GOOD LIFE

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Wicky Pryan Veuve Clicquot Louis Roederer Joel Robuchon

Umberto Bombana The Knickerbocker Pino Tagliatore Seiji Yamamoto

Gianluca Bisol L’ambasciatore

Foto: Mattia Mionetto

El Celler



IL PIACERE DELLA DEGUSTAZIONE: UNA SOLA QUALITÀ, LA MIGLIORE.

www.veuve-clicquot.com Moët Hennessy Italia promuove il consumo responsabile di alcool


Editoriale

Lo chef innamorato

I

l segreto è sempre lo stesso: guardarsi attorno e rendersi conto delle fortune che si hanno. A volte banalizziamo troppo, d’altronde ci si abitua anche a stare accanto a Charlize Theron o a sorseggiare Dom Perignon ogni dì. Però basta sedersi alla scrivania, oppure mettersi comodi in una poltrona e rotolarsi un sigaro per poi fare un breve elenco di quello che ci rende la vita un paradiso quotidiano: una copia di Cigar Aficionado, una di Esquire, un messaggio di lei che arriva su what’s app, i libri di Camilla Baresani e le ricette immorali di Manuel Vazquez Montalban sul comodino, i racconti afrodisiaci di Isabel Allende che tieni sempre a portata di mano per rubare una frase, un piatto da Wicky, uno di carne da Don Juan oppure Griglia di Varrone, una camicia di Angelo Inglese e via di questo passo, perché l’elenco è davvero infinito. Poi ci sono i momenti, le serate che ti porterai sempre dentro, come la telefonata di uno chef innamoratissimo che ti invita ad assaggiare il suo nuovo menu. Tu ti chiedi, come cucina uno chef estroso e preciso quando è al settimo cielo? E soprattutto, come

ti senti tu, ancor più innamorato, quando vai da lui a provare le nuove delizie? E’ una sensazione straordinaria, un mondo pieno di energia e sorrisi, profumi e sapori, dove sogni lei e impazzisci di piacere per un piatto. E’ una scena da film, è una vita da film hollywoodiano: ti siedi al banco e aspetti che le pietanze escano dalla cucina, fumanti e carnali. Quella sera ci fu un susseguirsi epico di consistenze cremose e morbidezze come le parti più intime di lei, piatti golosi e amorosi, potenti e vigorosi, carichi di sensualità: la forza, la spinta dell’amore era evidente. Una sera mi sono imbattuto in un film diventato in seguito una specie di droga: Chef la ricetta perfetta. Ad un certo momento, lui invita lei (Scarlett Johansson) a casa sua per cucinare qualcosa di favoloso. Mentre lo chef è ai fornelli, lei aspetta sdraiata sul divano, sensuale e morbida, per poi assaggiare un piatto di spaghetti che sapeva di poesia e magia. Lo abbiamo guardato e riguardato, ci sono dei momenti favolosi, dove uno scatenato Jon Favreau pare in trance agonistica mentre prepara il nuovo menù. Un uragano di colori intensi, passione,seduzione, una dedizione totale, ovvero il mondo di Good Life.

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mimicocodesign_photo M.Mionetto


Sommario

Good Life Food is art

El Celler Sin palabras pag. 06

Seiji Yamamoto Tre stelle nipponiche pag. 09

Sono Bisol. Gianluca Bisol pag. 11

Umberto Bombana The King of the Trufle pag. 18

Al Carroponte Delizie da Oscar pag. 20

Don Juan Fuego argentino pag. 26

Veuve Clicquot Emozionare. Sempre pag. 22

Lardini Edonismo maschile pag. 28

Marcus Evans Pied a terre pag. 34

Good Life dominiqueantognoni@yahoo.it


Q

Foto: Monica Cordiviola

Casi umani

Tonni rossi e gente grigia

ualcuno ce l’aveva sussurrato, qualcosa avevamo intravisto pure noi. Però, un po’ per il quieto vivere, un po’ perché non ci interessa e perché non ci sentiamo coinvolti, abbiamo fatto finta di nulla. I fatti. Lo si sa, il mondo dell’alta ristorazione impone, esige e presume un livello assai elevato: stiamo parlando del livello della vita delle persone che ci vivono, che se ne occupano e, ovviamente, che bazzicano i luoghi stellati e simili. Si intuiscono anche i motivi: senza una adeguata preparazione che vada di pari passo con l’educazione si fatica ad apprezzare le doti di uno chef, le sue qualità e le idee che vengono proposte. Senza farla troppo lunga, il mondo che si occupa della ristorazione è di frequente troppo indietro rispetto alla ristorazione stessa. Parliamo dei giornalisti, prima di tutto: qualche giorno fa siamo stati invitati ad un evento straordinario, organizzato da Longino & Cardinal. Per chi non ha dimestichezza con la materia, l’azienda viene considerata, dall’intero mondo della ristorazione, come l’eccellenza assoluta. Sono importatori e distributori di cibi

prelibati, di altissima qualità. Fantastici, davvero. Ebbene ci ha colpito il modo polveroso di essere, di vestirsi e di comportarsi della stampa di settore: non tutti, ovvio. La bellezza di Chiara Maci, il suo modo solare ed elegante di porsi, era una goccia in mezzo al deserto. Uno dice: ok, lei splende a prescindere, ha un fisico da urlo. No, sa anche vestirsi, ama brillare. Però era l’unica in un panorama a dir poco disarmante per grigiore e mancanza di charme, abiti impersonali e colori tristi. Moralisti statevene alla larga, perché non vogliamo fare un discorso snob, del tipo se non hai la borsa di Prada e le scarpe di Gucci allora non puoi far parte di un mondo del genere. Siamo rimasti spiazzati, l’immagine è davvero forte, il contrasto evidente. C’erano dei tonni rossi meravigliosi, carni sublimi, foie gras paradisiaci, prosciutti da urlo. Dall’altra parte giornaliste vestite malissimo: strideva assai. Ha colto il nostro “spaesamento” una donna d’altri tempi, aristocratica nei modi e nella scrittura, donna che non ha bisogno di sgomitare per una cena, un invito, un regalo. Ci siamo appartati per una manciata di minuti disqui-

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sendo proprio sulle persone di cui sopra. “Molti di loro hanno una vita orrenda, mariti brutti, mogli indisponenti, case per nulla accoglienti. Sono frustrati, per loro l’impatto con l’alta ristorazione è l’unica salvezza. E’ lo stesso motivo che li spinge a non criticare mai uno chef: così facendo si garantiscono degli inviti a cena, ovvero di passare qualche ora lontano dal proprio mondo, fatto di miserie umane”. Forse è leggermente esagerato, ma esagerando si riesce a trasmettere in maniera chiara un’idea, si riesce esprimere un concetto. Avevamo pure noi la stessa sensazione: gente che, forse a volte in maniera inconsapevole, tenta disperatamente di evadere, seppur temporaneamente, da un mondo depresso e buio, un mondo scelto e costruito da loro stessi, sia chiaro. Lo spettacolo era deprimente: donne con capelli in disordine (leggi mai dal parrucchiere e assai zozze), abiti e cappotti con molti lustri di onorato servizio, spesso perfino i denti erano un disastro. Morale? Se la gente che si occupa di cibo è questa, forse c’è qualcosa che non quadra.


El Celler Sin palabras

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crivere di Celler, anzi solo il pensiero di avvicinarsi al mondo dei fratelli Can Roca mette in soggezione, incute timore, addirittura paura. Perché qualsiasi cosa metterai nero su bianco sarà assai lontano dalla realtà, le tue parole non avranno mai l’impatto desiderato, non potranno riflettere la loro bravura infinita. Stiamo parlando del ristorante che l’anno scorso fu eletto come il migliore al mondo, un ristorante entrato nella storia. C’è anche chi inizia a storcere il naso, alcuni rosiconi sbrodolano accuse patetiche: i fratelli Roca sono la copia sbiadita di Ferran Adrià e Joseph Mercader, poi negli ultimi anni puntano a far cassa e meno all’innovazione, sono più imprenditori che chef d’avanguardia. Accuse ridicole, folli, che lasciano il tempo che trovano: i fatti parlano chiaro, tutto il resto è operetta di bassa leva. Tornando a loro: qualsiasi complimento è fuori luogo, farai sempre meno dell’effetto che provoca un loro piatto, un loro qualsiasi piatto. Scrivendo di loro rischi di essere banale, cosa non si è già detto e scritto su El Cellar? Qui non entrano in gioco i battimani al commando, gli ammiratori devoti e interessati, bensì le emozioni più profonde e intense, genuine e autentiche di persone che amano la cucina e sono disposte ad aspettare mesi interi prima che fosse possibile sedersi ad un tavolo di El Cellar, a Girona, in

un quartiere popolare della città catalana, non lontana dal Barcellona. Leggete per credere il commento che abbiamo trovato su tripadvisor, che avrà anche alcuni difetti, però riesce a captare come nessuno gli umori dei clienti: “Non voglio descrivere i piatti perché rischierei di banalizzare la passione, l’amore e la ricerca che è dietro ogni particolare, ma una cosa voglio ricordarla, gli occhi lucidi di mia moglie che si emoziona degustando queste creazioni”. Se aggiungiamo che per andare dai fratelli Roca ci vogliono almeno 500 euro in due, ovvero stiamo parlando di persone di un alto livello sociale ed economico, allora l’emozione della signora ha un significato ancor più importante, perché si tratta di persone che, presumibilmente, girano sempre nel mondo dell’alta cucina. E’ confortante mettersi e leggere le esperienze degli amanti gourmet. Piace il loro modo di raccontare l’attesa, l’arrivo, il menu, il fatto che i tre fratelli siano sempre lì, a salutare e a passare fra i tavoli. Nei commenti si nota soprattutto la sorpresa di incontrare Joan, Jordi e Josef Roca e il loro modo amichevole e sorridente, senza alcun comportamento da divo megalomane. In tanti raccontano delle loro discussioni con i Roca sulla filosofia del Celler, su come si fermano a spiegare e filosofeggiare su piatti e materie prime,

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tecniche e metodi. Hanno cambiato location e, seppur la nuova sia molto meglio della precedente, da fuori non da la sensazione di essere un ristorante tristellato: una villetta in mattoncini e un giardino adornato con fiori e divanetti, poi entri e inizia la magia. Total white, enorme vetrate che delimitano il giardino, i tavoli ben distanziati, la bella luce che penetra nel locale, il personale giovane e accorto, personale che parla qualsiasi lingua possibile. Il menu lo si trova anche in lingua italiana, il che, vista la complessità dei piatti, aiuta a capire e apprezzare. Si può scegliere fra due menu degustazione ma quasi tutti scelgono il Festival, venti portate a solamente190 euro. Solitamente, prima di sedersi a tavola i fortunati clienti vengono invitati in cucina e, senza alcuna eccezione, rimangono incantati: le dimensioni sono gigantesche, il modo ordinato nel quale la quarantina di persone che ci lavora fa davvero impressione. Un punto a favore di El Cellar, rispetto soprattutto ai stellati nostrani, è l’aperitivo offerto che poi non ti trovi sul conto (solitamente si tratta di un flute di Albert i Noya Cava El Celler). Poi finalmente, arrivano gli antipasti, un crescendo rossiniano di colori, gusti e sapori. Un must il bonsai con le olive appese ai rami, i piccoli pan brioche riempiti di crema di tartufo, i cucchiai al sapore di mare.


Segue il consommé de otono, che tradotto sarebbe coriandoli in brodo ma che appena tocca le labbra ti pare il paradiso. Stesse sensazioni quando assaggi “il gamba con vinagre” e “l’ostra con anemona”: inutile scervellarci per trovare aggettivi, il sapore è indescrivibile, irripetibile. Il viaggio gastronomico ha la caratteristica di essere segnato dalle tappe dei viaggi per il mondo compiuti dai fratelli Roca. Nascono così amuse-bouche, antipasti e piatti che richiamano il Messico, il Marocco, la Corea, la Cina ( il

bianchissimo dessert di lychees), Italia (anelli ci calamari adattati) o l’India (il mandala di agnello, ricco di preziose suggestioni cromatiche). Tra le delizie catalane ci sono il gambero caramellato di Palamos (davvero imperiale), il minestrone che riesce a rendere in pochissime cucchiaiate l’intenso e unico sapore dell’attimo iniziale della bollitura, poi il piccione in tre versioni. Altri piatti che hanno fatto e stanno facendo le fortune del ristorante e la gioia dei clienti: bonbon di Campari, muscoli marinati, maialino iberico con pelle croccante

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accompagnato da melone e barbabietola, piccolo timballo di mela con foie gras e olio alla vaniglia, brioche al tartufo nero dalla consistenza spugnosa servita su un piatto bianco forato. Idem il merluzzo, che come texture supplementare presenta dei maccheroni al forno, poi i gamberoni grigliati con spuma di acqua marina, alghe e plancton serviti su lastra di pietra per una presentazione molto scenica. Non da meno le patate Parmentier con astice e un leggero brodo di funghi, oppure il merluzzo con gnocchi


di patate, in pratica uno stufato quando viene portato in tavola un brodo leggero. Standing ovation per il piatto il mar y montana, una cotenna di maiale cotta a bassa temperatura e tagliata a forma di sardina: sul pesce di cotenna appoggiata la pelle di una sardina, il tutto accompagnato da brodo di

guancia di sardina alla brace da salsa di fichi, midollo di bue , tendini , carrube e avocado. Applausi a scena aperta per l’ostrica con perla nera, chiusa nel proprio guscio. Con succo di melone, pezzettini di cetriolo, sedano, mela, gelatina di limone, acetosella, fiore di melone e Aptenia cordifolia. Si conclude con il piatto che pare una frittura di po-

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lipetti ma che invece è puro cioccolato, una creazione fantastica, geniale, superba. Una parola sui vini: i rincari sono giusti, i prezzi anche: trovi bottiglie da 20 euro come da 2.000, la cantina è straordinaria. Vi abbiamo storditi, vero? E pensare che non volevamo parlare dei piatti.


