GOOD LIFE

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Florence Guyot Madame Champagne




Editoriale

Instagram moments

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i corrono davanti agli occhi delle immagini e capisci al volo che sì, il numero estivo farà sognare, anzi, che saprai fare sognare i lettori perché sei tu il primo a vivere certe emozioni. La fotografia del ristorante Toya, con vista sulle isole Hokkaido, ha dato il là alla festa. Come sempre, c’è di mezzo lei, perché d’estate si va in vacanza e già ti pregusti i posti ed i momenti dove sai già che si sentirà e ti sentirai in paradiso. E’ assai banale ed elementare, lo so, qualche sparasentenze dirà “che noia ‘sti stereotipi, l’amore è inflazionato”: a perdere tempo per rispondere non ci penso nemmeno e in più per ogni persona lugubre del genere ce ne sono altre mille che aspettano con il cuore in gola di poter vivere i così detti Kodak moment, ovvero un pranzo e una vista come quella di Toya e il sorriso caldo di lei, le sue labbra dolci e morbide come la seta. Ci sono immagini, metafore e iperbole che ti inseguono e insegui per tutta la vita, poi come per magia hai la fortuna di viverle appieno: in quel momento e da quel momento sai che puoi volare verso l’infinito, osare l’impensabile.

Cibo ed erotismo, sapori intensi e bellezza mozzafiato: è la vita che proponiamo qui, perché sono le polaroid che ti procurano forti raffiche di brividi, bagliori di sensazioni, con il sangue che ti romba nelle vene. A proposito, stanno passando di moda l’espressione Kodak moment e anche le polaroid: oggi si usa dire Instagram view oppure Instagram moment. Va detto che suona bene, non a caso abbiamo messo in copertina (una delle due, perché ormai quasi sempre giochiamo con due personaggi e due cover diverse) un personaggio di spicco dei social. I miei più recenti Instagram moments sono legati alle sue labbra dischiuse, al seno color rosa innocente, alla sua voce carnale. Non è un momento, ma una serata intera, dove le mura del ristorante, color sangue, rendevano il desiderio incandescente. Il lomo si scioglieva in tutto il corpo, la sua bocca arroventata regalava raffiche di brividi, bagliori di sensazioni. Accadeva al Don Juan, il primo ristorante argentino a Milano: a proposito, auguri, perché sta festeggiando quindici anni di carne succosa e gustosa. Sabrosa come un beso, direbbe lei, la ragazza dei momenti Instagram.

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Good Life

Sommario

Food is art

Enrico Bartolini Verso la terza stella pag. 04

Il comandante Alberto Citterio pag. 08

Giacomo Bulleri 90 anni e non sentirli pag. 10

Don Juan Feliz aniversario pag. 14

Luca Boiocchi Instagram Man pag. 16

Florence Guyot Madame Champagne pag. 18

Mario Batali L’amico di Joe pag. 20

Vicky Lau Il cibo, come una tela pag. 24

Joel Robuchon L’uomo delle stelle pag. 30

Good Life dominiqueantognoni@yahoo.it


Risotto alle rape rosse e salsa gorgonzola

Enrico Bartolini Verso la terza stella

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on lo vedi su ogni canale satellitare, non grida in cucina, non viaggia in Ferrari e nemmeno impazzisce per il desiderio di dire la sua su ogni qualsiasi argomento, dalla situazione greca al riscaldamento del pianeta. Eppure Enrico Bartolini, due stelle Michelin e in forte odor della terza, vive benissimo, continuando in maniera certosina e passionale a curare i propri sogni e soprattutto a lasciare a bocca aperta i suoi clienti. Il ristorante Devero non si trova in centro città, anzi, devi sorbirti almeno mezz’ora di viaggio fino a Cavenago, eppure è sempre pieno, dimostrazione lampante del fatto che la location come ragione del successo (oppure del fallimento) conta relativamente: se un piatto vale il viaggio, allora ci vai sorridente e sognante. Breve incursione nella vita professionale dello chef. A 19 anni ha deciso di lasciare la sua terra per andare a Londra: oggi è quasi un must, una banalità, ma una quindicina di anni addietro nessuno si spostava nella capitale inglese per studiare il mondo della ristorazione, soprattutto perché a quei tempi si mangiava malissimo: lei

perché lo ha fatto? Avevo le idee poco chiare, non conoscevo la lingua, eppure ero certo che avrei imparato tantissimo e andò proprio così. Sapevo nulla sulla grande ristorazione, difatti il mio primo impatto con una cucina di quel livello fu durissimo: vedevo le brigate che lavoravano in un modo così organizzato e determinato da rimanere affascinato. Poi si trasferì a Parigi. Si, là ho capito che non avrei mai più lasciato il mio paese e l’ambiente familiare. Difatti tornò e andò a studiare da Alajmo, alle Calandre. Quando andai mi sentivo già bravo nel mio mestiere: ebbi una rivelazione, il mondo dell’alta cucina era tutt’altra cosa. Non ho coltivato l’amicizia con lui, però nutro nei suoi confronti una ammirazione infinita, l’uomo ha delle qualità e dei valori personali altissimi. Con l’esperienza accumulata ha deciso di aprire il suo primo ristorante, Le Robinie. Come andò? Mi sentivo un giovane contemporaneo, furono cinque anni intensi, in campagna, fra animali, con pochi coperti e la paura di non riuscire a farcela.

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Poi il Devero: come ha reagito alla notizia della prima stella? Quando è arrivata mi sono reso conto di quanto possa valere un riconoscimento del genere: in pratica Michelin comunica al mondo intero che a Cavenago c’è uno chef che vale la pena visitare. La guida è una specie di pagella che ricevi una volta l’anno, la conferma che hai fatto qualcosa di buono. Successivamente la conferma della stella ti dà coraggio, riesci a sviluppare delle idee, forte del fatto che sei stato apprezzato, che la clientela e la critica ti seguono con attenzione e interesse. Tradotto, cambia la mentalità, volete un esempio? Se prima assaggiavo dieci tipi di manzo, ovviamente tutti di altissima qualità, la tendenza era di scegliere quello meno costoso. Dopo la stella, in maniera quasi involontaria, sceglievo quella più costosa perché, ovviamente, era anche la più pregiata. La seconda stella invece come cambia la vita di uno chef ? La mia non è cambiata, però assieme allo staff siamo arrivati alla consapevolezza che se cerchiamo di migliorare ogni santo giorno, i risultati arrivano come logica conseguenza.


Sta per arrivare perfino la terza, o per lo meno lo si sussurra dietro le quinte. Il mio staff, la mia brigata se lo meritano appieno. Si, confesso, mi piacerebbe arrivasse. C’è un piatto che è rimasto nella carta fin dai primi tempi al Devero? Il risotto alle rape rose sta festeggiando i suoi primi dieci anni. E poi la patata soffice uovo e uova, così come le alici in carpione farcite di mozzarella in un guazzetto di cetriolo. Oggi come possiamo caratterizzare la sua cucina? Gusto, tecnica ed estetica: vale per me, mentre per il cliente il percorso è opposto. Prima c’è l’impatto visivo, poi scopre la tecnica dell’impiattamento e solo dopo il gusto. Qualche anno addietro ha avuto una collaborazione con la compagnia Emirates: ci può spiegare cosa cambia fra una cucina al ristorante e una in alta quota? Intanto, il fatto di avermi chiamato, è stata una mossa pubblicitaria, era come dire:”Noi ci teniamo a soddisfare i passeggeri”. Più che altro sono stato un loro testimonial, poi certo ho provato ad offrire il mio contributo. Nelle lounge degli aeroporti, Emirates riusciva a creare e realizzare dei piatti meravigliosi, addirittura pazzeschi, mentre in alta quota, per via delle temperature, le condizioni di spazio e igiene, si può fare poco. La mia vittoria più grande fu quella di essere riuscito a portare un piatto dal ristorante in alta quota: il pollo allo yuzu. Se al ristorante il piatto era 100, quanto si è riuscito a mantenere in volo? Diciamo 70, ed è tanto. Uno chef bistellato, appena si sveglia la mattina, a cosa pensa? Ogni mattina penso la stessa identica cosa: ho dormito troppo poco, ovvero dalle tre alle sette. Confesso che un giorno sono riuscito a dormire sei ore. C’è la sensazione che fra gli chef ci sia una bella armonia, mentre fra gli stilisti della moda manca totalmente: c’è una spiegazione? Certo: i soldi. Uno chef, ben che vada, fattura sui cinque milioni. Uno stilista, oppure un gruppo, supera il miliardo. Con i soldi iniziano le invidie e la competizione sfrenata, noi ci ammiriamo, ci piace confrontarci. Lei ha delle amicizie, fra i grandi chef ? I miei veri amici stanno fuori dal mondo della ristorazione, però per rispondere dico Mario Uliassi e Claudio Cuttaia. Cosa ne pensa dei vari programmi televisivi impostati sul mondo dell’alta ristorazione? In sé, i programmi non fanno né bene, né male. Però i giovani si fanno delle idee sbagliate guardando Gordon Ramsey e Carlo Cracco, vogliono avere la loro fama senza passare dalla gavetta. Le piacerebbe essere un personaggio mediatico come Gordon? Se, con il mio modo di fare, con il mio carattere, riesco a toccare un tale picco di popolarità, ben venga. Ma non sono disposto a cambiare pur di raggiungere un tale obbiettivo. Cosa ne pensa degli chef che fanno da testimonial? Un’idea straordinaria: Carlo Cracco ha fatto parlare di sé e delle patatine San Carlo molto più di quello che avrebbe fatto la Ferilli. Che sia chiaro: il problema non è cosa possa pensare lo chef, la domanda andrebbe fatta alle aziende che li ingaggiano. Domanda quasi stupida: progetti per il futuro? Di stare bene. Mi creda, non è facile e nemmeno scontato.

Enrico Bartolini

Melanzana alla brace

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Gambero mezzo fritto al tamarindo

Seppie al nero, cioccolato bianco, piselli e lamponi

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Michel Bras E

Toya, Hokkaido

’ l’immagine dell’anno o se volete la polaroid che più caratterizza un certo modo di intendere la vita e la ristorazione. Non ci vuole alcun commento, alcuna didascalia, spiegazione o racconto perché mai si potrà essere all’altezza, mai si potrà andare oltre la fotografia che state guardando: siamo in Giappone, al nord, sull’isola Hokkaido. Certo, sarebbe una delusione feroce se i piatti non regalassero delle emozioni pari se non superiori alla vista e difatti il ristorante vanta tre stelle Michelin. Negli anni novanta proposero allo chef Michel Bras una infinità di situazioni e soluzioni ideali per aprire altri locali dopo il successo strepitoso (tre stelle già dal 1999) e una fama planetaria per via del Laguiole, ristorante a nord dei Pirenei: New York, Singapore, ovunque. Disse sempre di no, mancava quel qualcosa, il tocco magico. Qualcuno suggerì il lago Toya, luogo che lo chef nemmeno conosceva. L’impatto fu devastante, la conquista immediata, la decisione anche: “Aprirò qui, quasi al confine del mondo”. Due ore di treno e poi mezzora con il bus da Sapporo,

materie prime in abbondanza e di una qualità straordinaria, allevatori locali che sanno il fatto loro come pochi altri, paesaggi surreali (dall’alto del ristorante si può ammirare il Lago Toya da una parte e la Uchiura Bay da un’altra):Michel, assieme al figlio Sebastian Bras non hanno esitato un attimo. “Conoscevo bene il Giappone”, racconta Michel. “La prima volta arrivai qui 25 anni addietro, poi ci fu la traduzione del mio libro e si creò subito una grande sintonia. Chi ci frequenta sa che non abbiamo mai avuto i soldi come priorità, noi andiamo dove ci sentiamo bene, dove la nostra vita ha un senso, proprio per questo preferiamo la campagna piuttosto che le grandi città. Qui ci hanno invitati nel 2001 e all’inizio pensammo fosse la solita location urbana. Hanno insistito che ci andassimo a vedere e ricordo un’infinità di collegamenti aerei, una delle giornate più lunghe della mia vita. Arrivammo a notte fonda, l’albergo non era ancora finito, c’eravamo noi, due guardiani e 386 stanze vuote. Avevamo paura, in più eravamo assai stressati e soprattutto stanchi. Non abbiamo chiuso occhio per tutta la notte, rimproverandoci di essere andati. Poi la mattina dopo

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ci hanno portati all’ultimo piano e siamo rimasti a bocca aperta: il lago da una parte, l‘oceano dall’altra, le montagne innevate. Ci dissero: il posto è vostro, fate quel che volete, potete avvallarvi dei servizi di un designer a vostra scelta, chiamate e lavorate con chi pensiate sia meglio. Abbiamo accettato quasi subito”. Certo, agli inizi le difficoltà ci sono state, eccome: “Non parlavamo giapponese, non conoscevamo la loro cultura, non esistevano altri ristoranti che non fossero di cucina locale. Le materie prime migliori si trovavano a Tokyo, così che ci siamo messi alla ricerca dei produttori in loco: ora possiamo affermare senza alcun dubbio che ci avvalliamo delle migliori carni, aragoste, verdure, il miglior burro. Ci sono agricoltori che stanno coltivando quello che desideriamo, lo fanno solo per noi, che poi acquistiamo da loro ogni giorno. Va detto che i due passano qui cinque mesi l’anno, soprattutto durante l’inverno: tradotto, un enormità. Nel periodo nel quale si trovano in Francia, le operazioni vengono dirette da Cedric Bourassin: la brigata di trenta persone è tutta sua. Ed è tutto perfetto.


