GOOD LIFE

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Foto: Monica Cordiviola

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Eugenio Boer Il sognatore pragmatico No 1


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Marisol Dalle

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IL GIORNALE DEL VIAGGIATORE, articoli curati da studiosi, giornalisti e scrittori, su temi di attualità e di interesse storico, geografico, etnografico e naturalistico, corredati da spunti per viaggi e vacanze.


Editoriale Intrigo sentimentale

S

ono passati due anni da quel giorno di inizio agosto. Lei era così bella, impossibile raccontarla. In quel momento magico e forse irripetibile ho avuto un flash, mi sono reso conto che in tanti stavano sostituendo il weekend romantico con le cene stellate fuori città. Certo, ideale sarebbe combinare le due, il weekend e la magia degli chef, in tanti lo fanno, io per primo (La Madernassa, vicino ad Alba, è uno dei preferiti, anche perché lì cucina Michelangelo Mammoliti, una stella che presto diventeranno due). Però anche una semplice uscita in un ristorante stellato ha ormai un profumo particolare, molto più di un fine settimana in montagna, oppure al mare. Ebbrezza di alta cucina e intrigo sentimentale, il massimo. A guardar bene, cosa può essere più intenso di un piatto che sussurra segreti e richiede lumi di candele mentre le labbra si avvicinano piene di fuoco? Viviamo quasi ossessionati da un instancabile appetito di sensazioni, di piatti che sprigionino seduzione e che possano pungolare il desiderio amoroso. Amore e appetito sono i grandi motori della vita, lo si sa. E poi, si va con tante aspettative, spesso i preparativi e l’attesa di partire superano la cena, la serata stessa. Ci sono tante coppie che vivono per emozionarsi. I ristoranti, oggi, sono quasi creati per loro. Per chi cerca dei momenti che possano valere una vita. Per chi sogna e insegue l’attimo perfetto, i vertigini di piacere, la

passione totale, l’ebbrezza misteriosa, le promesse sussurrate, i brividi leggeri, le scintille di piacere. Per chi cerca la poesia della vita e per chi la cena a lume di candele ha ancora un significato particolare, dove si è tormentati dai suoi occhi umidi e scuri e dalla pelle che brilla come il raso, per chi ama le deliziose sensazioni mescolate a dei piatti prelibati, indecenti e golosi, succulenti e inebrianti, saporiti come un bacio. Per chi immagina la sua bocca socchiusa e soffice, le labbra come un mango maturo, per tutti loro gli chef, consapevoli che non si possa separare il cibo dall’erotismo, hanno cercato di creare dei piatti misteriosi, eleganti e avvolgenti, dove la prima forchettata è un colpo al cuore e ti apre dei territori sconosciuti. Lo chef che ti colora la vita, il sorriso della donna dei sogni. Che la cena abbia inizio.

No 2

“Torneresti qui?”. “Si, mille volte”.


Ci sono voluti milioni di anni

a f f i n c h ĂŠ s i f o r m a s s e r o i t e r r e n i g e s s o s i da l c a r at t e r i s t i c o c o lo r e

b i a n c o d e l l e v i g n e d e l c r i s ta l . d u e s e c o l i s a r e b b e r o s tat i s u f f i c i e n t i p e r c r e a r e u n a t e n u ta e s c l u s i va d i v i g n e d i l u n g a t r a d i z i o n e . p e r p r e s e r va r n e , m i l l e s i m o d o p o m i l l e s i m o, u n o s t i l e i n c o n f o n d i b i l e . L a d i f f ĂŠ r e n c e c r i s ta L .

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Good

Food is art 20-21

Modestino Tozzi

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Michelangelo Mammoliti Avete presente il nuovo profumo di

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Eugenio Boer Se è vero che il cibo ci aiuta a capire le persone, allora

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Wicky Priyan

Tom Ford, Fucking Fabulous? Ecco, è quello che possiamo dire di Michelangelo: fucking fabulous.

i piatti di Eugenio ci raccontano uno chef geniale, cosmopolita e colto, con una personalità robusta.

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Lido Vannucchi

S e ti siedi al banco, davanti a lui, provi un vero assalto di sensazioni che raramente hai vissuto prima: lo guardi con occhi pieni di sorpresa e meraviglia perché stai assaggiando dei sapori unici al mondo. onsiderarlo solo un fotografo sarebbe quasi un’offesa, C perché l’uomo è una enciclopedia. Sa tutto, e bene, su chef e ristoranti, ricette e metodi. E’ l’erede di Bob Noto. No 4


il benessere delle muCChe è fondamentale,

p e r c h é da e s s o d i p e n d e l a q ua l i tà d e l lo r o s t e r c o.

r i p o s to i n c o r n a c h e v e n g o n o s ot t e r r at e d u r a n t e i l p e r i o d o i n v e r n a l e , i n p r i m av e r a v i e n e e s t r at to e c o s pa r s o s u l t e r r e n o d e l l a v i g n a , f e r t i l i z z a n d o l a p e r da r e v i ta a v e r i e p r o p r i c a p o l av o r i . L a d i f f é r e n c e c r i s ta L .


Simone Ceppaglia Chef sette stelle

“V

ado ad Amsterdam per qualche giorno. Assieme a mia moglie facciamo il giro dei ristoranti più interessanti: vado da Moshik Roth, poi vorrei andare al Pekelhaaring, Terpentijn, De Librije e Baak, quest’ultimo in grande voga per via delle fermentazioni che propone. Mi devo aggiornare, la mia clientela esige e vuole sognare ”. Pugliese, non più giovanissimo, dieci anni passati nel meraviglioso mondo del Four Seasons milanese alla corte di Sergio Mei, ha colto al volo quella che potrebbe essere l’occasione della vita: essere l’executive chef dell’Ottagono, il ristorante con la vista più bella della città. Difatti lo si trova nel salotto dei milanesi, Galleria Vittorio Emanuele, all’interno dell’hotel Seven Stars, il primo sette italiano, opera di Alessandro Rosso. Una cartolina d’altri tempi per gente danarosa e dal gusto sicuro: guardate la pagina accanto. Arde in lui la voglia di soddisfare la colta clientela dell’albergo Seven Stars, perché il loro parere vale doppio: ieri hanno soggiornato al Ritz, l’altro ieri al Mandarin e normalmente cenano nei ristoranti più in voga del momento. Conquistare e accontentare loro è impresa ardua quanto gratificante.

Mano decisa e profumi nitidi, sapori pieni, rotondi, ricchi, di evidente matrice pugliese ma non solo, perché l’allure internazionale dell’albergo ti impone di avere nel menù anche alcuni piatti facilmente riconoscibili ovunque, come la cotoletta, risotti e simili. “Qui devi eccellere perfino nel preparare cous cous e humus, la gente te lo chiede e non puoi deluderla. Anche perché qui all’Ottagono, in Galleria, nel cuore di Milano, rappresento l’Italia”, ci dice con aria timida e fiera. “La mia cucina è semplice, territoriale, pulita”, inizia a raccontarsi. Partiamo dai piatti che più la rappresentano. Ne scelgo tre: la tartare di manzo con crema di mozzarella di bufala e tartufo estivo, poi il calamaro scottato con salsa piccante e purea di melanzane, un piatto mediterraneo al cento per cento. Il terzo è molto pugliese, ovvero risotto con peperone crusco, stracciatella, pesto di rucola e riduzione di primitivo di Gioia di Colle, mio paese nativo. Cos’altro troviamo di intrigante, all’Ottagono? Il servizio. La vista, che pare un dipinto in movimento. L’abbinamento formidabile fra il pane fatto in casa e l’olio Franci. Potrei continuare per ore. Rewind. Facciamo un passo indietro, anzi, due e torniamo al suo periodo al Four Seasons. Arrivai a 23 anni, rimasi fulminato dall’organizzazione. Lì ho imparato la standardizzazione di un piatto, la codificazione delle ricette, è tutto studiato nei minimi dettagli. Un esempio? Quando un cliente tornava, ci arrivava una mail con i piatti che aveva ordinata la volta prima. Poi se ne é andato da Oliver Glowig. Un gigante che osa unire la cucina napoletana con quella francese. Il suo modo di cuocere le carni è semplicemente straordinario. Le piace andare a curiosare nei ristoranti dei più acclamati e stellati? Due volte l’anno vado da Robuchon, all’Atelier. Impazzisco per la sua capasanta scottata con tartufo e per la sfera di cioccolato. Sempre due volte da Alain Ducasse, a Parigi. Da Bocusse, pure. Non puoi fare il cuoco senza ripassare i grandi classici. Continuando la lista, da Perbellini sarò stato una trentina di volte, geniale. Vissani mi è rimasto nel cuore dopo una sua collaborazione al Four Seasons, da quel momento l’ho inserito nell’albo dei giganti. Mi sarebbe piaciuto tornare pure da Adrià, peccato abbia chiuso. Il miglior complimento che le hanno fatto, qui all’Ottagono? Nella notte di Capodanno Mario Biondi è salito in cucina per conoscermi e ringraziarmi.

