione e i banchetti, gli eventi e il room service. Dopo un primo menù assai timido, ora ha innescato la quinta, osando di più e “caricando”
con convinzione, dimostrando carattere e una voglia selvaggia di imporsi sulla scena milanese, il tutto filtrato da una mano tecnica e decisa. La proposta è in continua evoluzione, niente rewind, le cotture e gli equilibri sono perfetti. Piccolo elenco delle novità presentate, a cominciare dal pane, che viene studiato per diventare una portata autonoma del menu. E’ fragrante, ricco, pieno, croccante, sembra portarsi dentro il profumo di un intero campo di grano. Poi il mille foglie al gambero viola, una specie di snack magico, un insieme di gusti e sensazioni che ti danno un’idea della serata. Il foie gras è uno dei migliori assaggiati ultimamente, se la gioca con quello di Wicky
Mille foglie al gambero viola
L’anatra, contrasti e adrenalina
Zuppa di granciporro
Il foie gras,straordinario
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Pryian e Felix Lo Basso, anche se il suo è più verace, più spassoso. E’ roba da numeri uno, da maschi alpha, per valorosi e gente tosta, induce alla lussuria e alla lentezza: il languore è totale, la scossa di piacere interminabile. E’ potente, elegante, cremoso, passionale, avvolgente, ti stordisce e seduce, si scioglie in tutto il corpo. E’ come un esplosione di dinamite nel sangue, il primo boccone è un’emozione violenta, ti svegli con la voglia di ricordare il suo profumo nitido e intenso. Suscita il desiderio, ogni morso è felicità, sospiri per la disperazione quando vedi che sta per finire e vorresti chiedere un’altra porzione, perché il sogno gourmet potesse continuare.
Lo prepara in casa, marinandolo per 24 ore con panna fresca, Riesling, sale Maldon e zucchero di canna, per poi cuocerlo a 67 gradi. Il fegato lo acquista da Gioachino Palestro, a Mortara: ha un’azienda favolosa, la Corte dell’Oca, un must per gli intenditori. L’anatra è testosteronica al massimo, i suoi profumi ti avvolgono, chiudi gli occhi e respiri profondamente, assimilando la fragranza vigorosa. I contrasti, poi: il riso rosso croccante, l’invidia cotta nella spremuta di arancia rossa, la riduzione con l’aceto di Xeres e zest di arancia candita. E’ un piatto adrenalinico, consigliabile agli amanti di sensazioni forti e gusti intensissimi. La zuppa di granciporro profuma di campagna e aria pulita, la assaggi e ti vengono in mente le
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parole di Isabel Allende: “le zuppe sono come i preamboli amorosi, vanno preparate tenendo in considerazione tutti i sensi, la vista e l’olfatto, il gusto e il tatto”. Lo spaghetto alla chitarra sussurra segreti: è fatto, stirato in casa, mantecato al ragù di anguilla, con crema di rafano e mela verde, affumicato alla camomilla. Un piatto raffinato, elegante, che dimostra la mano decisa dello chef romano. E’ il suo primo menù che ha potuto ideare e costruire con una certa calma, il suo primo vero biglietto da visita. I risultati sono davvero notevoli e, come dicono gli inglesi, the best is yet to came: il meglio deve ancora venire. Cin cin, ovviamente con bollicine Bisol.
Matteo Bisol VENISSA, MY LOVE
Da sinistra, i quattro chef di Venissa: Alba Rizzo, Michelangelo Doria, Serena Baiano, Sabina Joksimovic
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’ deciso e felpato, visionario e concreto, un po’ come il padre, testimonial di se stesso nonché imprenditore di enorme caratura. In più, se potesse, Matteo Bisol metterebbe la firma perché tutti gli anni fossero come il 2016: gli è nato il primogenito Filippo, Venissa ha avuto riconfermata la stella Michelin, il loro vino ha vinto e ottenuto premi e riconoscimenti uno dietro l’altro. Gongola, eccome: il figlio di Gianluca Bisol ha tutti i motivi per camminare sulle nuvole. Ad un primo impatto puoi pensare che Matteo fa il direttore in quanto erede del proprietario, poi lo ascolti e ti rendi conto che hai davanti una persona preparata al massimo e con una impressionante sete di vincere, fare e conquistarti. Grintoso e sereno allo stesso tempo, risponde e spiega in maniera chiara ed elaborata i progetti presenti e futuri del mondo Venissa: lo fa con il piglio del capitano di industria forgiato in mille battaglie e con la leggerezza di un giovane non ancora trentenne. Un mix perfetto. - Partiamo dalla conferma della stella Michelin, per nulla scontata. - Altroché scontata! Ogni anno viviamo dei cambiamenti assai inusuali per il mondo Michelin, proprio perché siamo un laboratorio di idee: di conseguenza c’è una rotazione fra gli chef che mal si sposa con i principi della guida. Eppure rieccoci: per il secondo anno abbiamo la stella, segno evidente che la qualità resta altissima, nonostante la partenza di Andrea Asoli per Milano, dove ge-
stisce una nostra nuova apertura (ndr leggere l’articolo alla pagina 8). Al suo posto abbiamo preso Alba Rizzo, giovanissima chef bergamasca con un talento infinito: si è subito calata nell’atmosfera e la filosofia del Venissa, ovvero cercare di portare un nuovo approccio, cucinare i prodotti locali in una nuova maniera, originale. Il progetto si basa proprio su questo: ogni chef porta, offre una nuova prospettiva, restando fedele alle materie prime del territorio. Forse veniamo premiati per la continua ricerca, il perenne desiderio di interpretare gli ingredienti locali: siamo nati come laboratorio e come tale andiamo avanti. - Alba Rizzo: come la possiamo inquadrare, in quanto chef ? - Rigorosa e creativa. Il suo ingrediente iconico sono le vongole, mentre il piatto che la caratterizza sono i ravioli con formaggio, acqua di menta e, appunto, vongole. - Si presume la vostra clientela sia assai esigente e sofisticata. - Il novanta per cento sono stranieri, la clientela ama molto Venezia, la conosce a memoria, per questo a volte preferiscono di isolarsi, di fare una fuga qui da noi, a Mazzorbo. Si arriva in venti minuti con il water taxi, i nostri ospiti sono gli stessi che frequentano il Ritz e il Four Seasons, sanno di trovare un livello molto alto, seppur così diverso dai classici alberghi. Solitamente sono persone che superano la quarantina e non mancano una edizione della Biennale, è gente dal gusto sicuro. - Purtroppo avete soltanto sei stanze, è quasi impossibile prenotare.
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- E’ vero, siamo sempre al completo, dall’altra parte ci rendiamo conto di dover trovare altre soluzioni per le continue richieste: difatti stiamo aprendo Casa Burano, una meta ideale per i viaggiatori, perché si trova a cinque minuti a piedi dal Venissa. Le due isole sono legate da un ponte, però non si tratta di un resort vero e proprio ma di un albergo diffuso sparso sull’isola, 13 stanze in cinque case diverse, piccole ex casette di pescatori trasformate in camere d’hotel. Ognuna ha una quarantina di metri, ovvero il doppio delle dimensioni solite che trovi a Venezia. Le finestre danno sulla laguna oppure sulle altre case colorate, gli arredi e i mosaici sono realizzati da artigiani locali, il che aumenta il nostro senso di appartenenza e la volontà di creare un’atmosfera tipicamente veneziana. Per fare un solo esempio, i mosaici di Orsoni, di gran lunga i più belli del mondo, sono tutti fatti a mano e sono famosi ovunque: le tessere sono presenti al Westminster e alle cupole dorate di Bangkok, in Piazza Tienanmen e al palazzo reale di Thailandia. Sono storie che ci piace raccontare e che i nostri ospiti amano a dismisura, così come adorano andare a pesca o intraprendere altre attività che proponiamo. E’ gente che viaggia ovunque nei posti più belli e lussuosi del mondo ma che poi ci fa i complimenti per come riusciamo a trattarli e per le esperienze che facciamo loro vivere. Onestamente il nostro progetto è molto complesso, perché siamo andati oltre le stanze: abbiamo il ristorante, l’osteria, il vino che produciamo noi in loco. - Passiamo al premio Veronelli.
Il ristorante Venissa, una stella Michelin appena riconfermata
Matteo Bisol
Una delle 13 case di Burano
- Abbiamo vinto il premio “Super 3 stelle” con il nostro Venissa 2012, un riconoscimento straordinario perché viene dato solo a chi ottiene per più di un anno un punteggio oltre il 94. Siamo gli unici ad averlo vinto nel Veneto, per quello che riguarda i vini bianchi: è stata premiata l’unicità del nostro progetto. Ora perfino negli Stati Uniti si stanno innamorando del nostro prodotto, tant’è vero che verrà distribuito da Wilson & Daniels, ovvero gli stessi che vendono il Romanée Conti. - Da un premio all’altro: Fondazione Altagamma. - E’ stato fantastico: abbiamo vinto la seconda edizione del Premio Giovani Imprese-Believing in the Future, ideato proprio della Fondazione che riunisce i più grandi marchi del Made in Italy, da Ferrari a Bulgari, da Versace a Riva. Così, ora siamo Honorary Member della stessa fondazione. Non è male, vero?
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Puglia in Brera DELIZIOSE SENSAZIONI
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arà stata la giornata piena di sole, sarà stata la certezza che un locale di Antonio Ingrosso non potrebbe mai deludere, fatto sta che siamo entrati straripanti di gioia nel suo nuovo ristorante, Puglia in Brera, convinti che staremmo per vivere qualcosa di straordinario. Inutile aggiungerlo, così è stato, anzi, le attese, già alte, sono state ampiamente superate. Il suo primo locale, I Salentini, in Via Solferino al civico 44, è uno dei nostri posti cult per via dei prosciutti di pesce, a dir poco sensazionali: fra l’altro li trovi solo da lui, nessun’altro riesce ad averli in carta (vengono prodotti da una piccola azienda familiare di Torre Colimena). San Daniele di tonno, mortadella di bottarga, bresaola di spada: formidabili, una sinfonia di profumi e delicatezza davvero indimenticabili. E’ una oasi di felicità prettamente pugliese, perché tutto, assolutamente tutto, è Made in Puglia, dal pane all’olio, dai piatti ai vini. Ora Antonio ha deciso di raddoppiare poco distante dal suo primo locale, aprendo in Via San Carpoforo, nel cuore del quartiere bohemien per eccellenza, Brera. Diventerà sicuramente un altro luogo dove andremo sognanti, perché sicuri di vivere sempre delle deliziose sensazioni, ovvero tutto quello
che cerchiamo nella vita, ogni santo giorno. Emozioni introvabili altrove, perché siamo degli irriducibili romantici della cucina e non ci accontentiamo di mangiare bene, vogliamo quel qualcosa in più, il tocco magico, la sorpresa, il sussulto. Il ristorante trasmette fin da subito una tranquillità e un buonumore straordinari, ti pare di essere in un film hollywoodiano, uno di quei gioiellini nascosti in un angolo chic della città dove andare per caricarti e riempirti di profumi speciali. Un rifugio gustoso e goloso, solo per intenditori. C’è qualcosa di intrigante nell’aria, al Puglia in Brera: guardi attorno e hai la netta sensazione che la gente sia felice di trovarsi lì, che ci è già stata e che tornerà tante altre volte. Non c’è mai un posto libero, spesso si “girano” i tavoli, arrivando ad una media di oltre 60 coperti a pranzo, la sera pure. Sarebbe strano se accadesse il contrario, visto il tripudio di sapori e piaceri golosi: il pan e, l’olio, le burrate, i salumi: pronti via e sei già sulla giostra, senza che la cuoca avesse ancora toccato nulla. Poi inizia lo spettacolo vero e proprio, fra melanzane alla parmigiana (quella povera, senza la mozzarella) e orecchiette, purea di fave e il pasticciotto, un dolce che pare uscito da una
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favola. Il capogiro è assicurato, la cucina generosa, vieni conquistato dal piacere e dall’amore che Donata Rizzo mette in ogni piatto. Pare una storia di altri tempi, i profumi ti avvolgono come una sinfonia. Non ci sono molti piatti in carta, pochi però deliziosi, tutti preparati al momento, perché la cuoca, vera donna del sud, non transige sulla qualità e la pienezza dei sapori. Donata vi cucina come se foste i suoi figli, pare una frase fatta e invece è pura verità, non c’è bisogno di molte parole, basta un primo morso, un primo cucchiaio e lo si capisce al volo, si percepisce subito che vive per il cibo. La purea di fave e cicoria selvatica é qualcosa di davvero unico, sarà anche un piatto povero ma appena lo assaggi capisci che sei davanti ad una crema memorabile, divina, indimenticabile per freschezza, intensità e piacevolezza: incendia i sensi, tocca l’anima, è leggera come se fosse panna montata, il sapore è puro come il peccato, ispiri a fondo per goderti la sua poesia. E allora i pensieri vanno subito alla schiena arcuata della donna dei sogni, stesse emozioni e stesso identico brivido di piacere, con le sensazioni che si ammassano una sull’altra. Ne esci intontito dal piacere ed ebbro di gioia, con la voglia di divorare il mondo. Immagina, puoi.