Il comandante Alberto Citterio

La sala interna del ristorante Duomo21

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estisce cinque ristoranti, dieci cucine e uno staff di 16 cuochi più una settantina di persone. Inoltre, ci sarebbero i padiglioni del Brasile e del Kuwait all’Expo (ogni martedì e venerdì lo trovate lì), così come quello della Comunità Europea, ovvero altre cento persone da istruire e seguire. Alberto Citterio in principio dovrebbe essere uno chef (e che chef, ha passato dieci anni a Le Sirenuse sulla Costa Amalfitana), ma in pratica agisce da generale dell’esercito, avendo sotto la sua guida le truppe del gruppo Rosso. Non veste la divisa dell’esercito, bensì una giacca fatta a mano da Angelo Inglese, miglior camiciaio al mondo, un artigiano che dipinge meraviglie e non smette mai di stupire. Cosicché prima di parlare di ricette e profumi dobbiamo fargli raccontare ed elencare i ristoranti, le filosofie, le chicche e le caratteristiche di ognuno. Partiamo con i cinque locali che si trovano in Galleria Vittorio Emanuele, ormai diventate una specie di monopolio del gruppo appena citato: fra suites e locali hanno “cannibalizzato”, e decisamente mi-

gliorato il luogo più caro ai milanesi. Pronti via. “Duomo21, aperto al primo piano della Galleria, con vista sulla Piazza, è il nostro spazio commerciale. L’aperitivo è ricchissimo, abbiamo finito il periodo di rodaggio e così possiamo inquadrare perfettamente il nostro cliente tipo. Abbiamo coinvolto partner come Martini e Lavazza, ora anche San Carlo, che per noi creerà un tipo di patatina particolare. All’ora di pranzo c’è il set menu, ovvero un kit che comprende un appetizer, un antipasto e poi un secondo, si può scegliere fra cinque insalate ricchissime (consiglio quella orientaleggiante e quelle alla frutta, con pesca, sedano, ciliegie e sorbetto allo zenzero). Il tutto per una somma che va dai 18 ai 26 euro, acqua e calice da vino compresi. Ovviamente c’è anche il menu classico, dove spicca il gambero crudo marinato al the verde cinese e poi il raviolone di buffala, magari seguito dal filetto saltato con patata affumicata, tartufo nero e un uovo in tempura, un bel contrasto fra la carne fredda e l’uovo caldo. La sera abbiamo due menu degustazione, da 40 e 65 euro. I piatti cambiano, ma come idea per il primo

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vi potete gustare un antipasto, un secondo e due dolci, mentre l’altro prevede due antipasti, due primi, un secondo e due dessert. Duomo 21 è la nostra macchina da guerra, visto che è aperto dalla mattina a notte fonda. Non da meno il Pavarotti, 180 posti a sedere; dalle 11 alle 23 si può scegliere fra sette tipi di paste, taglieri di salumi e dolci prettamente emiliani, perché i piatti sono tutti quelli amati da Big Luciano. All’ora di pranzo facciamo quasi il tutto esaurito, la gente è attratta sia dal nome del ristorante che dalle ricette, per non parlare del prezzo: con 15 euro puoi degustare un tagliere di salumi, un primo più un calice di lambrusco, pane e caffè. E’ aperta ormai ogni giorno anche l’enoteca al secondo piano: salumi e formaggi con vini pregiati e anche “normalissimi”, uno spazio che ai produttori piace un mondo, le degustazioni si susseguono a ritmi pazzeschi, ma i due lunghi tavoli si prestano a presentazioni del genere. Probabilmente è un luogo più invernale che estivo, ma sorseggiare un buon prosecco oppure un vino fermo con un prosciutto


Alberto Citterio

Il ristorante Pavarotti

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appena tagliato, in una enoteca così chic, fa il suo effetto anche a Ferragosto. Da qui ci spostiamo alla pizzeria I Dodici Gatti, all’ultimo piano della Galleria, con ingresso dalla Piazza della Scala: lievito madre, un target trasversale all’ora di pranzo e uno gourmet la sera, perché la carta delle pizze proposte da Daniele Falcone, napoletano doc, attira la gente che davvero ama mangiare bene. Abbiamo una quarantina di posti all’interno e venti fuori, con vista sulla Galleria, qualcosa di unico, perché anche l’occhio vuole la sua parte, oltre alle magie di Daniele. I prezzi non sono alti: si parte da 12 euro. L’ultimo che aprirà è il ristorante gourmet al quinto piano: non abbiamo ancora deciso il nome, di sicuro sarà una chiccheria, con aperitivi sfiziosissimi (abbiamo una collaborazione con Calvisius, il produttore di caviale bresciano, il più grande esportatore al mondo) e piatti squisiti. In tutto facciamo una media di 450 coperti al giorno, siamo come una nave da crociera, dietro c’è un lavoro pazzesco, però amiamo davvero il posto, il Duomo, la Galleria e la gente se ne accorge, ripagandoci”. La nostra personale “classifica” dice Duomo 21 durante il giorno, anche perché puoi fumarti un sigaro guardando il Duomo, poi una pizza all’ultima piano della galleria, sempre in terrazzo. La milanesità allo stato puro.


Giacomo Bulleri 90 anni e non sentirli

“L

a vita è come un casinò: a volte vinci, a volte perdi. Capita in amore, nel lavoro, ovunque”. Il signor Giacomo Bulleri, novanta anni appena compiuti, ha ancora tanta, tantissima voglia di scherzare, raccontare e soprattutto lavorare, perché “ho tanti progetti da mettere in pratica, difatti per ora mi dò un sette alla carriera, manca assai per poter dire di aver fatto tutto quello che mi ero prefissato”. Piccolo elenco delle sue realizzazioni: il ristorante Giacomo, il bistrot che porta lo stesso nome, la tabaccheria e la pasticceria (tutte quattro in Via Sottocorno), poi l’Arengario in Piazza Duomo e il Mudec, in Via Tortona, ovvero il ristorante all’interno del Museo delle Culture, nell’ex stabilimento dell’Ansaldo (più il bistrot al piano terra). L’uomo trasmette positività, tenacia, la cultura del fare: è un fiume in piena, uno spettacolo, un uomo d’altri tempi che non molla mai e non abbassa la guardia. L’album dei ricordi della sua vita è pieno, non ne dimentica uno, anche se si tratta di avvenimenti accaduti ancor prima della guerra. Oltre ad una memoria invi-

diabile, gode anche di una salute di ferro e una forma fisica da giovanotto: alla su festa, all’Arengario, ha ballato senza soste, con gli invitati in tripudio. Sentirlo è uno spasso. L’elenco delle celebrità che hanno mangiato nel suo ristorante e al bistrot sono tante, chi vogliamo ricordare? Madonna è venuta per due volte, non mi ha impressionato, invece Julia Roberts sì, bella alta. Si può dire? Bella cavallona. Mi è piaciuta anche Angelina Jolie, però è venuta con il marito. A che nome hanno fatto la prenotazione, Jolie o Pitt? Pitt per due, era scritto. Mica immaginavamo fossero loro. Che tipo di cucina le piace? Io sono per gli odori forti della terra, oggi stiamo perdendo identità. Una buona pasta con i fagioli rimane un lusso, soprattutto se pensiamo ai fagioli di Sorana, quelli bianchi, trenta euro al chilo. Montanelli ne andava matto. Scriva che mi piacciono molto anche le

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minestre. Terra e profumi, non i sapori inventati del giorno d’oggi. E poi quando vedo gli alimenti imbustati, di serra, sto male. Torniamo indietro di settant’anni, quando ha iniziato a fare il cuoco. Ho cominciato nel 1937, a Torino, dove andai perché avevo uno zio, ma nei primi anni non ero proprio convinto di fare il cuoco. Ad un certo punto mi ero stancato, a me piaceva uscire con le donne, non stare in cucina. Poi sono partito per Milano, nel 1953: confesso che agli inizi faticavo a capire i milanesi, mi ci sono voluti sette-otto mesi per ambientarmi. Il primo locale qui l’ho aperto in Via Jenner, dove c’erano le baracche degli sfollati. Avevo un bar con tavolo da biliardo e facevo da mangiare. Dopo due anni ho detto basta, aprendo in Via Farini, prendendo in gestione il ristorante di un albergo. Solo dopo ho comprato in Via Donizetti, dove sono rimasto per 35 anni: Giacomo nasce lì, vicino al tribunale. Venivano da me Cuccia, Montanelli, Ligresti, Maria Callas e Mario Del Monaco, il tenore. Venne pure Berlusconi.


Cosa si mangiava in quei tempi? Nel dopo guerra, d’inverno verza e fagioli, la carne la mangiavano solo i ricchi. Venerdì si mangiava di magro, il pesce non era di moda, a parte qualche persico. Molto di più le rane, che si mangiavano fritte o nella zuppa. La carne è diventata qualcosa di normale molti anni dopo, quando ho aperto Giacomo. Qui cucinano spezzatini, ossi buchi, bolliti e arrosti, poi capretti e scaloppine. Venerdì invece si mangiava il pesce, il baccalà. Come si viveva in cucina, a quei tempi? Non eravamo più di quattro, massimo cinque. Si veniva alle otto del mattino e si metteva su il ragù, ci volevano delle ore. Lei cucina ancora? Ogni giorno. Al ristorante la pappa al pomodoro la faccio io, mentre a casa nessun’altro tocca le pentole. A proposito, all’Expo ho cucinato assieme a Gualtiero Marchesi: ovviamente ho preparato la pappa. A lei piace di più il ristorante o il bistrot? Il bistrot è più da milanesi, la clientela è assai diversa: mi sento più a mio agio fra i tavoli del ristorante. E l’Arengario? Tutto merito di Letizia Moratti, è stata una sua idea. Il posto mi piace molto, ogni mattina mi sveglio con il dilemma di dove andare a mangiare e spesso vado lì, in Piazza Duomo. Alle nove vado al mercato a scegliere le verdure e poi spesso vado a cucinare al caffè, al piano terra del Palazzo del Novecento: poi salgo al terzo, dove c’è l’Arengario. A lei cosa piace mangiare, carne o pesce? Di carne ormai ne mangio poca, soprattutto il coniglio alla cacciatora. Ama i dolci? No, ma il gelato sì, quello alla nocciola, crema e torrone. Me lo concedo almeno tre, quattro volte la settimana. E’ fiero di sua figlia Tiziana, che in pratica gestisce il ristorante? Siamo molto fieri l’uno dell’altra, è tosta come me. Mio genero, Marco, il responsabile di tutti i ristoranti, è più diplomatico di Tiziana, ma è una macchina da guerra. Cosa ne pensa degli show con i cuochi in tv? Il cuoco deve stare in cucina, mica in tv. A proposito dei programmi tv, hanno delle cucine gigantesche, a lei piacciono? No, per nulla. I giovani che si affacciano al mondo della ristorazione la convincono? Non hanno le basi, non sono disposti a fare sacrifici, non capiscono che fare il cuoco è un mestiere massacrante, difficile, duro. Lei era cattivo in cucina? Cattivissimo, menavo pure. Ha mai assaggiato il sushi? Mai. Dei vegani cosa ne pensa? Mi danno fastidio. A chi lo dice….

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Helene Darroze La predestinata

“C

uisiner c’est vivre”, come dar torto alla chef che è stata eletta come la miglior donna ai fornelli dalla maison Veuve Clicquot? Una frase che dice tutto e anche di più sulle sue priorità ed i suoi valori, perché se prima parli della cucina e solo dopo della vita privata allora si, sei per davvero nata per il mondo dell’alta ristorazione. “Due città, due figlie e due stelle”, titolava Evening Standard, applaudendola, trattandosi dell’unica donna con due astri Michelin nel Regno Unito. Aggiungeva la madre, fra il sarcastico e il divertito: Due città, due lavori e due figlie. Sei malata”. A dire il vero basta scorrere velocemente il suo “pedigree” per capire che non poteva andare diversamente, il suo è stato un percorso già deciso e scritto fin dalla nascita, dato che proviene da una fa-

miglia di cuochi: siamo alla quarta generazione, per la quinta dobbiamo aspettare qualche anno ma non si accettano scommesse, le sue due figlie Charlotte e Quiterie (entrambe adottate nel Vietnam) vivranno in cucina, fra ricette, stelle e riconoscimenti. Helene sarà pure una predestinata ma è anche una vera forza della natura, perché essere a capo di due ristoranti così importanti (entrambi portano il suo nome e sono bistellati) necessità sforzi disumani e una organizzazione perfetta (non a caso ha studiato Business all’ università). Solitamente passa una settimana a Parigi e poi una a Londra, sempre assieme alle due figlie, che praticamente vivono nelle carrozze dell’ Eurostar, gradendo assai. “Ho preso un appartamento vicino ad ognuno, nel Saint Germain e Mayfair e poi ovviamente ho delle baby sitter in entrambe le città”, racconta.

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Vale la pena fermarsi sulla scelta di adottare le due bambine: “In quel periodo ero single, la mia relazione con il mio ex compagno di Parigi andò in frantumi. Guardavo altre donne chef che promettevano bene ma poi, dopo aver partorito, non sono riuscite a tornare ai livelli di prima, perché è quasi impossibile bilanciare la vita in cucina con quella affettiva e la famiglia. Semplicemente sono crollate”. E ora facciamo un passo indietro, anzi più di uno, per un breve fact file della sua vita: la sua famiglia ha sempre svolto delle attività nel mondo della ristorazione nella zona di Acquitaine, nel sud-ovest della Francia. Il nonno aveva un albergo con ristorante annesso, cosìcché lei è cresciuta mangiando sandwich al foie gras. Il locale poi passò di mano, con il padre al timone: lo step successivo fu ovvio,


Helene al comando, nel 1995. Come esperienza aveva già tre anni da Ducasse, a Monte Carlo, ma più in ufficio che ai fornelli: tornata a Villeneuve de Marsan, ha deciso di prendere il commando e di alzare l’asticella. Chez Darroze diventa un luogo cult, ma dopo quattro anni Helen vola ancora più alto, aprendo a Parigi, sulla Rive Gauche. Forte del suo successo, le fu offerto di aprire un locale nella capitale britannica ma la sua carriera londinese non iniziò nel migliore dei modi: la clientela considerava i suoi sapori troppo forti, la critica parlava di piatti confusi e disordinati. Qualcuno su Observer arrivò a scrivere che, in tempi di crisi, un ristorante del genere non ci voleva proprio. Piano piano hanno cominciato a capire la sua filosofia ed eccoci: due stelle Michelin. Molto chiccosa, innamorata dalla moda (indossa spesso Sonia Rykiel e Agnes B), ha ispirato nel 2007 il personaggio di Chef Colette del film Ratatouille, il successo cinematografico di Pixar Animation Studios. In ordine sparso, le sue più grandi emozioni gastronomiche: la prima volta che ha assaggiato il caviale da piccola, la degustazione dell’anatra al sangue, la scoperta del tartufo d’Alba e la cena da Michel Triosgros. Per la cronaca, uno dei suoi piatti tipici è il risotto al nero di seppia con seppioline e chorizo saltati, pomodori confit e spuma di parmigiano. Oltre ad essere stata nominata Veuve Clicquot World’s Best Female Chef 2015, fra gli altri riconoscimenti ricevuti da Hélène Darroze figura l’ammissione alla Legione d’Onore Francese come Cavaliere, conferitale dal presidente Nicolas Sarkozy nel 2012. Cavalier Darroze, suona bene, vero?