Seiji Yamamoto Tre stelle nipponiche

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a sempre nella classifica dei migliori 50 ristoranti del mondo, tre stelle Michelin: come biglietto da visita potrebbe bastare. E invece c’è molto di più, perché se vai nel suo locale, in una via appartata e tranquilla nella caotica Tokyo, scoprirai e toccherai con la mano ed i sensi un modo di vivere e una filosofia culinaria che riesce a mettere insieme dei concetti elementari ma profondissimi, antichi e rigidissimi, come l’eccellenza dei prodotti e l’orgoglio nazionale. Non ha alcun dubbio, Seiji Yamamoto, lo chef nato a Kagawa (si è avvicinato al mondo della cucina per impressionare sua madre, poi ha scelto di farlo come mestiere, studiando per undici anni le tecniche kaiseki): la cucina nipponica é un autentico simbolo della ricchezza del paese. Quando parla di ricchezza si riferisce agli ingredienti, ma se lo senti come esalta le materie prime giapponesi ti commuovi: “Fin da quando vado a sceglierle mi sento fiero del mio paese. Appena le assaggi, appena ti attraversano il corpo, mi procurano, mi trasmettono una sensazione di felicità che non riesco a tramutare in parole. I nostri prodotti sono l’orgoglio della nazione”. Questo si che è patriottismo e non retorica cheap. Poi continua: “Penso che i nostri ingredienti siano delicati e allo stesso tempo potenti, intensi, quando vengono a contatto con le nostre carni è una tale gioia del pala-

to! Perché le tecniche ed il cuore degli chef fanno la differenza, viviamo per farvi capire cos’è la cucina e il cucinare”. E’ evidente l’influenza delle tecniche kaiseki così come certe tecniche occidentali. Un altro segreto della sua filosofia è che non usa quasi mai il sale, in compenso ama marinare i prodotti. Rispetto ad un paio di anni addietro innova e inventa molto meno, mettendo l’accento sulla cucina giapponese di alto livello. Il nome dei piatti non dice granché: shirako tossico fugu arrosto e il soufflé di sake, per fare alcuni esempi. Seiji punta tutto sull’esperienza vissuta, un’esperienza che dura quasi quattro ore e che finisce con il suo desert preferito, la frutta candida congelata a meno 196 gradi e poi accarezzata da un liquido caldo dello stesso frutto. Ora facciamo un passo indietro e proviamo a capire cos’è la tecnica keisaki: origina dall’abitudine dei monaci di offrire un pasto a base vegetariana in occasione della cerimonia del thé ed è evoluta durante i secoli fino a diventare haute cuisine. La cucina Kaiseki non è economica, però ne vale la pena: è una esplosione di sapori, emozioni, esperienze che gli occidentali apprezzano e tendono ad affezionarsi. I pasti keisaki non sono brevissimi, perché tutti i piatti sono preparati al momento, serviti nell’attimo

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migliore per essere degustati. In più, ognuno viene esaltato da presentazioni molto cromatiche,come se fossero dei dipinti. Esagerando ma non troppo, i cuochi della cucina kaiseki possono essere considerati degli artisti senza alcun problema, avendo delle hanno competenze acquisite con l’esperienza, conoscenze che derivano dalla tradizione e padronanza sia degli ingredienti che delle tecniche di cottura. Solitamente le porzioni della cucina Kaiseki sono estremamente piccole, come il menu degustazione di un ristorazione europeo, in compenso le portate sono numerose. Tornando a Seiji: il suo ristorante prevede 24 posti, compresi i sei della saletta privè. Non si possono fare riservazioni per più di 6 persone, la mancia é il dieci per cento, ma si arriva al 15 se si tratta del privè (onestamente ha poco senso). Piccole curiosità: non si può venire vestiti con la maglietta, si prega di non avere un profumo troppo forte (potrebbe compromettere l’esperienza culinaria), i bambini sotto i dieci anni farebbero meglio a stare a casa (come non condividere!), le foto si consiglia di non farle per il semplice motivo che si perde del tempo con attività che poco hanno a che fare con il gusto (ogni secondo che passa è uno schiaffo alla dedizione del team che prepara e inventa i piatti, dicono a ragione). Sottoscriviamo.


Louis Roederer Design e bollicine

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’habillage è durato due lunghi anni, poi l’attesa si è trasformata in ammirazione, perché le nuove confezioni ed etichette sono ancor più eleganti di prima, il richiamo alla geometria cubista è evidente, piace molto, proietta la maison di Reims in un mondo nuovo, più diretto, immediato, riconoscibile. Un mondo, quello di Louis Roederer, che inizia due secoli e mezzo fa, nel 1776: fin dal primo giorno è stata una maison indipendente, a carattere familiare (nei primi anni il nome era Dubois Père and Fils, solo nel 1833 diventò Roederer). Nell’Ottocento diventò famosa perché lo zar Nicola se ne era innamorato a tal punto da chiedere, quasi esigere, la creazione di uno champagne particolare solo per lui. E’ così che nasce la Cuvée Cristal (1876), in pratica un pretesto per realizzare la prima Cuvée de Prestige. Il vino champagne Cristal deve il suo nome all’innovativa bottiglia di cristallo (oggi non esiste più) a fondo piatto che la maison dovette adottare su espressa richiesta dello zar. Nicola e poi Alessandro II erano grandi consumatori e intenditori, motivo per il quale erano dei clienti esclusivi per l’intera selezione di 55% Pinot Noir e 45% Chardonnay, selezione di un’eleganza e complessità straordinarie. La cantina fu la fornitrice ufficiale della corte imperiale russa per molti anni. Oggi quello champagne viene chiamato più semplicemente Cristal ed è conosciuto

come il più costoso. Per gli amanti di bollicine rappresenta un prodotto nato dalla scelta originale di selezionare vecchie vigne nei terreni più calcarei in luoghi molto precisi e delimitati in modo da creare il miglior prodotto possibile, ovvero il più cristallino. Gli intenditori lo sanno, in Italia la maison Roederer (Cristal compreso) viene distribuita da Sagna, azienda nata un secolo addietro, quando Amerigo Sagna acquistò la rappresentanza per la vendita del vino vermouth liquoroso dalla Ditta G e L. Flli Cora. E’ una lunga storia d’amore, una storia passionale iniziata nel 1928 che ha visto come protagonisti prima Amerigo, poi suo figlio Ernesto, il nipote Massimo e ora il pronipote Leonardo. Roederer arriva a far parte della scuderia Sagna abbastanza tardi, solo alla fine degli anni ottanta. Prima distribuivano vini e distillati di qualità come Domaine de la Romanèe-Conti, Petrus, Chateau Cheval Blanc: lo champagne in generale arriva dopo, con Mumm, fino al 1988. Poi, il colpo di fulmine. Del matrimonio fra Sagna e Roederer avremmo tempo e possibilità di parlare a lungo, ora invece vogliamo dedicare spazio allo Champagne Brut Nature 2006, “risultato dell’incontro tra un terroir storico ed un’annata eccezionale, tra una maison che rispetta la natura ed un genio creativo dallo spirito libero, Philippe Starck”. Il virgolettato appartiene a Frédéric Rouzaud, direttore generale della casa. Un progetto che ha lasciato il segno fin dalla sua

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presentazione, pochi mesi addietro, un progetto che possiamo sintetizzare in due punti chiave. L’esigenza, in primis, di porre sullo stesso piano la ricerca ed il profondo rispetto per il terroir, riaffermando la propria filosofia di “Maison de Champagne” indipendente, saldamente attaccata alla terra, come testimoniato dai suoi vini netti, puri, definiti negli aromi di ciascuna parcella. L’attenzione verso la natura, poi, permette di evidenziare l’unicità di ciascuna parcella; tale impostazione si unisce ad un principio molto caro a Philippe Starck: la verità. Tornando alla maison, rappresenta una delle poche cantine di vini rimaste negli anni di proprietà strettamente familiare, infatti ancora oggi appartiene ai discendenti diretti del signor Louis Roederer. Nel 1979 Jean Claude Rouzaud, nipote di Orly Roederer, ereditò la cantina e dal 2006 viene diretta da Frederic Rouzaud. Accanto a lui un ruolo a dir poco fondamentale lo ricopre Jean Baptiste Lecaillon, chef de cave e direttore aggiunto di Cristal. Roederer, considerato dai più al primo posto nella classifica degli champagne, vanta una proprietà di quasi 200 ettari di vigna (per i non intenditori: si tratta di una delle vigne più ampie in assoluto) che sono classificati tra il 95% ed il 100% nella scala qualitativa dei migliori vini crus champagne. Significa che garantiscono la quasi totalità del fabbisogno d’uve necessario all’azienda per produrre i suoi vini base: chi ben inizia…


Sono Bisol.

Gianluca Bisol

Ciao, sono Gianluca Bisol, un visionario prestato al mondo del Prosecco. La mia famiglia produce vino da 21 generazioni e nelle pagine successive vorrei portarvi nel nostro mondo, un mondo pieno di poesia e bollicine, di progetti e risultati concreti, di sogni e vini da collezione, di emozioni e piatti gourmet, perchĂŠ oltre ai vitigni ci occupiamo anche di alta ristorazione. Vi invito a scoprire il nostro Prosecco, vi invito a Venissa, il nostro wine resort, vi invito a venirci a trovare a Santo Stefano di Valdobbiadene, dove tutto ebbe inizio secoli addietro. Buon viaggio.


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Il mio mondo

in da piccolo ho vissuto fra vitigni e cantine a Santo Stefano di Valdobbiadene: quando ero alle medie passavo le vacanze in azienda, lo stesso alle superiori e all’università. A quei tempi il Prosecco della nostra famiglia si vendeva prevalentemente nel Veneto e in Lombardia, era un prodotto locale. Finiti gli studi ho chiesto a mio padre se ci fossero le possibilità per acquistare altre terre. Pian piano ci siamo ingranditi, abbiamo portato in azienda gente esperta, degli export manager: i risultati sono sotto gli occhi di tutti, ora esportiamo l’ottanta per cento della nostra produzione e per i prossimi cinque anni vogliamo arrivare al novanta per cento, pur aumentando anche il nostro fatturato sul territorio italiano (nell’ultimo periodo siamo cresciuti del 15 per cento). Oggi siamo un’azienda locale con una mentalità internazionale, il nostro Prosecco lo trovi nei ristoranti tristellati, come la Pergola di Heinz Beck e Il Luogo di Aimo e Nadia. Lo trovi perché i nostri Cru e Millesimati si abbinano divinamente ai crostacei, perché il Rosso Venissa si sposa magnificamente con la cacciagione, mentre Eliseo Bisol, Cuvée del Fondatore, vino dedicato al mio bisnonno, si beve da solo, perché è ricco e morbido, a base di Pinot Bianco, Chardonnay e Pinot Nero, affinato per sessanta mesi nelle nostre cantine. Da parte sua il Cartizze lo reputo una bollicina da conversazione, dunque ideale per la tarda mattinata: è longevo, persistente, evoluto, elegante. In tre parole caratterizzerei così la nostra azienda: territorio, tradizione, eccellenza. Se dovessi darmi un voto per il mio operato finora, direi 7,5: manca almeno una quarantina di paesi dove vorrei e dovrei riuscire a sfondare con il nostro Bisol. Apprezzo tantissimo quello che fa Bernard Arnault con il suo gruppo LVMH: per me è un modello da seguire, perché ha inglobato sette maison di Champagne ed è riuscito a dare a ciascuna una linea precisa, un target di riferimento. Non sono in concorrenza ma complementari: una strategia straordinaria. Oltre ai miei prodotti vorrei spendere una parola per Maeli, prodotto da Elisa Dilavanzo, sui Colli Euganei: sono dei colli vulcanici, di conseguenza la terra e i vini sono particolari, mi piacciono tantissimo, sono come una carezza, ti regalano felicità. Poi confesso, per gli eventi più intimi brindo con le bollicine di Giulio Ferrari Gran Riserva, per me le migliori al mondo: ogni anno ne apro una con mia moglie quando festeggiamo il nostro anniversario. Il resto dei 364 giorni, però, brindo e gusto i miei vini, anzi, i nostri vini.