Betto
PASSIONE SICILIANA
“A
volte, quando evoco l’aroma di un piatto gustoso, la nostalgia e il piacere mi commuovono fino alle lacrime. Mi tornano alla memoria il sole di Siviglia e un vassoio di ceramica blu su un muro rustico di intonaco bianco, colmo di prugne mature, alcune delle quali aperte, che si offrono languidamente agli appetiti di un calabrone giallo, pronto a lanciarsi in picchiata su quella polpa lasciva. Per me Siviglia è la fragranza dolciastra di quelle prugne e dei gelsomini che sul far della sera saturano l’aria di desideri”. Mentre rileggevo le frasi di Isabel Allende i pensieri volavano alla Sicilia e non a Siviglia, ai profumi e ai gusti accarezzati da Betto, un luogo perfetto per gli innamorati e per i food obsessed. E’ diventato una specie di rifugio gourmet, piccole e straordinarie squisitezze afrodisiache, a cominciare dai cannoli fino al tonno e alle granite, ovviamente siciliane. Prelibatezze infinite, dei morsetti meravigliosi carichi di passione, la passione di Roberto Fiorello, il creatore del luogo e il custode delle ricette di famiglia, pasticcieri da generazioni. E’ tutto un saliscendi dalla giostra delle golosità calde e fredde, autentichi gioiellini da morsicare e gustare appieno, chiudendo gli occhi e pensando alla bellezza della vita. E’ un angolo di Sicilia davvero autentico, non ci sono ombre di fake, di imitazioni cheap, non si scimmiotta l’autentico cadendo nel ridicolo:
anzi. Il bancone, nerissimo, pare uscito dal film Gattopardo, le tovaglie sono realizzate a mano, merletti come si facevano una volta. Cronologicamente si inizia la mattina presto con i croissant ricchissimi di pistacchio di Bronte, oppure di crema pasticciera, anche se la preferita rimane quella con la marmellata di agrumi, un esplosione di gusto che ti porta direttamente alla lussuria. Niente di esagerato, solo cronaca, così come non si esagera considerando il caffè di Betto come il migliore assaggiato nella metropoli, una
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miscela realizzata apposta da Roberto per il suo locale. “Per anni ho lavorato in Messico in una piantagione di caffè, sono andato lì per carpire tutti i segreti: tornato in Italia ho creato il mio, nove decimi di arabica e una di robusta, per dare quel pizzico di acidità che tanto si sposa con il mio menu. L’ho creato in una torrefazione napoletana, ora lo vendiamo anche nei barattoli, per chi vuole continuare sorseggiare il nostro sogno a casa sua”. All’ora di pranzo imperano il pacchero e il polpo arrosto, come stuzzichino vi consigliamo gli arancini e la mini mozzarella in carrozza, per l’ora dell’aperitivo le pizzette e le focaccine e appena sfornate, ovviamente seguendo rigorosamente la ricetta ereditata dai nonni. E’ sempre pieno, per cui non illudetevi di piombare in Corso di Porta Ticinese al 58 e trovare subito un tavolo. La voce gira, i buongustai parlano, suggeriscono, sussurrano gli indirizzi dove vale la pena spendere il prezioso tempo dedicato ai piaceri della vita. L’atmosfera è molto piacevole, si percepisce che la gente è felice di trovarsi lì: il target è davvero trasversale, si va dalla studentessa golosa all’imprenditore sicuro dei suoi gusti, passando per la modella desiderosa di infrangere la regola dei carboidrati. Indimenticabili le granite dei gelsi neri, mentre le cassatine sembrano dei piccoli seni rotondi, perfetti, pronti per morsicare.
Elisa Dilavanzo LA REGINA DEL MOSCATO
I
fatti valgono più di mille parole. Probabilmente è anche il motto, il mantra di Elisa Dilavanzo, donna ovunque, imprenditrice di una tenacia rara e un talento innato per il mondo vinicolo. I risultati sono mostruosi, straordinari, spettacolari: eccone un breve elenco dei premi conquistati e dei riconoscimenti avuti da Meli, la sua azienda, nell’ultimo periodo . Moscato Fior d’Arancio, eletto come miglior vino pop al Best Italian Wine Awards. Lo spumante dolce, incluso nella guida di Tom Stevenson e anche nella Top Hundred del Golosario di Paolo Massobrio (sempre con il Fior d’Arancio Spumante Dolce). Il premio enologico internazionale 5 star Vinitaly per il Moscato giallo Docg Oro al Champagne & Sparkling Wine Award Championship con il Fior d’Arancio Spumante Dogc Moscato Giallo. Oro perfino al Vin Expo di Bruxelles, con il Rosso D+. Medaglia d’argento al Concours Mondial de Bruxelles. Bronzo al Decanter World Wine Awards. Elisa, Maeli e il Fior D’Arancio dominano la scena vinicola internazionale, stanno al tavolo dei grandi, splendendo e vincendo in ogni angolo del pianeta.
Sembra passata un’eternità da quando decise di rilevare i vitigni dismessi e abbandonati di Luvigliano, sui Colli Euganei: fra mille perplessità e sorrisini saccenti, la davano per illusa, per spacciata. E quando propose di produrre lo spumante dolce con metodo champenoise la guardarono a dir poco straniti. Però quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare: e lei ha dimostrato di saperlo fare. Per la cronaca, il nome Maeli proviene dall’incontro fra le parole marna e limo, ovvero le due basi minerali del terreno vulcanico dei Colli Euganei. Vive per il suo vino, ormai pluripremiato. Vola da un continente all’altro, da una paese all’altro, proponendo e vendendo il suo prodotto. Il passato da modella di successo, gli studi in giurisprudenza sono ormai storia: .una storia brillante, però ora gioca in un altro campionato, è nella Champions League, fa parte dell’elite vinicola e sta benissimo nel suo nuovo mondo. Carismatica, elettrica, un carro armato, lavorativamente parlando: si merita, eccome, i premi ed i riconoscimenti infiniti. In più ha charme, e tanto. E’ bella, e tanto. Insomma, è inarrestabile. La sensazione è che, per dirla come gli anglosassoni, the best is yet to came: il meglio deve ancora
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arrivare, ma anche il presente regala soddisfazioni straordinarie. - E’ un periodo fantastico, sta facendo incetta di premi, ovunque. - Fortunatamente è vero. Oltre ai premi sono contenta del fatto che il nostro moscato sia davvero un vino trasversale, che piace alla gente che solitamente non beve vino: il motivo è semplice, il nostro si può gustare sempre, perfino a colazione, con le uova strapazzate e con il salmone. Si addice a tutte le situazioni, il che non significa di avere davanti un vino banale, anzi: Fior d’Arancio è stato appena eletto fra i 100 migliori in assoluto da Paolo Massobrio, alla Golosaria. Poi siamo stati premiati come il miglior vino pop, il che significa che piacciamo molto alla clientela giovane. Maeli ammalia e incuriosisce, intriga e conquista perché ha una mineralità particolare, tipica delle zone vulcaniche. - Lei è stata agente, poi sommelier, ora imprenditrice. Oggi cosa si sente di essere, come si definirebbe? - Sono tutte tre, perché andando in giro per il mondo presento in mio vino e lo vendo. - Esportate il 70 per cento: proviamo a mettere delle bandierine?
- Francia è il nostro miglior cliente, lo so, può sembrare strano: di sicuro per me è una gioia immensa. Il mio prodotto si abbina in maniera meravigliosa con la zuppa di cipolle. Segue l’Australia e poi la Cina, il nord europeo viene dopo. Invece il mercato statunitense diventerà primario, perché ho appena firmato un accordo esplosivo: scommetto che a breve sarà uno dei primi tre mercati. Fra i mondi emergenti mi piace segnalare le Bermuda, poi il Libano e le Antille Olandesi. - La più bella recensione che abbiamo letto su Maeli è firmata Luca Gardini. Citiamo: “C’è Moscato e Moscato. L’uva più ruffiana e aromatica del mondo può offrire vini completamente diversa. Elisa Dilavanzo, giovane quando illuminata produttrice veneta, ne fa uno buonissimo, il Fior d’Arancio. E’ un vino fresco e suadente, che ha un residuo zuccherino piacevole senza essere ingombrante. Un vino che va a braccetto con la piccola pasticceria, ma anche con piatti di elevata aromaticità (provatelo con il pesto). Ci ha conquistato il Maeli, Fior d’Arancio 2014 per il suo colore d’oro brillante, i profumi puliti di gelsomino, rosa e frutta a pasta bianca”. Potremmo continuare, però ci fermiamo qui, l’analisi del campione del mondo è a dir poco lusinghiera. - Dalle sue parole traspare il salto di qualità del mio vino, da ruffiano a suadente: la mineralità fa la differenza. Fra l’altro, uno studio di un’università tedesca sostiene che il trend va verso i vini vulcanici, citando quelli delle zone di Velletri, Etna e, appunto, i Colli Euganei. - Breve elenco dei piatti più sorprendenti abbinati ai suoi vini. - A me piace l’inusuale, dunque per primo metterei lo spaghetto al pomodoro. Mi è capitato sulla Costiera Amalfitana: il pomodoro era sia acido che dolce, il basilico invece aggiungeva quell’aroma fiabesco. Un piatto e un abbinamento davvero favoloso. Poi la parmigiana alle melanzane, l’hamburger e l’acciuga cantabrica, concludo con i carpacci di pesce. Io sono una fan sfegatata degli abbinamenti, non a caso ho creato la Maeli Chefs Cup: i risultati hanno lasciato a bocca aperta, a cominciare dal maialino glassato al miele. E’ la dimostrazione che il Maeli é un vino eclettico, versatile, ovvero il mio pensiero fin dall’inizio. Ora mi dedico ad un progetto che mi affascina infinitamente, ovvero i cocktail d’autore: stiamo per pubblicare un opuscolo dove proponiamo il nostro moscato mescolato al gin, alla grappa e al vermouth. Cocktail d’Autore è un progetto delicatissimo e insieme maestoso: chiediamo a barman da ogni parte del mondodi creare il loro cocktail con il Fior d’Arancio. La prima edizione vedrà protagonisti i barman veneziani di note e prestigiose location. - Altro piccolo elenco, i ristoranti dove lei é davvero fiera di essere riuscita a far “entrare” il suo Maeli. - Palace e Riviera a Venezia, Giacomo a Milano, JK a Capri, ma ce ne sono tantissimi altri, Danieli, Londra Palace, Cafe’ Florian, a Venezia, Ristorante Pierluigi a Roma, JK a Capri. - Come viene percepito il vostro vino, in giro per il mondo? Ci sono delle differenze, da paese a paese? - Si, eccome. I cinesi sono più abituati ai vini dolci, mentre in Inghilterra sono più “bacchettoni”. ecco perché prevedo parecchie trasferte a Londra il prossimo anno, chi la dura la vince!!!! - Dove le piacerebbe vendere? - Al Trussardie anche al Mandarin di ogni parte del mondo. Avvisiamo subito Luca Cinacchi.