Ricetta dell’estate

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Julep

agli Stati Uniti un cocktail tipico dell’epoca pre-proibizionista. L’origine di questo storico drink non è ben definita, la prima testimonianza scritta della sua ricetta compare in un famoso libro pubblicato da John Davis nel 1803 a Londra. Il termine Julep deriva dall’arabo e originariamente indicava uno sciroppo dolce a base di acqua e zucchero, utilizzato come ingrediente per il cocktail. La diffusione di questo drink negli Stati Uniti si deve al Senatore americano Henry Clay del Kentucky, che lo introdusse per primo al bar Round Robin del famosoWillard Hotel a Washington D.C. durante la sua permanenza in città. A partire dal 1938 il Mint Julep diventa il drink prediletto da-

gli Statunitensi che amano gustarlo durante il «Kentucky Derby», la famosa corsa dei cavalli. Il cocktail si prepara in un bicchiere apposito, chiamato Julep Cup. Si aggiunge lamenta che viene prima sbattuta a mano per sprigionarne gli aromi, si versa lozucchero bianco e si aggiunge quindi dell’acqua, pestando leggermente per sciogliere lo zucchero. Infine si versa il Whiskey Wild Turkey 101 e si aggiunge del ghiaccio tritato, miscelando il tutto fino a che il bicchiere non si brini. La guarnizione tipica per questo drink del periodo pre-Proibizionista è realizzata con foglie di menta fresca, frutti di bosco, una fettina di ananas e di arancia e come tocco finale una spruzzata di zucchero a velo. Testo ripreso da www.campariacademy.it

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Don Juan

Feliz aniversario

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abrosa come un beso. Immagina, puoi. Suona come uno slogan pubblicitario e invece si tratta solo di una frase che mi romba nella testa appena inizio a fantasticare su di lei e sul ristorante argentino. Perché Don Juan è più di un locale, è uno stato d’animo dove ti esalti ammirando le sue labbra ebbre di piacere e ti abbandoni alla seduzione. Appena entri c’è qualcosa di misterioso. Saranno le mura color sangue di toro che sembrano sussurrare segreti, sarà il profumo di entranas che ti inonda di sensazioni, fatto sta che da Don Juan c’è un’onda di desiderio ardente introvabile altrove. Certo, le sue labbra socchiuse e umide ti invadono dalla voglia di divorarla, fiammeggiando il tuo corpo. Il suo sorriso ti accarezza i sensi, il blu sfavillante dei suoi occhi ti ipnotizza, ma è la carne preparata dall’asador Rodrigo a procurarti quel sibilo di piacere feroce e tumultuoso. Appena te la porta un piacere inebriante ti riempie gli occhi, la annusi in modo profondo, ampiamente; il primo morso, succulento, ti porta con i pensieri lontano, chiudi gli occhi e immagini i suoi seni dolci e morbidi come la seta, il suo capezzolo color rosso ciliegia. La carne, succosa e primitiva, si scioglie in tutto il

corpo, per un attimo temi di perdere i sensi. Vi pare un romanzo hot? Venite a convincervi voi stessi: varcato l’ingresso (Via Altaguardia 2, vicino alla Porta Romana) ve ne renderete conto. A proposito, Buon compleanno, Don Juan. O meglio, feliz aniversario, perché ha aperto i battenti quindici anni addietro: correva l’anno 2000 (il 26 maggio, per esattezza) e a Milano non c’era ombra di ristoranti argentini: brasiliani sì, c’erano il Porcao e il Picanhas, entrambi esclusivamente a base di carne. L’asado invece mancava, l’atmosfera tipica della hacienda anche, il profumo della pampa pure. Ci ha pensato Marlene Gomes, ovvero una donna brasiliana: “E’ successo tutto per caso, io a Sao Paolo mi occupavo di pubblicità, facevo la fotografa, non avrei mai immaginato di aprire un ristorante. Arrivata in Italia ho iniziato ad organizzare dei catering, da lì il passo è stato breve. Assieme a mio marito (Giorgio Beretta, ndr), conosciuto qualche anno prima al festival latino americano, abbiamo deciso di provare: ricordo bene lo scetticismo degli amici. Invece, eccoci qui, dopo 15 anni: non solo siamo sempre pieni ma in tanti ci hanno copiati e, ahimè, spesso rubati i dipendenti. Non importa, andiamo avanti con Don Juan e anche Don Juanito, che è più un bistrot per

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un target giovane”. Hanno rubato folle di dipendenti ma non Rodrigo Rivarola, l’asador 27enne di Cordoba, l’anima pulsante del ristorante. “Al primo posto nella classifica dei piatti più succosi e richiesti metterei il baby beef, seguito dal maialino di sei mesi (il Patanegra iberico) e dal lomo. Le donne preferiscono l’entranas, una carne più delicata”, racconta. Si sciolgono in bocca anche le empanadas. Tutti d’accordo, invece, quando si tratta del vino proposto: El Enemigo, un Malbec del 2010, sa di poesia: sì, ebbene sì, l’ho assaggiato una volta, ma preferisco di gran lunga la sangria, che da Don Juan sa di paradiso e piace da morire anche a lei. L’elenco dei personaggi che sono diventati clienti fissi è assai corposo, cercare di non dimenticare qualcuno pare impresa ardua: Hernanes, Adriano Galliani, Giorgio Marsaj e la moglie Eva Herzigova, Phenelope Wulff, Giada Ghittino, in passato Javier Zanetti passava qui tutte le serate prima di decidersi ad aprire un ristorante argentino per conto suo (e poi un altro ancora). Fermiamoci qui perché i nomi contano relativamente. Il ristorante è sempre pieno, tutto il resto vale poco. Feliz aniversario, Don Juan.


Andronis

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Sognare a Santorini

ici Grecia e ad alcuni viene in mente la situazione creatasi negli ultimi anni, uno scenario assai deprimente e senza soluzione. Ad altri invece il paese mediterraneo significa solo vacanza, cibo straordinario (la cucina greca viene spesso considerata la terza al mondo, per bontà e qualità delle materie prime), viste mozzafiato e scalini ripidi, rilassatezza e voglia di mordere il mondo, sogni e promesse di ritornare. Grexit oppure no, invasati pericolosi come l’attuale dannoso premier oppure no, a Santorini sarà sempre un piacere infinito andarci e passare la vacanza, soprattutto in un resort come Andronis, scenografico e lussuoso oltre ogni sogno ed immaginazione. La fotografia del ristorante quasi fuori dal mondo, isolato e spinto oltre il limite, è un’immagine che fa subito pensare ai momenti più belli della vita, ai ricordi da custodire con cura, a sublime frivolezze e inghippi amorosi. Perché puoi impegnarti a offrire qualsiasi menù, puoi

avere uno chef tristellato: senza la vista che ti offre Santorini, senza il profumo ed i colori della Grecia, senza l’atmosfera dell’Andronis nulla sarebbe come lo stiamo raccontando. Hotel boutique di design (e che design), vasca di idromassaggio all’esterno, piscina privata, camere spaziose, accoglienza straordinaria, colazioni preparate su ordinazione, l’elenco dei piaceri è davvero infinito. Parlavamo prima della cucina greca: le materie prime sono straordinarie, dalle olive al pesce, dalla carne alle erbette e ai condimenti. E’ cromatica, marina, terrena. Sapori puri come il peccato, golosità calde e fredde. Solitamente le porzioni sono abbondanti, quasi a esorcizzare qualsiasi tipo di preoccupazione, una specie di “Life is now” permanente. I piatti tipici sono rinomati: si va dal moussaka, un pasticcio di carne e melanzane, ricoperto di besciamella e cotto al forno fino al souvlaki, spiedini di carne e verdure.

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Non da meno la classica insalata greca e la tyropitakia, formaggio fuso al forno in piccoli triangoli di pasta sfoglia, poi ovviamente lo yogurt, una meraviglia che solo da queste parti riescono a creare, per via di quel tocco leggero di cetriolo, aglio e olio. In Grecia non ci sono i primi, sostituiti dai mesédes, antipasti così gustosi da dimenticarti i secondi: accade spesso che ci riempiamo di acciughe, olive, carni trite e pita per poi faticare a passare ad altre pietanze. Piccola curiosità: il cappello bianco da chef, così come lo conosciamo ora, è stato “inventato” proprio dai cuochi greci. Il fatto risale al medioevo, quando lavoravano nei monasteri e, per distinguersi dai monaci, che indossavano dei cappelli neri, hanno scelto il bianco. Andronis si trova a Oia (dal 2011 incluso nel comune di Santorini (ci fu una drastica riforma amministrativa), meno di quattro mila anime. La spiaggia più vicina è Baxedes, mentre il museo navale e il castello sono a pochi passi.


Instagram Man I

Luca Boiocchi

segreti, le considerazioni e le confessioni di un personaggio ecclettico, spumeggiante e pirotecnico della scena modaiola milanese, fra decine di migliaia di seguaci su Instagram e celebrities che lo contattato per costruirsi un nuovo look. “Sono sempre stato appassionato di moda, fin da quando ero adolescente ho sempre letto le riviste di settore, prestando molta attenzione alla storia e alle icone classiche, che rimangono per me dei punti di riferimento. Una volta trasferitomi a Milano dalla mia amata Sardegna ho ampliato i miei orizzonti e le mie conoscenze in questo campo in maniera esponenziale, passando intere giornate alle Messaggerie Musicali, facendo tanta ricerca e cercando ispirazione Svolgo diversi lavori, tutti molto stimolanti ed impegnativi, ma li faccio con uguale passione, perché in ognuno rivelo una parte di me che non potrebbe esprimersi in altro modo. Sono prima di tutto uno stylist: mi piace creare, ricreare, modificare, customizzare, stare a contatto con le persone e adattare i diversi capi per ogni cliente. Essendo fortemente appassionato di marketing, sono anche consulente per effettuare lo start up delle aziende e in generale un brand consulting, occupazioni che trovo molto stimolanti in quanto fortemente strategiche. Negli anni ho poi sviluppato il mestiere di personal stylist, figura professionale che ho importato dall’America e per la quale sono maggiormente conosciuto. Questa attività la svolgo sia per vip e cele-

brities che come servizio per hotel, spa e per clienti privati. Svolgo anche l’attività di Visual Merchandiser, ovvero “vetrinista”, attività nella quale ho l’occasione di liberare la mia creatività, specialmente con le “vetrine viventi”. Ultimo ma non come importanza, la figura del “cool hunter”, ovvero un “cacciatore di cool”, di tendenze, di tutto ciò che attrae la mia attenzione. In poche parole: prendo il “vecchio”, lo ricustomizzo e lo rendo nuovo, attuale. Prendo ispirazione dai mercatini, dai negozi vintage, dove ogni oggetto, se accuratamente corretto, può diventare di forte tendenza. La mia fortuna è stata proprio questa: fare tanta ricerca e aggiornarmi continuamente per poi mescolare le informazioni, customizzarle e farle mie. Stilisticamente prediligo lo stile italiano, l’eleganza: ritengo sia fondamentale l’attenzione ai dettagli e agli accessori. Nel tempo libero amo lo stile rock: jeans, anfibio e chiodo costituiscono il mio outfit giornaliero preferito. Consiglio spesso ai miei clienti uomini di avere sempre nel loro armadio una scarpa elegante italiana e/o inglese fatta a mano, in pelle o cuoio, 1 o 2 cravatte con tessuti pregiati -possibilmente vintage-, un bell’abito sartoriale o semi-sartoriale, e per il tempo libero un bel giubbetto di pelle. Per la donna, invece, consiglio l’acquisto di una borsa possibilmente vintage di marchi francesi o italiani anni 50-60, un bel tailleur pantalone con tessuti sartoriali ma con fit

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aggiornati ed una bella scarpa decolletè. Inoltre trovo sia molto elegante la donna che indossa i cappelli che si usavano negli anni 40-50-60, grande simbolo di eleganza e raffinatezza, per cui consiglio a tutte le donne un cappello a falda larga. Ai miei nuovi clienti consiglio sempre un look adeguato nel rispetto del loro stile. L’importante è sempre sentirsi a proprio agio, perché il portamento cambia: faccio sempre l’esempio che se una persona si veste sempre di nero e gli si propone un outfit con colori sgargianti, questi li porterà male, perché non li sentirà suoi. - Riguardo i social ci si deve per forza dividere in critiche ed elogi. Troppe persone pensano a fare i selfie e sorridono solo per quel piccolo lasso di tempo, facendo trasparire un’irreale felicità e spensieratezza. La triste conclusione è che si dedica sempre meno spazio ai rapporti umani. Il lato positivo? I social, se utilizzati nel modo corretto, ci aiutano ad avere più tempo per noi stessi: dal meteo alla ricerca di qualsiasi concetto in un dizionario virtuale, l’internet ha velocizzato tutto. Il mio profilo Instagram @lucaboiocchi ha più di 30.000 persone che mi seguono quotidianamente. Ho due agenzie che mi aiutano: una che si occupa delle collaborazioni e una delle Social/Digital PR. Nei miei social, oltre alla vita di tutti i giorni, parlo molto di moda. Mi piace descrivere in maniera scorrevole ogni foto, rendendo la moda semplice ed accessibile a tutti”.