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Ambasciatore del Prosecco

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a mia è una storica famiglia di viticoltori da 21 generazioni, abbiamo il Prosecco nel dna. Da piccolo venivo portato dai vari Lunelli, Gancia, Martini, poi quando arrivai a 15-16 anni iniziai ad apprezzarli per quello che stavano facendo per il Prosecco, sono loro i primi veri ambasciatori. Io in quel periodo – siamo negli anni Ottanta – mi resi conto che il Prosecco non sarebbe stato solamente una moda passeggera, ero convinto potesse durare a lungo. A onor del vero, in pochi ci credevano. Andai a Londra nel 1989 e trovai l’astio e la diffidenza degli importatori locali, mi dicevano che non ci sarebbe stato spazio nella carta dei ristoranti, dove imperava lo champagne. La mia fortuna si è chiamata Giuliano Morandini, padovano come me: inserì il Prosecco al ristorante dell’hotel Dorchester, poi mi aiutò al Cecconi’s, Santini e al San

Lorenzo, i ristoranti italiani più rinomati a quei tempi. Avevo scelto Londra, mi ero impuntato di vincere e impormi lì perché è da sempre la metropoli che detta le tendenze: la minigonna, Carnaby Street, anche i Beatles seppur fossero arrivati da Liverpool. Pian piano il Prosecco fu visto come una novità, come una opportunità: alle donne piaceva molto per le note floreali, l’escalation fu quasi naturale. Il passo successivo fu l’aiuto di una nota pr londinese, Dacotah: grazie a lei siamo riusciti a far arrivare il nostro prodotto nei bicchieri degli opinion leader. Poi arrivò anche il Prosecco Passito che Steven Spurrier, noto giornalista gourmet, presentò in maniera entusiastica: di conseguenza gli importatori risposero con un gran numero di ordini. Fu in quel periodo che mi affibbiarono il soprannome

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di ambasciatore, il resto è venuto di conseguenza: l’espansione negli Stati Uniti, Canada, Cina fino ai 70 paesi di oggi. Detta così suona come un gioco da ragazzi, però fu faticosissimo. Negli Stati Uniti restavo tre mesi ogni anno, bussando di porta in porta. I venditori a volte mi introducevano, io mi presentavo con la valigetta fresca, come si usava ai tempi. A Los Angeles ho avuto vita più facile perché andai da Valentino Selvaggio, un italiano stabilito lì da tempo, grande ristoratore: mi portò ovunque, a Santa Monica e dintorni, aiutandomi molto. Perfino in Cina fu dura: loro non amano lo champagne per via dei lieviti. Ho avuto fortuna pure qui, perché incontrai una nota food and wine writer, Sri Owen. Lei rimase conquistata dal Prosecco e scrisse che era ideale per la cucina asiatica.


Venissa, mon amour

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o sempre amato questa terra, merito delle parole di Andrea Zanzotto, il poeta dei paesaggi. Poi all’inizio degli anni Novanta ho cominciato a documentarmi ancor di più sulla Venezia Nativa, l’arcipelago della Laguna Nord che comprende Mazzorbo, Burano e Torcello: al posto di andare per l’ennesima volta a Piazza San Marco preferivo Torcello, luogo così carico di storia e bellezza, uno dei più antichi e prosperi insediamenti della laguna. Nel 2001, uscendo dalla basilica di Santa Maria Assunta, notai di fronte a me, a 150 metri di distanza, un giardino privato che prima non avevo mai guardato con attenzione. Ricordo benissimo quel giorno, la luce era nitida, nitidissima, così da poter apprezzare una pianta di vite. Ho subito bussato alla porta, mi sono presentato, la signora mi ha fatto entrare e da quel momento è iniziata la mia ricerca sull’agricoltura veneziana. In quel giardino ho scoperto non una ma tre piante, mentre poi, in altri orti privati della zona, ne ho trovate 85. Assieme al mio fratello Desiderio e al Winemaker Roberto Cipresso abbiamo cominciato una sperimentazione a Mazzorbo, terreno con una composizione davvero unica. L’idea era di riportare alla luce il vero vitigno veneziano: andai da Massimo Cacciari, a quei tempi sin-

daco, raccontai la storia e gli chiesi di affidarmi l’intera parte del territorio, con la promessa di farlo tornare ai fasti di una volta. Inizia così la storia del nostro vino Venissa, Simbolo d’Oro della Venezia Nativa: nello stesso tempo ci siamo occupati della ristrutturazione

Una stanza del Wine Resort di un luogo di accoglienza, il Wine Resort, oggi gestito dal mio figlio Matteo, il direttore della struttura. Dopo aver studiato economia, marketing e gestione d’impresa, si è messo a girare il mondo per imparare sul

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campo: è stato in California, poi in Francia, dopo di ché è tornato in Italia, lavorando per Vinitaly. Lo devo ammettere, è molto bravo, anche se mi rendo conto che parlando dei propri figli si potrà avere la sensazione che io esageri, però basta venire a Venissa per rendersi conto: il resort è una bomboniera, il ristorante ha una stella Michelin e propone cento vini, scelti da me stavolta, tutti del territorio veneziano, friulano e trentino. Da quest’anno il ristorante è gestito da quattro brillanti chef, due uomini e due donne. Quando ci vado mi piace da morire assaggiare la moeca fritta con un vino nostro, un Venissa che proviene dal Dorona, storico vitigno veneziano. Per chi non lo sapesse, la moeca è un granchio molto tenero che si pesca nella zona, solitamente al Lido, ed è reperibile per solo qualche settimana l’anno, verso la fine dell’estate: una prelibatezza sublime. Dopo mi regalo dei momenti di felicità con l’anitra cacciata in laguna abbinata al Rosso Venissa che produciamo nel cuore della Venezia Nativa, un merlot strepitoso. Solitamente passo da qui una volta la settimana ed è uno dei momenti che preferisco in assoluto, perché il wine resort è uno spazio che mi carica come una molla, trasmette un’energia totale, straordinaria. E’ davvero un’esperienza da vivere.


Matteo Bisol

Il ristorante Venissa, una stella Michelin

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Endorsment

Laddove mangiare é godere

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nni fa, su Esquire c’era una rubrica che ci piaceva un mondo, Endorsment. Il direttore David Granger sceglieva cinque situazioni, personaggi, luo-

ghi e ne tesseva le lodi. Qualche pagina più in là troneggiava l’altra rubrica esaltante, Woman we love. Abbiamo mixato le due ed eccoci, Risto we love. Di alcuni ne abbiamo già par-

lato ampiamente, ora li mettiamo nella nostra classifica personale. E’ un po’ il giochino “Se ti regalo 150 euro dove vai a cena con la tua fidanzata?”. Ecco, noi andremmo qui.

I Salentini Sarà incluso in qualsiasi nostra classifica per un motivo molto semplice: è l’unico posto al mondo dove si possono assaggiare i salumi di pesce: San Daniele di Tonno, bresaola di pesce, mortadella di bottarga. Detta così suona un po’ banale, assaggiarli è un’altra cosa: uno dei piatti più entusiasmanti mai provati, per la semplicità e il gusto delizioso. Un piatto amoroso, che induce alla lentezza Antonio Ingrosso assieme alla moglie Francesca Micoccio hanno creato un angolo di paradiso salentino nel cuore di Milano, in Via Solferino. Oltre ai salumi di pesce consigliamo i gamberi viola, prelibatezza che lascia senza parole, la classica frisa e la purea di fave bianche. I prodotti arrivano sempre e solamente dalla Puglia, ogni giorno, perfino il pane (che assaggiato con l’olio di Leucades sa di paradiso). I salentini, Via Solferino 44, Milano. Tel: 02-45498948 Bistrot Les Gitanes Lo ripetiamo fin dalla prima volta che abbiamo messo piede: qui hai la sensazione di essere a New York, possibilmente a Manhattan, oppure a Londra, a Notthing Hill. Il luogo sprizza buon gusto ed entusiasmo, il target è trasversale, partendo dalle modelle e andando fino allo studente, all’architetto, oppure l’imprenditore. I piatti sono frizzanti, alcuni carnali, mettono allegria, liberano la mente. Davide Callegari e Alessio Truddaiu sanno prenderti per la gola, sono creativi e accattivanti, basta pensare alla carbonara di calamari, ormai un must. E’ uno dei piatti più intensi che abbiamo assaggiato negli ultimi tempi, una specie di bomba calorica che ti proietta verso il nirvana. Poi, il club sandwich: raramente ne abbiamo gustato uno così ben preparato e ricco. Ci piace a tal punto da assaggiarlo sempre assieme a una coppa di champagne, possibilmente con il rosé De La Renaissance. In alternativa, con il fermo di Provenza di Chateau Saint Julien.

L’angolo di casa E’ tutto così buono e intenso da farti venire il mal di testa. Porzioni abbondanti, gusti pieni, rotondi, portate succulenti, prodotti di qualità straordinaria: per trovare un difetto dovremmo segnalare

uno scontrino perfino troppo basso per quello che offre il ristorante di Marco Tavazzi e Angelo Rocavilla. Dovendo caratterizzare il suo ristorante in una frase, Marco lo considera “di alta ricerca, maniacale nel trovare e proporre le materie prime migliori”. L’ultimo menu offre dei piatti da mille e una notti:

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riso Acquarello invecchiato sette anni con scampi, calamaretti, noce moscata e formaggio di vacche rosse (da accompagnare con una bollicina Perrier Jouet, suggerisce Marco), trancetto di moro artico con nocciole tostate, per non parlare della padellata di scampi o la passatina di fave con calamari. La giostra del gusto.


Curò

La Griglia di Varrone Il tempio della carne meneghina, senza dubbio. Massimo Minutelli ha investito tanto nel suo nuovo ristorante e si vede: si respira aria di grande metropoli. Viene premiato da una clientela top e lui premia i commensali con le migliori carni possibili, dalla costata australiana ai prosciutti più squisiti, dall’hamburger di kobe alla scaloppa di foie gras. Una varietà straordinaria e una creatività nel presentare le carni mai vista altrove, anche se va detto che il valore aggiunto è proprio lui, il patron: istrionico, un autentico animale da ristorante, sempre presente fra i tavoli, sempre positivo e propositivo, competente ed entusiasta. Grande amante di alta ristorazione, è andato nei Paesi Baschi, a Axpe Achondo, per studiare le tecniche di Victor Arguinzoniz: è rimasto folgorato dalla sua

Cristina e David Lo chef e la modella

carne con il caviale cotto sopra le alghe e le ostriche grigliate, dall’uovo al tartufo passato per la cottura alla brace e soprattutto dalla sua griglia, che ha poi copiato pari pari (è stata realizzata da un mastro ferraio ferrarese) . E’ davvero un esperto di carni, lo capisci leggendo il menu: black angus australiano, rubia galiziana, i sashimi di wagyu fatti con dei filetti di razza giapponese, gli hamburger con spuma di foie gras e confit di cipolla di Tropea. In più, tante altre chicche, dalle acciughe del Mar Cantabrico al midollo di bue servito con osso e spalmato su pane caldo, dai mini tartare che sembrano dei gioielli alla purea di patate affumicate. Non da meno la carta dei gin tonic messa in piedi dalla sommelier Lucia Gatti: vi suggeriamo quello distillato nel Quebec, oppure uno inglese speziato, l’Ophir e uno spagnolo, Gin Qui. Milano, Via Tocqueville 7, tel: 02-36798388

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rrata corrige, anzi, aggiunge. Nel numero passato raccontavamo di David Munoz e la sua ascesa madrilena, del suo ristorante, DiverXo, l’unico tristellato nella capitale spagnola. La sua storia è da film, raccontavamo: gli inizi difficili, quando per risparmiare dormiva nel locale, assieme alla moglie Angela Montero (siamo nel 2007). Quello che non sapevamo era che nel frattempo si era separato per vivere assieme alla giornalista Cristina Pedroche: guardate le foto, googlate il suo nome, lei è stratosferica, non a caso l’anno scorso è stata eletta fra le dieci donne più sensuali della Spagna. Ex modella, ora è una delle star più bollenti della tv spagnola, dove presenta una serie di programmi tv. Ha posato più di una volta per FHM, rivista maschile tipo GQ che, per un motivo assai strano, in Italia non è mai apparsa, tranne che per un pasticciato tentativo di tre anni addietro. Sulla scia dei successi è stata anche testimonial del deodorante Axe La stampa spagnola ne parla ormai come di una coppia solida, ben avviata verso un rapporto serio. Ci sono varie foto che immortalano i due mentre stanno entrando nella casa del padre di lei, mentre su Instagram Cristina pubblica i piatti che lui le prepara amo-

rosamente. Accade spesso. Guardi il mare ed i pensieri volano, la mente è più leggera (non che di solito la mia fosse pesante). L’irrefrenabile ottimismo galoppa ancor di più, la voglia di divorare il mondo anche, il lato dolce della vita ti stordisce. Tutto questo ti proietta in una sorte di nirvana. Sei lì e pensi: ho sempre sognato due cose, realizzare la rivista più bella del mondo e incontrare la donna dei sogni. Lo so, per essere romantici ci vuole coraggio, per le avventure si deve avere la tempra di provare, per dire certe cose anche, però si, ce l’ho fatta.