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Paolo Cappuccio FOIE GRAS, MON AMOUR
Mini magnum di foie gras
“A
mo il foie gras, lo metto dappertutto, nel dolce e nel salato”. E’ bastata questa frase per far diventare Paolo Cappuccio un nostro idolo. Lo chef napoletano, classe 1977, é uno che sa il fatto suo: si ispira a Bocusse, Ducasse e Marchesi, punta molto sulla tradizione e innovazione, è un cultore della italianità. Ha preso la prima stella alla Stube Hermitage di Madonna di Campiglio (2009), fino a ieri lo trovavi a La Casa degli Spiriti di Costermano, nel veronese, dove creava contrasti e usava a dismisura, per la nostra fortuna e felicità, il foie gras e la carne. Sul’argomento ha appena pubblicato un libro, 200 pagine curate da Francesca Negri per la collana ideata da Star Chef. E’ uno di quei libri da collezionare, molto ben fatto e con delle immagini curatissime, scattate da Tecnofoto 2000. Va detto che a differenza di altri chef, Cappuccio è molto autocritico, va giù pesante con se stesso, non vuole raccontarsi favole e inventarsi per quello che non è: “Sono velenoso, antipatico, a tratti romantico,
per nulla diplomatico e forse un po’ troppo impulsivo”, racconta nel libro. Fin qui l’uomo Cappuccio, ma il cuoco? “A differenza di ciò che molti credono, un bravo cuoco lo si può giudicare non dal numero di ricette che sa realizzare ma dalla padronanza che ha delle tecniche e la sua abilità nel fondere queste con il gusto e la fantasia. Il massimo livello si raggiunge quando questi tre fattori sono ben bilanciati tra loro, al punto di riuscire a esaltare al massimo le caratteristiche naturali degli elementi cucinati”. La cucina ti prende così tanto che talvolta perdi il contatto con il tuo lavoro e ti spingi oltre. I miei piatti vengono fuori da soli. Ad esempio, trovo un pezzo di carne buonissimo e inizio a chiedermi come esaltarlo”. Tornando sul foie gras, Paolo va giù deciso: “E’ come l’opera, o lo ami o lo odi. In molti lo criticano, tutti ne parlano, in pochi sanno lavorarlo e cucinarlo a dovere. Il foie gras di anatra è il meno costoso, e dagli anni cinquanta in seguito al cambiamento delle metodologie di produzione, è anche il più comune. Si dice che il sapore del foie gras di anatra sappia di muschio
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e sia leggermente amarognolo, mentre quello d’oca è rinomato per essere più liscio e sapere meno di selvaggina. Ogni foie gras, sia che si tratti di anatra sia che si tratti d’oca, è diverso per struttura e consistenza. In base alle lavorazioni che si devono compiere, va scelta una specifica tipologia di prodotto. Se il fegato grasso a una temperatura di 4 gradi Celsius risulta molto duro, ciò significa che è un fegato molto grasso e quindi sarà ideale per la realizzazione di terrine, paté, polvere ghiacciata, spuma e gelato, per servirlo marinato e affumicato. Se il fegato invece ha una consistenza più elastica e più morbida sarà più idoneo a essere cucinato”. Okei, prendiamo nota: però da innamorati folli del foie gras, come lo possiamo abbinare? Con una bollicina, probabilmente, però quale? Florence Guyot, partner nella realizzazione del libro di Paolo, ha pochi dubbi: “Il mio Marguerite Guyot Blanc Seduction si sposa divinamente con il foie gras, mentre Cuveé Passion va a braccetto con la tartare”. Sfogliate il libro, oppure guardate le pagine di GOOD LIFE e provate ad assaggiare con il palato dell’immaginazione. Life is now.
Battuto di filetto di bovino adulto, pesto di rucola, verdure cotto e crude, pano sifonato.
Paolo Cappuccio
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Leo Damiani IL PREDESTINATO
Leo Damiani, a destra, assieme a Hervé Deschamps e Juliette Greco.
H
a cominciato la carriera saccheg giando di nascosto la cantina di suo padre. Probabilmente il genitore, petroliere di mestiere, lo sapeva e in cuor suo apprezzava. Forse addirittura gongolava, fiero del suo pargolo, perché il buon sangue non mente e, di conseguenza, il figlio prometteva bene: di questo passo non poteva che diventare un grande intenditore. Qualche decennio dopo, eccolo, Leo Damiani, al capo della divisione Perrier Jouet, maison che spinge forte sul pedale dell’affermazione definitiva in Italia, dove viene controllata dai Marchesi Antinori. Si sono rivolti a lui perché i personaggi di prim ordine nel mondo dello champagne si possono contare sulle dita di una mano: Leo Damiani domina la scena da trent’anni, è stato il direttore di Krug quando veniva distribuito dagli stessi Marchesi Antinori . Ora spera di ripetere i risultati anche con Perrier Jouet, maison artigianale che detiene un record invidiabile: in due secoli di storia si sono succeduti solo sette chef du cave. L’ultimo, Hervé Deschamps, ha preso le redini nel 1993
dopo dieci anni di apprendistato. E’ proprio sui dettagli e sull’unicità che punta Leo Damiani, ma non solo. - Si parla tanto dell’aumento dei consumi delle bollicine, però siamo sempre lì: lo si beve prevalentemente durante le feste, o per dei festeggiamenti particolari: come se ne esce? - In Francia lo si beve come da noi l’acqua frizzante, faccia conto che loro vendono due cento milioni di bottiglie l’anno, mentre in Italia l’anno scorso ci siamo fermati a sei. Diciamo che il prezzo è un fattore importante, lo champagne viene ancora percepito come un bene costoso, dunque superfluo. - Pare assai semplicistico, considerare lo champagne un bene costoso e superf luo. - Difatti lo è: secondo me la cucina italiana va a braccetto con le bollicine, per fortuna negli ultimi anni c’è stato un approccio gastronomico più profondo, per cui possiamo sperare di vedere aumentare le vendite e soprattutto l’interesse dei foodies verso lo champagne. Onestamente penso che manchi la capacità di vendere al bicchiere ed è un peccato,
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un gran peccato: per me sarebbe un ottimo punto di partenza. - Eccoci arrivati al punto: mettiamo che decidiamo di regalarci una coppa di champagne, il “suo” champagne, Perrier Jouet: come lo possiamo caratterizzare? - Elegante, fresco, piacevole, empatico. Il nostro champagne non è complicato, non ha sovrastrutture, è facile da capire, di conseguenza facile da bere. - Dove si beve di più, il vostro champagne? - In Italia andiamo un po’ a macchia di leopardo: Verona, Bari, Parma, Milano, Roma. - A proposito di Parma, la leggenda narra che sia la città dove si bevono più bollicine. - E’ vero: incide il fatto che l’ex ducato abbia una influenza francese. Poi, la cucina emiliana è grassa, di conseguenza la bollicina è ideale. - Partiamo con i giochini legati agli abbinamenti, chiudiamo gli occhi e voliamo con l’immaginazione: il Grand Brut lo gustiamo assieme a quale piatto? - La verità? Con un panino appena sfornato e con della mortadella. In più, è lo champagne ideale per l’aperitivo.
- Il Blason Rosé? - Assieme al culatello e al gnocco fritto. - Belle Epoque Rosé? - Aaaaah qui si sale di livello: per sorprendere, direi che lo accompagnerei con la cassoeula. Oppure con un delizioso riso con ossobuco. - Dove le piace mangiare, quando si trova in giro per l’Italia? - Il giochino è pericoloso, qualcuno si potrebbe offendere se non venisse nominato. - Facciamo così, scegliamo uno per ogni città. - A Milano mi piace molto andare da Felix Lo
Basso, la sua capasanta è davvero particolare, la pasta al pomodoro invece sa di paradiso. A Firenze non mi perdo il piccione dell’Enoteca Pinchiorri, va divinamente con il nostro Belle Epoque. A Roma amo mangiare da Roscioli, a Modena all’Osteria Giusti, la più antica salumeria del mondo: hanno solo quattro tavoli, però nessuno fa dei tagliolini al burro e parmigiano come loro. A Siena mi fermo al Poi One, nella piazza, mentre a Verona torno sempre a La Casa degli Spiriti (poi chiuso, ndr). - Questo in Italia: all’estero, invece? - A Parigi torno sempre all’Arpège, saranno
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vent’anni che ci vado, fin da quando aveva una stella soltanto. A Londra sono un affezionato di Heston Blumenthal, mentre a New York frequento un ristorante greco all’angolo della 57ima con la settima, si chiama Molyvos. - Continuiamo il gioco, troviamo un aggettivo per ogni champagne della maison. - Il Grand Brut lo definirei democratico. Il Blanc Rosé piace a quelli che solitamente non impazziscono per il rosé. Belle Epoque è l’abito da sera. Belle Epoque rosé sarebbe l’essenza del rosé. Il Blanc de Blanc invece è la rarità, ne abbiamo soltanto trecento bottiglie.
InSitu
Foto: Eric
COPIE D’AUTORE
Tutte le foto sono di Eric Wolfinger
V
iene considerato, non a torto, il ristorante più originale d’America. L’idea è semplice quanto geniale: copiare e proporre le ricette dei migliori chef. Corey Lee, tristellato con il suo Benu di San Francisco, ha contattato tutti i suoi colleghi più famosi proponendo loro un affare mica da ridere: royalties e copyright per ogni piatto venduto. Funziona, eccome: basta recarsi all’interno del MoMa di San Francisco. Troverete le ricette di Renè Redzepi e Massimo Bottura, Virgilio Martinez e Andoni Aduriz, Adrià e David Chang, Thomas Keller e Michel Guerard. I prezzi sono ovviamente molto più bassi che nei ristoranti stellati: si va dai 6 euro per una zuppa caramellata di Nathan Myhrvold fino ai 34 dell’Umami Soup di Hisato Nakahigashi. Corey Lee forse non aveva bisogno di un nuovo challenge, visto che è già super impegnato con il suo ristorante e il bistrot Monsieur Benjamin, fra l’altro non distanti dal nuovo InSitu: però ammettiamolo, il progetto è formidabile. “Mi chiedevo come potessi contribuire in maniera attiva e arricchire il museo”, dice.
Certo, non sarà possibile assaggiare la ricetta identica al mille per cento, anche perché le materie prime non sono proprio le stesse. “Il fatto in sé non mi preoccupa”, sostiene Lee. “Noi proponiamo una esperienza culturale”. Ha ragione, tant’è vero che la gran parte degli chef accetta delle libere interpretazioni, soprattutto per quello che riguarda gli ingredienti. Aver scelto di aprirlo all’interno del museo di arte moderna ha un senso: difatti i piatti sembrano una mostra temporanea, un’esposizione gastronomica d’autore. “Art installation”, suggeriscono dal MoMa. “Fino a qualche anno fa era impensabile trovare Redzepi in un museo d’arte”, sostiene il New York Times: i tempi cambiano, grazie a Instagram si viaggia con il palato dell’immaginazione, i piatti sono sempre più cromatici e vicini al mondo della pittura. Per non parlare dei fan, infinitamente più numerosi per il mondo gastronomico. Per ogni piatto ci sono tutte le informazioni necessarie: chi ha creato la ricetta, dove, come, l’anno e gli ingredienti, insomma una “scheda” completa. L’aspetto intrigante dell’InSitu sta nel fatto
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che alcune ricette non le puoi più assaggiare nei ristoranti di origine: sono datate, superate, sostituite da altre nuove. Qui invece le trovi. Corey, assieme al suo executive chef, Brandon Rodgers, si sono spesso recati nei ristoranti dei vari stellati per capire e carpire le tecniche dei piatti, altre volte sono stati gli chef stessi a San Francisco per seguire e dare dei consigli. Il menu è una specie di compilation, una playlist con le migliori canzoni della tua vita. Molti clienti si sentono disorientati, non conoscendo i piatti originali, altri chiedono le dimensioni: pian piano ci si rilassa, rendendosi conto di trovarsi nel posto giusto. Cinque gli chef italiani “nel menu”: Massimo Bottura (Oops! Mi è caduta la crostatina al limone, Massimiliano Alajmo (Cappuccino di seppie al nero), Niko Romito (Risotto parmigiano, acqua e limone), Gennaro Esposito (Spaghetti al pomodoro del Vesuvio) e Riccardo Camanini (Spaghettone, burro e lievito di birra). Anzi, sei, perché l’ex sous chef di Redzepi, Christian Puglisi, è presente pure lui, in quanto numero uno del Relae, a Copenhagen. Il piatto? Lettuce Sandwich. Foto: Eric Wolfinger
Torta salata di Michel Guerard
Torta al cioccolato di Andoni Mugaritz
Il ristorante InSitu all’interno del SFMoma
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Il visionario MARIO BOGLIOLI
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’uomo è sempre sul pezzo. Idee chiare, concetti diretti, niente ghirigori inutili, figuriamoci se perde tempo con linguaggi da docente saputello buono a nulla. Ha una visione chirurgica del mondo imprenditoriale modaiolo, va subito al punto, prende di petto le situazioni, affronta i mercati, individua quelli dove ci sono ampi margini di crescita, abbandona quelli complicati. Ha il fiuto del comandante d’impresa, sa quando e come calare gli assi. Oltretutto si diverte un mondo: da quando ha venduto la sua ex azienda (meglio non nominarla) ha meno responsabilità, nel senso che da duecento stipendi da pagare si è passati ad una dozzina, per cui le notti le passa sognando, senza preoccupazioni. “Anche se devo ammetterlo,
mio fratello Gigi si diverte molto di più, è lui il creativo. Io sono uomo di numeri e strategie”. Viaggia molto, il che lo fa sentire divinamente, pare addirittura ringiovanito. E’ appena tornato dall’Argentina, più piacere che lavoro. Stesso discorso per i giorni passati in Giappone, un paese che ammira immensamente: “Loro sono i migliori, i più esigenti, quelli che se ne intendono di più. Hanno un rigore e un senso della qualità straordinari”. Non è la prima volta che si esalta parlando del Sol Levante: tre anni addietro, quando The Gigi svelava la sua prima collezione, aveva puntato prima di tutto sulla capitale nipponica, “aggredendo” i negozi del quartiere Ginza. “Smettiamola di considerare la nostra Via Montenapoleone il meglio del meglio, è una convinzione assurda, siamo indietro, e tanto,