Nella notte di Capodanno Mario Biondi é salito in cucina per conoscermi e ringraziarmi No 6


l a luna è CresCente. domani sarÀ il Giorno dell a Potatura.

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l a vluna domani ilo n Giorno at ePotatura. l um nia cr re e spceern tlea, la i g n a È èp iCresCente. ù forte. invece p e r d e vsarÀ igore c l a l u n a dell cal an . p e r c a p i r e qi lu a mnodmoe l nat o g lÈi o la v i gunraa È f oo rsts ee . ri n ve p elr go efc a el u a lLa. n t e . p e r c a p i r e i l m o m e n t o m i g l i o r e p e r p o tat , bpai ù s ta va rc e el a ud nea . v L ia dri f éo rn e nl c cnrai scta p o tat u r a , b a s ta o s s e r va r e l a l u n a . L a d i f f é r e n c e c r i s ta L .

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Ottagono The club Offre la vista più bella della città, è un salotto nel salotto, in più ci sono quei dettagli che fanno tutta la differenza del mondo

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iak, si gira. Immaginate una scena di un film hollywoodiano sul mondo dell’alta finanza. Gente vincente, che si veste in maniera impeccabile, camicie cu misura e giacca sartoriale, orologi preziosi e macchine di gran classe (Aston Martin e Bentley, giusto per far due nomi). Si incontrano in un luogo austero ed elegante, al riparo da occhi indiscreti, stampa e altro. Un ristorante con saletta privata è assai rischioso, la hall di un albergo anche. Dove possono parlare senza essere disturbati? In un club. A Milano esiste uno soltanto, l’Ottagono, che è poi un ristorante a tutti gli effetti, con la particolarità di trovarsi al primo piano e per di più all’interno di un albergo, e che albergo: l’unico sette stelle meneghino, il Seven Stars. Centralissimo che più centrale non si può, nella Galleria Vittorio Emanuele. Si danno appuntamento qui, attraversano la lobby un po’ in stile coloniale e si siedono al tavolo in fondo. Fine della scena, inizio degli affari. Film americani oppure no, è sempre stato affascinante il mondo dei club pieni di mobili pregiati, poltrone in pelle scura e tavoli massicci. Lobbysti, capitalisti, banchieri, broker, avvocati: un misto perfetto di potere e fascino, eleganza e tenacia. Sprizzano bellezza e ricchezza, c’è profumo di sigari pregiati e rari cognac, piatti eleganti e tutto il resto. Ne trovi a Londra e New York e perfino a Jakarta, a due passi dalla Borsa, al sesto piano del Ritz Carlton, dove si arriva solo se invitati: in caso contrario, il sesto piano non esiste, l’ascensore non si ferma. Quando le porte si aprono, rimani di stucco: decine di miliardari che decidono le sorti del mondo, fra acquisizioni e affari vari. Tutto il gotha asiatico lo si trova lì, in quel salotto ovattato. Ti tremano i polsi per l’eccitazione, inutile negarlo. Però manca qualcosa: il tocco di gran classe, l’eleganza tipicamente italiana, il calore, i colori, la raffinatezza. Certo é un posto da dieci e lode, perfetto, pulitissimo, nulla da eccepire: manca la magia. L’Ottagono, in Galleria Vittorio Emanuele, ce l’ha. Eccome, se ce l’ha.

Offre la vista più bella della città, è un salotto nel salotto, in più ci sono quei dettagli che fanno tutta la differenza del mondo: le sedie di B&B, le posate di Christofle, le fermatovaglie di Angelo Inglese, realizzate a mano. Aziende leader nel loro settore, inutile ricordarlo: d’altronde in un posto del genere non si potrebbe far altrimenti, la gente esige il massimo e se non sei in grado di offrirlo, vieni bocciato. E poi il servizio, cinque stelle con fiocchi, anche se l’albergo ne vanta addirittura sette: grandioso e felpato. E’ un posto da Enrico Cuccia, pensavamo qualche tempo addietro: sarà un caso, però pochi giorni dopo incontrammo Giovanni Bazoli. Chissà cosa avrà tramato.

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è dur ante il sonno dell a natur a Che tut to si realizz a. è dur ante il sonno dell a natur a Che tut to si realizz a.

in inverno l a vigna si riposa.

in inverno l a vigna si riposa. i r e s p o n s a b i l i d e l l e c a n t i n e e d i l o r o c o l l a b o r at o r i n o n s i s ta n c a n o m a i d i a s s a g g i a r e i v i n i d i b a s e i r e s p o n s a b i l i d e l l e c a n t i n e e d i l o r o c o l l a b o r at o r i n o n s i s ta n c a n o m a i d i a s s a g g i a r e i v i n i d i b a s e o t t e n u t i d a g l i a p p e z z a m e n t i d e d i c at i a l c r i s ta l . s e l’a n n ata s i d i m o s t r a a l l’a lt e z z a , i i v i n i d i b a s e p i ù o t t e n u t i d a g l i a p p e z z a m e n t i d e d i c at i a l c r i s ta l . s e l’a n n ata s i d i m o s t r a a l l’a lt e z z a , i i v i n i d i b a s e p i ù p r e g i at i e n t r e r a n n o a f a r pa r t e d e l l a s u a c o m p o s i z i o n e . L a d i f f é r e n c e c r i s ta L . p r e g i at i e n t r e r a n n o a f a r pa r t e d e l l a s u a c o m p o s i z i o n e . L a d i f f é r e n c e c r i s ta L .


Michelangelo Mammoliti Fucking fabulous Enrico Crippa é stato il primo ad avermi chiamato, una volta uscita la guida Michelin

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commessa assai azzardata, ma solo in parte: da qui a breve, facciamo cinque anni, Michelangelo Mammoliti avrà sul petto la sua seconda stella Michelin. “Ne voglio tre, a dire il vero”, ci dice con una determinazione quasi feroce. “Io vivo ogni giorno come se fossi un tristellato. Ai miei in cucina però dico di lavorare come se non avessimo preso nemmeno una”. Lo chef, ex executive di Allenò, ha quella febbre negli occhi che parla chiaro, senza possibilità alcuna di trovarti dalla parte dell’errore: in più, a vederlo come esce dalla cucina per assicurarsi che tutto procede per il verso giusto, come cammina spedito e deciso, hai quasi la certezza che la scommessa andrà a buon fine. No, non scriviamo sull’onda dell’entusiasmo che spesso capita quando ti sei appena alzato dal tavolo di uno chef. Non si tratta nemmeno del giorno seguente, quando ti svegli ricordando ogni morso, bocconcino e forchetta assaggiata: è passato più di un mese dalla nostra ultima visita a La Madernassa, il resort che include il ristorante neo stellato, due passi da Alba, a Guarene. Michelangelo è un misto di tenacia selvaggia e ferocia che da una parte mette paura (ai suoi, in cucina) e dall’altra impone rispetto. “Sono in anticipo sui tempi: mi ero prefissato di conquistare la prima stella entro il mio 32imo compleanno, ci sono riuscito con un anno di anticipo”. Crea dei piatti divini, potenti, carichi di amore e tecnica, controlla tutto in maniera ossessiva, ha la grinta di un gladiatore, nonostante un fisico longilineo, quasi da levriero. E’ un gigante, dovete vederlo come sforna delle mini baguette al momento dell’ordinazione dei piatti, forse nessun’altro al mondo lo fa ( e se sì, lo sono in pochi). Avete presente il nuovo profumo di Tom Ford, Fucking Fabulous? Ecco, è quello che possiamo dire di Michelangelo: fucking fabulous. “Sono anni che lavoro come un indemoniato pur di conquistare la stella, ho dedicato quasi tutta la mia vita, non intendo mollare di un centimetro. Come dice quella frase? Se fai le cose falle in grande”, racconta mentre ti invita ad ammirare il suo orto ( va detto che è davvero notevole, riesce a soddisfare per intero il fabbisogno