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E’ la grande scoperta degli ultimi mesi: lo chef Marco Misceo dipinge piatti a tratti afrodisiaci. Curò é l’essenza della cucina siciliana portata ad un livello quasi stellato, per esempio la caponata che diventa elegante, cromaticamente perfetta. Una cucina passionale, avvolgente, che pungola i sensi ed i desideri. Piccola incursione nel menu: scampi siciliani (una favola), tartare di gambero rosso con sorbetto di limone e menta, crema di zucca con lo stesso gambero. Il piatto migliore? La pasta Cavalieri con scampi e salsa di broccoli: richiede lumi di candela, mentre le labbra si avvicinano piene di fuoco e desiderio. Tocca corde artistiche e si merita da sola una stella Michelin. La famiglia Drago Ferrante vive per il cibo, lo si capisce appena entri: Donna Patrizia domina la scena, i figli crescono bene, ma la gran dama è Claudia Longo, fidanzata dello chef, addetta alla reception. Curò, Via Monte Grappa 7, Milano. Tel: 02-58109056


Umberto Bombana The King of the Trufle

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er mettere i puntini sulla i fin dall’inizio: Umberto è l’unico italiano all’estero a poter vantare tre stelle con il suo ristorante. Se aggiungiamo che la sua cucina è da sempre solamente italiana, abbiamo già un’idea di quanto lo chef ami il suo paese e le sue prelibatezze, ricette e tradizioni: senza alcun timore lo possiamo considerare uno dei più importanti ambasciatori culinari del nostro paese all’estero. Un autentico globetrotter partito da Bergamo per poi spostarsi a Los Angeles prima di arrivare a Hong Kong, dov’è una vera istituzione. Il suo ristorante tristellato, nella zona centrale della città stato, viene preso d’assalto da banchieri e amanti dell’alta cucina, power couples e donne hongkonghine. Lo si trova al secondo piano di uno dei più importanti ed eleganti luoghi, Alexandra House, all’interno del Landmark: fatto alquanto unico, nello stesso palazzo ci sono altri dieci ristoranti che possono vantare almeno una stella. Il nome, 8 e mezzo, è ovviamente in onore del film di Federico Fellini, suo preferito perché “racconta l’Italia in modo sublime”. Grandi vetrate, il bar all’ingresso, vista sulla strada piena di tram a due piani, ambiente molto luminoso (curato dal designer Jumpei Yamagiwa), ampio, il ritratto gigantesco dello chef in un angolo: l’accoglienza è un misto di ironia e classe, con i camerieri sempre sorridenti e impeccabili. Umberto, bergamasco doc (di Clusone, per essere precisi), è sempre presente, chiacchiera, sorride, nella

stagione del tartufo passa fra i tavoli a grattugiarlo. All’ora di pranzo si può scegliere fra il set di due portate (40 euro senza il vino) e il menu à la carte: ovviamente qui la gente ha poco tempo (escluse le donne di cui sopra, impegnate solo nello shopping e poco altro), per cui prevale la prima opzione. La cena, ovviamente, ha altri ritmi e rituali. Piccolo elenco delle pietanze: zuppetta di castagne (superba crema calda con cubetti di castagne e ricotta), vitello con salsa di tonno confit e misticanza che si scioglie in bocca (il color rosa sa di labbra carnose). Se dovessimo fermarci qui saremmo comunque appagati, perché tutto è come deve essere: la temperatura della zuppa, le consistenze, i colori: tutto concorre nella sensuale esperienza di un pasto. Poi, altro tripudio di emozioni: cassoulet di scampi e asparagi con riccio, risotto con lingua di vitello in salsa verde, fettuccine al sugo di pomodoro e maiale nero, seriola con salsa di agrumi. Ovviamente non mancano le riserve di prosciutti italiani e spagnoli, messe in bella vista nella cella che si trova tra le due sale. Il gelato alla crema con tartufo viene considerato il dessert per eccellenza: non male nemmeno il Chocolate Trio, soprattutto il tortino di frolla, croccante e delizioso. Umberto ha iniziato all’Antica osteria del Ponte, alle porte di Milano, prima di trasferirsi a Los Angeles, al Rex: i suoi piatti erano così apprezzati da essere richiesti dai divi hollywoodiani agli eventi chic, comprese le serate degli Oscar (il patron Mauro Vincenti

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prestava quasi ogni anno il suo locale per le feste del dopo Oscar). A Hong Kong è arrivato più di vent’anni addietro, nel 1993, quando aprì il ristorante Toscana all’interno del Ritz Carlton. Arrivò con un chiodo fisso, proporre la cucina italiana in Asia. Finita l’avventura con il Toscana, nel 2009 nasce The Drawing Room (assieme all’amico Roland Schuller): dopo pochi mesi arriva la prima stella. L’anno seguente ecco 8 e mezzo, ristorante che rispecchia perfettamente la sua filosofia, ovvero la cucina italiana e la ricerca di ingredienti provenienti da tutto il mondo. In poco tempo si guadagna due stelle Michelin, poi arriva anche la terza, nel 2011: badate bene, stiamo parlando dell’unico ristorante italiano all’estero che può vantare tale record. Sulla scia dell’entusiasmo apre a Shanghai e Pechino, poi Macao, ristoranti diversi fra loro ma che rispecchiano sempre le idee dello chef. Umberto è anche ambasciatore nel mondo del tartufo bianco d’Alba dall’Enoteca Regionale di Cavour:non potrebbe essere altrimenti, basta guardare online il modo nel quale racconta le sue ricette. “Rosolare il riso e spolverarlo con un po’ di formaggio. Versare su un letto di fonduta di tartufo nero e coprire con scaglie di tartufo nero fresco. Tutti diventano quasi dipendenti da questo profumo, un aroma così unico e intenso”. Come tutti diventano dipendenti dai piatti del King of White Truffle.


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Al Carroponte Delizie da Oscar

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’ la rivelazione dell’anno, senza dubbio. Complimenti davvero a Oscar Mazzoleni, ex sommelier al Devero prima di decidere di aprire il proprio ristorante a Bergamo, in una zona residenziale quieta e benestante, assieme alla fidanzata Silvia Mazzoni. Al Carroponte stupisce fin dal cortile, uno spazio che durante la bella stagione si trasforma in lounge bar, una zona dove si serviranno aperitivi intriganti assieme a stuzzichini sfiziosi. Poi entri nel ristorante e l’open space ti affascina, pare uno di quei posti aperti in ex officine o carrozzerie, luminosi e capienti. L’atmosfera è molto easy e chic, rilassata e piacevole, con musica americana degli anni cinquanta come sottofondo e dei quadri interessanti alle pareti. Ti porta con la mente alle puntate di Sex and the City, alle cene spensierate e divertenti, ma qui si viene soprattutto per farsi deliziare dallo chef Alan Foglieni. “Ci capiamo al volo, siamo sulla stessa lunghezza d’onda”, gongola

soddisfatto Oscar. Una cucina elegante, nitida, rifinita, coreografica, che ti porta ad una felicità immediata, libera la mente. Alan ha calibrato la cucina su sapori forti, vigorosi, accattivanti, la proposta è breve ma intensa, pochi piatti ma decisi, alcuni richiedono lumi di candele, altri sono stimolanti, cromaticamente strepitosi. La gran parte induce alla lentezza, pungola l’immaginazione, le cotture sono mai meno che perfette. Si nota subito l’attenzione ai dettagli, basta assaggiare il mini burger: il pane, fatto in casa, è croccante, croccantissimo, iniziare così mette allegria e promette benissimo. Il mini fa parte della proposta finger food, cinque mini porzioni gustosissime che vedremmo benissimo come stuzzichini per un cocktail, all’ora dell’aperitivo. Isabel Allende scriveva che gli antipasti sono come i baci per gli innamorati, cioè una discreta anticipazione di quello che arriverà più tardi, quando si sarà entrati in confidenza: tradotto, se l’inizio è così promettente e

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delizioso, figuriamoci il dopo. Al Carroponte è proprio così, é un crescendo, perché la coccola di foie gras e soprattutto il polpo con l’emulsione del polpo stesso e patata viola francese (da abbinare ad una Ribolla in anfora di Gravner) stanno surriscaldando gli appetiti. Si arriva ai piani alti della cucina con un piatto molto vigoroso: spaghetti di grano duro con alici fresche, pane duro e cavolfiori fondenti (notevole, soprattutto se si sorseggia un Riesling Mosella). L’anatra laccata al miele, cotta a bassa temperatura, è da urlo, ma la signature dish sono le costine di patanegra, le costine più gustose e tenere mai assaggiate (le prende da Beppe Bellavita di Grassobbio e poi le cuoce a 74 gradi per 12 ore). Oscar, da buon sommelier, punta subito ad un abbinamento eccellente: con il Barolo Raineri. Ci sta, eccome. Si chiude con una bavarese al lime, gelatina di vodka, cetrioli e zenzero sciroppato (in alternativa suggeriamo il semifreddo pane burro marmellata). Parlavamo dello chef, Alan Foglieni: è maturo, crea-


tivo, attento, puntiglioso, le cotture precise, le tecniche padroneggiate in maniera eccelsa. Si vede che ha lavorato con i migliori: stage presso Riccardo de Prà (al Dolada di Belluno) e Paolo Lopriore (al Certosa di Maggiano), poi esperienze all’Hotel Europe di Amsterdam, dove sotto la guida dello chef Jean Jacques Menanteau diventa capopartita nella sua brigata, apprendendo le tecniche e l’organizzazione della cucina classica francese. Tornato in Italia ha lavorato presso due ristoranti stellati della bergamasca: l’Osteria della Brughiera e l’Anteprima. Seguono due anni come sous-chef per Moreno Cedroni nel suo Clandestino milanese all’interno di Maison Moschino, poi finalmente la sua prima cucina presso “Lupo Bistronomia”, piccolo ristorante che nel suo primo anno di vita ha ottenuto diversi riconoscimenti. Segue un’anno di esperienza come “head chef ” presso il “Roberto Cavalli Caffè” dapprima a Beirut in Libano poi nella Kuwait City. Al secondo ritorno in Italia incontra Oscar Mazzoleni ed eccoci: benvenuti Al Carroponte.

Chef, la ricetta perfetta

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vete fatto caso? Negli ultimi cinque anni il numero dei film con al centro l’alta cucina è aumentato a dismisura. Era inevitabile: Masterchef, Hells Kitchen, Eat Street e le altre decine di reality show e trasmissioni televisive non potevamo altro che influenzare il mondo hollywoodiano. L’aspetto positivo è che si realizzano dei film leggeri, delle commedie piene di humor e battute, dove solitamente la cucina è un pretesto per parlare di bellezza e felicità, di sesso e amore. Il migliore finora ci pare a essere Chef, la ricetta perfetta, con Dustin Hoffman, Scarlett Johansson e soprattutto Jon Favreau, colui lo ha scritto, diretto e prodotto. La trama, in due frasi: Carl Casper, uno chef in auge, viene stroncato da un critico gastronomico alquanto severo. Litiga con il patron del ristorante losangelino(Dustin Hoffman) e va per conto suo, aprendo un chiosco ambulante servendo dei panini cubani (l’idea fu della ex moglie, Sofia Vergara, che alla fine del film tornerà assieme al protagonista).

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Ci sono dei momenti straordinari e musiche adrenaliniche, colori e atmosfere che ci hanno quasi obbligato di rivederlo almeno cinque volte (grazie Mysky). Due, le scene che ci sono rimaste davanti agli occhi. La prima, quando lo chef sussurra a Scarlett Johansson di venire a casa sua dove le cucinerà qualcosa di speciale: di molto speciale e accattivante c’è lei sdraiata languidamente sul divano, aspettando le pietanze. Carl vuole per davvero conquistarla con il cibo, lei sa che sarà conquistata: sublime. La seconda è commovente, con lui che per una notte intera prepara un nuovo menu, lavorando come un indemoniato: le carni sembrano deliziose, le salse pure, i piccoli ritocchi anche. Sono due minuti che fanno innamorare più di una puntata di Masterchef con Gordon Ramsey e Joe Bastianich. Il film scorre piacevole, non ci sono pistolotti moraleggianti, tragedie umane, casi disperati, non a caso ha vinto il premio del pubblico al Festival di Tribeca.