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Florence Guyot Madame Champagne

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Ha una passione quasi commuovente per i suoi cinque petali e, fatto assai raro, riesce a trasmetterti l’entusiasmo, con­ta­ gi­andoti all’istante. E’ un fiume in piena, quando racconta la storia del suo champagne. La sua dedizione totale piace e conquista tutti, come le bollicine. Parla dei petali per 25 ore al giorno, in un continuo susseguirsi di metafore e iperboli, trascinandoti in un mondo fatto di vitigni e magia, di terra e profumi, sapori e tecniche. Una vera e propria one woman show, una donna elettrica e affascinante, istrionica e decisa, una donna con una missione, portare lo champagne Marguerite Guyot ovunque, fra ristoranti stellati, alberghi e feste private. L’impresa è titanica però le riesce, perché non molla mai, va spedita come un treno: ovviamente la qualità del prodotto aiuta, e tanto. Cinque petali, ovvero cinque bollicine diverse, un crescendo di emozioni, come ama raccontare ad ogni incontro con un nuovo ristoratore. Chi la conosce ha iniziato perfino ad apprezzare il suo rapporto spasmodico con l’Iphone e con la sua ossessione per le foto dei piatti: un rituale che si ripete ad ogni pasto, ad ogni cena, per 365 giorni l’anno. Non si tocca una pietanza prima che lei abbia inquadrato, fotografato e rifotografato il tutto: ormai lo sanno tutti, con Florence è prassi scegliere piatti freddi, tanto caldi non li assaggerà mai. Ha una passione viscerale per le sue bollicine, le parole sono piene di amore puro, ti porta nel suo

mondo e ti coinvolge, ti ammalia, ti seduce. Sarà un caso, ma uno dei cinque champagne si chiama Seduction. Siamo da abbastanza tempo nell’ambiente per capire al volo chi riesce a far presa sul consumatore e chi no. Avete presente quel nugolo di saccentoni che decantano i vini sbrodolando discorsi tediosi e in­ter­ mi­nabili? Quella gente che invece di avvicinarti alla bolla esuberante ti allontana? Ecco, lei è esatta­mente il contrario. Ha una tale forza persuasiva, una tale passione da riuscire a trasformare un astemio in un consumatore di champagne. Solitamente, dopo cinque secondi che ti conosce inizia più o meno così: “Alors: vuoi che ti racconti la storia della mia famiglia e del mio champagne? Donc…” Non fai in tempo a dire di si che Florence Guyot, padre francese e madre italiana (Renata Bruni, fiorentina, così si spiega il nome della figlia), comincia a parlarti delle vigne, dell’enoteca del nonno dove ha iniziato ad appassionarsi del mondo delle bollicine, dei petali di margherita e del profumo fruttato del suo rosè. “Sai una cosa? Sono una predestinata, mi hanno battezzata con lo champagne”. Appunto. “Tutto nasce da una emozione, c’è tanta poesia nella vita”, ama ripetere. Ha ideato, studiato, preparato e costruito tutto nei minimi dettagli, perché una fiaba deve essere convincente oltre che avvolgente, vedi le cinque

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etichette, disegnate da alcuni artisti italiani: l’idea era di realizzare qualcosa di romantico, si è partito da un quadro che Florence ama alla follia, un dipinto di Alphonse Mucha, in gran voga nel periodo dell’art nouveau. “Volevo delle bollicine caratterizzate da una personalità raffinata ed elegante, ispirate alla sensualità di una donna come nella visione di Mucha, il suo quadro Dance mi ha indicato la via”. Il racconto raggiunge l’apoteosi quando arriva al nome scelto per lo champagne: qui si scatena, la fiaba si mescola con la realtà: “Mia nonna si chiama Marguerite, l’ho scelto per tenere vivo il ricordo e il nome della famiglia. Siccome Marguerite significa margherita allora ho pensato ai petali di un fiore, produrre cinque tipi di champagne in qualche modo legati fra di loro, una sinfonia di sensazioni che si fondono in un’prodotto davvero speciale, fra culture diverse e colori”. Il suo prodotto è arrivato primo tra i 190 cuvée in una degustazione “alla cieca” nella giornata ufficiale dello champagne a Roma, ad ottobre del 2012 (la manifestazione è seconda al mondo per importanza, dopo lo Champagne Day di Londra). Uno dei più grandi estimatori e sostenitori del suo prodotto è Luca Gardini, campione del mondo dei sommelier nel 2010 (finale vinta a Santa Domingo): “Il migliore fra i cinque secondo me è Marguerite Guyot, 2002, Blanc de Blancs Grand Cru”. Parola di campione iridato.


I migliori ristoranti dove potete assaggiare i petali di Florence: Lione: Cours des Loges, La Tour Rose, L’Auberge de l’ile, La Mère Brazier, Le 33, L’Âme Soeur, Due By Maurizio Bullano, Le Neuvième Art, Daniel et Denise Crequi, St Jean et Croix Rousse, Bernachon Chocolats, Christian Têtedoie, Maison Clovis, Tout le monde à table, Pléthore & Baltazar, Comptoir de la Bourse, Chez Iceo, Chez Paulo, Au Colombier, O Capot, Gelateria Zozo Milano: Sadler, Devero, Joia, Unico, D’O’, Alice, Il Baretto Alberghi: Principe di Savoia, Sol Melia, Marriott, Chateau Monfort, Park Hyatt, Rosa Grand, Radisson, Scala Brera Roma: La Pergola Bergamo: Da Vittorio Venezia: Hotel Metropole e Cipriani Verona: Lefay Resort, Trattoria Il Pompiere, Caffè Filippini, Vittorio Emanuele, Osteria Sgarzarie, Da Ruggero Firenze: Ora d’Aria e gli alberghi del gruppo Ferragamo Singapore: Hotel Raffles e il ristorante Pollen In Francia distribuito da “La Cambusse” www.lacambuse.com

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Mario Batali L’amico di Joe

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n Italia è famoso perché socio di Joe Bastianich, però negli Stati Uniti è una vera istituzione, un personaggio pittoresco come pochi. La gente lo adora, perfino quando lo vede allo stadio. Certo, i suoi modi sopra le righe, la coda di cavallo rossiccia, gli zoccoli arancioni e ovviamente i piatti preparati al Babbo non passano inosservati, ma raramente uno chef riesce a raccogliere tante simpatie. Per fare un esempio: magari qualcuno chiede un autografo a Carlo Cracco, una foto a Gordon Ramsey, ma si resta a distanza, i due (e tanti altri) incutono timore e rispetto, mentre Mario ti da la sensazione di essere il cugino di primo grado. Al di là degli aneddoti infiniti sul suo conto e sulla sua bravura, ci ha fatto impressione leggere le prime pagine di Calore, il libro cult di Bill Buford, il giornalista di New Yorker trasformatosi in sguattero per due anni. Qui alcuni paragrafi che hanno qualcosa di folle ma, non dimentichiamolo, stiamo parlando di Mario Batali. Divertitevi, anche se sarebbe meglio acquistare

il libro: è come uno pranzo sontuoso, scrisse l New York Times. “La prima volta che intravidi quello che gli amici di Mario chiamavano il mito di Mario era un freddo sabato sera del gennaio 2002, quando lo invitai a una cena di compleanno. Si presentò con la grappa alla cotogna preparata da lui, un barattolo di nocino fatto in casa, quattro o cinque bottiglie di vino e una grossa fetta di lardo: letteralmente, un pezzo della schiena di un maiale bello grasso, che aveva stagionato lui stesso con erbe e sale. Poco dopo il suo arrivo aveva tagliato il lardo a fettine sottili e, con un gesto di sconcertante intimità, le aveva posate una per una sulle nostre lingue, sussurrandoci che dovevamo lasciarlo sciogliere in bocca per apprezzare il gusto intero. Prima di allora nessuno dei presenti aveva mai mangiato grasso puro e quando Mario ci ebbe convinti a servirci per la terza volta avevamo tutti il cuore che batteva all’impazzata. Batali era un bevitore estremamente dedito-accennò en passant che durante alcuni viaggi in Italia con il suo socio,

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Joe Bastianich, erano diventati famosi perché ogni sera si scolavano una intera cassa di vino- e anche se credo che nessuno di noi bevette quantità simili, a quel punto avevamo una gran sete”. “C’erano anche la grappa e il nocino, e una delle ultime immagini che ho della serata e di Batali – un uomo rotondo e corpulento, con la schiena pericolosamente arcuata, gli occhi chiusi, la lunga coda di capelli rossi che ondeggia a ritmo dietro di lui, una sigaretta spenta che gli pende dalla bocca, le All Star rosse alte che battono a terra-alle tre del mattino, che suona per finta la chitarra con in sottofondo Southern Man di Neil Young. Batali aveva quarantun anni, e ricordo di aver pensato che era tanto tempo che non vedevo un adulto suonare per finta la chitarra. Poi trovò la colonna sonora di Buena Vista Social Club, cercò di ballare la salsa con una delle invitate (che si buttò prontamente sul divano) e passò quindi al fidanzato, che rimase impassibile, allora mise un cd di Tom Waits e cantò mentre lavava i piatti e spazzava”.


prima o poi lo incontrerete”. “Ogni tanto mi sono chiesto se invece che un normale cuoco Batali non fosse in realtà il gestore di una attività torbida dove venivano stimolati appetiti indecenti (di qualsiasi natura) per poi soddisfarli intensamente (con qualsiasi mezzo). Una volta un mio amico passo dal bar del ristorante a bere qualcosa e ci rimase sei ore, facendosi nutrire personalmente da Batali, dopodichè per tre giorni mangiò solo frutti di bosco e bevve acqua”. “Quell’uomo non ha vie di mezzo. E’ tutto un eccesso. Non mi era mai capitato niente del genere: mangi e bevi, mangi e bevi, mangi e bevi finché non ti senti drogato”. “Dopo l’espulsione dal dormitorio si mise a lavorare come lavapiatti in una pizzeria chiamata Stuff Yer Face e la sua vita cambiò. Fu promosso a cuoco, poi a cuoco di partita e infine gli fu offerto di diventare gestore, offerta che declinò. Era una responsabilità che non voleva: si divertiva troppo così. La vita allo Stuff Yer Face era veloce (venticinque anni dopo sostiene ancora di detenere il record di pizze preparate in un’ora), sexy (“Le cameriere più beeeeeeelle della città) e “stupefacente” (“Non vorrei dare l’impressione del drogato, ma come si fa a rifiutare quando entra in cucina uno con una teglia per pizza capovolta e coperta di strisce di cosa?”). “Secondo Marco Piero White, Mario non prendeva la cucina sul serio. “Era il sonno che lo ammazzava”. Sarebbe stato uno chef bravissimo, mi disse, se solo si fosse alzato quando gli suonava la sveglia. Ricordò una volta che lo mando a comprare della frutta tropicale. “Torno con quattro avocado. Era distrutto. Non sapeva quello che faceva. Era stato fuori fino “Quando comparve sulla porta, in mutande (ha una circonferenza notevole e fu uno choc vederlo così svestito), rimase un attimo perplesso trovandomi lì. Poi, in pochi minuti, si trasformò in quello che alla lunga avrei riconosciuto come il suo look: pantaloncini al ginocchio, zoccoli, occhiali da sole avvolgenti, capelli rossi tirati indietro in una coda di cavallo. L’attimo prima era un paffuto Clark Kent in biancheria e quello dopo era Molto Mario-il titolo intelligente, con più significati, del suo programma televisivo gastronomico-un personaggio pubblico dalla cui fama mi resi pienamente conto solo quando, essendo ospiti del commissario della Nfl, ci fecero entrare in campo prima della partita. I tifosi del New York Giants sono famosi per essere dei bruti,

tanto da sembrare delle caricature e rimasi sorpreso da quanti riconoscevano lo chef col codino che se ne stava in mezzo al campo, con le braccia incrociate sul petto, raggiante. Alcuni del pubblico avevano cominciato a intonare “Molto, Molto, Molto”: un uomo tondo come una palla, i cui modi e i cui abiti dicevano “Dov’è la festa?”. “Mario Batali è lo chef più noto della città che conta più chef al mondo. Oltre al programma televisivoe alle apparizioni per promuovere, tanto per dire una, la pista della NASCAR nel Delaware- Batali è semplicemente ed energicamente onnipresente. Si potrebbe dire senza esitazione che nessuno chef newyorkese mangia, beve e folleggia per locali quanto lui. Se vivete a New York, potete star sicuri che alle quattro del mattino. Era fuori di testa”. “Porretta Terme, 1989. Il ristorantino La Volta era appollaiato in alto sopra la cittadina di Porretta Terme, su una collina che dominava una delle valli fra Bologna e Firenze. Mario arrivò in treno un lunedì pomeriggio di novembre, portandosi dietro delle mazze da golf, anche se non c’erano campi nel raggio di chilometri, e una chitarra elettrica con un piccolo amplificatore di pessima qualità, nella speranza che in caso gli fossero finiti i soldi sarebbe riuscito a mantenersi suonando per strada. Indossava un paio di pantaloni tipo pigiama e zoccoli rossi. Non c’era nessuno ad aspettarlo. Non sapeva usare i telefoni e non parlava italiano. Non sembrava affatto il sous chef più pagato del Four Seasons ma un contadino albanese”. Se non vi basta, pur promettendo che torneremo con ampi paragrafi del libro, correte ad acquistarlo. Magari su Amazon, perché nelle librerie manca da un pezzo. Buona lettura.