del ristorante, ci sono almeno cento fra fiori, erbe e verdure). La Madernassa pare la casa sua da una vita: i proprietari lo seguono e lo accontentano, la simbiosi fra di loro è pressoché totale. E’ arrivato qui qualcosa come 18 mesi fa, dopo aver girovagato per il mondo, con tappa prolungata nella cucina di Yannich Allenò. “Non sono uno che sogna un mega ristorante a Londra oppure a Parigi, a me piace la campagna, resterei qui per sempre”, sentenzia. E’ disciplinato, diretto, concreto, poi ad un tratto irrompe con frasi romantiche verso la sua compagna: la sposerebbe oggi stesso. Dialogare con lui è un piacere, è un maschio alpha, niente parole inutili, niente indecisioni: ce ne fossero come lui. -1 5 novembre 2016, Parma: la tua prima stella. - Non sapevo il motivo della “convocazione”, non avevo alcun sentore di stella. Immaginavo volessero darmi uno dei tanti premi: lo chef emergente, miglior ristorante per il rapporto qualità-prezzo, qualcosa del genere. Poi mi trovo lì assieme a Felix lo Basso, Enrico Bartolini e Luigi Taglienti, pure loro fra i premiati visto che avevano cambiato, oppure aperto nuovi ristoranti. Come mi sentivo? Invincibile. Però io ne voglio tre, di stelle. Il mio nonno, ristoratore, me lo diceva fin dagli inizi: se la vita da cuoco ti priverà di tante cose, allora vale la pena farlo ai massimi livelli. Tornando con i piedi per terra, penso che se uno chef prende la stella vuol dire che ha raggiunto la maturità. - Cos’è cambiato, dopo l’assegnazione della stella e l’uscita della guida? - La clientela è cambiata: certo, ci sono gli abituali, ma vedo sempre gente nuova, d’altronde la guida ti porta gourmet da tutto il mondo. In più, oggi una cena non vuol dire solo mangiare, bensì un modo di vivere, di scoprire nuove realtà, posti nascosti, lontani. Michelin fa viaggiare le persone e le fa arrivare ovunque, Guarene compreso. -D ovessi scegliere una materia prima, su cosa si soffermeresti? - Impazzisco per il mondo vegetale, perché è vivo: le verdure cambiano durante il giorno. - S ei un grande fan dell’orto.

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- Avere l’orto è cool, è chic. Seleziono i semi, poi seguo tutto, solo chi ce l’ha può capirmi. - L’orto, la campagna, la compagna: resterai qui a lungo, a quanto pare. - Fra dieci anni mi vedo sempre qui, è il mio ambiente ideale: io sono un ragazzo di campagna. - Cosa fai nel poco tempo libero? - Lo dedico interamente alla mia fidanzata. E poi, se voglio passare un bel momento vado da Enrico Crippa: è una persona squisita, oltre a essere geniale. In più, ha un orto da favola. Per la cronaca, è stato il primo ad avermi chiamato, una volta uscita la guida Michelin. Subito dopo mi hanno mandato un messaggio Scabin e Cannavacciolo: non ci potevo credere. - Ogni chef ha una personale classifica dei piatti. La tua? - L’omaggio a Kandinski, lo metto alla pari del cubix con l’anguilla. Però il piatto che più mi rappresenta è lo spaghetto al barbecue. - Dopo anni da Allenò, quali sono secondo te le differenze fra l’alta cucina francese e quella Italiana? - Da loro c’è più tecnica, qui c’è più creatività. Se unisci le due scuole, fai il botto. - Qui a La Madernassa dove pensi di dover ancora mettere le mani, per renderlo meritevole della seconda stella? - Penso di poter e di dover migliorare la coesione fra sala e cucina: se non arriva il messaggio giusto al cliente, forse la colpa è mia. Comunque il morale delle truppe è alto, c’è tanta consapevolezza. - Giri poco ultimamente, però qualcosa di intrigante e straordinario avrai assaggiato. - La zuppetta di Stefano Baiocco, la crema di cavolfiore di Robuchon, la Gargouillou di Michel Bras. - Fra non molto, pure altri chef parleranno di lui come di Bras e Robuchon, magari raccontando il suo spaghetto con acqua di scampi, olio di limone e scampi. E’ un piatto maschio, carico, esplosivo. - Scommettiamo?

Fra dieci anni mi vedo sempre qui, é il mio ambiente ideale: io sono un ragazzo di campagna

spaghetto cotto a un’estrazione di acqua di scampi, insalate marine e plancton

Omaggio a Kandinski

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Foto: Monica CORDIVIOLA

Eugenio Boer Il sognatore pragmatico

I

sabel Allende scriveva che gli antipasti sono come i baci per gli innamorati, una discreta anticipazione di quello che arriverà più tardi, quando si sarà entrati in confidenza. Da Essenza è proprio così, un continuo crescendo, assaggi la prima diavoleria e sai già che passerai una serata formidabile. Non trovi mai un tavolo, d’altronde le voci girano e la Milano gourmet lo ha già messo sul piedestallo, includendolo fra i migliori dieci ristoranti della città. Non incontrerai una sola persona delusa, nel regno di Eugenio Boer: sarebbe folle il contrario. Alcuni suoi piatti sono potenti e primitivi, altri incendiano i sensi, altri ancora sono delle insinuazioni, quasi dei giochi erotici. Se è vero che il cibo ci aiuta a capire le persone, allora i piatti di Eugenio ci raccontano uno chef geniale, cosmopolita e colto, con una personalità robusta. Vai da lui e vivi momenti di piacere assoluto e profondo, assaggiando tutto con gesti lenti e sognanti, per poi uscire con il corpo straripante di gioia. La sua cucina lascia trasparire un’istintiva consapevolezza delle potenzialità di ciascun ingrediente utilizzato: sembra banale, non lo é. I piatti sono scenici, peccaminosi e tenebrosi, hanno ritmo, nerbo, potenza, impediscono la conversazione, i sapori sono pieni, ampi,

travolgenti, la sua cucina trabocca di idee, è insieme potente e seducente, passionale e pittorica. Una cucina narrativa, quasi letteraria. Inizi ad assaggiare e non ricordi nemmeno di quante pietanze te ne innamori contemporaneamente. Solo a guardare alcune sue creazioni ci si sente invasi dal desiderio: prendiamo il riso alle lumache con ribes e un fondo nero sbalorditivo, fatto con acciughe, scalogno e tartufo nero. Piatto assolutamente perfetto, totale, afrodisiaco, saporito come un bacio, che richiede lumi di candela. Schiude territori sconosciuti, è un’esperienza esplosiva: scopri, incontri gusti e contrasti strepitosi, ti lascia senza parole, lo guardi e lo ammiri con occhi pieni di sorpresa e di meraviglia, il tutto filtrato dalla sua mano tecnica e internazionale. E’ un piatto che ricorda tutto e assomiglia a niente, ti sembra di assorbire gli odori con la pelle, va annusato in modo profondo, ampiamente, la prima forchettata è un’emozione violenta. Poi il tortello di foie gras e faraona in triplo consommé: è come una carezza di Dio sulla guancia. Il sorbetto alle more ti offusca la mente, è un eco, un ricordo di bosco, il colore pare quello del sangue infuocato. Perfino il sangue più freddo si sarebbe riscaldato al suo tocco.

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Se i piatti sono energia pura, nei suoi racconti Eugenio diventa quasi melodico. - L’ultima volta che ci siamo sentiti lei definiva la propria cucina “di ricordo e neoclassica”. Sono passati due anni, è cambiato qualcosa? - No, semmai posso aggiungere che i ricordi non sono solo i miei, bensì anche di altre persone che incontro. - Sintetizzando, come vanno le cose all’Essenza? - Siamo pieni quasi ogni sera. Il processo evolutivo continua, abbiamo impostato un certo modo di accogliere le persone, di intrattenerle. Per semplificare, io faccio il cuoco, Damian il cameriere, Essenza è un ristorante. Tutto in modo rilassato e rilassante: la gente viene e si sente bene, torna, sorride, si diverte. Giorni fa è arrivato un ragazzo dal Singapore: prima di lasciarci ha voluto prenotare per la prossima volta che si troverà a Milano. Stiamo fidelizzando la clientela, spesso ci dicono di essere stati meglio della volta precedente, in più vediamo che arrivano sempre più stranieri. - Una situazione idilliaca. - Perché non dovrebbe essere? Mi sveglio convinto che qualcosa di buono inventerò in cucina. Poi arrivo al ristorante, mi metto a studiare e a creare: quando vedo il cliente felice, mi sento al settimo cielo. - E’ sempre piaciuto il suo modo cosmopolita di intendere la cucina. - E’ un po’ per via delle mie origini (è metà olandese, metà ligure, ndr), un po’ perché noi, gli chef, siamo come delle spugne, immagazziniamo tutto e al momento giusto tiriamo fuori la combinazione che ti spiazza. - Ci suggerisca alcuni ristoranti che ha scoperto di recente e che ne vale la pena frequentare. - Cum Quibus a San Gimignano, dove Alberto Sparacino sta davvero innescando la quinta. Lo conosco dai tempi di Arnolfo, dove abbiamo lavorato insieme: propone una cucina classica di alto livello. Poi Dandelion Lapalud, a Courmayeur: i due giovani chef, Filippo Oggioni e Marcello Gado: fanno cucina di montagna, propositiva. Bravissimi. - Riesce a fare un salto anche dai più grandi? - Giro sempre, mi piace andare a vedere cosa cucinano i migliori. Di recente sono tornato da Enrico Crippa, é straordinario: il suo antipasto all' italiana é un piatto sensazionale. Voto altissimo anche per il direttore Vincenzo Donatello. Mi ha impressionato anche la cucina molto personale di Riccardo Camanini, lo chef di Lido 84. - Bottura rimane il migliore? - Si, lui è un vulcano, riesce a trasmettere una forza pazzesca e poi mi impressiona la semplicità dei gesti, la naturalezza del personale. Parlando dei piatti, il suo germano reale dell’Appennino tosco-emiliano è strepitoso: la tecnica è perfetta, la royale di lepre pare classica e invece è completamente diversa. - Milano vive un periodo straordinario, è d’accordo? - Ci vogliono ancor più ristoranti stellati. Il momento è meraviglioso, ma una metropoli come Milano deve andare avanti. Vedo in giro tanta concretezza, i piatti sono proprio buoni, si torna al concetto di piacevolezza, al senso del mangiar bene: meno fumo, tanta sostanza. - Si dice sempre più spesso che alcuni ristoranti stellati stiano allontanando la clientela per via di quell’atteggiamento snob, borioso, rigido. Cosa ne pensa? - E’ un retaggio del passato. Certi canoni vanno rispettati, per il resto penso che in giro ci siano sempre meno ristoranti ingessati. Il motivo è semplice, sta cambiando la clientela, di conseguenza ti devi adattare. E poi diciamolo, la personalità del ristorante esce fuori comunque, rigido o non rigido. - Il ristorante rispecchia la personalità dello chef? - Ovviamente sì. - Lei come si definirebbe? - Un sognatore pragmatico.