Sommelier stellati La vita in un bicchiere

Maialino croccante da Enrico Bartolini Bottoni di pasta ripieni di olio e lime, sempre da Bartolini

Valentina Benedetti

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ndiamo tutti pazzi per i grandi chef, pendiamo dalle loro labbra, vogliamo imitare le loro ricette, sogniamo cene nei loro ristoranti. Gordon Ramsey, Carlo Cracco, Rene Redzepi , ognuno ha i suoi preferiti, in base ai propri gusti, al proprio temperamento. Non c’è dubbio, sono loro le nuove rock star, senza la droga però. Firmano contratti a sette zeri, si sono impossessati dei programmi tv, i reality sono su ogni canale, scrivono libri: insomma, la gente li ferma per strada come si fa con i divi hollywoodiani e con i calciatori. Nessuno però presta attenzione alla loro squadra, nessuno trova tempo, spazio, voglia, interesse per scrivere due righe sul loro team, sui sommelier che spesso porta del valore aggiunto alla fama degli chef e, implicitamente, ai ristoranti. Tutti osannano le pietanze, in pochi trovano spazio per esaltare i sommelier, ed è un peccato: perché spesso i clienti tornano per farsi conquistare dagli abbinamenti proposti dai palati finissimi dei professionisti del vino e non solo per i piatti. C’è anche un perché: pare che negli ultimi anni la gente si stia allontanando dal mondo dei vini perché vengono raccontati in maniera tediosa, sbrodolona, pesante, triste. Avete presente quei discorsi del tipo “Il vino ha un retrogusto che sa di noce moscata, il tannino e

bla bla bla?”. Ecco, la gente non gradisce, a meno di qualche specialista e qualche invasato. Per farla breve, il mondo dei vini si sta ghettizzando, mentre quello della ristorazione inteso come piatti sta volando e fa sognare. Proviamo dunque a tendere una mano ai sommelier, cercando di metterli in primo piano e farli splendere di luce propria. Anzi,farle splendere, perché abbiamo scelto due donne. Giusy Romano, sommelier al due stelle Michelin di Enrico Bartolini (fra l’altro ambasciatore Krug), a Devero, viene dal mondo della banchettistica e del catering napoletano, una specie di Bagdad per gli addetti ai lavori: se ti imponi lì, tutto il resto è pura discesa. Poi ha vissuto a stretto contatto con la famiglia Alciati nel Piemonte, a Bra “tre anni e mezzo davvero intensi, ho imparato tantissimo” Ci tiene a sottolineare che “l’aspetto più importante è la sala, ovvero tutto il gruppo che ci lavora. In un ristorante stellato la gente si aspetta dei percorsi stimolanti, nuovi, particolari, degustare delle chicche. A me piace coccolare il cliente, a lui piace affidarsi a me. Uno dei miei abbinamenti più riusciti? Il Riesling Mosella secco accanto al manzo crudo con foie gras alle mele e salsa al curry. Poi i bottoni di pasta ripieni di olio e lime con salsa cacciucco e polpo cotto alla brace con un Sauvignon, è un piatto lungo e l’uva lega bene le

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componenti. Comunque, in Italia penso che si abbia ancora una visione troppo elitaristica per quello che riguarda i ristoranti stellati. In Francia gli operai ci vanno in media due volte l’anno. Per quello che riguarda lo champagne, mi piace da morire il Krug delle annate 1996 e 1998, oppure il Grande Cuvèe. L’anno scorso però, per il Salone del mobile, al Diamond Tower abbiamo abbinato il rosé al maialino toscano croccante e al risotto alle rape rosse e salsa gorgonzola: puro paradiso.” All’Hyatt splende la stella Michelin di Andrea Aprea e anche la mente laboriosa di Valentina Benedetti, ex Alain Roux e Four Seasons a Londra, poi Caruso di Ravello: “In uno stellato, da un sommelier ci si aspetta di sapere dei dettagli in più, la gente chiede, è curiosa. Il cliente vuole imparare, per questo cerco di muovermi il più possibile, sono una appassionata di storie di piccoli produttori e vino biologico. A pranzo provo a suggerire dei vini meno conosciuti, i miei abbinamenti preferiti? Risotto scampi, limone, capperi e rosmarino con un Sauvignon Blanc della Nuova Zelanda con delle note agrumate. Per un piatto più semplice, la battuta di fassona con lo champagne Guy de Forez. In questo periodo mi piacciono da impazzire i vini del Greco di Tuffo, vini con una mineralità spiccata e note di mele mature.”


La lampada con la luce fredda di Karim Rashid

Veuve Clicquot M

Emozionare. Sempre

adame Clicquot sarebbe davvero fiera di Francesca Terragni, la grande dame dello champagne giallo in Italia. O forse, chi lo sa, la brand director Italia è

la reincarnazione, a distanza di due secoli e mezzo, di Barbe Ponsardin. Amante dell’arte e del design, Francesca Terragni è la donna giusta al posto giusto, perché la maison di

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Reims è da sempre promotrice di valori alti. La fondatrice, Madame Clicquot, fu la prima a mettere le etichette sulle bottiglie, per distinguerle dalla concorrenza: il famoso colore giallo-arancione nasce


Time Capsule di Luca Trazzi

così, con i nastrini che differenziavano il suo prodotto dagli altri. Nel 1811 ebbe l’idea di creare un millesimato perché quell’anno una cometa illuminò lo champagne. E’ stata la prima azione di marketing nel mondo delle bollicine, azione poi raddoppiata nel 1816 con la table de remoige, ovvero il pupitre con dei fori che permetteva la leggera, leggerissima rotazione necessaria al degorgement. A due secoli di distanza eccoci ancora a raccontare delle diavolerie inventate da Veuve Clicquot. Un’accelerata fu data con l’arrivo del nuovo millennio, quando nacque la collaborazione con i designer più famosi, oltre alla creazione di un ufficio stile interno. Piccolo elenco delle genialate della maison: l’Ice Box di Pablo Reinoso, artista argentino che realizzò la confezione “latta di vernice”, un modo per smitizzare e sdrammatizzare il mondo elitario dello champagne. Sempre Reinoso ideò la Cellar Box, mentre la collaborazione con Karim Rashid ha portato alla creazione della sedia che in qualche modo riportava ai divanetti del settecento e soprattutto la lampada con la luce fredda che diventa anche secchiello. Segue la table de remoige che vede la firma di Andrée Putman, designer parigina (scomparsa nel 2013) entrata nella storia per le decorazioni a scacchi, poi la collaborazione con Porsche Design Studio che ha partorito la Vertical Limit, confezione gigantesca di grande impatto. Oggi Veuve “esagera” con il big project, la “time capsule” ideata da Luca Trazzi che interpreta e reinventa liberamente il design della bottiglia di champagne e che racchiude, nella gabbia dall’inconfondibile colore giallo Clicquot, il sogno di una donna innovativa e i simboli del patrimonio della maison. L’opera interpreta e reinventa liberamente il design della bottiglia di champagne e racchiude, nella struttu-

Vertical Limit

ra dall’inconfondibile colore giallo Clicquot, il sogno di una donna innovativa e i simboli del patrimonio della Maison. Quali? Eccoli. L’Hôtel du Marc a Reims, quintessenza dell’art de vivre à la française, aperto unicamente agli ospiti invitati da Veuve Clicquot per scoprire le Cuvée e la storia della Maison; poi le cantine di gesso, un inestimabile retaggio realizzato fra l’era gallo-romana e il XVIII secolo. 24 km nel sottosuolo della Champagne, un viaggio nel cuore e nell’anima della Maison. Ci sarebbe poi l’ancora, simbolo di speranza di origine cristiana, scelta da Philippe Clicquot, fondatore della Maison, come marchio per il tappo, unico segno distintivo prima della comparsa delle etichette. Segue la cometa, perché nel 1811, come abbiamo raccontato poc’anzi, una cometa attraversò il cielo della Champagne, presagio di un raccolto eccellente. Madame Clicquot ne ricavò un millesimato eccezionale, che portò la sua fama oltre le frontiere. Si chiude con l’audace arte della caraffa, adottata unicamente da Veuve Clicquot tra tutte le Maison de Champagne. L’installazione è composta da elementi in metallo calandrati che formano la struttura e sostengono all’interno la cupola, che simboleggia le bollicine dello champagne e le stesse cantine della maison. La si potrà ammirare nel cortile d’onore del ‘600 dell’Università degli Studi, palcoscenico della Mostra Evento del mensile Interni “Energy for Creativity” (13 aprile - 24 maggio), con installazioni che nutriranno la mente e la creatività, in sinergia con il tema di Expo Milano 2015. “Veuve Clicquot Tower vi farà scoprire che la storia, la creatività, lo stile si possono sorseggiare. Un sorso che diventa memoria, viaggio, fantasia.”, assicura Francesca. Non abbiamo dubbi.

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Il divanetto di Karim Rashid

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Don Juan Fuego argentino

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ristoranti argentini a Milano non mancano, anzi. Ne aprono in continuazione, con dei risultati straordinari: propongono carni eccelse, l’atmosfera è piacevole ovunque, tipo casa di campagna, della pampa, alcuni lo hanno impostato in maniera romantica. C’è un gran fermento nel mondo dei carnivori meneghini, la clientela aumenta e apprezza, il lomo e l’entranas vengono sognati a tutte le ore, perché c’è qualcosa di speciale nel modo e nel mondo argentino, qualcosa di indefinibile, forse quel misto di desiderio e erotismo che nasce per via della suggestione del tango e carne al sangue. Siccome il sesso e il cibo sono tra le poche cose che uomini e donne condividono, va da sé che un ristorante del genere fa scattare e scatenare, pungola passioni e golosità, strade che portano poi diritte alla lussuria. Ogni volta che varchiamo la porta di Don Juan pensiamo sempre alle connotazioni erotiche del cibo, del buon cibo. Appena vediamo le pareti color sangue di bue immaginiamo la bocca di lei, deliziosa come un mango maturo, assaporare lentamente un piatto aggressivo preparato dallo chef Rodrigo Rivarola, un omone di Cordoba che sprizza sorrisi rassicuranti. I piatti che arrivano sui tavoli sanno di peccaminoso,

i pensieri volano a delle labbra piene di fuoco. Non a caso Don Juan è il ristorante argentino con il più alto numero di donne, visto che solitamente si tratta di cibo per maschi, maschi aggressivi: ma qui pure loro si sentono al loro agio, anzi, vogliono essere se-

dotte dalle carni proposte da Rodrigo e dagli sguardi dell’amato. Ogni sera è tutto pieno, merito di una tradizione che viene da lontano, dal 26 maggio 2000, quando Marlene Gomes assieme al marito Giorgio Beretta aprirono

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le porte dell’allora primo ristorante argentino a Milano, in via Altaguardia, zona Porta Romana. Pensate che Javier Zanetti, ex colonna portante dell’Inter, ci veniva spesso prima di aprire i suoi due ristoranti argentini. Ora l’ex capitano non lo vedi più al Don Juan, ci sono però Palacio, Hernanes, Dodò e Juan Jesus, anche se il più assiduo è Podolski, l’attaccante tedesco appena arrivato a Milano da Londra. Potremmo parlare all’infinito degli antipasti e del baby beef, dell’entranas e del maialino di sei mesi, però stavolta l’intento dell’articolo è un altro, meno legato alla goduria e alla lussuria gastronomica e più vicino ad un’azione nobile portata avanti da Marlene, ovvero il progetto Sumampa, ideato per lo sviluppo sociale ed economico di Santiago dell’Estero, area depressa nel nord ovest argentino. Ok, solitamente non siamo bravi, non eccelliamo nel raccontare gli aspetti sociali, non abbiamo la sensibilità necessaria per raccontare un mondo lontano dal nostro, però stavolta è diverso, perché Marlene va premiata, sostenuta e incoraggiata nel suo intento. Come? Magari assaggiando i tre piatti tipici che andranno ad arricchire il menu durante i mesi dell’Expo e i cui ricavi saranno in parte devoluti a Sumampa. Eccoli, i piatti: locro, una zuppa a base di mais bian-


zuppa locro co, zucca, fagioli, carne e spezie argentine, il tabule di quionoa, un’insalata di quinoa arricchita da verdure di stagione e condita con lime e menta fresca e, in onore dei golosi, il pastel de harina de algoraba, un petit gateau di farina di carrubba servito don dolce di latte. La speranza è che i risultati possano aggiungersi ai grandi successi dell’attività di Sumampa, tra cui la costruzione di pozzi e acquedotti, l’acquisto del campo Qimili Paso per garantire a oltre 300 persone una casa e una terra da coltivare, l’avvio di un programma di informazione igienico-sanitaria e la costituzione di una cooperativa di donne tessitrici, i cui manufatti sono in vendita presso la Galleria Sumampa a Buenos Aires. Buon appetito.

Epicure, Paris

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’albergo è il Bristol, il ristorante è L’Epicure. Li trovate allo stesso indirizzo, nel centro parigino, Rue Fauburg Saint Honoré. Sono un vanto per la città, sono un punto di riferimento per gli amanti del lusso, delle magnolie, delle suite con terrazzo e dell’alta cucina, perché, come dicono scherzando, ormai non sanno nemmeno loro quante stelle hanno ottenuto. In realtà ne hanno quattro, tre per il ristorante e uno per la Brasserie, fatto alquanto inconsueto. Se si potesse dare una stella pure al bar, lo prenderebbe di sicuro. Scherzando ma non troppo alcuni hanno proposto di includere l’Epicure fra i monumenti nazionali, accanto al Louvre e alla Torre Eiffel. C’è chi racconta di aspettarsi da un momento all’altro vedere entrare donne arrivate in carrozza, gonne strutturate e corpetti, c’è chi si sente catapultato nella Parigi degli anni trenta. Perché qui si mangia il miglior foie gras in assoluto, perché l’ambiente e lo staff sono straordinari, perfetti in ogni situazione e momento della serata. Il menu degustazione di 10 portate può sembrare esagerato, però non ve ne pentirete: il blu lobster impera, il granchio zebrato anche, però dal primo piatto fino alla piccola pasticceria (macaron, cioccolatini e altro) è tutto una delizia assoluta.

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Per fare anche due conti: il menu degustazione inizia dai 135 euro a persona esclusi i vini, ovviamente. Chi vuole esagerare non va comunque oltre i 350 euro, il che pare un prezzo alquanto equo, visto che si tratta di uno dei tristellati più famosi al mondo. L’Epicure offre la classica cucina francese a dei livelli superlativi. Lo chef Eric Frechon, il pasticcere Laurent Jeannin e il sommelier Marco Pelletier comandano una brigata straordinaria. Il Bristol è una vera istituzione: ci lavorano 630 persone, 100 soltanto nel ristorante. E’ l’unico hotel di una tale portata ad essere ancora di proprietà di una famiglia, gli Oetker (gli stessi che possiedono il brand calzaturiero Dr.Oetker). Rudolf e sua moglie Maja lo hanno appena rinnovato, con l’aiuto di Pierre Yves Rochon, designer molto in voga. Per tornare alla famiglia: tutto è iniziato nel 1871 quando Rudolf Oetker aprì una farmacia a Bielefeld. Nel 1900 nasce Dr.Oetker Food Company, nel 1923 diventano soci del Brenners Park Hotel. Il Bristol lo hanno acquistato nel 1978, Loro anche il Hotel du Cap sulla costa azzurra, ad Antibes, mentre dal 2012 hanno aperto il Palais Namaskar a Marrakech.