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Pescheria Spadari A

Chef, pensaci tu

ngolo della vanità, eccoci: appena entri nella Pescheria ti trovi davanti una stampa esageratamente grande di un articolo comparso su Il Giornale. Okeeeei, la firma è mia. Va detto che mi esaltai parecchio, scrissi che manca solo il mare davanti e soprattutto raccontai la mille foglie di gamberi, un paradiso. Finito il momento di autocelebrazione, proviamo a tornare seri. Il luogo è già un cult, un’istituzione per i milanesi: il miglior pesce lo si trova qui, da una ottantina d’anni. Una garanzia totale, anche perché con l’esigente clientela meneghina non si può scherzare, girano i tacchi e non li vedi più, impossibile recuperarli. Non è ma successo, però rende l’idea. Ora la sfida è un’altra, altrettanto impegnativa ma che si sta già dimostrando un successone: la pescheria ha aperto anche la sera, stavolta come ristorante. Ovviamente si mangia pesce, lo stesso che si vende durante il giorno, per cui la qualità è eccelsa. Il bello viene dopo, perché in cucina Luca Mango e Federico Bonaconza vanno a briglie sciolte, inventando dei piatti sul momento, in base alle richieste fantasiose dei clienti. E’ la situazione ideale per un cuoco, sentirsi dire “fai tu”: tocca a te trasformare i desideri in emozioni forti. I due ci sanno fare, eccome: hanno una visione della cucina solida e colta, una padronanza dei fondamentali sulla quale si innesta la capacità di variare e andare oltre. Le “creazioni” sono eleganti e rifinite, la coreografia idem, si percepisce subito la loro dedizione totale verso il prodotto. Certo, c’è anche un menu, perché non tutti arrivano con il desiderio spasmodico di mettersi nel-

le mani dei cuochi. Per arrivare a tanto dovresti avere una apertura mentale notevole: pian piano la clientela sarà solo questa, oggi invece in tanti preferiscono la certezza del nero su bianco e il prezzo accanto. Ovviamente c’è da leccarsi i baffi assaggiando la piovra croccante con stracciatella di buffala e mandorle in crema di rucola, oppure le linguine in crema di zucchine, capesante e fiori di cappero: seducente il rombo al Bloody Mary,

gustosissime le tagliate di spada e tonno, poi c’è il must, il signature dish, il piatto che per ora va per la maggiore e che sicuramente rimarrà nella carta per un bel po’ di anni: il mille foglie di gamberi con pane carassau, piatto con un difetto imperdonabile, ovvero il fatto che finisce troppo veloce. Per autocitarmi, dal pezzo apparso su Il Giornale: “Piatto peccaminoso, saporito come un bacio, seducente, che induce alla lentezza: il primo boccone è

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un colpo al cuore, i sapori sono netti e garbati, solo a guardarlo ci si sente invaso dal desiderio, è pura lussuria. “L’ho pensato come se fosse un dolce, ma leggermente salato”, racconta lo chef Luca Mango, milanese con parentele ovunque, da Napoli al Trentino. “In pratica è una sfogliatella ai frutti di mare”. Equilibri perfetti fra il morbido e il croccante, fra il dolce del pomodorino datterino e il sapore del gambero: il gioco dei contrasti e delle consistenze canta”. Federico Bonaconza, l’altro chef, ha ideato invece l’involtino di pesce spada alla pantesca su riduzione di passito con fiori di cappero e capperi croccanti: abbinato ad uno champagne fresco ed esuberante, ti regala la felicità immediata. La Pescheria è un po’ un laboratorio di idee, una magic box, un parco giochi per i gourmet: è davvero intrigante sederti e osservare i piatti che escono, fumanti e cromaticamente perfetti E’ vero che manca solo il mare davanti al ristorante, per il resto si ha la sensazione di essere in vacanza, in un angolo nascosto, uno di quei luoghi che ti vengono consigliati dalla gente del posto. Via Spadari è un po’ tutto questo, trovandosi dietro la baraonda del pieno centro, in una zona silenziosa, quasi segreta, seppur movimentata, soprattutto di giorno. Quando cala il sole si trasforma, si svuota completamente, dandoti la sensazione di essere un ospite privilegiato, quasi esclusivo. Un gruppo di amici ha deciso di scommettere e di investire laddove finora si è solo acquistato il miglior pesce della città, lasciando le chiavi del commando ad Alberto Pegoraro, noto finora per le sue attività nell’ambito fotografico modaiolo. Funziona, eccome.


Il rifugio perfetto Rayavadee

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Dovessi scegliere un posto dove passare la mattina, anzi, delle intere mattinate o pomeriggi, opterei per questo posto. Senza ombra di dubbio, una vacanza del genere vale cento baraonde, notti di fuoco e altro. Siamo al sud della Thailandia, a 15 miglia da Phuket, sulla penisola di Krabi dove le scimmiette saltano da un albero all’altro. Si trova qui Rayavadee, resort costruito su 26 acri di piantagione di cocco, in mezzo a scogliere di roccia calcarea, nascosto fra i grandi faraglioni che circondano la struttura, cadendo a strapiombo sul mare. Un contesto naturale pazzesco per via della vegetazione tropicale lussureggiante, un mare turchese, spiagge candide, faraglioni altissimi ricoperti di giungla: “what else?”, diceva la pubblicità. A Rayavedee hanno deciso di esagerare, offrendo tutte le meraviglie pensabili e impensabili: ville a due piani, una cucina di altissimo livello, grigliate

di pesce sulla spiaggia, palestra immersa nella foresta. Potremmo continuare all’infinito. Si arriva a Krabi con volo diretto da Bangkok, per poi continuare il viaggio verso il resort via mare. Possiede aree naturali incredibili, appartate, con innumerevoli spiagge: la più strabiliante è Phra Nang Beach, enormi scogliere, grotte affascinanti, un’acqua trasparente. Il resort è talmente vasto che servono giorni per imparare a non perdersi. La privacy è assicurata dalla distanza fra le villette. Sono disponibili camere con vista sulla spiaggia, sull’oceano o sulle montagne. La piscina è disegnata per dare l’idea di essere un tutt’uno con l’oceano, lontano soltanto qualche metro più in là. Inoltre ci sono campi da tennis scoperti, una spa con servizi completi e un business center disponibile 24 ore su 24. I bambini sono accolti in maniera davvero straordinaria.

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“La nostra figlia di tre anni è stata trattata come una principessa, era sempre la benvenuta in ogni posto del villaggio”, ci raccontava una ospite del resort. Per poi concludere: “Ci torneremo senza dubbio e abbiamo convinto i nostri genitori ad andarci dal North Carolina per il loro trentacinquesimo anniversario di matrimonio”. Ed eccoci ai ristoranti, con ottima cucina sia thai che internazionale, mentre il personale e il servizio non potrebbero essere migliori. Il Krua Phranang si trova proprio sulla spiaggia, in una grotta, magico per le cene al lume di candela. Al Thai Phra Nang vi consigliamo di prendere i mini involtini di broccoli, assolutamente strepitosi. Al Grotto (nella foto) potete gustare dei frutti di mare deliziosi, oltre che passare delle interminabili ore a sorseggiare cocktail, fumarsi un sigaro e pensare alle cose belle della vita. Stare quasi nascosti al The Grotto e guardare l’orizzonte sa di poesia.


Vicky Lau

Il cibo, come una tela

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nd the winner is….Vicky Lau. Applausi a scena aperta per la chef 37 enne che vince il riconoscimento come la miglior chef donna asiatica, premio ideato da Veuve Clicquot Subito dopo la nomina, sul sito www.finedininglovers.com si poteva già ammirare un video dove la vincitrice preparava uno dei suoi piatti cult, un misto fra il suo mondo passato, quello della pubblicità (lavorava per il gruppo Penguin) e quello attuale, ovvero da chef e patron del ristorante Tate Dining Room di Hong Kong. Pensando bene, la laurea in grafica, conquistata a New York nel 2004, è stata la più logica delle tappe prima di entrare in cucina: negli ultimi anni i piatti sono sempre più creativi, dove l’aspetto estetico e cromatico ha un’importanza sempre più determinante. E’ così eccola seguire i corsi di arte culinaria alla scuola Cordon Bleu di Bangkok e poi l’apertura del Tate Dining Room a Hong Kong, nel downtown della città-stato, con soli 26 posti. Certo, l’abbiamo fatta breve, detta così sembra un gioco da ragazzi, dalla grafica pubblicitaria alla stella Michelin: ehi, andiamo piano, sennò si finisce che domani tutti mollino le agenzie per sognare la fama

gourmet, come se bastasse calibrare i colori e impostare il menù (cucinare non vuol dire partecipare ad una gara cromatica). Vicky aveva già un background assai prezioso e un amore infinito per la cucina di Thomas Keller (“la prima volta mi portarono i miei, dopo la laurea, volevo piangere per quanto era gustoso”), una passione per il cibo che ha solo trasformato in un lavoro, seppur è la prima ad ammetterlo, la scuola di cucina doveva essere una pausa temporanea. “Invece ho imparato che il cibo è una tela molto più capace di altri mezzi per esprimere la nostra creatività grazie all’aggiunta di due sensi, gusto e olfatto”, raccontava di recente. Finita la scuola (siamo nel 2010) ha chiamato il suo mentore, Sebastien Lepinoy, lo chef con cui ha lavorato per un anno al ristorante Cépage di Hong Kong. “Da lui ho imparato la convinzione che la semplicità è segno di perfezione”. Niente operetta, tanta concretezza: zero filosofie tediose, a mille la concretezza. Poi il grande passo, l’apertura del Tate Dining Room con un mix di cucina asiatica e francese: “Voglio servire ricette che raccontino delle storie. Ho avuto lo stesso approccio quando lavoravo come grafica: tutte le volte che invento qualcosa, comincio pen-

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sando a un tema”. Spesso i piatti vengono ispirati da dipinti, oppure illustrazioni che Vicky ama collezionare. “Mi piace molto la semplicità e il minimalismo, anche se poi non mi limito a questo. I miei preferiti? Caravaggio, Rene Magritte, Wong Kar Wai, Tibor Kalman, Frank Lloyd Wright”. Quasi superfluo dirlo, la prima stella è arrivata presto, nel 2013. Basta scorrere il menù per farsi un’idea più chiara sul mondo di Lau: il dolce Zen Garden, composto da una crema al té matcha con cioccolato bianco, dacquoise e crumble allo yogurt, è presentato come se fosse un piccolo giardino orientale. Non da meno il piatto “Ode ai pomodori”, ispirato a una poesia di Pablo Neruda, con pomodori cucinati in tanti modi diversi e gelato alla senape. Da lei si può scegliere fra due menu degustazione, una da sei e l’altro da nove portate. Ora ha lanciato Butler, un servizio di catering bespoke, ovvero su misura: anche qui edible stories, storie da raccontare, un misto fra arte e sensi, per offrire la tanto acclamata memorable food experience. “Dovessi caratterizzare la mia cucina in tre parole direi femminile, narrativa, piena di dettagli. Ovviamente, molto passionale, ma è superfluo aggiungerlo”.


One and Only P

Reethi Rah

robabilmente la stragrande maggioranza dei vacanzieri innamorati delle Maldive mette al primo posto le sensazioni che si vivono mentre si mangia con i piedi in acqua, guardando l’orizzonte. Okei le spiagge, okei il sole e le immersioni, tutto bello, certo: ma (quasi) da nessun’altra parte puoi fare colazione con il naso nell’oceano. Siamo nel mondo di One and Only, dove impera il lusso, la catena è famosa per i suoi resort caldi e incredibilmente eleganti (Royal Mirage a Dubai resta ineguagliabile). Siamo nel mondo della perfezione e non si tratta di alcuna ruffianata interessata:

d’altronde all’One and Only non hanno bisogno di noi per far parlare di sé. Anche qui, a 50 minuti da Mahé, hanno saputo creare quell’atmosfera fuori da qualsiasi immaginazione; la piscina a sfioro ne è la dimostrazione. I bungalow sono paradisiaci, isolati e con la spiaggia singola propria, le vasche da bagno sono tutte con le vetrate sul mare, in veranda ti puoi sorseggiare l’aperitivo, la ristorazione è di altissimo livello. Quattro, i ristoranti, tutti con cibi da grande chef, soprattutto il Tapasake, giapponese doc e soprattutto situato al bordo dell’oceano (nella foto). Di alto livello anche quello internazionale, con una

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enoteca che vanta 9000 etichette, che vanno dai 50 ai 29.000 euro (troverete sempre il Petrus). Alcuni rimangono spiazzati nel vedere che si chiede il dress code (si può entrare solo con pantalone lungo e scarpe), perché solitamente qui si viene con l’idea di andare scalzi per tutto il tempo della vacanza. Forse rispetto alle altre isole maldiviane questa è di dimensioni più ampie, non a caso si gira con il buggy che abitualmente trovate nei campi da golf e ognuna delle ville viene munita con due biciclette. Alcuni ragazzi scorrazzano come se fossero al parco, ma si sa, spesso la gente benestante pecca di educazione.


Mandarin Oriental New York, New York

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’ la meta per eccellenza. Più delle Maldive e delle spiagge caraibiche, perché New York rimane la città dei sogni, laddove ti senti vivo, elettrico, al centro del

mondo. E’ ammaliante, non si riesce a resistere al suo fascino, si va per le partite dei Giants e dei Knicks, per i megastore di Nike, per il profumo di soldi che si respira ovunque e soprattutto nei pressi di Wall Street, per affari e per i luoghi dove si sono girate le puntate di Sex and the City. Una volta si prendevano d’assalto i negozi di Abercrombie e Brooks Brothers, ora si punta di più ai ristoranti stellati perché la metropoli della mela ne è piena. Se poi alcuni mancano del riconoscimento della guida poco importa, prendete come esempio l’Asiate del Mandarin Oriental, situato al 35imo piano. Per alcuni è il miglior ristorante della città: molto fa la vista mozzafiato o, per essere modernissimi, vista da Instagram sul Central Park (si consiglia la prenotazione con largo anticipo per i tavoli vicini alla vetrata). Quando sali in ascensore sei ovviamente con

il cuore in gola, impaziente, poi una volta che si aprono le porte hai la sensazione di svenire per il piacere, anche se hai vissuto il momento per altre decine di volte. La vista di New York, l’andirivieni

dei taxi gialli ti ipnotizzano a tal punto che non vorresti mai tornare giù. Da bambini si diceva che non volevi svegliarti perché avevi fatto un bel sogno: ecco, ci siamo.