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La bavarese

Di recente sono tornato da Enrico Crippa, é straordinario: il suo antipasto all’italiana é un piatto sensazionale Sorbetto alle more


Alcuni suoi piatti sono potenti e primitivi, altri incendiano i sensi, altri ancora sono delle insinuazioni, quasi dei giochi erotici

Ravioli di seppia e cozze

Eugenio assieme al sommelier Damian Piotr

Foto: Monica CORDIVIOLA

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Lume L’orto di Luigi

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eggerezza. Quando si va al ristorante si cerca soprattutto questo. Quell’atmosfera sognante, frizzante e rilassante. Due, tre ore che ti allontanano dalla vita quotidiana e che ti regalano la felicità immediata. Poi, ovviamente, speri che lo chef ti colori la vita. Luigi Taglienti lo fa, addirittura meglio di prima. Ha trovato la serenità, la piena maturità, si vede che si diverte e che riesce a esprimere e sprigionare tutto il suo talento, è anche più spontaneo nei gesti. Lume è il suo mondo ideale, la sua vetrina privilegiata, questo è evidente: l’orto è farina del suo sacco, altro fatto innegabile, perché i limoni che trovi su ogni tavolo all’esterno sono il suo marchio di fabbrica, il suo dna ligure. La nuova saletta all’esterno è una piccola genialata, ti pare di essere in un albergo romantico fuori città, quei spazi sconfinati che ti permettono di allestire un giardino esterno con vista mare, lago, montagna oppure in collina. Un rettangolo di 160 metri quadri di superficie, una struttura total white a forma di voliera, sanpietrini e decorazioni stile Liberty, poi la “gabbia” usata come contenitore: complimenti all’architetto Monica Melotti, la stessa che aveva disegnato il ristorante vero e proprio, aperto un’anno e mezzo fa. “Ho voluto far rivivere in un distretto metropolitano periferico quei pranzi e cene che nel passato di molti italiani si svolgevano nel tradizionale cortile di casa della nonna. Molti degli elementi che ho

Scampi liguri scottati alla planci

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C’è un concetto chiaro, un fil rouge, un’idea di cucina riconoscibile, ovvero l’aspetto più difficile per uno chef scelto ricordano esattamente questo ma sono stati reinterpretati, come i vasi tipicamente color terracotta qui dipinti di bianco, un giardino con piante e la voliera ottocentesca”. Ti siedi e ti pare di essere ovunque tranne che a Milano, la distanza fra i tavoli è notevole, la vista dell’orto a due passi regala e trasmette serenità. E poi, ovviamente, ci sono i piatti di Luigi, con quella favolosa costante del profumo di agrumi presente in ognuno di loro. Taglienti ha una mano salda e delicata, sicura e gentile, propone una cucina in continua evoluzione, cromatica e creativa, ha una personalità ben delineata. Agrumi e acidità, altro suo capo saldo che lo si incontra ovunque, dal risotto al suo classico bianco e nero di seppia, piatto sensuale al massimo, panna cotta di ricci di mare e sfoglia di seppia frullata. C’è un concetto chiaro, un fil rouge, un’idea di cucina riconoscibile, ovvero l’aspetto più difficile per uno chef. Taglienti è uno studioso certosino e si vede: lampi di Escoffier, ricette antiche, tecnica pura. Evidente l’eleganza francese (Taglienti si considera da sempre un grande innamorato), così come le radici ligure (le foglie di limone, la sua passione) e il rispetto per la tradizione italiana. In una parola, Lume.

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Wicky Priyan Milano, I love you Il mio motto? Rispetto, disciplina, responsabilità e onestà

Foto: Fabio BOZZANI

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volte ti siedi al computer nella speranza che le parole ti piovessero addosso per magia. E invece no. Non accade. Per due motivi. Primo, Wicky è un universo a sé. Secondo, che tipo di iperbole, che tipo di frase e aggettivo puoi usare per raccontare i gusti ed i profumi da lui inventati? Perché lui inventa, oppure reinventa dei mondi. Qualche anno addietro, in un articolo parso sul New York Times, Ruth Reichl scrisse, a proposito di una cena tristellata: “Sento un fremito in tutto il corpo, come se prima fossi stata congelata e ora il ghiaccio si stesse sciogliendo”. Aggiungiamo: da Wicky esci illanguidito dal piacere. Cucina che ti stordisce, ti acceca, è intuitiva, folgorante, passionale al massimo, consistenze ed equilibri perfetti, tecniche antiche, presentazioni moderne, rischi ben calcolati. I suoi menù degustazione sono sentimentalismo puro. Omakase rasenta la perfezione: menu kaiseki, ovvero la vera cucina giapponese, contaminata da ingredienti mediterranei. Se ti siedi al banco, davanti a lui, provi un vero assalto di sensazioni che raramente hai vissuto prima: lo guardi con occhi pieni di

sorpresa e meraviglia perché stai assaggiando dei sapori unici al mondo. Chiudi gli occhi e respiri profondamente, assimilando le fragranze vigorose, le combinazioni e le contaminazioni ti avvolgono come una sinfonia, ti sembra di assorbire gli odori con la pelle. Spesso Wicky agisce grazie all’impulso dell’immaginazione, altrettanto spesso i suoi piatti sono il trionfo dell’estetica. Gli piace molto parlare della sua famiglia, inteso come lo staff del ristorante: di recente si è aggiunto un altro “parente”, Matteo Coltelli, sommelier gentile e competente. Ci stiamo dilungato, come sempre quando si tratta di lui, Kaiseki san. Ora spazio alle sue idee, riflessioni e sentenze. Se un giorno prenderò la stella, la dedicherò a mia madre. Sarà la prima persona che chiamerò. Ha 83 anni, mio padre invece ne ha 92 e continua a lavorare: è un medico, lo invitano ancora in tv, oppure a tenere delle lezioni all’università. Da piccolo volevo fare il poliziotto, per questo ho scelto di studiare criminologia: poi ho smesso, la mia vita era in cucina. Sono l’unico chef srilankese che non fa cucina del suo paese. Parte della brigata proviene dalla mia stessa terra, sono la mia famiglia:

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Se un giorno prenderò la stella, la dedicherò a mia madre. Sarà la prima persona che chiamerò è commovente guardare come si prendono cura di ogni prodotto, come tengono tutto in ordine, come puliscono il banco di lavoro. Ti puoi fidare di loro a occhi chiusi, sono leali e corretti. Nessun’altro ristorante osa contattarli per portarmeli via, sanno già che non mi lasceranno mai. Milano mi piace molto, è una città piccola: sono qui da undici anni e mi sento a casa. Le basi della cucina italiana sono tre: olio, pomodoro, latte. In Sri Lanka ce ne sono 47, in India 78. A proposito, il mio paese è uno pieno di spezie. Di recente ho aggiunto nel menù degustazione Omakase il piatto Bonsai, interamente vegano: melanzana perlina arrostita in padella, accompagnata da una crema di tofu e topinanbur. Lo abbinerei ad un Vermentino, oppure ad un Moscato bianco dell’Elba. Sono molto orgoglioso anche del piatto con i gamberi rossi di Mazara rigorosamente presi da Paolo Giacalone, foglia di Daikon, tartare di ventresca di tonno e caviale nero. Lo suggerisco abbinato ad un Krug Vintage del 2002. Super contento anche del foie gras di anatra francese marinata, abbinato al miele di Manakara e ad un bicchiere di vermouth bianco ambrato di Mancino. Il miele proviene dal Madagascar: è molto particolare, lo si trova solo lì, per via del microclima. La clientela mi chiede quasi sempre il Sushi cinque continenti: è in assoluto il piatto più desiderato, qui da me. Miglior piatto mangiato ultimamente? A casa di amici, a Modica. Caciocavallo fatto da loro accompagnato con una coppa di Dom Perignon. A proposito di champagne: ve ne suggerisco tre, che fra l’altro ho aggiunto anche nella mia carta: il Blanc des Blancs di Palmer&Co, poi l’Avizoise della maison Agrapart&Fils. I n Giappone c’è il miglior servizio in sala possibile: lo fanno davvero con il cuore, ci vuole la sensibilità giusta per un lavoro del genere. I migliori ristoranti giapponesi dove ho mangiato di recente? Wakunden, a Kyoto. Poi ovviamente quelli dei miei maestri, Sushi Kan e Kaneki Kan. In alcuni ristoranti c’è un problema con i sommelier: dovrebbero parlar meno. Il vino se è buono lo si capisce quando lo bevi, a certi livelli la gente è competente, non ha bisogno di troppe spiegazioni. Frequento assai spesso Carco Cracco e Andrea Berton: mi piace molto scambiare delle idee con loro, anche se quando ci vediamo mangiamo tanto e parliamo poco. Il mio motto? Rispetto, disciplina, responsabilità e onestà.