Lardini

Edonismo maschile

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Giacca smoking foderata monopetto con rever a contrasto in raso, in tessuto jacquard di lino/cotone.

7 anni di vita per un’azienda sono nulla: il tempo corre veloce, le collezioni e le stagioni si susseguono a dei ritmi folli, spesso non hai nemmeno il tempo di fermarti e goderti quello che hai appena creato. Per fortuna esistono le immagini che, almeno per un attimo, riescono a farti gioire e gustarti i colori ed i tagli di una giacca, un abito, un cappotto. Il nostro grosso problema è stato dover scegliere solo alcuni capi della collezione Lardini, perché si potrebbe realizzare un numero speciale pubblicando le loro giacche. Ci siamo soffermati su

quattro capolavori, con la promessa che il prossimo numero daremo ancora spazio, e tanto, alla creatività della maison marchigiana. Se lo meritano e se lo meritano i nostri lettori, perché oggi le riviste servono a questo, si sfogliano perché promettono emozioni, sprizzano energia, offrono attimi frizzanti, mai deprimenti, propongono una eleganza colta, una energia creativa. Lardini non poteva e non potrà mai mancare dalle nostre pagine e dalle pagine di alcuna rivista che si pretende elitaria e magari influente. Tyler Brulé racconta-

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va in uno dei suoi editoriali che oggi i magazine devono ambire a diventare aspirazionali, a offrire soluzioni sul modo di spendere il proprio tempo e denaro. Ha ragione, dunque eccoci qui a regalarvi un mondo sartoriale colorato e elettrico, dove trovi tutta l’eccellenza della tradizione sartoriale di una terra magica come le Marche, terra ricca di mani abili e passione. Non è un caso che i tre fratelli fondatori, Andrea, Luigi e Lorena, mantengono la produzione negli stabilimenti di Filottrano, nel anconetano, dove l’esperienza della tradizione sartoriale del fatto a mano si coniuga con


Giacca easy super leggera sfoderata e decostruita monopetto, finto 3 bottoni tasche a toppa in tessuto gessato lavorato a crochet. macchinari di ultima generazione. Il marchio Lardini, specializzato nell’abbigliamento uomo, è oggi riconosciuto e riconoscibile ovunque nel mondo: ogni giorno a Filottrano si producono 1500 capi che raggiungono i mercati internazionali attraverso una catena distributiva in continua espansione che oggi conta 450 negozi multibrand più una decina di monomarca sparsi tra Russia, Corea, Cina e Italia, più altri corner nei migliori department store. I numeri sono chiari: la maison esporta il 60% della produzione, continua a creare nuovi posti di lavoro e

ha saputo far crescere il giro d’affari, dai 37 milioni di euro registrati nel 2009 ai più di 60 nell’anno appena passato. Facendo un passo indietro, ne vale la pena ricordare gli inizi, quando Luigi Lardini, appena diciottenne, voleva seguire le sue passioni, ovvero creare una collezione di capi da uomo: lo disse al fratello Andrea, tre anni più grande e a Lorena, appena maggiorenne pure lei. Aiutati e supportati dal padre aprono un laboratorio sartoriale che desta fin da subito l’attenzione di alcuni giganti della moda. Così, nel giro di pochi anni il car-

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net dei clienti che si fanno produrre i loro capispalla da Lardini diventa imponente: Byblos, Gft, Le Copains, Valentino e Versace. Il business cresce, i tre fratelli si ripartiscono i ruoli, diversi e complementari per lo sviluppo dell’impresa creata da loro: Luigi è impegnato sul fronte stile, Andrea, forte dei suoi studi universitari in ingegneria informatica, segue lo sviluppo tecnologico, mentre Lorena ha la responsabilità della gestione finanziaria e amministrativa. Qualche anno più tardi entra in azienda anche la sorella minore, Annarita, con la responsa-


Giacca easy club superleggera sfoderata e decostruita, monopetto 2 bottoni, rever a scialle con bordino a contrasto bilità di controllo a garanzia della qualità di tutti i capi che escono dagli stabilimenti di Filottrano. Poi, il grande passo, la nuova sfida: nel 1993 i fratelli Lardini creano una collezione col loro nome. Ed eccoci arrivati ad oggi: i tessuti sono raffinati ma non rigidi, ogni giacca viene personalizzata con particolari tocchi d’autore, quasi per trasformarla in una piccola opera d’arte. Elegante ma informale, l’uomo Lardini traduce e interpreta lo stile con gusto deciso e moderno attraverso capi che nascono da radici sar-

toriali italiane: fiori sulle giacche, impunture a vista sui revers al fiore di stoffa infilato nell’occhiello, ovvero un maschile edonismo e romanticismo, uno look chic, fresco e versatile. Attenti nell’ascoltare il cliente, flessibili a realizzare, veloci nell’eseguire, l’azienda propone anche l’esclusivo servizio su misura per i clienti di tutto il mondo, clienti che possono andare in negozio a scegliere il tessuto, il modello e le varianti: nell’arco di 15­20 giorni ricevono il capo personalizzato con nome o iniziali ricamate all’interno.

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L’ultima collezione propone uno stile coloniale versione urban e accostamenti assai insoliti, vedi i colori blu-giallo, prugna-rosso vivo, applicati a tessuti di pregio quali lana, mohair e seta. La collezione propone il denim look in chiave inconsueta creato dalle gradazioni del blue. Si opta per l’uso di cotoni e lini, non indaco, dai disegni jacquard, fantasie check e righe dal gusto preppy. Il blu è declinato in tutte le sue gradazioni e usato per la giacca, il chinos, la maglieria e la camiceria.


Giacca Soft lavata, tasche a toppa, monopetto finto 3 bottoni, sfoderata in tessuto drill di cotone. Se la tendenza è vestirsi giocando con i diversi toni del blu, a cui Lardini aggiunge pois, righe e disegni esclusivi, a regalare un tocco di luce è l’accostamento con il bianco con cui sono realizzate le camicie in seta e lino e le polo in finissimo cotone. E il bianco in tutte le sue infinite sfaccettature diventa il colore. Poi ci sarebbero le proposte tinto capo, in cotone e in lino, che si rinnovano nei colori pastello trattati a pigmento che, proprio della maglieria, dona un allure

casual con un effetto délavé o si arricchiscono di stampe cachemire volutamente usurate. La maglia si evolve in giacca coniugando il comfort al look di un capospalla. I filati lasciano ampio spazio alla creazione di giacche monopetto, doppiopetto, revers a specchio e sciallati con disegni jacquard, punti a costa inglese e filati denim. Il mood Archivio- la rilettura in chiave moderna di disegni e coloriture passate, attualizzati da pesi e filati - si arricchisce con la lavorazione cro-

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chet realizzata a mano con telai antichi; e il blazer, con tessuti ammagliati, prende ispirazione dagli archivi di punti maglia. E’ un mondo colorato e fantasioso, elegante e spesso audace: un mondo che piace alla gente che piace, un mondo attinente ai valori di Good Life.


Angelo Inglese “Invidio gli chef”

Angelo Inglese assieme a Beppe Zullo

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accio l’artigiano, oppure il sarto, viene difficile perfino a me inquadrarmi. Diciamo che provo a fare delle cose uniche, belle, che emozionino. Sono molto italiano, forse troppo legato alla mia terra, la Puglia. Dal punto di vista imprenditoriale mi porta solo dei svantaggi, ma ormai ci ho fatto l’abitudine. Probabilmente il rapporto fra dare e avere è troppo sbilanciato, però mi frega sempre il fatto che qui, dalle mie parti, riesco comunque a produrre e a creare, riesco a trovare quell’ambiente, quei colori e quel calore necessario per ispirarmi. Prevale l’italianità, che è al di sopra di tutto. L’eccellenza, il life style sono italiani, in sartoria e in cucina. Sono due mondi molto legati fra di loro, per tanti versi quasi identici. Non è un caso che tutti i miei clienti, europei oppure asiatici, siano amanti della buonissima cucina, apprezzino le prelibatezze e sappiano riconoscere la qualità. All’inizio pensavo fosse solo una questione economica, nel senso che una persona che si permette delle camicie realizzate interamente a mano è sicuramente in grado di spendere per mangia-

re bene. Era quasi elementare: se ti vesti da me, figuriamoci se non puoi cenare da Cracco. Poi, pian piano, mi sono reso conto che si tratta di sensibilità e non di portafoglio, ovvero c’è gente che vuole godere e vivere intensamente dei momenti di pura felicità. Felicità che significa proprio questo, vedere e avere un prodotto creato solo per te, preferibilmente con delle materie prime genuine, semplici. E’ gente che sa capire e valutare le eccellenze, che siano cotone oppure mozzarella, lino oppure pesce, bottoni oppure vini di piccoli produttori. Ci sono anche attinenze cromatiche fra i due mondi: oggi sia i piatti che gli abiti o le giacche sono molto colorati, esteticamente rubano l’occhio, l’attenzione per il dettaglio è maniacale. Quando mi presentano un piatto perfetto per com’è disegnato e bilanciato, penso alle mie camicie, dove tutto viene curato al millimetro: non è un caso che spesso veniamo invitati agli stessi convegni sia noi che gli chef. Però la loro categoria mi sembra più coinvolta nei progetti comuni, più sinergica, mentre noi stiamo a nasconderci uno dall’altro, perché pare che abbiamo da difendere chissà

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cosa: siamo più egoisti degli chef, che paiono generosi e solidali. Personalmente ammiro molto gli chef che riescono a creare e trasmettere emozioni utilizzando materie prime povere: con il caviale e le carni pregiate tutto diventa più semplice, a volte perfino banale. Dovessi indicare il nome di uno che mi fa battere il cuore direi senz’altro Beppe Zullo, ma forse sono di parte, perché è pugliese come me. Mi piace il suo amore per il territorio, il modo nel quale si spende per la Puglia, mi piace anche la sua nuova filosofia, quasi vegetariana, il che non significa che io non ami le carni, anzi, però sto facendo un discorso legato ai prodotti e alla valorizzazione della nostra regione. Perfino io provo ad acquistare e degustare prelibatezze prettamente locali: per il pesce vado a Bari, per i salumi da Antonella Ricci, a Ceglie Mesapica, per il capocollo mi sposto a Martina Franca, fra l’altro vicinissima alla mia Ginosa. Quando mi arrivano ospiti dall’estero li porto in giro a scoprire le bellezze e le bontà locali: è un atto di cultura, non solo alimentare ma anche del territorio. Il mio territorio.


Wicky Pryian G

Il re del fusion

li appassionati di cibo lo conoscono. Anthony Bourdain è uno simpatico e soprattutto influente chef e scrittore statunitense, famoso per i suoi viaggi culinari, per il passato travolgente e soprattutto per il best seller Kitchen Confidential, diventato perfino una serie tv straordinaria con Bradley Cooper come protagonista. Un giorno, assaggiando un piatto, Anthony esclamò: “Amo mia moglie, mia figlia e quello che sto assaggiando ora”. Diventò una frase cult, una frase che sicuramente avrebbe pronunciato anche gustando le delizie di Wicky Pryan, il guru della cucina asiatica, il master dell’innovazione. Certo noi siamo di parte, ma d’altronde chi non lo è una volta varcato l’ingresso del suo tempio? Di lui abbiamo parlato e scritto in abbondanza, ma forse mai abbastanza. Perché ogni volta che ci sediamo davanti a lui, dall’altra parte del bancone, abbiamo la sensazione di trovarci

laddove abbiamo sempre voluto esserci. Ogni piatto è un mondo a sé. Descriverli ci risulta difficile, forse sarebbe meglio provare con dei termini brevi e intensi, che possano rendere l’idea. Qualcosa del tipo “piatto peccaminoso”, oppure “tenebroso”, “afrodisiaco”, “aggressivo”, “amoroso”. Ma abbiamo ripetuto troppo spesso i concetti, raccontando la cucina degli altri: dunque non vale. I suoi piatti inducono alla lentezza, ti fanno provare la felicità immediata, le cotture sono mai meno che perfette, le frontiere gustative vengono superate: altre espressioni che usiamo assai ma che parlando di Wicky paiono banali. Ogni assaggio, ogni morso è un colpo al cuore, ti proiettano lentamente in una sorte di nirvana: nemmeno queste espressioni rendono l’idea. Perché Wicky è tutto questo e molto altro, ti stordisce, ti acceca con la sua padronanza delle tecniche, con le sue consistenze e gli equilibri.