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difatti i giapponesi sono avanti e ora siamo noi a copiarli”. - Per davvero loro sono così avanti, rispetto a noi? - Massi. Noi siamo più bravi nel costruire il prodotto, abbiamo la mano più sicura, però il loro gusto è straordinario, per questo sono arrivati a dettare le regole del mercato. - Torniamo a The Gigi: diamo un po’ di numeri. - Fatturiamo 4 milioni all’incirca, siamo presenti in 200 negozi, di cui 90 in Italia. - E’ poco, è tanto, si può fare di più? - Puntiamo ai 5, 6 milioni, però il contesto è assai negativo. Ogni giorno leggi che la borsa soffrirà se vince quello o quest’altro, Brexit non Brexit, Trump o Hillary, c’è un terrorismo psicologico devastante. Ti fanno credere che ad ogni passo
c’è il pericolo che le borse crollino, che le banche falliscano. Di questo passo la gente non ha la testa sgombra, non pensa positivo, per cui addio voglia di vestirti in maniera chic e colorata, di osare e volare alto con la fantasia. Tutto questo ci penalizza, per non dire dei negozianti, che attraversano una fase a dir poco di stallo, negativa. Mancano di iniziativa, i loro negozi sono privi di vivacità, di conseguenza perfino noi, le aziende, accusiamo il colpo. Per chi dobbiamo creare, se chi ha il compito di proporre e di vendere non ha entusiasmo, non ha quella luce negli occhi? E’ un circolo vizioso, la conclusione è che manca la voglia di evolversi e di fare una ricerca seria, noi proviamo a convincerli e a coinvolgerli, però i risultati sono sotto le attese. Sull’uomo ci sono meno margini di cambiamento, noi a The Gigi proviamo sempre a inventarci qualcosa di speciale, di diverso, viviamo per la ricerca; però non basta a invertire un trend generale mica allegro. - Paese per paese, chi vi fa sorridere e chi invece crea dei grattacapi e malumori? - Bene Corea e Giappone, bene il nord Europa. Meno esaltante la Germania, idem Cina e Russia. Come dicevo, il contesto non aiuta: i russi pagano a caro prezzo l’embargo e in più ora si sono aggiunte tasse su tasse, i tedeschi soffrono la situazione interna, i cinesi invece fanno dei passi indietro. - Qualche settimana fa Wall Street Journal ha scritto che pian piano le banche d’affari newyorkesi iniziano a essere meno rigide, per quello che riguarda le regole di vestire dei dipendenti: si potrà venire senza indossare l’abito grigio. Per voi dovrebbe essere una buona notizia. - Il 90 per cento della gente si veste in maniera banale, poi per certe categorie è quasi impensabile abbandonare il grigio e il blu. Certo, in principio si tratta di una buona notizia, ma poi si deve capire se questa gente sa vestire in maniera chic, sartoriale, se ha un’idea sul come abbinare e assemblare una giacca con un pantalone e una camicia. Non ne sarei così sicuro. - Pitti non incide più sul gusto delle persone? - I clienti sono più o meno gli stessi, è una specie di reunion con gli amici, compresi rivenditori e negozianti. Torniamo alla discussione di prima: vengono, entrano, guardano, magari apprezzano le giacche “pazze”, però alla fine ordinano blu e grigio. Certo, sono i due colori dominanti: ogni tanto torna di moda il marrone, a volte spunta per qualche mese il verde. Per cui abbiamo poche possibilità di incidere sulle giacche: sì, qualche materiale più chiccoso, qualche riga, un taglio più intrigante, ma una giacca rimane una giacca. I modelli più spiazzanti servono per fare colpo, per attirare il cliente, ma alla fine come dicevo prima si compra quasi sempre il blu e il grigio. Dove invece possiamo incidere, e questo lo facciamo assai bene, è sullo stile, sugli abbinamenti: se una giacca blu la proponi assieme ad una camicia è un conto, se con un dolce vita crea un effetto diverso, con un maglione un altro ancora. E’ un po’ il discorso di prima, qui dovrebbe ingegnarsi il negoziante per convincere il cliente finale, prenderlo “di pancia”, creare la sensazione “comprami subito”. Gli accessori e lo stile sono determinanti per la vendita, ma non è una mia scoperta. - Per quanto andrà avanti ancora? - Non ho capito bene la domanda: se si riferisce alla mia età, mi considero e mi sento un ragazzino. Per cui andrò avanti ancora per tanto tempo.
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Io e Donald ANGELO INGLESE
“S
tiamo vestendo Donald Trump”. Una notizia fantastica, arrivata all’improvviso. “Lui ha un amico italoamericano, George Lombardi, che vive proprio al Trump Tower. Tramite lui abbiamo avuto la scheda del neo presidente, le misure. Abbiamo consegnato già la prima camicia bianca”. Per noi, immensi ammiratori del miliardario diventato presidente nonostante gli attacchi inverosimili e scandalosi della comica stampa progressista, è motivo di orgoglio e irrefrenabile gioia: conosciamo Angelo da una vita e sappiamo quanto si merita un successo del genere. Cosa non abbiamo ancora scritto di Angelo Inglese? Quale aggettivo non abbiamo ancora tirato fuori dal cassetto dove custodiamo le parole più belle? Impresa ardua, rispondere. Lo conosciamo da quasi quindici anni. A quei tempi non riusciva farsi accettare dal Pitti, esponeva in un albergo vicino, al Baglioni se non andiamo errati. Oggi sembra una follia, però è tutto vero. Com’è cambiato il mondo della moda, dai primi anni duemila: in tanti hanno chiuso per evidente mancanza di gusto e bravura, di competenza e capacità di interpretare le nuove
tendenze, i desideri delle persone. Angelo invece registra ogni anno il segno più: a pensar bene, tutto questo ha una logica. La clientela sogna ad occhi aperti e vuole essere impressionata, conquistata: stessi meccanismi che li porta in un ristorante stellato. Vai per essere rapito, non per riempire lo stomaco: vale anche nel mondo dell’alta sartoria. Angelo sa regalare momenti di passione folle, tocchi una sua camicia e hai la sensazione di accarezzare la schiena arcuata di una donna bellissima, è un susseguirsi di emozioni che ti portano ad acquistare all’istante i suoi capi, sono il più classico esempio del “lo voglio subito”. Era così quando lo abbiamo conosciuto, è così anche oggi: gli anni passano però é rimasta identica la sua voglia infinita di stupire, aumenta invece, anno dopo anno, Pitti dopo Pitti, il numero dei clienti, degli amanti della bellezza assoluta e dell’unicità, della qualità infinita e del piacere totale. Ci sarebbe da scrivere un libro intero sulle migrazioni verso Ginosa da parte di gente che non sapeva nemmeno esistesse la piccola località, per non dire che in tanti a stento avevano un’idea sulla Puglia stessa.
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Arrivano da ogni dove, dal Giappone e dagli Stati Uniti, dalla Germania e dalla Norvegia, partono un po’ disorientati e poi rimangono incantati dai luoghi che scoprono grazie ad Angelo, promettendo di tornare al più presto. Il fatto è che tornano per davvero e non solo con le parole: tornano assieme ad altri amici, ormai ci sono delle comitive intere che scelgono Ginosa come meta per una mini vacanza piena di colori, sapori e profumi irripetibili, oltre al solito carico di camicie realizzate a mano dal “nostro”. Camicie e poi cravatte, fazzoletti ( i buyer del Sachs lo hanno definito unico al mondo), giacche: è diventato uno stilista a tutto tondo. Perfino Francis Ford Coppola sta mettendo la bandierina della qualità a Ginosa, ogni anno arriva assieme ai suoi collaboratori, familiari, soci e via discorrendo: si diverte come sul set, sente suo il laboratorio di Angelo, quel mondo sartoriale che gli ricorda le radici italiane e il mondo hollywoodiano. Ci va sempre, tentando di parlare in italiano e cercando di carpire i segreti di un mestiere che lo affascina. Porta in alto i valori della sua terra, concetto inflazionato e spesso usato a vanvera, per dei tornaconto personali: Angelo invece ci crede
a dismisura, nonostante certi accanimenti inspiegabili nei suoi confronti. Voleva regalare ai suoi ospiti attimi e momenti ancor più indimenticabili, delle esperienze totali all’intero della stessa struttura, un borgo acquistato con l’intento di trasformarlo in una specie di all inclusive: stanze, laboratorio, ristoranti tradizionali. Ha investito tantissimo danaro proprio (da rileggere con attenzione: danaro proprio)ed energie nel borgo di casa, con il suo solito entusiasmo: l’idea era di tirarlo a lucido secondo gli insegnamenti di Brunello Cucinelli. Il progetto è però fermo da due anni,
la scusa delle autorità è un masso caduto e mai spostato, fatto che impedisce tuttora l’accesso e i lavori. Il mondo va con una velocità folle, da quelle parti a qualcuno non va bene e cerca sempre di mettere il bastone fra le ruote. Chi ci guadagna? Nessuno, a cominciare dalla comunità locale. Lui va avanti, e dio sa come trova le energie, la calma e la spensieratezza per creare nuove collezioni. E’ un miraggio che non ha deciso di fare i bagagli ed emigrare, spesso nemmeno lui trova un motivo, una ragione di come e perché lo fa.
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Nel frattempo sforna altri modelli, reinventando un mondo, il suo. A Firenze porta nuove idee: la polo camicia in tutti i tessuti possibili e poi una miriade di coli particolari ed esclusivi. “Qui siamo oltre ogni immaginazione, non ci batte nessuno”, dice fiero. “In più, ci sarà la collezione Angelo Inglese, porterò una cartella intera con dei tessuti particolari come la maglina e il jersey: le polo camicia potranno essere realizzati su richiesta e su misura.” Piccolo consiglio: pensare ad un nuovo modello, la polo Donald. O meglio, The Donald. Sul mercato americano avrebbe un successo pazzesco.
Born to cook TERRY GIACOMELLO
Suprema di mais con gelato al tartufo
C
reatività molto spinta, una immaginazione smisurata che ti provoca scosse di piacere totale, un paradiso delle tentazioni. Tutto questo e molto, moltissimo altro da Inkiostro, nel regno di Terry Giacomello, uno di quelli che vive e lavora per far della ristorazione uno spettacolo. Entri da lui con delle grandi attese, esci e non ricordi nemmeno di quanti piatti e sensazioni te ne sei innamorato contemporaneamente. Piatti ricchi di idee, vivi, vigorosi, che hanno del ritmo, sono scenici, pittorici: le cotture
Anguilla allo yogurt di paprika
sono da scienziato, la mano decisa, i profumi nitidi, netti e garbati, alcuni violenti. Terry si prende dei rischi, tutti calcolati, perché è un grande amante della roulette dei sapori, è il primo a divertirsi come un bambino in un parco giochi, alle giostre. Non ci si annoia mai, andando da Inkiostro: provi sempre delle nuove sensazioni, si miagola per il piacere, appena ti arriva il piatto hai gli occhi pieni di sorpresa e di meraviglia. La tagliatella albume, tartufo e caviale, arrotolata e portata alla bocca, sussurra segreti, la prima forchettata è un colpo al cuore:
Mezze maniche al brodo di prosciutto
troppo gustosa, troppo indecente. E’ una portata geniale, meravigliosa, unica nel suo genere, quasi un delirio prepararla, ancor di più gustarla. L’albume messo sotto vuoto per diciotto volte, poi tutto il resto: un miraggio. I canestrelli sembrano delle caramelle magiche, mentre la supreme di mais con polvere di olive nere e gelato al tartufo è un esercizio tecnicogastronomico tanto complicato quanto riuscito. Ama sorprendere e osare, Terry Giacomello: ci sa fare, è consapevole anche del fatto che la gente va da lui proprio per i giochi e le sorprese.
Tagliolino albume e caviale
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Terry Giacomello
Mordi tutto con gesti lenti e sognanti, mentre il corpo straripa di gioia: la proposta di Terry è davvero qualcosa per cui valga la pena salire in macchina è andare a Parma. Sa suscitare il desiderio e l’illusione, glielo leggi in faccia, che vive per farti divertire: i giochi pirotecnici lo esaltano Qui regna la passione e lo capisci fin dal primo morso: i grissini affusolati, al burro e olio extravergine, sono grassi, gustosi, perfin troppo. Il pane croccantissimo, idem. La classifica dei tre piatti più intriganti? Il tagliolino albume e caviale, un must, il suo signature dish, sempre piacevole da morire, ogni qualvolta lo assaggi e riassaggi. Poi
la ghiandola di maiale cotta per 19 ore e sicuramente l’anguilla allo yogurt di paprika con una infinità di erbe accanto. Ecco, da Terry ti sembra la prima volta che assaggi un’anguilla, si sta sciogliendo sulle labbra, incendia i sensi: è talmente buona che il suo ricordo ti accompagna per il resto della giornata. E’ preparata con lo yogurt alla paprika, poi accanto trovi una infinità di erbette gustose e intriganti, come la lattuga del minatore, l’origano del Puerto Rico, il finocchietto marino, il coriandolo vietnamita, lo spinaccio brasiliano e l’erba camaleontica. Non abbiamo incluso le mezzemaniche al brodo di prosciutto, sono così particolari e
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spettacolari da considerarle fuori concorso. Certo, quando vai da lui le aspettative sono altissime, visti i suoi trascorsi: ha lavorato da Adrià per quattro anni (“assunto e non come stagista”, tiene a precisare, giustamente), Noma, Mugaritz, Alex Atala, Michel Bras. Di gran lunga i migliori e soprattutto i più rivoluzionari, dei gran sognatori: Terry è come loro, lo si percepisce ad ogni morso, che è felicità pura. Terry è la meta ideale per i food lover e gourmet obsessed, per i veri intenditori. Te ne stai lì aspettando la prossima magia e, ammaliato dai suoi piatti, ti chiedi: chi porteresti con te, in un tempio di alta cucina come il suo.