Foto: Fabio BOZZANI

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Modestino Tozzi Fantasie da bambino La pizza di Taverna Gourmet

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’ la scoperta dell’anno. In un mondo che ha perso il suo faro (Bob Noto), ogni fotografo che irrompe nel panorama gastronomico è una fortuna. Modestino Tozzi ha uno stile, assai riconoscibile: dettagli ben messi in evidenza, portate che diventano ancor più appetitose grazie ai suoi scatti. Guardi le sue fotografie e sei pronto per prendere le chiavi della macchina e partire, destinazione uno dei ristoranti del “delitto” fotografico. Pubblichiamo qui tre delle sue immagini, tanto per farvi un’idea sul suo modo di intendere la professione: pulizia totale, nitidezza assoluta, contrasti perfetti. La pizza di Taverna Gourmet la vorresti “azzannare”, mordere subito. Il risotto di Enrico Derflingher, anche. L’uovo di Gong invece lascia senza parole. Sono fotografie che ti fanno amare ancor di più l’alta cucina, gli ingredienti pregiati, le materie prime eccelse, le tecniche. “C’è un episodio particolare da cui è iniziato tutto”, ci racconta. “Ero in seconda media, a Matera, dove abitavo. Avevo un’insegnante di educazione artistica straordinaria che aveva la peculiarità di saper trasmettere un profondo amore verso la materia. Un giorno ci assegnò il compito di realizzare una riproduzione a tempera di un quadro; scelsi “I papaveri” di Monet. Terminato il quadro ebbi quasi la sensazione di un tuffo al cuore: stavo provando un’emozione che non conoscevo, era qualcosa di magico che stavo provando per un mio lavoro. Parliamo di ventisette anni fa, quando la professoressa ci faceva dipingere il cielo visto dallo stesso punto d’osservazione, alla stessa ora, tutti i giorni per una settimana intera” “Un giorno”, continua, “complice una lunga chiacchierata con mio papà sul tema macchine fotografiche, decido di passare al digitale e

acquisto una entry level. Zero costi di rullini, zero costi di sviluppo e stampa, il che significava massima libertà di sperimentazione, di qui la grande svolta. Mi sono fermato, ho iniziato ad ascoltarmi in profondità e in poco tempo avevo capito cosa volevo fare da grande: il fotografo. Volevo studiare tutto quello che potevo realizzare con la macchina fotografica. Ho iniziato a studiare tomi sulla composizione, le teorie dei colori, la prospettiva, ho divorato libri su libri da autodidatta. Non volevo fare un percorso formale per paura di sentirmi imbrigliato in schematismi didattici che non mi appartenevano. E come un matto ho iniziato letteralmente a vivere con la macchina fotografica in mano: fotografavo di tutto, in qualsiasi condizione, di giorno e di notte, era un bisogno impellente, incontenibile. Seguivo tutorial su internet di fotografi americani e inglesi. Avevo deciso di fare il fotografo e dovevo farlo al meglio e in questo anche la tecnologia dei media mi ha aiutato moltissimo”. Poi, il passaggio alla fotografia gastronomica. “La decisione di specializzarmi nel food è stata la logica conseguenza di quelle fantasie da bambino di cui parlavo prima. Adoro il buon cibo come esaltazione del piacere sensoriale ed esperienziale senza dimenticare le autenticità della tradizione. Quindi il secondo grosso passo è stato focalizzarmi su come si fotografa il cibo. E di nuovo libri su libri, tutorial, ma soprattutto tanta pratica; era giunto il momento di trovare il mio stile personale e riuscire a metterlo in pratica. A livello di formazione questa è stata la parte più complessa: avevo in mente cosa realizzare e dovevo trovare il modo concreto di farlo: schema luci appropriato, obiettivi adeguati, impostazioni giusti, insomma il soggiorno del mio appartamento era diventato un bazar: mia moglie cucinava e io fotografavo. Il primo piatto serio che ho fotografato è stata una zuppa di fagioli con borragine, crema di alici e scorza di

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Qualcosa che non mi fa impazzire da fotografare esiste: sono i brasati, gli stracotti, gli spezzatini, gli stufati

L’uovo di Gong

limone preparata dalla mia consorte su ricetta del cuoco napoletano Antonio Tubelli. Per quanto riguarda la fotografia di cibo mi piace il brasiliano Sergio Coimbra per la sua meticolosità quasi maniacale di comporre l’immagine e gestire la luce; invece il compianto Bob Noto era disarmante per la sua semplicità accompagnata da una grandissima personalità con cui fotografava. Una menzione speciale va a Franco Fontana; è l’uomo che sia personalmente in occasione di incontri, sia attraverso i suoi libri, è stato capace di allargarmi gli orizzonti verso quella che io ritengo la fotografia artistica più aderente alla mia personalità: la fotografia astratta. Personalmente sostengo che sul cibo non si debbano attuare artifizi di alcuna natura in quanto l’obiettivo principale della fotografia di cibo è quello di far venire fame nel rispetto del realismo del piatto”. Preferenze? “Logicamente nell’attività quotidiana, nei ristoranti, nelle industrie alimentari, negli hotel mi trovo in svariate situazioni da fotografare. Sempre con lo stesso entusiasmo ma pur sempre con le mie preferenze. Dal punto di vista estetico trovo molto appagante fotografare piatti che hanno una loro architettura ben studiata. Adoro molto fotografare pizze e dolci, ma adesso sto ragionando con la gola. Tuttavia qualcosa che non mi fa impazzire da fotografare esiste: sono i brasati, gli stracotti, gli spezzatini, gli stufati. Per loro natura, nel rispetto del loro realismo, non sono esteticamente appaganti come immagine e fanno innervosire non poco il fotografo per i loro miliardi di micro riflessi di luce generati dalle particelle di grasso presenti. Prima di ogni shooting mi piace parlare con lo Chef per capire che persona è, cosa vuole trasmettere con i suoi piatti e che immagine vuole dare del ristorante in cui lavora”, conclude. Finita la conversazione inizia la parte che noi preferiamo, ovvero gli scatti. Che spesso, diciamolo, superano la qualità del piatto stesso.

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Mi piace il brasiliano Sergio Coimbra per la sua meticolosità quasi maniacale di comporre l’immagine e gestire la luce; invece il compianto Bob Noto era disarmante per la sua semplicità Il risotto di Enrico Derflingher


Julie Mechali Un mondo fiabesco Ha elevato gli scatti gourmet ad un livello più alto, sono immagini eleganti e spiazzanti per una platea esigente, colta, a tratti elitaria.

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a avuto una idea geniale. La porta avanti e non è facile. Puoi indovinare uno scatto, due, tre. Dopo, si rischia di rimanere a corto di proposte. Lei invece compone e dipinge fotografie con una continuità disarmante. E’ brava, colta, con una sensibilità e una marcia in più. Piccolo ripasso per chi non avesse mai visto una sua creazione, per chi non è ancora entrato in contatto con il suo meraviglioso mondo. “Inventa” delle storie partendo dalla materia prima, che è sempre un frutto, una verdura oppure altro. Detta così si rischia di banalizzare un lavoro mostruoso, però in fondo questa è la semplice verità raccontata da lei stessa nel nostro primo incontro: “Ho a disposizione tutto quello che serve ad un pittore. Una infinita paletta di colori, ingredienti vari, la possibilità di mescolarli. Sarebbe stato folle non provare a creare proprio come Michelangelo e Raffaello. Il momento più bello? Quando si mescola animale e vegetale”. Julie ha fatto centro, intuendo e poi creando scenari fiabeschi, una via di mezzo fra sogno e realtà, fra disegno e fotografia, fra arte e praticità. E’ stata geniale, tenace, determinata e con una pazienza infinita, perché sì, l’idea è bellissima però poi diventa dura metterla in pratica. Lo scatto è la parte più facile, il vero lavoro sta nel comporre il tutto, con pazienza infinita e disciplina certosina. E’ da più di un anno che non la ospitiamo su Good Life e vi chiediamo scusa, così come anche a lei: ci rifacciamo ora.