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Poi, ci sarebbero i colori, i profumi, le geometrie dei piatti: tutto meravigliosamente perfetto, a tal punto da chiederti come ci riesce. Da quasi due mesi ha cambiato sede, non più Via San Calocero bensì Corso Italia 6: un locale quasi doppio, 65 posti, tre salette più l’ambitissimo banco. Il nuovo menu è ancora in fase di rodaggio, però abbiamo assaggiato alcune novità e vi possiamo assicurare che la vena creativa di Wicky continua a stupire e far innamorare. Così ecco l’insalata di ventresca di tonno con arancia e cipolla di Tropea (il sommelier Nico Gaballo lo propone con uno champagne Bruno Paillard), poi il carpaccio di scorfano con salsa di menta e Jalapeno (l’abbinamento giusto, sempre secondo Nico, sarebbe un riesling Zind Humbrecht, perché il Japapeno si avvicina come gusto allo zafferano). Piccolo consiglio: prenotate, perché nonostante i posti siano di più, anche la clientela è aumentata (e soprattutto salita di livello).


Marcus Evans Pied a terre

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ucina francese nel cuore di Londra. Suona blasfemo per alcuni, però funziona, eccome, perché lo chef 34enne è riuscito a conquistare la gente proponendo piatti moderni transalpini. Oltre alla clientela, anche le guide sono rimaste impressionate, non a caso il ristorante vanta due stelle Michelin. Con un padre come cuoco (lavorava nel ristorante di un albergo di campagna), Marcus non poteva scegliere un’altra strada. Probabilmente non si è mai chiesto cosa avrebbe voluto fare nella vita: già al college studiava da futura star dell’alta cucina (allo Stratford upon Avon College). Nelle vacanze spendeva le giornate dove lavorava il suo papà: “Mi piaceva tantissimo pulire e aiutare, in più c’era una energia contagiosa e uno spirito di camaraderia che mi hanno conquistati”, racconta. “All’inizio non pareva molto felice della mia scelta, poi si è reso conto che ero davvero innamorato dal mondo della cucina e mi diede un solo consiglio: lavora sodo, molto sodo, sempre, sii pronto a dare tutto te stesso”. Il primo impiego di prestigio lo ha ottenuto allo stellato Simpsons, come aiuto di Andreas Antona, uno che nella sua lunga carriera ha sempre saputo scova-

re e valorizzare le giovani promesse: prima di Marcus aveva scoperto e portato alla stella chef come Glynn Pumell, Luke Tipping e Adam Bennett. Ha funzionato allo stesso modo anche con il nostro personaggio: il

ristorante ha mantenuto il riconoscimento Michelin, mentre Evans ha vinto il titolo come lo chef dell’anno, ovviamente nella categoria giovani. Da una stella Marcus passa a due, andando a lavorare a

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Bath, da Martin Blunos, per poi fare ritorno a Londra al Landmark Hotel da John Burton Race e poi all’Hibiscus, da Claude Bosi. Il tipico girovagare e finalmente l’arrivo al Pied a Terre, nei primi anni del nuovo millennio. Qui incontra Shane Osborne, altro nome pesante della ristorazione londinese e il patron David Moore: i due lo apprezzano a tal punto da dargli le chiavi del nuovo locale, l’Autre Pied (2007). Poi Osborne è costretto ad abbandonare la nave, per via delle allergie che non le davano tregua: siamo nel 2011, Marcus prende le redini anche del Pied a Terre e in cinque mesi riesce ad ottenere una stella, dopo averne conquistata una con l’Autre Pied. In più, il ristorante si piazza secondo nella classifica di Zagat, per quello che riguarda l’Inghilterra. La cucina si Marcus ammaglia, i profumi sono intensi, alterna cucina stagionale con piatti innovativi, ha pensato e messo in carta perfino un menu vegetariano. Il suo piatto forte e’ petto di quaglia arrosto e gamba di quaglia croccante, il tutto rivestito da una crema di nocciole, pure di scalogno e abete di Douglas (ovvero


pino dell’Oregon). Il suo idolo è Bjorn Frantzen, chef svedese che abbiamo raccontato nel numero passato: il suo ristorante è un dei migliori del paese, uno dei due a poter vantare due stelle. “Da noi trovi le migliori aragoste, il miglior pesce, idem per i molluschi ed i ricci. So di cosa parlo, le nostre acque sono limpide e fredde tutto l’anno, il che da una dolcezza particolare ai crostacei”, sostiene. Certo, la cucina di Marcus è alquanto diversa, ma fra i geni ci si capisce al volo e si apprezzano dei piccoli dettagli che sfuggono ai più: comunque non è un caso che le materie prime preferite di Marcus solo le stesse di Bjorn, l’ex calciatore diventato chef. Pied a terre si trova a Fitzrovia, nel cuore della capitale: ha aperto nel 1991 e due anni dopo poteva gioire per la prima stella, che nel 1996 diventano due. Una zona molto in, però Marcus nei giorni liberi preferisce bazzicarne un’altra, Primrose Hill: si ferma alle varie groceries e bakery, stuzzicando meraviglie e sorseggiando un buon caffè. Gli piace moltissimo il burro di arachidi che fanno proprio lì, poi torna a casa a cucinarsi una semplice e strepitosa bistecca. I suoi ristoranti preferiti? Herenford Road a Nothing Hill e Polpo nel Soho. Tornando al Pied a Terre: il menu degustazione costa 130 euro. In pratica, la felicità quasi regalata.

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Pino Lerario I colori della mia terra

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ro ad una cena tra amici ed osservando le intense sfumature rosso rubino di un calice di Primitivo, vino pugliese d’eccellenza, ho deciso che il fil rouge della collezione primavera estate 2015 sarebbe stato appunto il rosso con le sue innumerevoli declinazioni, il rosso che rappresenta la mia terra, il suo calore e la sua passione”. Trasudano passione, le parole di Pino Lerario, il sarto modellista (la definizione è sua) che si ispira ad Armani e sogna di vestire David Beckham.

Ha portato l’azienda di famiglia nell’olimpo del mondo dandy, ovvero la gente che piace e si piace, che sa di piacere e non lo nasconde, un mondo fatto di vanità e personalità, gusto e ironia. Non solo rosso, nella sua nuova collezione: ci sono il bordeaux, il tegola, l’ocra, il miele ed il verde oliva, oltre agli immancabili avorio e silice. Di grande impatto anche i filati utilizzati: lini e cotoni peso camicia, seta, poi alcune inedite lane armaturate.. Come in ogni collezione i bottoni sono un peculiare segno distintivo.

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Nascono così giacche totalmente sfoderate e destrutturate, capaci di mantenere inalterato l’intrinseco significato di sartorialità, unito ad innovazione e ricerca. Prende vita un nuovo concetto di capospalla, capace di trasmettere comfort e leggerezza, senza rinunciare allo stile ed al rigore di una giacca. Come in ogni collezione i bottoni sono esclusivi, per di più possono essere scelti e personalizzati. Gemme effetto madreperla verniciata, intarsiate o in metallo anticato e brunito. In più, vezzo dell’uomo Tagliatore, il cappello, realiz-


zato artigianalmente e rigorosamente made in Puglia, da abbinare sapientemente alla collezione di blazer. Un simbolo tanto amato dal brand italiano che si fa segno distintivo della collezione attraverso la creazione di un nuovo badge in metallo destinato a diventare iconico. Da applicare sugli ampi revers, il cappello a cilindro comunica eleganza e sartorialità. Agli estimatori più sofisticati, Pino Lerario dedica la Capsule Collection che porta il suo nome e che sembra avere una vita propria capace di rivivere di stagione in

stagione. Le giacche da indossare in qualsiasi occasione hanno colori accesi, spalle insellate, giro maniche stretti e ampi revers a contrasto. Sono eleganti, a tratti barocche, destinate a ideali gentleman di una smoking room inglese, che vive di impeccabile eleganza e sobria goliardia. Qualche mese addietro, parlando con lui, ci confessò che le capsule collection sono di ricerca, per un cliente più sofisticato, esigente, estroverso. “Chi indossa un capo della capsule ne diventa dipendente: un Pino Lerario addicted”, concluse orgoglioso.

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D’altronde come non potrebbe esserlo, guardando indietro e anche al domani? Lasciamo da parte gli inizi dell’azienda, ormai raccontati tante volte. Ricordiamo solo i momenti salienti, anzi, il momento che ha cambiato la vita di Tagliatore: “ A fine degli anni ottanta avevamo tre negozi monomarca a Londra, si chiamavano Gianni Baldo e Lerario. Gianni Baldo era il nostro socio e partner in terra britannica. Un giorno Bob Ringwood, il famoso costumista che stava per realizzare gli abiti per il kolossal Batman, passa davanti alle ve-


trine nel nostro monomarca in Savile Row, entra, chiede chi ha realizzato le giacche e ci contatta. Ricordo quando andai a Londra, sul set: indossavo un capotto che Bob voleva fregarmi, tanto gli piaceva. Andai con almeno ottanta modelli, i loro stilisti ne hanno scelto una dozzina per il cast. Poi abbiamo creato smoking particolari, viola e blu Cina, perché alla fine il film è un fumetto, ci stavano colori accesi e particolari. Avevo 24 anni, l’emozione nel vedere Jack Nicholson, Michael Keaton e Kim Basinger fu fortissima”.

La crescita è stata vertiginosa e lo è tuttora. Snocciolando un po’ di numeri, ammettiamo di rimanere impressionati. 800 punti vendita in giro per il mondo, un’azienda che può contare su 180 persone motivatissime a Martino Franca, il regno della famiglia Lerario, dove tutto ebbe inizio più di mezzo secolo addietro, quando suo nonno, Vito, tagliava le tomaie delle scarpe che poi sua moglie cuciva: lasciò le tomaie per impugnare le forbici e diventare sarto. Il resto è storia: il padre di Pino inizia a cinque anni a trafficare tra i

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tessuti e così fanno anche i suoi figli, che si dividono tra la scuola e il laboratorio che, agli inizi, produceva per conto terzi. Questo il passato, invece il futuro è a stelle e strisce:” Sogno solo gli Stati Uniti, sono un grandissimo appassionato e fan di questo paese fantastico, amo il loro modo di essere e di vivere, l’ho girato in lungo e in largo due anni fa. La mia priorità è quel mercato, vorrei riuscissimo a far breccia a New York, perché se vuoi sfondare nel paese più importante al mondo si parte


da lì. Un mio amico mi diceva che devi starci per dieci anni e poi magari andartene, ma si deve iniziare da New York, ti garantisce l’entrata in altri mercati, altre metropoli. Un’altra città che mi stuzzica tantissimo è Miami, è diventata importante, intensa, colorata, abitata da persone con gusto e voglia di vivere bene”, si confidava Pino a inizio gennaio, quando realizzammo lo speciale Pitti, proprio con lui in copertina. Oggi invece il mercato principale resta l’Italia: “Tagliatore è un prodotto pensato per il modo di vestirsi no-

strano. Poi il Giappone, paese ideale per i nostri capi slim. Va detto che fra noi e il paese nipponico si gioca ad una sorta di ping pong, noi copiamo loro e loro copiano noi, perché hanno una stima infinita della nostra moda”, raccontava nella stessa occasione il direttore creativo dell’azienda. Il cliente tipo è principalmente un uomo dai 25 ai 45 anni: poi, dice Pino, “abbiamo una fascia numericamente meno imponente che va dai 45 ai 60. Proviamo a far coesistere i due mondi, dei 25enni e dei 60enni,

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e non è raro vedere questi ultimi acquistare giacche pensate per i primi. Di rado, magari per un’occasione particolare, per una serata dove ci si vuole sentire chic e choc”. Se la nuova collezione ha il rosso come colore di riferimento, al Pitti aveva portato il Blu Cina, però meno sgargiante: il colore del cielo della sua terra,, un blu oltremare. Ci vorrà un anno per trovare nei negozi i capi presentati a Firenze ma, come insegna lo slogan, l’attesa stessa è piacere.


The Knickerbocker New York, New York

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el cuore di Times Square, all’angolo tra la 42ima e Broadway. Piatti gustosissimi, bar strepitoso, roof da film, 330 stanze, tra cui 27 junior suites e 4 signature suites (una delle quali dedicata al tenore Enrico Caruso, che qui convolò a nozze), tutte ideate dallo studio di design Gabellini Sheppard. Lo chef é Charlie Palmer, una specie di divinità negli Stati Uniti, per via dei libri di cucina e trattati di marketing culinario: suo il programma American style of coking and entrepreneurship. Si aggiungono i premi (New York’s Best Chef nel 1997), la stella Michelin, i riconoscimenti, le presenze al Nbc Today Show, i libri (quattro, fra questi Casual Cooking e Great American Food) e soprattutto la sua filosofia, impostata sui prodotti locali, le così dette factory food (ora pare tutto banale, ma a quei tempi era un rivoluzionario, altro che Petrini). Il suo primo ristorante di proprietà è stato L’Aureole, nel Upper Manhattan: siamo nel 1988, ovvero un’era fa (prima aveva lavorato nel famoso River Caffè e poi al La Cote Basque). Sono seguite altre aperture di grido, compreso il Metrazur al Grand Central Terminal, Astra nel Mid Manhattan e

un altro Aureole a Las Vegas, per poi iniziare anche un affare legato alle enoteche. Nel 2007 L’Aureole ha preso la stella ed é ancora co-

nosciuto come uno dei migliori di Manhattan, seppur abbia cambiato sede. Charlie se ne occuperà della supervisione dei due ri-

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storanti dell’albergo: Jakes @The Knick (che è più una coffee house) e The Knick. L’albergo vanta anche un rooftop bar di 700 metri quadri, il St.Cloud,dove all’interno di una cigar lounge si possono gustare i prodotti di Nat Sherman. Solitamente vive in California assieme alla moglie Lisa e ai loro quattro figli, però la vita da chef è tutt’altro che sedentaria e pantofolaia, per cui eccolo volare da un angolo all’altro del paese, The Knickerbocker, aperto inizialmente nel 1906, è il sesto albergo newyorkese che fa parte della collezione di alberghi di lusso Leading Hotel of the World (vanta 420 alberghi in più di 80 paesi). Nei primi anni era uno dei must, dei luoghi d’incontro dell’alta società newyorkese, ma poi ha chiuso i battenti nel 1920 per fare spazio a degli uffici. Nel dopo guerra era diventato la sede del settimanale Newsweek, motivo per il quale i newyorkesi lo conoscono come il Newsweek Building. Il rapporto con il mondo della stampa è da sempre molto stretto: il nome dell’albergo, Knickerbocker, è lo stesso di una rivista letteraria realizzata da Charles Fenno Hoffman nel 1933.