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Perché osservare Central Park, la brulicante vita di New York e l’incessante andirivieni dei taxi gialli, crea un effetto magico, e non hai nemmeno assaggiato il cibo. La baraonda delle emozioni continua: le “pareti cantina” davvero impressionanti, la qualità del cibo anche, la presentazione pure, gli arredamenti anche, non tutti però considerano il personale all’altezza e, va detto, accade spesso nei posti dove si sa che arriva il turista, ovvero il cliente di passaggio. La cucina la potremmo considerare fusion ma non troppo, una via di mezzo fra cibi asiatici e internazionali, perché la clientela quasi ti impone una scelta del genere. Qualche esempio? Noodles al caviale, tonno appena scottato, ma anche aragoste, kobe, tartare di manzo con purea di liquirizia, risotto al granchio, dei dessert superlativi accompagnati da moscati californiani da far invidia ai nostrani. In più mini panini caldi e morbidi, dei vini straordinari, mentre a pranzo si può prendere il menu da 29 dollari: antipasto, main course e dessert. Life is now.


Berlino gourmet P

Stelle teutoniche

overa ma sexy, suonava così il claim pubblicitario che il sindaco berlinese Klaus Wowereit lanciò qualche anno addietro. Certo, era un modo di dire, una campagna che voleva rilanciare la città puntando sull’arte, moda, creatività e soprattutto sul turismo low cost. Non a caso nel 2011 ci furono 22 milioni di turisti, la gran parte attirati dai prezzi contenuti dei voli, degli alberghi e dei ristoranti. Certo non tutti sono a buon mercato così come non tutti i turisti ambiscono ad un pasto veloce ed essenziale. E’ un piacere sedersi al Caffè St. Oberholtz per uno spuntino veloce, ci mancherebbe, ma una cena stellata ha il suo perché, ancor di più in una città dove non ti aspetti un gran fermento culinario. E invece eccoci, come già segnalato nell’articolo accanto, in una Berlino che può vantare 11 ristoranti premiati dalla guida Michelin e altri in odor di riconoscimento. Uno dei più vicini alla nomina è Marco Muller e il suo Rutz, ristorante già famoso perché propone una lista vini straordinaria. Considera la sua cucina

“global aromatic”, ma principalmente punta sui piatti della nobiltà austriaca. Aggiunge un tocco asiatico Michael Kempf del Facil, risto che si trova all’interno del Mandala Hotel. La celebrazione della cucina francese la trovate da Christian Lohse, al Fischers Fritz (un classico la terrina di foie gras e anguilla dell’Havel con caramello di melanzane viola) e soprattutto a Les Solistes, dove incontrerete Pierre Gagnaire. Lo chef, una leggenda in Francia, ha deciso di passare il confine per nuove esperienze, pur mantenendo le redini del suo risto in Rue Balzac a Parigi: pronti via ha ottenuto la prima stella e di questo passo la seconda non tarderà ad arrivare. Piatti regionali rivisitati in maniera molto chic potete assaggiare al Vau, in pieno centro, vicino al Dom, dove c’è lo chef Kolja Kleeberg, una stella Michelin e la location che è davvero notevole, merito dell’architetto Meinhard Von Gerkan, lo stesso che ha ridisegnato la stazione centrale e il Berlin Tegel. Vista panoramica e cibo straordinario al 14imo piano dell’hotel Intercontinental, dove Thomas Kammeier punta esclusivamente sui prodotti

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freschi. Due stelle ed eccitazione massima al Reinstoff: è uno dei ristoranti più in voga, merito dello chef Daniel Achilles, un tipo molto creativo, fresco di nomina come il miglior cuoco dell’anno per la guida Gault and Millau. Molto particolare la storia di Tim Raue, passato dal fare il gangster a cucinare per Obama e la Merkel: un passato turbolento come pochi, poi all’improvviso eccolo diventato uno dei migliori cuochi del paese, con due stelle Michelin ancora prima di aver compiuto 40 anni: le influenze thai e cinesi dei suoi piatti ti portano al settimo cielo. Per chi vuole spostarsi leggermente fuori città suggeriamo il Fruhsammers, all’interno del Grunewald Tennis Club, dove Sonja e Peter Fruhsammer hanno ottenuto la prima stella l’anno scorso. Lei viene considerata una delle regine della città, per la sua influenza e le conoscenze. Ma soprattutto per i piatti. Andiamo a Berlino, gridava Beppe Bergomi alla fine della semifinale del 2006 contro la Germania. Andiamo si, ma stavolta per cenare, non per vincere i mondiali.


Adlon, Kempinski La versione di Otto

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erlino si sta finalmente liberando dagli ultimi mostruosi ricordi del comunismo, un comunismo che ha distrutto due generazioni di tedeschi: nulla e nessuno potrà ridare alle persone cinquantanni rubati dall’orrore rosso, però il presente è brillante e questo basta per poter sorridere. Come spesso accade, chi ha subito tali ingiustizie dal destino tende ad esagerare quando finalmente vede la luce: vale anche per la capitale tedesca, diventata una città piena di energia e soldi, con locali di tendenza e una vita notturna senza pari. In più, fatto assai sorprendente, sta cominciando a essere una meta per i gourmet, proponendo un ventaglio gastronomico a dir poco invitante. Raffiche di chef e ristoranti stellati (dodici), da Michael Kempf a Marco Muller, da Sebastian Volz a Christian Lohse, da Fishers Fritz a Christopher Ruffer, fino a Hendrik Otto dell’Adlon’s Esszimmer, forse il migliore di tutti per come interpreta il connubio fra tradizione e contemporaneità. La nuova generazione di chef

teutonici ha sviluppato un modo di pensare i piatti poco legato al passato e più ispirato al meting pot della città (187 nazionalità popolano Berlino). Otto invece è ancora molto legato alle ricette di una volta, mette l’accento sulle materie prime, cerca di stimolare i sensi. Il ristorante si trova all’interno dell’hotel Kempinski: aperto nel 1907, chiuso e bruciato durante la seconda guerra, poi abbandonato fra Est e Ovest, oggi è tornato agli antichi splendori, essendo di gran lunga il più lussuoso della capitale. Oltre ai piatti di Otto aiuta molto anche la location: sei tavoli sono con vista sulla Porta il Brandeburgo, un lusso straordinario, atmosfera degna di un palazzo reale, il personale davvero all’altezza (“sembra che stiano danzando”, ha scritto qualcuno riferendosi ai camerieri). Il menu degustazione vale da solo il viaggio (qualcuno lo ha definito trascinante), la granita di menta ancor di più, le focaccine di grano saracino un must. Otto è qui dal 2010: prima aveva conquistato la stella con il ristorante La Vision, a Colonia

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(confermata per i sei anni successivi) e con Vitrum, all’interno del Ritz, sempre a Berlino. Fin dagli inizi aveva messo l’accento sulle materie prime, forse perché “condizionato” dai suoi genitori, cultori e coltivatori di frutta e verdura: sarebbe stato strano il contrario, a questo punto. Hendrick ha sempre fatto il cuoco e fin dai primi giorni al Kurhotel Lauterbad ha avuto la fissazione per il mix fra tradizione e modernità: i risultati lo hanno premiato, lì come al Landhaus Flattbek di Amburgo, suo primo step importante nella carriera. Piccola incursione fuori dal mondo gastronomico: se volete un albergo all’altezza del Kempinski potete scegliere fra Hotel de Rome (ex sede della Dresdner Bank, stile neo classico nella vecchia Berlino Est, vicino alla nuova Stazione centrale, proprietà del gruppo Rocco Forte), Hotel Q (boutique hotel dal design particolare), Regent Berlin (stanze sfarzose e un ristorante che vanta due stelle Michelin), Palace Berlin (per una clientela business, a due passi da Ku’damm, pure qui una stella grazie a Matthias Diether).


Hueso

Ossa a volontà

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.000 ossa. Non per fare il brodo e nemmeno per altre pietanze, bensì per fare da arredamento, pezzi da design un po’ insoliti ma alquanto intriganti. Accade a Guadalajara, nel quartiere Lafayette, non a caso una zona conosciuta per le case ed i locali dove prevale l’estro, il dettaglio chic. 10.000 ossa, di tutti i tipi (femori, crani, tibie, peroni e altro) raccolte in sei mesi visitando vari ranch del paese e il deserto della parte nord-est

messicana. Il ristorante è all’interno di un edificio del 1940: ristrutturato e recuperato, trasformato da un intero team di architetti, la sera diventa assai misterioso perché la luce non è mai diretta. Ci sono lampade progettate per illuminare le pareti e gli oggetti che raccontano la storia del luogo. Appena arrivi, davanti alla porta trovi un osso appeso a due catenelle: solo dopo scopri cosa si nasconde all’interno, ovvero un ristorante dove sono esposte ossa su mensole, oppure appese al

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muro per decorare ogni millimetro dell’ambiente. Niente da dire, un’idea forse leggermente macabra ma assai ironica, intenta a sdrammatizzare e soprattutto a creare un ambiente mai visto prima. Certo, il nome del locale, Hueso (facile la traduzione, vuol dire osso in spagnolo) non sprizza originalità, però gli interni sono da Guiness dei primati. E poi dopo l’impatto iniziale (non è proprio rilassante vedere subito ossa di tori, mucche e cervi) inizi ad apprezzare le tonalità calde e neutre, il bianco e il beige, la texture chiara del legno.


Joel Robuchon L’uomo delle stelle

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’ l’uomo con più stelle in assoluto: ad oggi ne vanta 28. Maurice Beaudoin, noto critico gastronomico di Le Figaro, ha proposto di non classificare più Joel, di non metterlo assieme agli altri e di non dargli più le stelle: “Lui è oltre, è un museo vivente, i piatti dei menu degustazione sono dei capitoli del suo universo”. Sottoscriviamo appieno. Esalta la semplicità, il rigore totale, non concedendo mai nulla al caso. Concepisce la cucina come un arte molto simile alla musica, dove nella prima fase si insegna e si impara la tecnica, ripetendo fino ad arrivare alla perfezione. E’ lui ad aver introdotto la divisa nera, perché secondo lui al ristorante si deve andare come al teatro, dove lo chef è uno degli attori protagonisti: “il bianco non mi pare un colore adatto per un mondo come il nostro”, dichiarava. Sottoscriviamo pure qui. Non gesticola, non si lancia in discussioni sui grandi temi dell’umanità: semplicemente segue la sua strada, imperturbabile ed esigente. E’ molto essenziale, non ama le salse, ma anni addietro la sua cucina era molto più sofisticata. “Quando mi

sono avvicinato al mondo orientale, ai cibi cinesi e giapponesi, ho capito che la mia tecnica mi aveva portato troppo lontano. I miei piatti erano troppo complicati, troppo ricchi, mi sono reso conto di aver preso una strada sbagliata. Partecipavo a tutti i concorsi, spendevo energie in modo inutile, solo dopo mi sono avvicinato alla semplicità”, raccontava di recente. “Mi concentro sul presente, non mi proietto troppo in avanti”. Le stelle Michelin sono un gran riconoscimento, ma Joel va molto più fiero della medaglia ottenuta nel 1976, “Meilleur Ouvrier de France”, una specie di Cavaliere del lavoro in versione transalpina. Il successo non lo ha cambiato per nulla, lungi da lui comportamenti da star: “Penso che nella vita non si cambia, bensì possiamo evolverci, aumentare e allargare il confine delle nostre conoscenze”. Quando non lo trovi al ristorante vuol dire che è in viaggio: o in cucina o sull’aereo, non esistono terze vie. Apre ristoranti in continuazione, da Parigi a Londra, da New York a Las Vegas, da Macao a Tokyo: sono tutti ai suoi piedi, tutti lo vogliono.

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Piccola curiosità: ci sono dei piatti che troverete ovunque nei suoi Atelier, ovvero la purea di patate, la gelatina di caviale ed i ravioli di aragosta. Ha costruito una squadra fortissima, con quattro “generali” che vanno ovunque a gestire, controllare, correggere e assicurarsi che il verbo di Joel venga trasmesso e propagato in maniera perfetta. I quattro sono Philippe Braun, Eric Lecerf, Antoine Hernandez ed Eric Bouchenoire. Fra i suoi maestri ama citare Charles Barrier, Jean Delaveyne, Alain Chapelet Fredy Girardet. I ristoranti dove preferisce andare a mangiare sono Le Pre Catelan, Le Stresa, Au Gout Dujour e La Petite Maison du Nicole (a Nizza). E’ un grande amante di gadget (ne compra ovunque), di orologi, macchine bianche e soprattutto della tecnologia: gira sempre con tre iphone e tre ipad, ha una dozzina di numeri telefonici e ovviamente altrettanti telefoni. Cita spesso Foucault, predilige la Spagna per le sue vacanze e adora il Giappone. D’altronde uno come lui, che ama la semplicità, non potrebbe innamorarsi di un paese diverso.