Garage
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MORSI CROCCANTI
elle donne, tantissime. Di buona famiglia, delicate, chic, sexy. Poi c’era quel rumore piacevole, quel ronzio della gente felice di trovarsi lì a chiacchierare e a mangiare. Non trovavi un posto, al Garage. Okei, il locale è molto carino. Okei, i cocktail sono intriganti, potenti. Ok, alcune pizze sono letteralmente straordinarie, croccanti e gustose, perfino troppo gustose, addirittura indecenti. Però c’era qualcosa nell’aria che all’inizio non si riusciva individuare: poi, l’illuminazione. Siccome non si può separare l’erotismo dal cibo, siccome i confini tra l’amore e l’appetito a volte sono talmente labili da confondersi completamente, ecco la spiegazione: la pizza all’angus sapeva di sesso folle, era violenta, elettrica, sensuale. Le pizze al Garage sono come i preamboli amorosi, vengono preparate tenendo in considerazione tutti i sensi: vista, olfatto, gusto, tatto. Solitamente si attribuisce a ciascun piatto un’immagine: la pizza assaggiata da Garage è così croccante e gustosa da farti volare con la fantasia al corpo di Charlize Theron. Il primo morso è felicità pura, è come fare all’amore con lei. E’ semplicemente straordinaria, quasi elettrica, il capogiro è assicurato. Il segreto sta nella
preparazione dell’impasto, una ricetta quasi segreta, con farine biologiche di grano italiano al cento per cento, macinate a pietra, semi-integrali. Le lunghe lievitazioni che oscillano dalle 48 alle 70 ore sono un tocco in più, aggiungendo
piacevolezza. Forse basta questa breve introduzione e presentazione per convincervi di fare un salto in Corso Sempione al civico 42. Credetemi, andateci. Ne vale la pena.
Casa Lucia ALTA QUALITÀ
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a zona è affollata. Ci sono due vie, Marghera e Ravizza, piene di ristoranti: in odor di stella, etnici, trattorie, pizzerie, hamburgherie, di tutto di più, pare di essere in un parco giochi. Potrebbe sembrare una esagerazione vederne tanti uno incollato all’altro, però c’è anche una spiegazione: il quartiere, e parliamo di uno dei più benestanti di Milano, è prettamente residenziale. Per degli interi isolati non c’è nemmeno l’ombra di un locale, ancor meno qualcosa di lussuoso: ecco spiegato, almeno in parte, il successo di Casa Lucia, il ristorante giusto nel posto giusto. E’ ideale per la clientela meneghina che bada al sodo e premia chi sa trattarla: niente voli pindarici, niente sifoni e schiume, invece tanta qualità e un servizio discreto e gentile. Chiamiamolo pragmatismo alla milanese. D’altronde se non ti comporti così non riesci a fare 150 coperti durante la cena: Milano sa essere generosa e riconoscente come nessuna se il posto lo merita. Ecco, Casa Lucia se lo merita, eccome: prosciutti spagnoli, carni e formaggi di primissimo livello, idem per il pesce. In più, sanno cucinare: qui si mangia una delle migliori carbonare (la pasta è quasi sempre
Verrigni), poi i tagliolini con carciofi e calamaretti non sono da meno, per non parlare degli spaghetti al tartufo, semplicemente strepitosi. Non abbiamo assaggiato l’intero menù, di conseguenza possiamo solo immaginare che gli altri piatti siano altrettanto generosi e intensi, perché va aggiunto pure questo: le porzioni sono da trattoria verace, ovvero abbondanti, mentre la
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qualità impera. Non puoi trovare un difetto, a cominciare dall’accoglienza: ci vai e soprattutto torni volentieri, perché sai che tutte le volte passerai una serata senza sorprese. Pare banale, ma non lo è: la Milano bene vuole soprattutto questo. Certezze, confort e qualità. Casa Lucia pare costruita su misura per loro.
Savoir faire INVITI? NO, GRAZIE
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utte le volte che mi trovo, spesso mio malgrado, immischiato da qualche parte fra altri giornalisti ad un evento gastronomico, mi viene in mente Ruth Reich, la più importante critica di tutti i tempi. Mi chiedo: se fosse in Italia, verrebbe invitata pure lei in situazioni del genere? Ovvero, le direbbero “Vieni alle 20, ci sarà una cena”? E soprattutto si siederebbe assieme ad altri dieci o venti? No. A onor del vero ci vado poche volte, pochissime ad eventi del genere. I motivi sono tanti, a partire da quello più importante: non mi interessano. Per nulla. Lo so, ce ne solo orde di altri colleghi che non vedono l’ora di buttarsi in mischia, sera dopo sera, spesso prima ad un aperitivo e poi ad una sera. Tutto lecito, sia chiaro: alla fine vanno solo laddove vengono educatamente invitati. Però la domanda è un’altra: è giornalismo, questo? Ha senso andare ad una inaugurazione, oppure una cena organizzata, con una dozzina di persone se non di più? Si può davvero capire qualcosa di un posto, quando c’è la calca umana attorno? Ovviamente no. Ci vado di rado e tutte le volte mi ripeto e prometto che sarà l’ultima volta. Ricasco perché di mezzo ci sono amici insistenti, patron che non vorresti offendere: ci sta, però rimane la questione di fondo, ovvero che il giornalismo ha nulla a che fare con situazioni del genere. Come puoi raccontare un luogo, un piatto, un atmosfera? Come puoi suggerire, coinvolgere il lettore, informarlo, dargli dei punti di riferimento? Esatto, non si può e, aspetto più grave, agli organizzatori non interessa affatto. Per loro conta far numero, portare masse di persone, dimostrare l’appeal e le conoscenze. Gli uffici stampa, lo penso sempre più spesso, ci usano per fare bella figura. Più ne portano, meglio è per loro. Esagerato? Assolutamente no. A loro importa poter dire che hanno invitato 70 giornalisti, così giustificano la “parcella”. Nulla da eccepire, dal loro punto di vista. Un noto chef bistellato, mi sfugge il nome, fece di peggio: caricò sui pullman una sessantina di colleghi per assaggiare il suo nuovo menu. Si può avere due stelle e caricare la gente come bestiame, per poi pretendere articoli minuziosi, pieni di charme e dettagli sul menu? Rispondetevi da soli. Mi immagino sempre una che fatica a salire sul bus e alcuni che la spingono dentro, tipo heeey ruup, alla garibaldina. “Manca qualcuno?”, ultima domanda prima di tornare a casa, felici e mangiati. Sintetizzando, si pensa e si punta sul fatto che il giornalista viene sempre e comunque, perché non rifiuta mai un aperitivo, una pizzetta, una oliva, un pezzo di carne e uno di vino. “Massì, tanto quelli vengono di corsa”, più o meno dovrebbe essere questo il credo degli uffici stampa. Fino ad un certo punto possono avere anche ragione, però c’è un ma: non invitano mai quelli più importanti, non osano mescolare (azzardiamo dei nomi) Enzo Vizzari con questa gente, nemmeno Angela Frenda, oppure Fiammetta Fadda. Forse per questioni
di età, sicuramente perché incasserebbero, giustamente, dei no secchi. E allora si punta su quelli che dicono sempre di sì ma che, guarda caso, contano molto meno. Gli stessi pr e uffici stampa potrebbero difendersi portando come argomento le difficoltà nel portare i giornalisti uno ad uno: sarà, ma se vuoi avere articoli ben impostati ne vale la pena di organizzarsi meglio e faticare un po’ di più. Certo, per il lancio di una pizzeria forse basta far sedere tutti ad un tavolo e far loro assaggiare tre pezzi ad ognuno: due foto pubblicate subito su instagram, il giorno dopo altre due e tutti a casa, poi c’è chi mette tre righe sul giornale, oppure sul
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sito. “Ha aperto in via ics, il patron si chiama così, il menu è cosa”. Sorvoliamo. Il ristorante è un’altra cosa, vive di vibrazioni, piccoli dettagli, servizio, accoglienza, ambiente. Per questo devi andare da solo, per carpire e capire quello che sta succedendo. Al massimo puoi portare una persona, tanto per non cenare oppure pranzare senza scambiare un’opinione: anche se, trattandosi di lavoro, non si va con la moglie, oppure la sorella e l’amico. Quando si va a San Siro in tribuna stampa, nessuno si porta la famiglia: si va per lavorare, dunque si va da soli. Forse dovrebbero impararlo anche quelli che bazzicano il settore del food.
Sueno caribeno LA GIOSTRA DEL PIACERE
Golf club Playa Dorada, ora parte integrante del resort Amanera
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epubblica Dominicana è una formidabile macchina che riesce a creare e produrre felicità in quantità infinita. I suoi resort esplodono di bellezza, spazi, sensazioni, è una corsa folle fra chi ti offre e ti impressiona di più. Tutto profuma di benessere e leggerezza, hai la certezza assoluta che qui mai e poi mai potrai essere meno che raggiante. Sanno creare l’illusione di un mondo perfetto. O forse lo è. Un paese che è una formidabile macchina da sogni e soldi, che regala momenti di autentico nirvana, che ti accoglie e ti ammalia, ti abbraccia con le sue spiagge, sole, aragoste, sigari, golf e bellezze. Un paese straordinario che è un sorriso continuo, un’esaltazione permanente, dove si vive per il turismo e per i turisti, offrendoti tutto e più di tutto, altrimenti non si spiegherebbe come gli alberghi fossero strapieni perfino a metà settembre, data dell’ultimo nostro viaggio a Punta Cana e dintorni. Americani e messicani ovunque, argentini e colombiani anche, europei pure: tornano sempre, anche più di una volta l’anno, perché la Repubblica Dominicana è una continua giostra del piace-
re, un sogno interminabile dalla mattina alla sera, ogni mese dell’anno. Un paese sensuale, un paradiso continuo dove le giornate scorrono lentamente e piacevolmente per qualsiasi tipo di turista e di target: famiglie, coppie in cerca di una fuga amorosa, single che vogliono concentrarsi sul golf e sigari, pensionati energici, avventurieri e amanti. Funziona qualsiasi tipo di formula, dal villaggio agli appartamenti, dai resort all’all inclusive. Quest’ultima opzione va per la maggiore: prendiamo per esempio il Barcelò di Bavaro, ultima nostra destinazione sull’isola caraibica. 1992 stanze, quasi tutte piene (si, ci sono quasi 2.000 camere e suite, incredibile davvero): nonostante il numero altissimo di ospiti non hai mai la sensazione di sentirti in un posto affollato, anzi. D’altronde le dimensioni sono sconfinate, senza aggiungere il campo da golf, praticamente incollato alla struttura. The Lake non ha buche con vista mare, però trovi comunque tanti laghetti e ostacoli: disegnato da Pete Dye, viene molto apprezzato dai giocatori, non a caso registra una media di 28.000 gree fee durante l’anno (75 dollari in alta stagione, 50 in
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bassa, ovvero da aprile a ottobre). La catena alberghiera propone tre strutture fra Bavaro e Punta Cana, segno che la richiesta é davvero notevole e che gli affari vanno a gonfie vele: per gli statunitensi la destinazione si trova a sole tre ore da New York e 2,45 da Miami, di conseguenza vengono in massa anche per un lungo weekend. Mare e golf, non c’è nulla di più rilassante ed esaltante. Lo si sa, la proposta del paese caraibico è straordinaria: le immagini con le spiagge di Punta Cana e le buche di Casa de Campo hanno fatto il giro del mondo, sono un classico, però negli anni la proposta si è allargata, e tanto. Conosciamo il paese come se fosse nostro, siamo dei fan scatenati di Punta Cana e Samana, di Puerto Plata e Cabarete e siamo letteralmente innamorati sia dalle spiagge che dalle zone piene di colline, dove hai la sensazione di essere alle Hawaii, con il mare da una parte e il verde che ti affascina dall’altra. Il campo da golf di Playa Dorada, a picco sul mare, nei pressi di Samana, è quello che ci incanta di più, pare costruito e ideato per i golfisti che cercano, sognano un attimo, una giornata che possano ricordare per tutta la vita, che valga per
Casa de campo, Teeth of the Dog
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Golf Club Playa Dorada, spesso paragonato al Pebble Beach