Fotografie del genere dovrebbero essere parte integrante della rivista, un must, quasi come la pagina del sommario e la copertina. Perché regala emozioni infinite, racconta una storia, apre dei mondi e dei territori. A lei piace giocare, lo si capisce subito: altrimenti non lo farebbe, uno sforzo del genere. Probabilmente vive per immaginarci davanti ad una sua creazione con gli occhi sgranati, pieni di ammirazione e meraviglia. Ha elevato gli scatti gourmet ad un livello più alto, sono immagini eleganti e spiazzanti per una platea esigente, colta, a tratti elitaria. Sono scatti raffinate che destano curiosità, coreografie che ti portano apprezzare il lato estetico di un frutto altrimenti guardato con leggera indifferenza. In questa pagina vi proponiamo il “dipinto” Velours des vins, creato con acquavite d’uva. Nella pagina accanto, l’esplosione atomica, un misto fra astratto e concretezza, che poi sono due dei suoi credi. Lo scatto si chiama “Big Bang et energies fusionneès”: rappresenta, secondo l’autrice, la creazione del mondo grazie ad una fusione di energie, un movimento permanente dall’interno verso l’esterno. “Volevo raccontare che l’universo è materia, che il contorno circolare ci porta all’atomo o alla cellula”. Lo racconta a suo modo, unico e sofisticato.

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Barbara Santoro Solarità italiana

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’ un’esplosione di entusiasmo e buonumore, è adrenalina pura. Le sue fotografie sono esattamente come lei, sprizzano felicità e ottimismo. Solarità italiana all’ennesima potenza. Barbara Santoro è relativamente nuova nell’ambiente del food ma riesce a tagliarsi, giorno dopo giorno, un suo spazio, sempre più importante. Per fortuna, Dio non esiste nel mondo della fotografia, così come in cucina: o sei bravo o non lo sei. I risultati si vedono subito, le chiacchiere stanno a zero, come si dice dalle sue parti (Barbara è romana doc e vuole rimanere tale). L’abbiamo conosciuta per via del primo libro realizzato assieme a Felice Lo Basso: a proposito, a breve sta per uscire il secondo. Ama la semplicità, la pulizia dei piatti, poca filosofia e tanta intensità, niente sofisticherie che poi ti avvelenano lo scatto, rendendolo meno intenso. Siccome spesso i ristoranti sono parte integrante di un hotel, ecco il salto di qualità, le richieste delle varie catene internazionali perché fotografasse anche le stanze e tutto il resto. Non ha un giorno libero, corre e salta da una città all’altra, incastrando i lavori in base agli spostamenti: a Firenze, per fare un solo esempio, sta anche una settimana intera, fra uno shooting ad un ristorante e un altro ad un’albergo. Gli scatti che ci ha mandato sono proprio di una storica struttura toscana, Grand Hotel Cavour, cento camere disposte su sei piani

nel cuore della città rinascimentale. E’ rinomato per il terrazzo, splendore puro, così come per gli arredi delle stanze, i marmi, le colonne e la vista dalle finestre di quasi ogni stanza. Barbara è riuscita ad aggiungere un tocco in più, quel tocco in più che rende tutto ancor più magico.

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Magna Pars Miami. No, Milano Gran merito dell’affluenza va anche alla direttrice Barbara Rohner, qui da prima dell’apertura. E’ l’anima dell’albergo, una calamita istrionica e una tessitrice di rapporti come poche

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n albergo cinque stelle, soprattutto se si trova a Milano, ha quasi l’obbligo di allestire un ristorante con il chiaro intento di puntare ad una stella Michelin. Punto. Non ci sono scuse, ancor più oggi con la metropoli che vive il suo momento d’oro, anzi, di platino. Nel passato alcuni hanno lasciato in secondo piano la ristorazione, pagando la scelta a caro prezzo (tradotto, le guide e la clientela ti puniscono). Ultimamente la situazione è cambiata, basta dare un’occhiata alle nuove aperture: c’è chi va sul sicuro, contattando e portandosi uno chef già stellato, chi invece va alla ricerca di un cuoco in odor di affermazione, puntando sul riconoscimento (quasi) immediato. Il Magna Pars ha scelto una strada diversa, promuovere l’ex sous chef, Giuseppe Postorino: per qualche anno è stato il braccio destro di Fulvio Siccardi, per poi prendere le redini della cucina con una passione verace e una voglia selvaggia di stupire. Piedi per terra e mano salda, spinto da un’irrefrenabile ottimismo, senza alcun timore di osare, in pochi mesi è riuscito a dare un’impronta e uno stile. Cucina ispirata, elegante, marina e terrena, gusti pieni, note vegetali e agrumate, vedi il carpaccio di cernia con mandorle tostate accarezzato da arance amare e limoni, un antipasto che entra di diritto nella sua (e nostra) personale classifica dei migliori piatti. Non da meno il merluzzo nero con zucchine, piatto che letteralmente canta. C’è tutto, dalla morbidezza alle materie prime eccelse, dal gusto all’estetica. A giudicare dal numero di presenze, la gente apprezza: difficilmente vedi pieno un ristorante del genere all’ora di pranzo. Non è affatto economico (ci mancherebbe, vista la qualità e il servizio), il che presume una scarsa affluenza perché si sa, all’ora del lunch la guerra dei locali è tutta sul prezzo, giocandosi al ribasso. Qui è diverso: aiuta il fatto di trovarsi a pochi metri dalla sede del Deloitte, azienda che annovera alti quadri dirigenziali in quantità. In più, amministratori delegati e direttori vari lo considerano l’unico attinente alle proprie esigenze e pretese. Gran merito dell’affluenza va anche alla direttrice Barbara Rohner, qui da prima dell’apertura. E’ l’anima dell’albergo, una calamita istrionica e una tessitrice di rapporti come poche. Ha un’energia formidabile, è quel genere di manager che sposta gli equilibri e che giustifica, eccome, la fiducia, l’incarico e la remunerazione: i risultati sono gli occhi di tutti. Ha sempre creduto visceralmente nelle qualità di Giuseppe e ora fa di tutto pur di metterlo nelle condizioni di conquistare la stella.

A proposito dell’albergo: è straordinario, ti porta con la mente al Faena di Miami. Interamente bianco, pieno di vetri e luci, arredi ovviamente bianchi con il tocco rosso delle poltrone Frau che, ammettiamolo, fanno sempre la differenza. Manca solo il mare davanti, ma poi entri nel mood rilassante dell’albergo e dimentichi la mancanza delle onde così come ti vien difficile pensare di trovarti a Milano: gli spazi sono enormi, le stanze anche, come se fosse una struttura costruita nel mezzo del deserto, dove tutto è sconfinato e il terreno costa poco. Certo, è leggermente decentrato (siamo in Via Forcella, angolo via Tortona), ma poi una volta al volante cambia poco l’indirizzo da inserire nel navigatore. Idem per chi prende il taxi. E poi, la destinazione merita il viaggio.

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Lido Vannucchi L’erede di Bob

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onsiderarlo solo un fotografo sarebbe quasi un’offesa, perché l’uomo è una enciclopedia. Sa tutto, e bene, su chef e ristoranti, ricette e metodi. Dalle parti sue, ovvero la Toscana, è una specie di guru: lo contattano per un consiglio, per assaggiare i piatti e ovviamente per scattare le foto dei nuovi piatti. Il suo giudizio è legge. La sua fama ha superato i confini regionali, tant’è vero che da Bottura e Crippa in giù gli stellati lo considerano il loro punto di riferimento, fotograficamente parlando. Senza voler forzare i termini, ha preso il posto di Bob Noto, anche se lui, grande amico del fotografo scomparso, non ne vuole sapere: ora è lui la voce più autorevole nel mondo fotogastronomico italiano, l’uomo che se ne intende e assaggia, consiglia e suggerisce. In qualche modo lo anticipava un anno addietro, quando lo avevamo incontrato per la prima volta: “Non mi piace vantarmi però sono uno dei pochi, assieme a Bob, ad essere qualcosa di più di un fotografo di food: difatti scatto ritratti di chef, faccio reportage. Per la cronaca, siamo anche dei grandi mangiatori”. La sua bacheca Facebook è un infinito tomo di domande, risposte, scoperte, idee. Lido è una specie di enciclopedia mista a istrionismo, sete di sapere e far sapere. Sa provocare, spiegare, andare controcorrente: fa poche critiche, perché conosce bene la suscettibilità degli chef, la loro incapacità