Tel Aviv, mon amour

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’ la città che non dorme mai, che si rifiuta di invecchiare, dove c’è quel qualcosa nell’aria che ti fa volare, sentirti leggero, a tuo agio, sognante e forte. Dodici mesi all’anno hai la sensazione di toccare il paradiso con la mano, fra un passato gigantesco e un futuro roseo. Oltre a questo è diventata una città sperimentale dove si dissolvono confini di tempo, genere, qualità, una città all’avanguardia che sa mescolare tradizioni e modernità come forse nessuna. Guardate per esempio l’appartamento che vi stiamo presentando: 100 metri quadrati a Jaffo, quartierecittà che prosegue sul lungo mare di Tel Aviv, raccolta attorno al porto. E’ il luogo più in, più chic e bohemien, una specie di Brera con il mare davanti, con le stradine di Neve Tzedek ed i ristorantini tradizionali che ricordano e mantengono il passato

arabo, con i dj che suonano sulla spiaggia e locali aperti fino all’alba. E’ proprio qui che nacque la città nel 1909, è proprio qui che la vita pulsa più che altrove fra gallerie di arte contemporanea e il mercato delle pulci, discoteche e boutique, falafel e Starbucks. L’edificio dove si trova l’appartamento si porta dietro qualche secolo di vita, non si sa con esattezza la data esatta e a dir la verità poco importa, perché il profumo del mare e delle arance ti stordisce, proiettandoti in una sorta di nirvana continuo. L’intero paese è così, inutile girarci attorno, Israele è sinonimo di magia totale, ovunque ti trovassi, a Haifa oppure nel deserto, a Gerusalemme o Mar Morto. Sembra assai paradossale raccontare che in Israele cerchi e trovi i mattini e la serenità, il tramonto

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e l’energia, secondo alcuni il paese rappresenta il male e di conseguenza ti aspetti gente tesa e preoccupata. Invece no, basta guardare le immagini dell’appartamento per avere l’ennesima dimostrazione di come qui regna la bellezza e il coraggio, la voglia di guardare lontano e la capacità di essere concreti. Il nome dell’architetto vi dice poco, si chiama Pitsou Kedem, però è evidente non solo la bravura ma anche la sensibilità di mantenere le arcate e la pietra originale, aggiungendo quel tocco minimalista che tanto piace ad ogni latitudine. Estetica e tradizione, nuovi concetti e spazi ottenuti senza stravolgere troppo, contrasti e atmosfere calde: semplicemente fantastico. Tutto bilanciato a perfezione, fra acciaio, pietra e ferro, con la vista sul Mediterraneo. What else?


Ladera, Santa Lucia Life is now No 32



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pesso l’espressione immersi nella natura viene utilizzata a sproposito, come tante altri frasi diventate degli stereotipi incolori. Ma qui, a Santa Lucia, luogo diventato patrimonio dell’Unesco, per davvero vivi a contatto stretto con le piante perché il resort è all’interno di una ex piantagione di cocco e a due passi dalla foresta pluviale. Il fruscio delle foglie è un piacere senza fine, la brezza ancor di più, il rumore del mare pure, così come il canto dei colibri. E poi spiagge con sabbia bianca e nera, letti a baldacchino, sedie a dondolo sull’acqua, rubinetti a forma di conchiglia, il ponticello di legno sopra la piscina: qui “is all about romance”, scrisse l’inviato di Traveller, nel 2012. Perché, in effetti, il resort è una delle mete più romantiche per i matrimoni, ma soprattutto è l’unica struttura caraibica ad aver raggiunto la prima posizione nella Best List, la famosa classifica di Condé Nast. Le 32 stanze hanno la così detta open wall oppure open air, ovvero la stanza con tre mura e al posto del quarto c’è la vista sulle due montagne vulcaniche (chiamate Pitons) e sul Mar Caraibico. Una volta la chiamavano vista da cartolina, ora l’espressione si è tramutata in instagram view, ma sono dettagli. Furono fra i primi ad aver scelto di realizzare le camere senza finestre, con davanti solo il paesaggio mozzafiato: sono stati dei pionieri, parliamo di una ventina di anni addietro, ma onestamente pare alquanto impensabile immaginare una situazione diversa. E’ tutto naturale, tutto così ovvio e semplice da trovare inconsuete le finestre una volta tornati a casa. L’unica pecca del resort, manca la spiaggia privata, però il motivo è assai facile da capire: siamo a 400 metri di altezza, con una ripida scarpata che scende fino alla baia: volendo, con la navetta si può raggiungere la spiaggia del Viceroy o Anse Chastanet. Una volta la proprietà faceva parte dell’impero immobiliare Rabot, poi nel 1982 è stato acquistato e trasformato in un resort come pochi altri al mondo. Se il personale è davvero efficiente, se tutto funziona a meraviglia, gran parte del merito va ad Olivier Bottois, l’uomo arrivato qui dopo aver lavorato al George V di Parigi e aver diretto le operazioni nel quartier generale della catena Four Seasons: qui da più di dieci anni, sa coinvolgere il personale e farlo crescere come pochi. Vanta anche un ruolo a dir poco singolare, fu il maitre personale dell’ex presidente francese Francois Mitterand: insomma, è l’uomo giusto al posto giusto, perché la clientela è davvero esigente e non potrebbe essere diversamente visto il costo dell’esperienza vacanziera. Le pietanze al ristorante Danshee sono prettamente locali, compresa la patata dolce e la zuppa di cocco, in un tripudio di cibi e piatti internazionali con chiaro tocco caraibico. Non vi resta che andare a provare.

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London View “S

Duck and Waffle

iamo il ristorante più alto del Regno Uniti, per di più aperto ventiquattro ore al giorno. Siamo aperti a colazione, lunch, cena e durante la notte”. Sul profilo twitter, il ristorante Duck and Wafle si presenta in maniera semplice e concisa, sarebbe difficile essere più esaurienti e aggiungere altro in 140 caratteri. Semmai, lo possiamo dire noi: è di gran lunga il luogo da dove si può ammirare la più bella panoramica della città, un posto non prettamente turistico nel senso che è lontano dai soliti giri, anche se, ovviamente, i vacanzieri lo prendono d’assalto (atten-

zione, non arrivate in scarpe da ginnastica, ancor meno con infradito, perché vi negano l’ingresso ed è giusto così). Il nome del ristorante proviene dal piatto che è diventato un cult: waffle con sciroppo d’acero, sopra un uovo all’occhio di bue, completato da coscia d’anatra arrosto (e croccante). In una parola, delizioso. Al 40imo piano della Heron Tower (vicina a Liverpool Street), si sale con un ascensore che pare di un film da fantascienza: poi le porte si aprono ed ecco vecchi chandelier di cristallo e pareti di vetro, lo skyline di Londra a 360 gradi, cocktail intriganti e

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stuzzichini irresistibili. Parlando del menu in sé, va dato atto ai proprietari di aver indovinato appieno la formula: si ha la possibilità d assaggiare tanti piatti e di dividerli, l’idea é quella di proporre una versione inglese delle tapas spagnole. Funziona, eccome. Qualche consiglio? Tonno giallo, crispy pig ears e foie gras creme brûlé, octopus alla griglia, polipo con patate, melanzane con salsa yogurt, polpettine di pesce. Per gli amanti gourmet e per gli innamorati della capitale economica del vecchio continente, è un must.


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Cape Kidnappers Golf Extreme

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icordate Patrick de Gayardon, per anni testimonial degli orologi Sector con lo slogan No Limits? Era un paracadutista francese, detentore del record di caduta libera, ultima fatale, alle Hawaii nel 1998. Fece più di dieci mila lanci, viveva con il sogno di Icaro. Insomma per non dilungarci, ogni volta che vediamo le foto di Cape Kidnappers ci viene in mente lui, perché giocare qui sa più di sport estremo che non di un tranquillo e rilassante 18 buche in compagnia degli amici. Fra l’altro il parigino era anche un buon golfista: quasi quasi ti vien da pensare che Tom Doak lo abbia disegnato apposta per lui e per i suoi record, immaginandolo sul green della 18 arrampicandosi oppure atterrare da chissà dove. Un campo sicuramente fuori dalle regole, ma proprio per questo affascinante come pochi, anzi come nessun altro, in un paese che batte i record di campi da golf pro capite, visto che parliamo di quattrocento in un paese con una popolazione di appena quattro milioni di abitanti. Uno di loro si è imposto all’Us Open nel 2005, a Pinehurst: Michael Campbell, sangue maori e un gioco che fece impazzire gli appassionati. Oltre a lui c’è un altro personaggio che da queste parti attira le attenzioni nel mondo del golf: Julian Robertson, ex Wall Street, americano della North Carolina diventato famoso per essere stato uno dei primi ad aver creato un hedge fund, il Tiger Management Corp. E’ venuto qui in vacanza negli anni settanta e da allora ha iniziato a comprare terre e costruire vitigni, per poi cimentarsi nell’affare dei campi, costruendone due, Kauri Cliffs e, appunto, Cape Kidnappers. Il primo, aperto nel 2000, è stato subito paragonato, in maniera anche banale, al Pebble Beach: molto più suggestivo e particolare il Kauri, anche più difficile da raggiungere, non a caso la gran parte dei giocatori, quasi tutti stranieri, vi giungono con i jet privati. Cape Kidnappers, da parte sua, ha aperto nel 2004. Situato sulla Hawke Bay, nei pressi della città di Naiper, distrutta dal terremoto un secolo addietro, è un misto di tocco minimalista del designer e terra selvaggia, tutto sommato un percorso più facile di quello di Kauri seppur impegnativo al massimo. Ovviamente qui lo score non conta nemmeno, l’adrenalina e l’endorfina si scatenano come poche altre volte nella vita. Provare per credere.

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Tyler Brulé Il nuovo guru

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er anni in Italia si è parlato di David Letterman come di un modello da imitare e copiare: i risultati sono stati a dir poco comici, a tratti ridicoli. E’ stato un po’ come voler imitare Messi o Cristiano Ronaldo avendo piedi da Serie B. Ora che il buon David è andato in pensione, i sapientoni nostrani hanno preso come punto di riferimento per imitare e copiare un altro mostro sacro del mondo editoriale: Tyler Brulé, l’inventore di Monocle. Fiumi di parole e applausi, dimenticandosi di scrivere e ammettere (stiamo sognando, ci vuole buon senso) che nessuno sul suolo italico abbia mai impedito loro di creare una rivista di qualità (sorvoliamo sui motivi, perché sarebbe solo una perdita di tempo). Fatto sta che Tyler, ex cronista d’assalto della BBC prima di rimanere ferito in Afghanistan (1989), è l’uomo che da qualche anno ha ridato la speranza alla carta stampata, dimostrando che si può ancora sognare in grande, nonostante la crisi di pubblico e pubblicitaria sembri a tratti irreversibile. Il 47enne canadese (come inquadrarlo, giornalista, trendsetter, imprenditore?) sta facendo parlare di sé

e soprattutto macina utili con la sua nuova creatura, Monocle: una rivista di 77.000 copie che vale 115 milioni di dollari (ha appena ceduto il tre per cento ai giapponesi di Nikkei Inc incassando dieci milioni), ovvero invidia allo stato puro per qualsiasi editore, grosso o piccolo che sia. Gridano al miracolo, alla controrivoluzione, all’inversione di tendenza: più semplicemente ha saputo captare gli interessi della gente, creando un mondo assai semplice: “Gli editori devono offrire ai lettori un messaggio chiaro: noi produciamo giornali e riviste che i lettori sono orgogliosi di esibire. Così come i consumatori si autodefiniscono attraverso l’accessorio giusto che possiedono (occhiali, valigie, borse e calzature), le testate preferite dai lettori hanno la stessa funzione. Una funzione che il tablet non può assolvere”. Certo, Monocle è un prodotto assai strano, un ibrido fra L’Economist e The Sun, una rivista che mista politica estera e gossip: essere pubblicata in inglese aiuta non poco, visto che oggi il primo mercato è quello americano seguito dalla piazza britannica. Sentirlo parlare di riviste ed editoria è un piacere im-

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menso, leggiamo e rileggiamo le sue interviste sull’argomento e rimaniamo sempre affascinati dalla facilità con la quale mette in pratica quello che dice, mentre gli altri creano brutture atroci pur sbrodolando paroloni alti. In breve, ecco la filosofia di Tyler, che dall’altro lato continua a scrivere editoriali per il Financial Times (il sabato) e New York Times: “Siamo quello che sfogliamo. Monocle non realizza mai delle copertine deprimenti, è un prodotto elegante, per una audience elitaria, vuole annullare le differenza fra giornalismo e pubblicità, è come una promessa: quando entri in una stanza tutti si girano a guardarti. E’ un slow media, offre soluzioni sul modo di viaggiare e di spendere il proprio tempo, trasmette energia e creatività, desta la curiosità estetica, promette istruzioni sugli affari globali, business, cultura, design. Il nostro lettore è un globtrotter, colto, ironico, interessato di media.” E’ il nuovo guru ma, a differenza dei coloro bravi solo a conferenziare, produce utili e, udite udite, parla solo di profitti e soldi. Editore vero, ed è qui che rimangono fregati i pallidi nostrani, troppo innamorati di loro stessi.


Lotto

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Sneakers a tavola

vvertenza, questo non è un articolo oggettivo: lo ammettiamo, siamo dei fan, o forse meglio dire ammiratori dell’azienda di Montebelluna da quasi due decenni. Ricordiamo come se fosse oggi la prima conferenza stampa di Andrea Tomat in qualità di presidente, poi l’arrivo di Sheva (mettermi il cognome completo, perché magari non tutti intuiscono subito chi è) come testimonial e via via tanti altri momenti d’oro vissuti assieme all’azienda di Montebelluna.

Abbiamo sempre seguito con interesse le mosse, abbiamo apprezzato le collezioni e, spesso, acquistato i suoi prodotti. In più, ci ha incuriosito la sua strategia marketing, perché ha sempre puntato su personaggi puliti (Luca Toni e lo stesso Sheva su tutti), oppure di prestigio, come Carlo Cracco. Ed eccoci al motivo delle pagine che state sfogliando: non è stato un caso, il fatto che Tomat ed i suoi abbiano pensato ad uno chef stellato come testi-

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monial. Oltre a trasmettere l’italianità e l’eccellenza, Cracco ha aperto un nuovo mondo, dove l’alta cucina e la moda chic vanno a braccetto. Per questo abbiamo abbinato delle sneakers a dei piatti realizzati da chef creativi, giovani e passionali: ci sono tanto colore e tante idee sia da una parte che dall’altra, c’è l’ambizione di imporsi e il desiderio di stupire. Sotto, il piatto “A tutto sgombro” di Giuseppe Iannotti del ristorante Kresios di Telese Terme.