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Toy Watch E

Maya Natural Stones

’ rilassante e piacevole fare un giro nel sito della maison milanese. Gli orologi sono chic, a vote choc, cromaticamente eleganti, sprizzano energia e positività, il massimo della creatività. Indossare un loro modello è come una promessa che, appena si entra in una stanza, tutti si girano per guardarti. Per questo ci fa piacere dedicare sempre dello spazio alle nuove collezioni di Toy. A Basilea, come tutte le volte, hanno destato un grande interesse, ma per poter ammirare e apprezzare le nuove idee si dovrà aspettare il prossimo numero. Ora ecco altre due proposte, a cominciare dalla collezione Fluo, il vero must have dell’estate, un modello

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Very very chic iconico, policarbonato lucido e palette di colori irresistibili,emblema dello spirito di ToyWatch. La nuova gamma di colori spazia giallo al lilla, dal blu all’arancione fino ai classici bianco e nero, che si distinguono grazie all’inserimento dei numeri sul quadrante. Cassa 35 mm, movimento giapponese, al quarzo, solo tempo con datario a ore 3, è resistente all’acqua fino a 5 atmosfere. Frizzante e spumeggiante anche la collezione Maya Natural Stones, dedicata alle donne che amano dare un significato in più al loro tempo. Pietre naturali come dei coloratissimi talismani votati al mondo della moda i nuovi Maya ammaliano con il quadrante in pietra naturale abbinato al cinturino a trama optical in bianco e nero, doppiato in pelle colorata e confezionato a mano, in Italia, dalla maestria di un laboratorio

LottoIcona Leggenda di Stile

mmancabile nel guardaroba di ogni fashionista, Lotto Leggenda si tramuta oggi in linguaggio iconico. La storica scarpa da running degli anni ‘80 e ‘90, patrimonio dell’azienda, da sempre riconosciuta all’avanguardia per ricerca e innovazione, e dalla lunga tradizione di successi, ritrova una nuova vita. Abbinamenti cromatici sofisticati, mix materici e stampe dal chiaro richiamo alle terre d’oriente sono gli elementi distintivi della nuova collezione Lotto Leggenda. Il modello Tokyo Shibuya Kanji, ispirato al mondo dei

manga, è realizzato in suede e nylon net e raccoglie segni diacritici sulla tomaia. Tokyo Shibuya Flowers è invece realizzato in canvas e pelle scamosciata, con una sofisticata stampa floreale. Tokyo Shibuya è disponibile in altre 3 versioni: nylon net e suede nei colori grey moon, nautic, brown medium e black oppure nylon ripstop e suede in dark navy, mapo, ketchup e jungle e in fresco canvas e suede nelle tonalità leaf light, aviar e cement. Lacci, suola e l’immancabile losanga Lotto sono sempre a contrasto cromatico

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Fluo artigianale. Le 7 varianti, tutte da scoprire, rivelano le proprie caratteristiche incise sul fondello: il nome della pietra, la sua proprietà e un’icona abbinata. Eccole: Diaspro (balance/simbolo peace & love, per una carica di pace e serenità), Malachite (protection/ mano di Fatima, da sempre considerata un forte protettore), Lapislazzuli (wisdom/ l’albero della vita, promuove profondità e saggezza e stimola la concentrazione e l’intuizione), Quarzo rosa (love/teschio con occhi a forma di cuore, scalda il centro del cuore e bilancia le emozioni donando pace e armonia), Turchese (luck/quadrifoglio, vero e proprio portafortuna della collezione), Madreperla (wealth/conchiglia, nelle varianti bianca e nera dalla raffinata lucentezza, simbolo di potenza e ricchezza).


photo: Stefano Farina mynd.it

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Relais d’Arfanta Fiaba trevisana

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ifugio romantico sulla via del Prosecco, intrigo sentimentale nel Veneto profondo, scenario da film hollywoodiano, atmosfere d’altri tempi, un luogo che induce alla lentezza e ti proietta in una sorta di nirvana. Un silenzio monastico, delle colline dolci attorno, un luogo che restituisce la passione alle anime stanche, che pungola il desiderio amoroso, che sprigiona seduzione. Benvenuti al Relais Darfanta, ideale per chi cerca i mattini e la serenità, il tramonto e la malinconia, per chi sogna bearsi della solitudine e pensare altrove, magari agli zigomi assassini di lei, alla sua bocca deliziosa come un mango maturo. Chiudi gli occhi e senti il crepitare del fuoco nel cammino, la nebbia che avvolge le colline: certo, per essere romantici si deve aver coraggio, per le avventure si deve avere la tempra di provare, ma qui tutto può accadere, tutto può avere inizio. E’ come nelle favole, manca solo la principessa con la bacchetta magica o forse c’è anche lei da qualche parte, magari in una delle sette stanze fiabesche, stanze che sembrano un misto fra una bomboniera e una camera sfarzosa dei castelli di una volta. Prima ancora di salire e accomodarsi nelle suite puoi

regalarti attimi di autentica felicità, sorseggiando un cocktail, oppure una whisky, fumando un sigaro e sfogliando il giornale al bordo della piscina riscaldata. Qui gli scenari diventano infiniti, nei film i momenti del genere sono il preludio di qualcosa di straordina-

rio, di emozioni forti, di polaroid che ti rimarranno per sempre nella mente. In base al temperamento e alla fantasia di ognuno di noi si può svariare da un paio di giornate in totale solitudine, per caricarsi di energia positiva o per scarica-

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re e dimenticare esperienze spiacevoli, si può andare con i pensieri ad un torbido intervallo di tempo per ingegnare una vendetta o più prosaicamente si vola più lontano, sognando l’arrivo di lei e l’inizio di un weekend passionale, una fuga d’amore segreta, aspettata da anni, forse da sempre, uno di quei momenti che ti rovesciano la vita. Il relais si presta a favole e incontri proibiti, a compleanni e anniversari, intimi oppure per dei gruppi di persone che possano arrivare ad una quindicina, per nascondersi o per rilassarsi, per perdersi o per ritrovarsi. E’ il momento ideale dell’anno per scoprirlo e per riempirsi di benessere, perché oltre alle stanze deliziose c’è anche l’angolo benessere, mentre per gli amanti delle attività sportive ci sono i percorsi in bici, mentre per chi vive di emozioni gourmet sono cinque gli itinerari enogastronomici certificati per conoscere i prodotti tipici legati al territorio: la Strada del Prosecco e Vini dei Colli Conegliano Valdobbiadene, la Strada dei Vini del Piave, Strada del Radicchio Rosso di Treviso e Variegato di Castelfranco, Strada del Vino del Montello e colli Asolani e strada dell’Asparago. Life is now, suona lo slogan della nostra rivista. Prendetelo alla lettera.



Darya Antropova Sognando Ibiza

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er una modella, vivere fra Germania e Austria può sembrare alquanto inconsueto. Ci siamo abituati a vederle tutte qui da noi, o al massimo sentire che fanno la spola con New York e Parigi. Per quanto il paese teutonico abbia “creato” Claudia e Heidi, non riusciamo a vederlo come una meta modaiola. Per fortuna a Darya interessa poco l’attività delle altre e ancor meno la nostra opinione: ha fatto una scelta diversa, optando per un mondo meno festaiolo ma

forse più concreto. A conti fatti è stata lungimirante, perché lavora in un mercato meno isterico e con meno concorrenza. Conoscendola, ti rendi conto che la qualità della vita è la sua priorità assoluta, non a caso ripete spesso che il suo traguardo è avere una vita interessante e di averla ogni giorno, per sempre. Nata a cresciuta a Mosca, ha sempre voluto fare la modella, così che a undici anni è stata accontentata. Aveva 11 anni, poi assieme alla madre si sono trasferite in Germania.

Innamorata dai vestiti di Tom Ford, Balmain e Dior, dal film Gia con Angelina Jolie, vorrebbe lavorare con Terry Richardson: “Ci vado pazza per i suoi scatti”, racconta. Non ha un idolo fra le modelle però apprezza molto Rosie Huntington-Wisley. Potesse scegliere vivrebbe fra il sud della Francia e Ibizia, dove fra l’altro passa interamente le sue vacanze estive. Il suo motto? “Meglio essere dispiaciuta per cose che ho fatto piuttosto che non averle fate”.

North Sails Back to the origins

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itorno al sailing e alle origini per North nella collezione Sails Spring Summer 2015, un ritorno all’essenzialità con le nuance cromatiche iper colorate delle stagioni passate che lasciano spazio ad una proposta di colori legata al tradizionale abbigliamento velico, da crociera e da diporto. Torna il nero che, insieme al bianco e alle gradazioni di blu royal, cobalto, ceruleo e blu navy donano alla collezione una connotazione contemporanea.

Il bollo North Sails è stato rigenerato secondo questo nuovo concetto di linearità: non più un patch applicato ma un elemento grafico spalmato lucido su opaco. Immancabile la bandiera Stars and Stripes, consueto richiamo alle origini americane del brand rivista e corretta secondo la nuova concezione cromatica. Anche le grafiche appaiono più sobrie, tono su tono o a contrasto lucido ed opaco mentre i wording sono più puliti ed eleganti.

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Una nuova tecnicità è data dai dettagli: bottoni gommati, nastrature esterne e zip waterproof si fanno elemento decorativo e tecnico insieme. I capispalla North Sails Spring Summer 2015 sono tecnici grazie all’utilizzo di membrane in nylon accoppiate a una rete come nella New Sailor Jacket. Peculiarità il colour block nei capispalla. Leggerissimi gli imbottiti modello in microripstop con nastrature a contrasto cromatico. Must have il modello Rainbow in blu degradè.


Nate con la camicia Sciuscert

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asseggiando virtualmente tra le vie del web, il nostro sguardo cade, quasi magneticamente attratto, da queste creature artistiche. Una sola foto ci incuriosisce ma non ci appaga. Apriamo quello strano “profilo”: vogliamo saperne di più. Come spettatori di uno zoo popolato solamente da organismi transgenici, scrutiamo ogni foto con le sopracciglia corrucciate, gli occhi sgranati ed un sorriso sul volto. Tra tutte le stranezze esistenti nel fashion system, sicuramente queste superano ogni confine creativo. “Sciuscert”: il nome subito ci riporta alla mente la scarpa (shoe) e la camicia (shirt). Shoe or Shirt? Scarpa o Camicia? Il nostro pensiero comune è univoco: l’incontro della scarpa e della camicia è davvero esplosivo! In una parola: Sciuscert. Da un’idea del designer fiorentino Stefano Cattan,

le scarpe-camicia sono la massima espressione della spontaneità, creatività ed originalità: le tre doti che contraddistinguono l’arte e il design Made in Italy. In un mondo dove l’unicità lascia spazio alla clonazione, dove l’attenzione verso il particolare viene sopraffatta dalla fretta della produzione di massa, le Sciuscert rappresentano quell’identità italiana che non vuole essere perduta, che grida, che lotta contro tutti. Completamente prodotta in Italia con materiali di alta qualità, ogni scarpa Sciuscert è prodotta con tessuti in cotone doppi ritorti, bottoni in madreperla, suoletta ed interno in vera pelle, e punta in pelle cucita con effetto vulcanizzato. Ogni paio di calzature è poi accompagnato da una targhetta old style di istruzioni del lavaggio...col pensiero torniamo indietro alla nostra infanzia. La banalità, l’approssimazione e la consuetudine non sono quindi di casa per queste scarpe così di tendenza ma al tempo stesso così radicalmente attaccate all’anti-

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ca tradizione del “far bene”. Sciuscert è una sola scarpa (o una sola camicia?) ma è per tutta la famiglia. La donna Sciuscert è una donna dinamica, impegnata, decisa e socievole. Sempre attenta ai dettagli, si divide tra famiglia e lavoro in comodità ma senza mai dimenticare lo stile. L’uomo Sciuscert è un passo avanti, alternativo nei modi e nel pensiero, osservato, scrutato, fotografato. I figli Sciuscert sono i ragazzi di oggi, quelli che si intrattengono coi “social” o alla Play Station, ma che alla sera leggono un buon libro, e che alle classiche tinte nere, bianche o blu delle Sciuscert dei genitori, preferiscono le edizioni dedicate a Karl Lagerfeld o a Terry Richardson. Il design è registrato nei più importanti paesi del mondo. Ancora una volta, la qualità ed il design italiano spiccano senza rivali. Sciuscert:ne sentiremo parlare.





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