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E’ una serie di foto dedicate all’ultima cena, naturalmente un po’ ironica e dissacrante, scattata al ristorante Tordomatto di Roma chef Adriano Baldassare


cronica di fare autocritica. Vogliono solo applausi, anzi, pretendono solo applausi e complimenti spinti oltre ogni limite. Certo non proprio tutti, ma Lido ha capito l’andazzo e si muove di conseguenza. Con alcuni ha dei rapporti privilegiati, di amicizia vera e incondizionata. “Mi piace moltissimo lavorare con Massimo Bottura ed Enrico Crippa, dei veri esteti e autentici testimonial del proprio territorio, perché loro, gli chef, sono i baluardi dei territori. Fra i giovani cito Valentino Cassanelli, allievo di Cracco, fa faville a Forte dei Marmi. Poi Cristian Tomei, un grande personaggio, uno show man con un modo di comunicare nuovo”. E pensare che ci è arrivato per caso, alla fotografia gastronomica: “Facevo fotografia erotica, scherzando dico sempre che sono passato dalla gnocca al gnocco. Poi, grazie anche al consiglio di Maki Galimberti ho iniziato a interessarmi al mondo della ristorazione, facendo perfino il corso per sommelier”. Da quel giorno sono passati anni, ora è un opinion leader, oltre che fotografo. Piccole perle di saggezza foto gastronomica: “Sgombriamo il campo, il più grande è Bob Noto. Credo che la cucina italiana debba veramente molto a questo signore”. “Non fotografo mai un piatto senza conoscerne la storia e il pensiero del suo esecutore. Non fotografo mai un cuoco senza averlo studiato e mai prima di averci parlato in maniera approfondita”. “Fotografare il food significa andare a mangiare al ristorante, il piatto merita rispetto”. “La critica gastronomica è cosa seria, serve studio, cultura e curiosità, predisposizione, palato e una grande passione a spendere tutto quello che guadagni in grandi mangiate e grandi bevute. Tutto il

resto è noia, esibizionismo e un tristissimo fenomeno modaiolo”. “Instagram ha preso il posto, salvo eccezioni, delle fotocamere instamatic, strumenti fantastici per fare delle istantanee: la fotocamera collegata al cervello crea fotografie, a me interessano quelle. Ma come posso uso Instagram e la Mitica sx 70 per appagare il mio spirito ludico”. “C’è più vita e mondo in un grande salama da sugo che in un bellissimo catalogo porta a porta. Gli ingredienti si cercano, si conquistano, questo fa parte della fatica quotidiana di un grande cuoco”. “Fotografare un ingrediente è qualcosa di magico, se ci pensi bene è lui il vero attore della giornata”. “La fotografia di food è un insieme di quattro stili di fotografia: il ritratto, la fotografia d’ambiente, lo still life e un buon reportage: Ognuno va curato nei minimi particolari, se a tutto questo metti anima forse hai portato a casa un buon lavoro”. Alessandra Meldolesi, giornalista molto colta e per nulla propensa a parlar bene a prescindere (per questo la apprezziamo), lo conosce come pochi altri, visto che spesso lavorano insieme: “Non è un semplice fotografo, a dispetto dell’abilità eccezionale, specie nei ritratti. Dopo la scomparsa di Bob Noto, Lido ne ha raccolto l’eredità di obbiettivo critico e pensante dell’enogastronomia italiana. Dietro ognuna delle sue foto ci sono un’interpretazione e una comprensione del piatto, nate anche sul campo, facendo vino in prima persona, nell’enoteca con cucina di cui è stato socio”. E ora basta leggere, parlare e scrivere. Gustatevi i piatti, anzi, gli scatti. Buon appetito.

Piatto di Adriano Baldassare

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Gaetano Trovato sicuramente uno dei grandi maestri della cucina Toscana, e il suo piccione, che incontra il mare, stile tecnica ma soprattutto eleganza. No 28


Piatto di Zayu Hasegawa

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Gaetano Trovato, piccione con crostacei

C’è piĂš vita e mondo in un grande salama da sugo che in un bellissimo catalogo porta a porta. Gli ingredienti si cercano, si conquistano, questo fa parte della fatica quotidiana di un grande cuoco. No 30


Instagram ha preso il posto, salvo eccezioni, delle fotocamere instamatic, strumenti fantastici per fare delle istantanee: la fotocamera collegata al cervello crea fotografie, a me interessano quelle. Ma come posso uso Instagram e la Mitica sx 70 per appagare il mio spirito ludico.

Piatto di Enrico Crippa

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Le Vrai French Can Can

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l posto ci piace dal primo giorno che abbiamo messo piede (a proposito, ha appena compiuto due anni, auguri). Senza fare classifiche inutili, il loro pane è sul nostro podio, così come il foie gras fatto in casa. Due specialità che già basterebbero per far diventare il locale di via Galileo Galilei una destinazione dove mettere le bandierine della qualità e della piacevolezza. Un pane intenso e profumato, il foie gras fresco e gustoso: aggiungiamo una bollicina e il gioco è fatto. Vale all’ora di pranzo, all’aperitivo e perché no a cena oppure da asporto. La baguette a spicchi, il pane alle olive, poi quello multicereali e via discorrendo: se avete presente il tanto rinomato e apprezzato Princi, allora moltiplicate per dieci e vi farete un’idea sulle meraviglie sfornate da Claire Pauze. Potremmo continuare ancora, con le brioche che grondano burro e le quiche, la tropezienne e la tarte tatin, quest’ultima richiestissima perché, dicono i clienti, non è troppo dolce. L’unico punto debole del locale è sempre stata l’affluenza nel tardo pomeriggio, per via della zona poco movimentata: ora si è trovata la soluzione, grazie a Sarah La Fleur, pr francese con piglio imprenditoriale e sguardo dolce, maniere delicate e raffinate: è stata sua l’idea del burlesque, con deejay, ballerini e tante bollicine. Funziona. Per ora solo il terzo giovedì del mese, ma visto il successo si pensa ad una situazione più continua e magari alle serate di French Can Can. Immaginatevi: pane appena sfornato, foie gras, champagne e danzatrici seducenti. What else?

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Ghe Sem Squisite caramelle

unque, Ghe Sem. Sarà stata la primavera. Le giornate lunghe, la temperatura ideale. La leggera brezza o il profumo dei gelsomini. Il silenzio del quartiere, chi lo sa. E’ stato amore a prima vista. Se a fine maggio l’atmosfera sapeva di carezza, a settembre non dovrebbe essere diversamente: le ultime serate a mangiare fuori, sotto le stelle, sono un motivo in più per sedersi ai tavolini del locale di Via Vincenzo Monti. Qui passi un’ora di assoluto godimento. Piccoli gioiellini, bocconcini accattivanti. Morbidi come cuscini. Leggeri. Gustosi. Intriganti. Piacevoli al tatto. Hai la sensazione di giocare con un capezzolo. I raviolini, come chiamarli diversamente, sono felicità pura. Un morso qui, un morso lì, la confusione è totale, l’estasi anche. Voluttà assoluta. Piccole scosse di piacere. Sapori che sbocciano sul palato. Gioie semplici e golose. Caramelle. Squisite, squisitissime. Intense, sorprendentemente intense. Gusti intriganti, alcuni osè. Di solito i dim sum sono delle ninne nanne al vapore, quasi da dieta. Spesso sanno di tiepida noia. Mollicci, da ammazzare il desiderio. Qui hanno innescato la quinta. Dim sum alla carbonara. Poi con acciughe e salsicce. Cacio e pepe. Un saliscendi di gusti. Pare Disneyland, ma è Ghe Sem. La zona aiuta molto, è chic. Via Vincenzo Monti, gente felice e dal gusto sicuro. Target trasversale, molto educato. Gente

perbene, molto. Che sa apprezzare. Difatti, torna spesso. Il vantaggio di un locale così è che ti senti a tuo agio a qualsiasi ora. Pranzo, tardo pomeriggio, cena. Per un cocktail (buoni davvero), per due morsi veloci. Oppure per una degustazione. Con amici, moglie, genitori, parenti, nipoti. Abbiamo visto tavolate di giovani che solitamente amano poco star seduti in un ristorante. Qui è una via di mezzo, un po’ bar, un po’ risto: funziona. Verificate di persona.