sempre, non a caso lo chiamano il Pebble Beach dei Caraibi. A vederlo e giocarci in tanti lo considerano ancora più scenografico e commovente del campo statunitense. Le piccole montagne da un lato, il mare dall’alto, le rocce che fanno paura per il timore di caderci mentre cerchi un colpo ad effetto, l’altitudine che provoca l’ebbrezza delle vertigini appassionate: una sensazione adrenalinica che deve essere vissuta almeno una volta nella vita dagli amanti delle vacanze golfistiche spettacolari, piene di emozioni forti. Poi c’è la spiaggia accanto, una delle più nascoste e apprezzate, appunto la Playa Dorada. E’ una zona presa d’assalto dagli amanti del kite surf: Cabarete si trova a pochi chilometri di distanza. Per tornare a Punta Cana, iniziò tutto con il Club Med qualche decennio addietro sulla spiaggia più bella, non a caso Julio Iglesias ha scelto di costruire la sua dimora proprio lì, incollata al villaggio turistico. Più in là il Cap Cana, resort favoloso dove, lo ricordiamo come se fosse oggi, abbiamo vissuto un
paio di ore straordinarie: una top model stava scattando delle foto al bordo della piscina, a due passi dalla spiaggia, mentre noi ci trovavamo al primo piano della club house, sorseggiando un cocktail e assaporando un sigaro fatto a mano, un Davidoff limited edition dal tiraggio elegante e lieve, uno di quei sigari che gli americani chiamano mild, ovvero morbidi, leggeri, soavi. Soave era l’intera atmosfera, con lei che posava languida e noi che avremmo desiderato rimanere lì per sempre. Parliamo dei nostri inizi nel mondo del golf, Punta Espada ed Eden Roc non erano ancora ultimati, a quei tempi la foto più in voga era il maxi bunker della 17 del Cap Cana Golf Club, quei sei ostacoli di sabbia ravvicinati, croce e delizia dei golfisti dilettanti e non solo. Era così bello da sdraiarti sul green e voler baciare l’erba, però il must era ed è tuttora la Casa de Campo, una proprietà di una tale grandezza da farti perdere le traccia, 28 chilometri di campi da golf e ville. Capita spesso di incontrare George Bush senior a giocare (è ospite dei Rockfeller), tanti altri miliardari (tantissimi italia-
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ni) che abitano e si godono la pensione, rilassati e gaudenti. I tre campi, Teeth of the Dog, Dye For e The Links regalano emozioni pazzesche. Il Teeth of the Dog è ancora in cima alle preferenze dei golfisti e non c’è visita nella Repubblica Dominicana che non li porti qui. Ti potrebbero raccontare per ore della buca 3, dove inizi a vedere il mare, oppure la 5, considerata una delle più scenografiche in assoluto: costeggia il Mar Caraibico, il vento ti mette in difficoltà, tutte le volte ottieni uno score diverso. Complicata anche la 8, complicata e meravigliosa, come la 15, la 16 e la 17. L’altro percorso leggendario è il Dye Fore, sulle alture del Chavon, con il fiume che si vede in basso. Probabilmente non esiste un altro campo al mondo che possa offrirti una vista simile: montagne, marina, il fiume e il mare. 27 buche assolutamente straordinarie, difficili, adrenaliniche, scenografiche, da sogno: ci sarà un motivo per il quale si torna sempre alla Casa de Campo. Non ne hai mai abbastanza, e mai ne avrai. Né della Casa del Campo, né della Repubblica Dominicana
Dye Fore, all’interno dell’infinta Casa de Campo
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Toya, Hokkaido SIMONE CANTAFIO
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lace with a view, era il titolo di un articolo comparso qualche settimana addietro sul Financial Times. Il senso era che certi paesi, soprattutto l’Italia, vantano delle panoramiche mozzafiato, oltre ad una cucina di altissimo livello, portando il cliente in paradiso. Accade anche a Hokkaido, nel ristorante di Michel Bras all’undicesimo piano del Windsor Hotel Toya: coincidenza oppure no, l’executive chef è un italiano, Simone Cantafio, qui da un anno esatto. La vista, dunque, prima dei piatti. Perché fu la polaroid straordinaria a convincere il leggendario Michel ad aprire qui. Negli anni novanta proposero allo chef una
infinità di situazioni e soluzioni ideali per aprire altri locali dopo il successo strepitoso (tre stelle già dal 1999) e una fama planetaria per via del Laguiole, ristorante a nord dei Pirenei: New York, Singapore, ovunque. Diceva sempre di no perché mancava il tocco magico. Qualcuno suggerì il lago Toya, luogo che lo chef nemmeno conosceva. L’impatto fu devastante, la conquista immediata, la decisione anche: “Aprirò qui, quasi al confine del mondo”. Due ore di treno e poi mezzora con il bus da Sapporo, materie prime in abbondanza e di una qualità straordinaria, allevatori locali che sanno il fatto loro come pochi altri, paesaggi surreali (dall’alto del ristorante si può ammirare il Lago Toya da una parte e la Uchiura Bay da
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un’altra):Michel, assieme al figlio Sebastian Bras non hanno esitato un attimo. “Conoscevo bene il Giappone”, racconta. “La prima volta arrivai qui 25 anni addietro, poi ci fu la traduzione del mio libro e si creò subito una grande sintonia. Chi ci frequenta sa che non abbiamo mai avuto i soldi come priorità, noi andiamo dove ci sentiamo bene, dove la nostra vita ha un senso, proprio per questo preferiamo la campagna piuttosto che le grandi città. Qui ci hanno invitati nel 2001 e all’inizio pensammo fosse la solita location urbana. Hanno insistito che ci andassimo a vedere e ricordo un’infinità di collegamenti aerei, una delle giornate più lunghe della mia vita. Arrivammo a notte fonda, l’albergo non era ancora finito, c’eravamo noi, due guardiani e 386 stanze vuote. Avevamo paura, in più eravamo
assai stressati e soprattutto stanchi. Non abbiamo chiuso occhio per tutta la notte, rimproverandoci di essere andati. Poi la mattina dopo ci hanno portati all’ultimo piano e siamo rimasti a bocca aperta: il lago da una parte, l‘oceano dall’altra, le montagne innevate. Ci dissero: il posto è vostro, fate quel che volete, potete avvallarvi dei servizi di un designer a vostra scelta, chiamate e lavorate con chi pensiate sia meglio. Abbiamo accettato quasi subito”. E’ passato di tempo, da quei giorni (l’apertura nel 2002 con Alexandre Bourdasse al commando). Oggi alla guida del ristorante hanno nominato un italiano poco conosciuto da noi e tanto apprezzato all’estero: Simone Cantafio, nato a Milano da genitori calabresi. La sua storia è come quella di tanti altri giovani con il fuoco dentro, nati e convinti di avere una specie di missione da compiere: diventare chef pluristellato. Dopo la scuola alberghiera ha ottenuto uno stage da Cracco ai tempi nei quali il Carlo nazionale era poco conosciuto al grande pubblico: aveva già il suo ristorante in Via Victor Hugo, aveva anche le stelle, ma era una meta per gourmet esigenti, non per curiosi in cerca di un autografo. Finito lo stage, Simone bussa alla porta di Gualtiero Marchesi, suo idolo e modello: il maestro gli propone un lavoro come commis, fino a quando si sarebbe liberato un posto in cucina. Con la rabbia dei giovani in corpo, Simone sta per dire di no: solo l’intervento del padre gli fa cambiare idea. Rimane all’Albereta: come da accordi, inizia in sala e poi passa ai fornelli per tre anni. Il loro rapporto diventa davvero molto stretto, Marchesi lo prende sotto la sua ala protettiva e alla fine del contatto lo indirizza verso la Francia, da Georges Blanc, tre stelle al Vonnas: il dado è ormai tratto, il ragazzo ha spiccato il volo. Qui diventa ancor più rigoroso e disciplinato, a 24 anni pensa di poter fare il grande salto: eccolo andare al Laguiole, tempio di Michel Bras. Il resto è quasi storia, visto che da quel giorno le loro strade non si sono quasi mai più separate, eccezion fatta per l’esperienza australiana da Peter Gilmore. “Mi hanno plasmato e formato”, racconta Simone. “Da Georges Blanc ho imparato che un ristorante è un’azienda, ovvero bisogna saper chiudere il cerchio dell’eccellenza con quello del bilancio. Da Cracco invece ho capito che il mio mestiere è prima di tutto rigore, precisione e immagine personale. Marchesi invece mi ha trasmesso il vero valore della parola insegnare. Rimane celebra la sua frase secondo la quale l’esempio è la più alta forma di insegnamento. Difatti oggi ai miei collaboratori prima mostro la mia idea e poi chiedo che con rispetto e precisione la replichino, ma non pretendo che facciano cose che nemmeno io sono in grado di fare”. Eccoci arrivati al punto più importante: è la cucina d Bras o la cucina di Cantafio? “Molti pensano che qui a Toya arrivino ricette dalla Francia e che il mio compito sia quello di executive: assolutamente no, il mio compito é di rispettare il nome e lo stile Bras, uno stile naturale moderno elegante e leggero, dopo di che ho carta bianca su tutte le creazioni. Michel e Sébastien si fidano, sanno che ho origini e un palato diverso dal loro. I miei piatti forti qui sono quelli legati alla mia storia, al mio essere italiano, uso molte noti mediterranee: agrumi, capperi, pesce. A parte i classici della maison (Gargouillou e il Coulant), ho carta bianca.
Vista mozzafiato sul lago di Toya
Simone assieme a Sebastien (a sinistra) e Michel Bras.
Asparagi di Date con uova di salmone
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Un classico della maison Bras, il Gargouillou
Sella d’agnello di Akabira
Cremoso cheese cake con fichi arrosto
Per quanto riguarda i miei piatti forti , la gente, prevalentemente turisti giapponesi e cinesi, quando sa delle mie origini si lascia trasportare: io non esito a mostrare le mie radici, come la pasta fresca al grano saraceno di Shintoku farcita di radici di Gobu,verza brasata al burro e salvia. In pratica gusto italiano, prodotto giapponese e un design che segue gli ideali della maison Bras. In un piatto cerco dei contrasti che tra di loro possano creare degli equilibri leggibili, facili da capire: insomma una cucina per tutti e non per
pochi. Se dovessi inquadrarmi come chef mi definirei goloso: avete presente un bambino di fronte a un bel piatto di lasagne, con il suo sorriso, la gioia e la voglia di godersi il piatto?” Tutto bello, deve essere fantastico avere una brigata di 30 persone, le materie prime giapponesi, ma come si vive in un posto così sperduto? “Vivo nel paesino a sud dell’isola di Hokkaido Toya, a circa due chilometri dall’hotel.
L’impatto iniziale é stato tremendo: la cultura, il luogo disperso tra mare e montagna. E’ stata dura trovare la mia posizione all’interno di questo quadro, ma dopo qualche mese ho capito quale fosse il mio compito, poter trasformare la natura in una delle cucine più ricercate de mondo. Il palcoscenico é surreale: il ristorante ha due sale, una con vista sull’Oceano Pacifico, l’altra con vista sul lago di Toya, due vulcani e dei colori mozzafiato a seconda della stagione”. What else?
Guida Michelin
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STILE HOLLYWOODIANO
revisione: fra pochi anni, facciamo tre, il giorno dell’assegnazione delle stelle Michelin sarà un evento identico alla notte degli Oscar. Le premesse ormai ci sono tutte: l’interesse quasi spasmodico della gente, l’attesa trepidante degli chef, l’avvicinamento delle grandi aziende, i media che ormai trattano l’evento come se fosse qualcosa di davvero straordinario (lo è). Perché si, l’ultima edizione è stata un gran successo: mai si erano visti tanti sponsor di livello mondiale (Veuve Clicquot, Eberhard, Alfa Romeo), mai si era organizzato un evento di una tale portata. Per la prima volta il giorno delle stelle è stato un evento totale: la diretta sul sito della Michelin, gli eventi serali (sontuosa la cena, con Niko Romito ed Enrico Bartolini in cucina), in pratica una giornata piena e ricca di emozioni. Sempre per la prima volta si è deciso di portare il mondo stellato fuori Milano e pare che l’idea sia piaciuta assai. La scelta della guida di spostarsi a Parma (ovviamente a pagamento) è stata vincente. La città emiliana ha risposto in maniera formidabile, offrendo la sua bellezza infinita: la premiazione al teatro Regio, la serata di gala al teatro Farnese, quest’ultimo aperto quasi solo per l’occasione (è qualcosa di impensabile, davvero). Non era mai successo che la gente, che tanta gente seguisse da casa la diretta dell’evento, sul sito della guida: in tempo reale commentavi con quelli che si trovavano a Milano e altrove, l’emozione e la tensione erano palpabili. Interesse, sponsor, seguito: ormai non si tratta di un evento di nicchia, anzi.