La cucina nordica va spedita alla conquista del mondo: se Noma di RenÊ Redzepi è stato eletto il miglior ristorante al mondo per tre volte negli ultimi cinque anni, gli altri non sono da meno. Prendiamo per esempio il Kodbyens Fiskebar, dove guarda casa comanda un ex sommelier di RenÊ, Anders Selmer. Qui accanto uno dei suoi piatti assieme ad un altro modello Lotto Leggenda.

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Martin Berasategui, ovvero il rinnovatore della cucina basca. Lo chiamano anche il basco viaggiatore, oppure l’autodidatta. Comunque lo si vuole chiamare, a 33 anni vantava già sette stelle Michelin. La sua filosofia? Equilibrio, tecnica e virtuosismi messi al servizio dei prodotti, appartenenza e leggerezza. Abbiamo “abbinato” una delle sue creazioni al modello Lotto Leggenda color senape.

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Kesler Tran Puro erotismo

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i risiamo: nuovo numero, stessi punti cardini. Non può mancare il riferimento a Treats Magazine, la rivista che spopola fra gli amanti dello scatto erotico. Sono due anni che raccontiamo delle meraviglie di Steve Shaw, il fotografo di Manchester trapiantato a Los Angeles e diventato una vera star hollywoodiana: gli eventi che organizza, la gente che vi partecipa, il successo che ha, i paragoni con Hugh Hefner (per quanto influente, non per il tipo di rivista che realizza) lo hanno portato alla ribalta in un modo inaspettato. Meglio per lui e la sua creatura, dove ospita i migliori fotografi del mondo i quali, sicuri di avere a disposizione tutto lo spazio del mondo, scattano e mettono in piedi dei servizi di una intensità e una carica straordinarie. Uno di loro è Kesler Tran, personaggio che riesce a trasmettere erotismo allo stato puro in ogni suo scatto. Ha iniziato relativamente da poco, sette anni addie-

tro, ma la mano è decisa, le idee chiarissime: mai o quasi la luce artificiale e lo studio, fotografa esclusivamente donne, gli piacerebbe avere più possibilità di realizzare dei servizi di moda. Difficile fare una specie di classifica dei suoi lavori: va a gusti, non ci resta che sentire le sue preferenze: “Dovendo scegliere punto sulle immagini con Kate Potter, sullo yacht e con Vanessa Milde, attorno ad un elicottero, ovviamente entrambi i servizi pubblicati su Treats!. Mi piace la spontaneità nelle foto, il che spaventa assai la gente che ama programmare tutto. Cerco di più la bellezza di un’immagine piuttosto che la modella, per questo spesso lavoro con delle emergenti, non mi serve per forza di cose una ragazza esperta. Non vado matto per la postproduzione e il photoshop, ”. Fa la spola fra Los Angeles e New York, va matto per i video games, colleziona coltelli (anche costosissimi), si considera shopaholic (giacche e scarpe a più non posso). E soprattutto fa impazzire con i suoi scatti.

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Alto Milano La calza é servita

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’idea ci era venuta un anno addietro, proprio al Pitti: il mondo dell’alta moda e dell’alta cucina sono simili a tal punto da poterli considerare identici. Stessa passione, stessa attenzione ai dettagli, stessa voglia di far sognare: guardate i piatti degli chef, pittorici e cromatici, le coreografie che stanno proponendo. Ti senti assalito da sensazioni, fremiti in tutto il corpo, poi ci sono i profumi che ti avvolgo-

no come una sinfonia. Sia l’alta moda che l’alta cucina regalano gioie semplici e intense, in più i linguaggi sono spesso attinenti, legati fra di loro: quante volte non diciamo morbido come la seta, oppure delicata come il raso? Ecco, mentre stavamo ammirando le ultime collezioni di Alto Milano pensavamo proprio a questo: com’è diventato spettacolare e rilassante, come ci

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si sorprende piacevolmente accarezzare i tessuti, guardando i disegni, i dettagli di una calza. Qui ci siamo sbizzarriti assai, per certi verti esagerando: un tripudio di colori e modelli che regalano la felicità immediata. La magia è servita, abbiamo scritto una volta parlando di uno chef e le sue creazioni, autentiche opere d’arte che ti provocavano vertigini di piacere. Rieccoci: l’effetto è lo stesso.


Il piatto è di Andoni Luiz Aduriz, due stelle Michelin con il suo Mugaritz, a Errenteria, sulle alture basche, fuori San Sebastian. Lo chef è famoso per il suo gioco di colori, per i contrasti e le consistenze. I piatti sono delle piccole opere d’arte, si viene qui per stupirsi. Manca il menù classico, perché ogni giorno lo chef si inventa quindici portate da degustare.

Metti accanto due mostri sacri come Joel Robuchon e Bernard Magrez, il gioco è presto fatto: Joel ha più stelle di qualsiasi altro chef (28), Bernard possiede una quarantina fra tenute e aziende vinicole. Insieme hanno aperto La Grande Maison a Bordeaux con lo scopo di dare alla città il primo ristorante tre stelle Michelin. Aperto in una ex maison privata del XIX secolo, è un posto caloroso e non troppo rigido, con servizio spettacolare.

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Uno dei piatti classici di Enrico Bartolini, due stelle e in forte odor della terza: patata soffice uovo e uova. Solitamente lo propone con un Franciacorta Emozione Brut Millesimato.

I salentini, in Via Solferino a Milano, è un ristorante che ci piace tantissimo soprattutto per i gamberi viola e i prosciutti di pesce: nessun’altro riesce a d averli, sono una delizia. Il San Daniele di tonno, la bresaola di pesce, la mortadella di bottarga: prodotti amorosi, che inducono alla lentezza. Da assaggiare anche la purea di fave bianche, piatto tipico pugliese come d’altronde i patron, Francesca Micoccio assieme al marito Antonio Ingrosso.

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Markus Holzer, cresciuto alla scuola di Norbert Niederkofler, è un grande fan della pasta fatta a mano. Si diverte a fare i ravioli (il suo piatto preferito è proprio questo, ravioli al pane nero, carne affumicata e tartufo) e i fagottini di barbabietole che vedete nella foto sopra, con ripieno di olive e camembert. Il suo ristorante, a San Candido, pare uscito di una fiaba.

Marcus Evans, 34 enne londinese, ha avuto una idea assai coraggiosa: aprire un ristorante francese nella capitale britannica. Il risultato? Due stelle Michelin. Alterna piatti innovativi alla cucina stagionale, ha come idolo Bjorn Frantzen e ama andare a cena da Herenford Road a Notthing Hill.

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Tamì, slow food in Val Trompia

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steria slow food in Val Trompia, rifugio in alta quota per bresciani e non solo, meta romantica mordi e fuggi, con il fuoco che sta crepitando nel camino. Scoperta deliziosa, anche se fuori tempo massimo, perché la gente che ama la quiete e le prelibatezze ci viene spesso, soprattutto nei fine settimana. Il ristorante, nella piazzetta centrale del paese, è una continua sorpresa, fra sale e salette, comprese le due al piano di sotto, fresche e rustiche, dove anni fa c’era la cantina della casa di famiglia. Perché, va detto, qui una volta c’era la dimora dei Lazzari, i proprietari del locale: a breve, al primo piano, apriranno quattro stanze simili agli chalet svizzeri, in pietra, legno e ferro. Michele e Mauro sono fratelli e soci: il primo, nome di spicco nel mondo della moda, sta più defilato, mentre Mauro fa lo chef ed é l’anima del ristorante. I suoi piatti sono ghiotti e golosi, i profumi rotondi e le materie prime eccelse, quasi interamente arrivate dai produttori locali: il bagoss estivo e il tartufo arrivano da Bagolino, la burrata da Londrino, le trote dal Maniva, la mucca Bruna Alpina proviene dalla vicina Val Brembana, mentre le erbe aromatiche arrivano dall’orto di casa. L’acqua, inutile dirlo, è sempre un prodotto locale:

“Che senso aveva avere la San Pellegrino se Maniva si trova a due passi?”, dicono i due. C’è una dedizione totale verso i prodotti di stagione, con il menu che cambia come logica conseguenza. Trovi però sempre la carne di Bruna Alpina e va detto che si tratta di un prodotto di alto livello, lo capisci assaggiando la tartare con tartufo nero e la burrata della valle: molto saporita ma non tenerissima, tagliata al coltello esprime al massimo le sue potenzialità. Vertigini di piacere per il risotto mantecato con formagella di Collio (abbinatelo ad un bianco Manna di Franz Haas), croccante e gustose le cervella di vitello impanate, per gli amanti del pesce suggeriamo le trote del Maniva, sfilettate e spadellate con Franciacorta: a proposito, l’abbinamento ideale sarebbe con un Flamingo Rosè Brut di Monte Rossa. Potente il millefoglie al Bagoss, servito con radicchio selvatico: ideale abbinarli un Pinot Nero Gottardi Mazzon, azienda altoatesina di livello assoluto. Ci sono anche i menu degustazione, 40 euro a persona vini esclusi: quattro piatti squisiti, anche questi proposti in base alle stagioni. I grissini vengono serviti caldi (sono fatti in casa), mentre altre due parole dobbiamo dedicarle ai for-

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maggi e al bagoss in particolare: qui ne hanno in abbondanza, 24 e 48 mesi, ovvero la lussuria allo stato puro. Gli intenditori non ne possono far a meno, gustandolo con il Sautern di Chateau Roumieu. Intrigante anche la formagella di Collio, che spesso sostituisce il burro nei risotti di Mauro. Poi c’è il gelato di malga al fior di latte mantecato al momento, ovvero il lato dolce della vita. A proposito: Mauro ha trovato la sua dimensione professionale e umana qui, in Val Trompia, dopo essersi tolto tante soddisfazioni nei ristoranti stellati (Miramonti, Castello Malvezzi), prima di partire per New York dove ha aperto il suo Caffè delle Muse, nel Greenwich Village, a Manhattan. Poi andò a Sydney, tornando per occuparsene di catering e per aprire il ristorante assieme al fratello Michele. Breve e commuovente storia legata al nome del ristorante: Tamì significa il figlio di Tamo, ovvero il bisnonno di Michele e Mauro: la leggenda narra che durante la prima guerra mondiale mandava lettere dal fronte alla sua amata, scrivendo solo T’amo T’amo T’amo. Al suo ritorno, il postino iniziò a chiamarlo così, mentre i suoi figli diventarono Tamì.


Endorsment

Perché mangiare é godere

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’ la pagine delle chicche, delle piccole grandi cose che ci rendono la vita un cioccolatino, un bijou. Spesso sono piatti, lecornie e posti che ti cambiano la giornata, che ti regalano la felicità immediata, piccoli e golosi momenti di piacere. 1. I prosciutti dell’azienda La dispensa del Granduca, a dir poco paradisiaci e soprattutto molto simili ai prosciutti iberici. Stagionati fino ai 40 mesi, provengono da maiali di 260 chili che stanno pascolando allo stato brado. Noi li abbiamo gustati a La Griglia di Varrone, di gran lunga il miglior ristorante di carne a Milano (e di conseguenza, in Italia). Massimo Minutelli, il patron, ti offre il miglior ribeye americano e black angus australiano, il kobe e il waygu: i prosciutti senesi non sono da meno. 2. La costoletta di Andrea Provenzani, chef e patron di Il Liberty, ristorante che fa il tutto esaurito ogni sera. Merita una visita, il piacere è garantito:

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poi diventerete dipendenti. Tornando alla costoletta, è alta, altissima, succosa, succosissima. Croccante fuori, morbida dentro e un color rosa che tanto ti ricorda il seno di una giovane donna. Usa solo vitelli piemontesi, mentre l’altro mago della costoletta, a Il nuovo macello, preferisce quelli olandesi. Andrea però non si limita a questo, il menù è interessante, il tiramisù da urlo.

graffianti di piacere puro, assalto di sensazioni, rantolo vibrante di estasi, la sua bocca arroventata, le labbra socchiuse e umide ad incendiare i sensi: ovvero la carbocalamaro di Davide Callegari all’Insomnia Lounge di Pavia. La reginetta dello champagne, Valentina Vignali, sussurra un abbinamento con la La Renaissance Sauvage grand cru,100% chardonnay non dosato, come natura lo ha fatto.

3. La pizza fritta “inventata” da Viviana Varesenel suo Alice. Ora il ristorante di Via Adige si chiama Mamai e lo gestisce Stefano Sardella, che ovviamente aveva lavorato prima con lei: per prima cosa ha tenuto nel menù proprio la pizza fritta, che è un must. Volendo ne puoi prendere due, magari anche tre, senza poi ordinare altro: abbinate ad uno champagne leggero e poco dosato, come per esempio il Marguerite Guyot Cuvée Desir, ti proiettano in una sorte di nirvana gastronomico.

5. Il bon bon di seppia su vellutata di patate aromatizzate al mandarino tardivo di Ciaculli e gelato di ricci è stordimento puro. Il “colpevole” è Toni Lo Coco, chef e patron siciliano del ristorante I Pupi Un piatto da annusare in maniera profonda, che colpisce tanto il palato quanto la mente. Un piacere inebriante ti riempie gli occhi, poi il scoppiettio delicato della pallina e l’esplosione nella bocca. Il primo bon bon é un’emozione violenta, incendia i sensi, la consistenza cremosa pungola il desiderio amoroso. Piatto meraviglioso, come se lo chef in cucina avesse sognato il mare.

4. Piatto esplosivo, tempesta di gusto, frammenti

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mimicocodesign_photo M.Mionetto


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