Il giorno delle stelle sta diventando un momento clou, attesissimo. Da qui ad una serata in stile hollywoodiano il passo è davvero brevissimo. Il livello si sta alzando, l’interesse si sta allargando: ci sono tutte le premesse per una diretta televisiva. E pensare che fino a pochi anni addietro era una questione prettamente legata alla categoria degli chef, passando inosservata per il resto del mondo, clienti compresi. Perché sì, il problema oggi è proprio questo: avere una stella, oppure perderla sta diventando
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argomento di isterie, discussioni accese, delusioni cocenti. Esattamente come accade a Hollywood: chi prende la statuetta, chi rimane fuori, i rumors, le feste. Speriamo solo che diventi un evento affascinante senza forzature tipo prima della Scala, con personaggi inutili e grigi che sgomitano per farsi largo e comparire nelle foto. Le stelle Michelin sono sinonimo di sogni e qualità, non di personaggi kitch in cerca di notorietà.
Nu muses “IL” CALENDARIO
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arà un caso o forse no, ma da quando sfogliamo Treats Magazine non riusciamo più ad appassionarci del calendario Pirelli, anzi: lo consideriamo patetico, demodè, palloso, borioso, oltre che buonista e ipocrita. Non ne indovinano una, da quando hanno scelto la strada del moralismo triste. Allargando il discorso, tutte le riviste che tentano goffamente di farci credere che l’uomo moderno sia più interessato ai problemi dei pianeta piuttosto che alla bellezza femminile, stanno fallendo miseramente e giustamente. Ultimo della lista Playboy, un suicidio inspiegabile: niente più donne nude in copertina, come se gli acquirenti la comprassero per trovare all’interno articoli sul pomodoro bio e la vita vegan, il riscaldamento globale e la situazione dei diritti umani nell’Africa profonda. Per carità, non vogliamo sembrare insensibili, però gli interessati si rivolgeranno alla Cnn oppure Bbc, Times oppure NYT: le riviste maschili devono profumare di desiderio dalla prima all’ultima pagina, che si tratti di donne, case o macchine poco importa. Per questo ci piace pubblicare e pubblicizzare sempre le fotografie di Treats magazine , la rivista più sensazionale degli ultimi anni, un caso editoriale che si è trasformato in leggenda: good done, Steve Shaw. Ogni numero ti sconvolge per la bellezza delle fotografie, nudo totale senza mai un briciolo di volgarità, un’eleganza imperiale in ogni pagina e scatto. La formula è semplice: mettere i migliori fotografi del mondo nella condizione di realizzare i servizi che hanno sempre sognato di realizzare, senza alcuna censura, alcun limite di pagine e altri condizionamenti simili. Forse un giorno chiederemo a Steve di realizzare assieme a noi uno speciale Treats, ovvero un numero intero dedicato alle immagini che sono state pubblicate nel suo magazine, rivista che non tollera fronzoli e meline, frasi scontate e argomenti tiepidi, opinionisti saputelli buoni a nulla. E poi si, ha realizzato anche un calendario, Nude: è stato elettrizzante seguire le varie tappe, con selezioni infinite fino a trovare le ragazze perfette per trasmettere il suo messaggio di bellezza e sensualità, parole spesso utilizzate a vanvera e quasi mai riempite di sostanza. Steve ha affidato a David Bellemere il compito di scattare e i risultati sono clamorosi: qui ne pubblichiamo alcune, per il resto cliccate www.numuses.com. Lo si può anche acquistare: costa assai, però vale molto di più.
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Syrco Bakker PURE C
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a madre indonesiana. Il papà, olandese, che ovviamente fa il cuoco. Cresciuto in una regione piena di materie prime straordinarie, dalle erbe aromatiche alla pesca. Ha avuto Gordon Ramsey, Jonnie Boer e Sergio Hermann come mentori. Non poteva andare diversamente, con questi presupposti: Syrco doveva diventare un grande chef, uno di quelli che lasciano il segno. Crede visceralmente nel suo lavoro e lo spinge oltre i limiti, cercando di conquistare il cliente “fino all’ultimo morso”. Definisce la sua cucina “nordica, pura e gustosa”, preferisce il pesce, anzi, i pesci meno conosciuti, così da poter sorprendere i suoi clienti. Benvenuti nel mondo di Syrco Bakker, chef e patron del ristorante Pure C, a Cadzand, Olanda, due passi dal confine con il Belgio. Parlavamo prima di Sergio Hermann: Syrco lo
ha incontrato al Oud Sluits, tre stelle Michelin, ristorante ormai chiuso, visto che Sergio si è trasferito ad Anversa, dove ha aperto The Jane, in una ex chiesa sconsacrata. E’ stato colui che lo ha plasmato, infondendogli tanta fiducia nei propri mezzi e facendogli capire che si deve sentire libero di creare, in qualsiasi momento. Da Gordon invece è stato poco, lavorando nel “reparto” vegano: gli è rimasta impressa l’ossessione di Ramsey per la materia prima e l’organizzazione del lavoro, oltre che il controllo della qualità in ogni dove. Ha passato invece più tempo con Boer, al De Librijie: “E’ qui che ho fatto all’amore, per la prima volta, con l’alta cucina. Lavorare con i migliori prodotti, assieme ad uno chef come lui, è stato fantastico, lì ho imparato e capito l’importanza del creare un ambiente familiare: mi è stato utile, oltre ad essermi di ispirazione”,
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racconta. Nel 2010 ha preso il volo definitivamente, aprendo Pure C: la clientela è trasversale (i prezzi sono accessibili, per questo arrivano anche tanti giovani) e prevalentemente belga, perché si tratta di un popolo che ama l’alta qualità e non ha dei problemi a superare il confine pur di mangiare bene. Prima di cenare puoi fermarti fuori, sul terrazzo, a guardare il mare e sorseggiare uno dei tanti cocktail chic, molto chic. Gli stranieri, belgi esclusi, sono un po’ meno numericamente, però ci sono, anche perché il ristorante si trova in una regione assai turistica, sul Mar Nordico, costa sud occidentale della regione della Zelanda, nelle Fiandre. Se gli chiedi quali siano i suoi ristoranti preferiti sceglie tre del paese confinante: The Jane e Bun (entrambi ad Anversa) poi Oak (Gent).
Syrco Bakker assieme a Sergio Hermann
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Magic City FAENA, COME UN FILM
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lorida, the Sunshine State. Miami. Parole magiche, sempre più magiche e soprattutto sempre più italiane, perché la città è diventata una meta a dir poco presa d’assalto dai cittadini nostrani che amano il sole, gli affari e la buona cucina (i granchi sono favolosi) Magic City é anche il nome di una serie televisiva straordinaria realizzata da Mitch Glazer per il network Starz, con Jeffrey Dean Morgan e Olga Kurylenko come attori protagonisti: un mondo strepitoso, tutto ambientato negli anni cinquanta, quando il sogno americano stava diventando realtà, anche turistica. Se una volta si veniva quasi esclusivamente per il clima (questo è il periodo ideale, da novembre a marzo), ora Miami è una destinazione permanente, un luogo dove vivere intensamente oppure tranquillamente nei quartieri residenziali chic (Biscayne Corridor, Downtown, Midtown e Brickell), oppure negli alberghi lungo la costa. Certo non è una città economica, però rispetto a New York e Los Angeles gode di una pressione fiscale minore e di conseguenza i prezzi, dai ristoranti agli alberghi, sono davvero abbordabili: non c’è alcun dubbio, il classico rapporto qualità prezzo ha davvero un senso, qui sull’Oceano. E’ pieno di italiani, in gran parte professionisti
che si sono trasferiti o che hanno acquistato delle proprietà, perché lo si sa, il business immobiliare è davvero mostruoso, nessun’altra città vive un tale fermento (attenzione però, non è un posto per improvvisati e avventurieri). Qualche anno addietro avevamo letto sul Financial Times che Miami viene considerata una specie di posto di nessuno, nel senso che non esiste
più gente nata da queste parti, sono tutti o quasi arrivati da altrove, Milano o New York poco importa. Una specie di seconda casa, mai la prima. In molti possiedono un appartamento, visto che anni fa lo si poteva comprare ai prezzi di un box milanese: chi invece vuole vivere Miami a morsi e in grande stile può alloggiare in uno dei gioielli appena aperti, perché va detto che si costruisce
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a raffica: 3.000 stanze nel 2015, gran parte sulla Miami Beach. Qui sulla Collins Avenue, la strada che porta da South Beach proprio a Miami Beach, ha aperto Faena, albergo di proprietà dell’argentino Alan Faena (originario di Buenos Aires, dove possiede un altro albergo sontuoso, disegnato da Philippe Starck) e curato dal produttore e regista Baz Luhrmann assieme alla moglie Catherine Martin: fa parte della Leading Hotel of the World, la più importante catena di alberghi indipendenti di lusso e porta con i pensieri alla serie televisiva su menzionata, perché si tratta di un palazzo costruito nel 1948, proprio i tempi che racconta meravigliosamente Magic City: stile Art Decò, grandi spazi, vista sull’oceano, maggiordomo privato, un teatro di cabaret. Un progetto costato 550 milioni di dollari e che comprende, oltre all’albergo, altri tre condomini di lusso. Le stanze sono cariche di sensualità, frizzanti e intriganti, tutte con vista sull’oceano, mentre i due ristoranti soddisfano i gourmet più esigenti: Los Fuegos è il regno del maestro dell’asado Francis Mallmann, Pao invece ti ammalia con la cucina asiatica moderna firmata Paul Qui. “Miami è la porta aperta verso l’America latina”, ama ripetere Faena. L’asado è un buon inizio. I suoi alberghi pure.
Ladydiabolika DITA ALL’ITALIANA
“P
otete definirmi un’imprenditrice creativa, artista mi pare esagerato”. Lorenza Bacchieri, in arte Lory Ladydiabolika, la potremmo tranquillamente considerare la Dita Von Tesse nostrana, per cui pure un’artista. E’ istrionica, camaleontica, intrigante, sexy: di sicuro sa come farsi desiderare e creare l’attesa, le aspettative, il sogno. “Confesso, sono una provocatoria femme fatale. Le illusioni se le fanno più gli uomini e nascono prevalentemente attraverso il mondo provocatorio che evoco consapevolmente nelle foto e che, prima della fotografia, interpretavo sul palco come ballerina. Ho lavorato per più di dieci anni nelle discoteche di mezza Italia ed è da questo mondo di lustrini e paillettes che sono nata, prima come costumista e successivamente come creatrice della mia linea di abbigliamento glamour che ho chiamato appunto, Ladydiabolika. Attualmente sono una stylist che crea su misura outfit e accessori, oppure faccio ricerca su progetto: make-up artist, hairstylist, lavorando freelance con aziende e privati. Nella vita privata invece ci sono io, Lorenza, donna multitasking, sempre pronta a mettersi in gioco e in discussione con mille passioni che spaziano dalla musica al cinema , dall’arte, quella vera, all’ozio. Il mondo da cui provengo mi ha lasciato
la voglia di sperimentare e osare, il che è fondamentale nell’attività di qualsiasi creativo, però devo dire che non esiste una diva 24 ore su 24. Il 2016 è stato un anno molto stimolante dal punto di vista professionale: ho lavorato come truccatrice per Parah, al fianco di Carlo Mari e Francesco Chiappetta. Sempre come make-up e hairstylist ho lavorato anche con lo staff di Daniela Dallavalle, assieme a Franco Marchesi: pure per loro ho curato il look book e la campagna 2017. In più, ho “firmato” due calendari, uno insieme a Enrico Ricciardi, l’altro è il Krona-Koblenz. Come modella è stato fantastico scattare per Christophe Mourthé nella casa di un collezionista, nel cuore di Parigi: mi sono sentita catapultata nel periodo delle dive hollywoodiane e delle pin-up. Un’ altra esperienza che mi ha messo a dura prova è stata quella subacquea con Carlo Mari: non avevo mai posato sott’acqua e portare il glamour in tale ambiente è stata una bella sfida. Con Maciej Kittel ho affrontato uno shooting tra i campi di lavanda in fiore in Provenza inseguita da sciami di api e con Luciano Consolini ho provato l’ebbrezza della velocità posando su una Mustang in corsa guidata sapientemente da Gian Maria Gabbiani”. Non è poi così male essere Lory Ladydiabolika…
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Anna Gambarova SHIFT EXPECTATIONS
I
mperiale. Elegante. Delicata. Ammaliante. Aristocratica nei gesti e nei movimenti. Di una bellezza sconvolgente. Appena la vedi rimani folgorato, conquistato, inebbriato dalla sua personalità, perché Anna Gambarova ne ha da vendere. E’ bastato una fotografia per capirlo, i numeri uno si distinguono all’istante. E’ decisa, diretta ma anche felpata e sensuale. Ha studiato giurisprudenza a Mosca, nella più prestigiosa università russa, poi è arrivata a Torino per completare gli studi ed è stato amore a prima vista: “Adoro la mia città”, dice d’un fiato. “Parco Valentino, Piazza Castello, Piazza Vittorio sono i miei luoghi preferiti”. Le due fotografie che potete ammirare qui sono realizzate da Elena Sobolevska, sua grande amica e ammiratrice: “Lavorare con Anna e’ semplicemente fantastico, raramente
incontri persone come lei: esigente come poche, pretende ed esige sempre il massimo, la perfezione. Sontuosa in qualsiasi movimento e scatto, te ne innamori all’istante”. Sottoscriviamo. Ora le piacerebbe scattare con e per Alberto Buzzanca, Adolfo Valente e Andrea Prestana, sogna sempre le scarpe di Louboutin e gli abiti di Elisabetta Franchi, ama leggere sotto le coperte con una tazza di tè fumante accanto, preferibilmente russo. Il tè sotto le coperte, il pesce invece a tavola: “Potrei rinunciare alla carne, ma non al pesce, soprattutto se abbinato ad un Franciacorta”, racconta con voce entusiasta, calda e sensuale. “Della moda mi piace e mi stupisce quotidianamente la sua natura trasversale: permette di esprimere la propria personalità, il proprio carattere, il proprio umore”, racconta. “È come una lingua universale, uno
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strumento di comunicazione non verbale attraverso il quale trasmettere un messaggio alle altre persone, senza necessariamente usare necessariamente le parole. Personalmente mi da un senso di libertà, permettendomi di essere ogni giorno la persona che voglio essere, di conformarmi agli altri oppure essere unica. E alla fine, per me e penso anche per molte altre donne, ci fa sentire semplicemente belle, non solo esteriormente”. I suoi sogni? “Ne ho 10.000, alcuni poco realizzabili altri un po’ più realistici, ad esempio imparare ancora due, tre lingue straniere, tra cui il cinese, che mi affascina per la cultura e la storia che questa lingua racchiude in sé”. Il suo motto nella vita è “Shift expectations”, ossia: supera le aspettative. Non sarà facile, visto che punta davvero in alto, sempre più in alto e che sogna in grande, davvero in grande. Superare l’infinito sarà assai difficile.
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Pascal Caffet
Foto: Carry Solomom
IMMAGINA. PUOI
L
a perdizione dei sensi. La certezza che quello è il posto dove vuoi essere. Abbiamo scritto tutto, pensavamo. Eravamo sicuri di aver raccontato ed esaurito la scorta di parole che custodiamo gelosamente e che tiriamo fuori dal cassetto solo per le grandi occasioni. E invece Pascal Caffet ci mette in difficoltà tutte le volte, sfornando e creando eclair e dolci mirabolanti. Insegue la qualità ad ogni costo, inventa gusti e colori, il che va oltre le capacità di un bravo pasticciere, seppur campione del mondo. Davvero, spesso entriamo, assaggiamo con gesti lenti e sognanti per poi esclamare stregati, invasi dal languore: “Non è possibile”. Ogni morso è felicità, stordimento, piacere infinito, incredulità. Fai una fatica tremenda dover scegliere una sola torta, oppure un solo eclair: il discorso è identico se si tratta di tre, oppure quattro: lasci sempre fuori una altra dozzina di gusti mirabolanti.
Spesso è straziante, andare via senza portarli a casa tutti: vi pare una esagerazione? Varcate la porta del negozio milanese di Pascal, in Via San Vittore 3 e poi ne parliamo. Se prima consideravamo divino l’eclair al pistacchio, anche per dei motivi sentimentali, ora il primato è messo in pericolo da altri nuovi arrivi, ultimo quello al caramello. L’anno scorso avevamo fatto un gioco assai intrigante: paragonare ognuno di loro ad una donna, morsicavi quello al cioccolato venezuelano fondente e pensavi subito ad una donna esigente, decisa, gourmet. L’eclair al limone era la donna ambigua, che all’apparenza sembra dura ma che poi si apre pian piano. Poi c’era l’esplosione di gusto del gioiellino al ribes nero e violetta, che sprizzava energia, voglia di correre nei boschi, libertà. Il più elegante e vellutato ci era parso quello al pistacchio, come abbiamo appena raccontato: delicato, una carezza infinita. Ci ricordava una donna con il seno piccolo ed elegante, il corpo
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aristocratico, magro, fiero. Ora da Pascal ne trovi altri, tanti altri: il gioco può continuare, il caramello sa di poesia e di tempesta, probabilmente è quello più simile all’immagine della schiena arcuata di una giovane donna, paragone diventato ormai cult e che utilizzato solamente nelle grandi occasioni. Sono vertigini di piacere, ondate di desiderio incandescente, assaggi e senti il piacere che aumenta dentro di te, il fuoco comincia a vibrare nelle vene. Sono stimolanti, aggressivi, amorosi. Tutti questi aggettivi per un eclair? Si. Raccontarvi le torte è impossibile: perfette. Mai troppo dolci, mai troppo pesanti, semplicemente perfette. Dei cioccolatini potremmo disquisire a lungo, però assaggiarli è un tutt’altro discorso. Ci soffermiamo solo sul gioiellino fondente con all’interno un leggero pralinato croccante. E’ come fare all’amore con Naomi Campbell. Immagina, puoi.
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Foto: Carry Solomom
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Neraida Bega OLTRE OGNI LIMITE No 46
ove eravamo rimasti? Novembre 2013, una grintosissima ragazza nata a Durazzo si presenta ad un casting in Via Tortona lasciando tutti a bocca aperta. Ti trasmetteva la scossa elettrica soltanto con la presenza. La guardavi e pensavi che da un momento all’altro inizierà a camminare sulle acque, che è lei stessa a provocare, costruire e determinare il proprio destino, che il mondo gira e girerà sempre secondo i suoi desideri e commandamenti. L’intervista la realizzammo al Bistrot Les Gitanes: lo chef di allora, Davide Callegari, rimase iponotizzato e perfino oggi continua a sognarla. Perché Neraida lascia il segno, diventi dipendente, con lei tutto é a colori, mentre il resto del mondo diventa in bianco e nero. Voleva sfondare a Hollywood e conquistare il mondo, eccola: vive e lavora a Los Angeles, é infaticabile, fa arti marziali e si allena come una indemoniata ogni santo giorno. Corpo favoloso, sguardo penetrante, carattere di ferro, sensuale come poche, bella come quasi nessuna. Quel giorno di fine novembre di tre anni fa ci disse: “Sono un’artista completa e lo dico senza voler mancare di umiltà. Ballo, canto, suono il pianoforte, ho studiato al Conservatorio, dato perfino lezioni di danza del ventre: quante possono vantare un tale elenco? Pochissime. A Los Angeles nessuno ti regala nulla, per imporsi non basta essere belle, il mondo ne è pieno. Sai una cosa? Sono andata ad un appuntamento con l’agenzia che rappresenta anche Halle Berry. Mi hanno presa subito, perché alla domanda cosa vorresti della vita io ho risposto vivere al massimo, avere una vita oltre ogni limite. Ecco, li ci vuole gente del genere. Io sono così”. Niente moine, niente parole da finta umile e ancor meno atteggiamenti da piaciona: è tosta, orgogliosa, decisa, consapevole. 2016 è stato fantasmagorico: ha girato California Dream, American Bred, Mere et Fille, FanO-Roma. Quando sfogliate lo speciale Pitti Neraida ne sta girando un altro, Christmas Eve, assieme ad Adrian Paul ed Eric Close,film che uscirà nelle sale in primavera, con la premiere al Chinese Theater, il cinema più famoso sulla Hollywood Boulevard, assieme al Dolby Theater. Non avevamo alcun dubbio, era evidente che fosse nata per brillare. Bastava guardarla per capirlo: quel sguardo felice e feroce raccontava tutto di lei. E siamo solo agli inizi.
Twin Farms FAVOLA NEL VERMONT
C
artolina indimenticabile dal Ver mont, posto solo per inguaribili romantici e per gente che vuole riempire la propria vita di momenti straordinari. Una fiaba a cinque stelle, anche se qui verresti anche se fosse una semplice baita. Il silenzio è totale, il luogo lascia il segno, pieno di suggestioni e carico di polaroid moments, ovvero instagram moments, tanto per stare al passo con i tempi. Probabilmente già la foto che abbiamo messo sotto il titolo basta per convincere gli innamorati a fare i bagagli e a prenotare, almeno con l’immaginazione, perché lo si sa, l’immaginazione è un demone tenace, senza di
lei il mondo sarebbe in bianco e nero. Per quanto ci riguarda, appena vista la fotografia ci siamo sbizzarriti con la solita domanda, che sarà anche sempre la stessa ma che vale molto più di quello che si possa pensare in un primo momento: chi porteresti in un posto del genere? Che tipo di donna? Perché qui si va per sognare infinitamente, ha un senso andare solamente con la donna dei sogni, dove per sogni immaginate una bocca arroventata, le labbra di seta, oppure la donna che vorreste per sempre. Qui non puoi, proprio non puoi andare con una persona noiosa e banale, che non vive al massimo ogni momento: al Twin l’atmosfera si fa subito elettrica, pungola il desiderio amoroso, il sangue romba nelle vene, sprigionando seduzione. Il
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capogiro è assicurato, Twin è il trionfo delle sensazioni e dell’estetica, l’aria è elegante e familiare, non a caso Michael Beardsley, il maitre del hotel, sostiene fiero che “gli ospiti considerano Twin Farms una seconda casa”. 120 ettari di praterie e laghetti, di boschi e giardini, un paradiso sconfinato con dieci cottage indipendenti sparsi nella proprietà, uno di loro ideale per piccoli gruppi (The Farmhouse). La fattoria e il lodge, datate 1790, si sono trasformate in lussuose suite e saloni da pranzo: Twin ha aperto le porte nel 1993, mentre prima era il rifugio segreto del premio Nobel per la letteratura Sinclair Lewis e sua moglie, la nota giornalista Dorothy Thompson.
Inga Verbeeck Foto: Monica Cordiviola
VOGLIA DI FIABE
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ualche giorno fa mi trovavo a Milano, città che letteralmente adoro. La sera in albergo mi è capitato di guardare una puntata di Divorce, la serie tv con Carrie Bradshow, pardon Sarah Jessica Parker. Scusate, ma Sex and the City è una delle mie preferite, per cui Sarah per me sarà sempre Carrie: mi immedesimo, assieme alle mie amiche, in una vita piena di glamour e speranze, di sogni e spensieratezza, di delusioni e vita mondana, non sempre appagante ma spesso divertente. Ad Ivy International ci sentiamo e siamo un po’ come le amiche di Sex and the City: tutte donne, tutte frizzanti e pronte alla social life. Tornando al Divorce, è inquietante quanto sia vero quello che racconta: arrivate all’età degli anta, le persone esplodono di infelicità, sono alla ricerca spasmodica di una vita leggera e serena, quasi implorandola. Da una parte si sentono stremate e svuotate, da un’altra desiderano l’amore folle, le farfalle nello stomaco. Si rendono conto di non avere a disposizione moltissimi anni per godersi appieno tutto quello che da giovani immaginavano e speravano di fare. Entrano in crisi, farebbero carte false per tornare indietro e non commettere certi errori. Chiedono un miracolo,
non sanno come cambiare l’inerzia della propria vita, incastrata fra delusioni, figli, carriera e stanchezza. Temono sia impossibile sorridere e progettare un futuro raggiante, spesso sono demoralizzate. Poi, finito Divorce, ho sfogliato una rivista che mi ero portata dagli Stati Uniti, dove abbiamo appena aperto delle nuove sedi di Ivy. Ad un certo punto mi sono imbattuta in una fotografia stupenda, un resort nel Vermont, Twin Farms: per pura coincidenza ho scoperto che su Good Life stavano realizzando un articolo proprio su di loro. Le due situazioni, la voglia di prendere di petto la vita e la bellezza del resort, si sono sovrapposte: in
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comune hanno la felicità, l’amore, la passione, il desiderio di una vita da favola, di momenti indimenticabili, unici, con il cuore che scoppia. La mattina dopo sono uscita sul balcone del mio albergo nella galleria Vittorio Emanuele: le stanze del Seven Stars danno tutte sull’Ottagono. Erano le otto, il silenzio totale, la luce iniziava a essere forte, il sole penetrava dalla cupola: mi immaginavo due persone che grazie ad Ivy hanno passato la loro prima notte insieme nel cuore di Milano, nell’hotel più bello e romantico della città. Stavo lì, ammaliata dall’eleganza austera della galleria e della mia stanza ed era come se fossi ancor più sicura ed entusiasta del mio ruolo, della mia missione, ovvero far innamorare la gente. La mia esperienza professionale dice che ad ogni angolo c’è una possibilità di ripartire, di esplodere di gioia, di ricostruire una vita di coppia: ci sono tantissime persone in cerca di un partner maturo, con dei gusti sicuri e una personalità forte. Non è facile trovarle, non è facile convincerle a ricominciare, però ci sono. E’ quello che stiamo facendo all’Ivy, cerchiamo di trovarle e di metterle insieme, farle felici. Non garantiamo la felicità, non la possiamo promettere, però viviamo perché questo accada.