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I mori Seduzione siciliana

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ssaggi e ti senti trasportato su una spiaggia siciliana battuta dal vento. Lo sappiamo, esageriamo sempre. E ci piace farlo, quando ne vale la pena. E poi, non ci era mai capitato qualcosa di simile: la clientela, tutta, era under 40. In un ristorante con lo scontrino medio che va oltre i 70 euro , è assai raro. In più, tantissime donne insieme, quel tipo di donna che ti fidanzeresti subito: eleganti, educate, di buona famiglia, probabilmente con un buon lavoro dovuto ad un elevato livello di studio. Donne così trovi solo in un ristorante chic, curato nei minimi dettagli. I Mori lo è, anzi, è molto di più. L’architetto Nick Maltese ha ideato un capolavoro, creando un’atmosfera newyorchese, calda e rilassata, intensa e intrigante. E’ uno di quei posti che regala la felicità immediata, dove percepisci le così dette good vibes, per restare in tema americano. La famiglia Drago Ferrante ha investito tanto, tantissimo, però ne è valsa la pena. Si vede che vivono per la ristorazione, che arde il loro la voglia di stupire. L’impatto è straordinario, dalle sedie ai tavoli, dalle pareti al bar. Per la cronaca, I mori è stato costruito sulle ceneri di un locale storico, Al Cellini, che aveva fatto il suo tempo (eufemismo). In cucina si spinge sull’acceleratore e si mista in maniera energica tradizione siciliana e presentazioni moderne: la cucina è cromatica e creativa, articolata, ispirata, i profumi sono accattivanti, ricchi, ogni ingrediente è perfettamente definibile. Il pane, poi: fatto in casa, profuma di magia, soprattutto quello al pomodoro. I piatti sono spesso sibili di piacere feroci e tumultuosi. Vale per la caponata rivisitata come per le ostriche, per la tartare di scampi e per i fuori menù come lo spaghetto Cavalieri con il ragù di pagello

e pomodorino Pachino (un classico invece quello con gambero di Mazara e burrata). Non da meno il bartender, Gabriele Garufi, arrivato dal Botanical Club, dopo anni al Novikov di Londra: il ragazzo farà strada,e tanta. Abbiamo assaggiato solo tre cocktail, però bastano per promuoverlo a pieni voti: quello analcolico è strepitoso, con sciroppo di rosmarino, succo di pompelmo e Ginger beer. Non da meno il Quentin, ovvero wasabi, limone, pomodoro e gin. Per gli amanti di emozioni forti ecco lo Shakerato doppio, una specie di Negroni, ovvero Campari, zucchero liquido e Averna. Andateci e abbandonatevi alla seduzione. Ristorante I mori. Immagina, puoi.

La famiglia Drago Ferrante ha investito tanto, tantissimo, però ne è valsa la pena. Si vede che vivono per la ristorazione.

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Pisacco Catturare i piaceri

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i colpisce subito, quando andiamo al Pisacco. La clientela. Gente dal gusto sicuro, che sa bene perché si trova lì. Sono tutti dei professionisti, avvocati e commercialisti, imprenditori e architetti, persone che sanno apprezzare un piatto, la materia prima, il servizio, il concetto. Difatti vengono qui perché esigono, pretendono e sanno che ricevono esattamente quello che chiedono. La sera, oppure nei fine settimana, vedi arrivare anche modelle e studentesse, insomma un bel mix di persone che vogliono star bene e mangiare altrettanto. Pisacco è il posto ideale per loro. D’altronde è l’unico bistrot autentico della città, ovvero un locale immediato, veloce, con dei piatti poco elaborati, diretti, ovviamente preparati con delle materie prime di livello assoluto. Di altissimo livello anche il direttore, Alessandro La Cava: ha la sensibilità giusta per un posto e una clientela del genere. Già che ci siamo. Spesso la parola bistrot è vuota, priva di significato e di contenuti. In Italia si usa a sproposito, svilendo il concetto. Qui invece no. Piccola aggiunta: qualche anno la Via Solferino era triste, deserta e priva di charme. Poi sono arrivati Andrea Berton&soci e come per incanto la situazione si è rovesciata radicalmente: seguì il Dry, sempre di proprietà dello chef friulano assieme ai suoi partner storici. Niente fu come prima, oggi trovi un locale incollato all’altro. Tornando al Pisacco, dal primo di settembre in cucina c’è Andrea Asoli, una stella Michelin al Venissa e poi per due anni al Chateau Monfort. Per alcuni può essere considerato un passo indietro, lui invece è convinto del contrario, perché lavorare con Berton lo stimola e lo motiva, difatti è carico come una molla. “Volevo un posto vivo, dinamico, giovane, con tanti coperti. In più, stare accanto ad uno chef come lui mi piace un mondo, si impara tanto, soprattutto dal punto di vista dell’organizzazione, a volte ho la sensazione di essere un manager”. Da parte sua, lo chef friulano aveva messo gli occhi su Asoli già da qualche tempo: “Mi informo sempre sui nuovi talenti, a me piacciono quelli che lavorano e basta, senza montarsi la testa. Andrea è uno di questi, ha entusiasmo, conoscenze, voglia, talento, una mano sicura, tutti mi parlavano bene di lui e va detto che

finora conferma le belle parole che si sono spese per lui. Volevamo alzare ancor di più il livello del locale, con lui penso e spero lo si possa fare”. Il nuovo menù sarà pronto proprio mentre viene stampato il numero che state sfogliando. Ci saranno delle novità, seguendo sempre la filosofia base di Berton: Asoli proporrà dei nuovi piatti, “il capo” dovrà approvarli. Il risotto giallo nero, ovvero zafferano e seppia, si annuncia il grande successo dell’autunno. Pare un piatto classico, calmo, rassicurante. Poi mescoli e tutta cambia. Il piatto diventa nero, nerissimo. Potente, potentissimo. Oscuro. Carnale. Eccitante. Frivolo Adrenalinico. È nitroglicerina. Il sapore ti esplode sul palato. Cercate di catturare i piaceri, è da lì che viene il brivido.

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E’ l’unico bistrot autentico della città, ovvero un locale immediato, veloce, con dei piatti poco elaborati, diretti


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’ il misto perfetto fra business, fiuto, attrazione, seduzione. Non manca nulla nel mondo perfetto di Lovster: ecco, anche il nome è

geniale. A noi piace un sacco, però a chi non piace il giocattolo inventato da Massimo Turturro? Amore e astici, what else?, per parafrasare uno spot pubblicitario. Se il cibo e il sesso sono complementari, questo è il posto che lo dimostra: il profondo benessere che si prova dopo aver mangiato qui si riflette sul resto della giornata, o della serata, come se il corpo, con gratitudine, destinasse le sue migliori energie per metterci le ali. Una linguina all’astice è afrodisiaco puro, espressione inflazionata ma non qui, in Via Carretto. Difatti è un ristorante consigliabile agli innamorati e alla gente passionale, di sicuro non alle anime stanche. L’ambiente è assai rustico, quasi spartano, il che aumenta la voglia di concentrarsi sui piatti. L’uomo ha studiato tutto in ogni dettaglio, non a caso viene dal mondo del marketing che conta. Impressiona il numero di persone che prendono d’assalto il ristorante, nonostante una posizione non proprio centrale e ancor meno trafficata: siamo in una piccola traversa di Via Pisani, tristissima e buia strada che porta alla stazione. Eppure la voce si è sparsa in fretta, tanto che alle 13.05 rischi di fare la coda e aspettare un bel po’: la sera non ne parliamo, andarci senza prenotare è da incoscienti. Lovster è una destinazione vera e propria, a pranzo come a cena, a Milano come a Riccione, perché ormai Massimo ha innescato la quinta, aprendo altri ristoranti in giro per il mondo. La riviera adriatica è un po’ la Miami nostrana, mantenendo ovviamente le proporzioni: forse Massimo ci ha pensato, forse no (è innamorato dagli Stati Uniti), fatto sta che per la sua seconda apertura ha scelto la cittadina romagnola, nella centralissima via Ceccarini. “E’una città vibrante, che d’estate diventa cosmopolita”, ci racconta. “Il locale è diverso rispetto a quello milanese, arredamento minimal e atmosfera new yorky, sono davvero soddisfatto”. Per la cronaca seguirà Ibiza, altra capitale mondiale del divertimento estivo. La caratteristica dei suoi locali è che si mangia divinamente spendendo davvero poco, 25 euro per qualsiasi piatto. La ricetta del successo è questa, far innamorare la gente sapendo che tornerà altre volte. Poteva decidere per il doppio del prezzo,

Lovster What else? L’astice alla catalana ha un’anima, per non dire del fondo americano: è il migliore mai assaggiato

vista la qualità superlativa dei suoi prodotti e dei piatti, perché qui si fa anche una certa ricerca, non ti si mette l’astice davanti con due fettine di pomodoro e arrivederci. L’astice alla catalana ha un’anima, per non dire del fondo americano: è il migliore mai assaggiato, duecento teste di astice bollite e poi una riduzione perfetta. Continuare con gli elogi sarebbe facile, sono meritati, però solo provando le linguine capirete di cosa stiamo parlando. Via Carretto al civico 4, per chi non si è ancora notato l’indirizzo milanese.

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Gabriele Bonci Delirio goloso E’ un personaggio adrenalinico al massimo, folcloristico e geniale, che unisce l’alto e il basso, il serio e l’ironia romana

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ella vita contano i fatti, tutto il resto vale generalmente zero, se non addirittura meno ancora. I numeri ed i riconoscimenti sono utili e necessari perché confermano quello che di buono hai fatto senza se e senza ma, fra l’altro zittendo i detrattori. Il 20 settembre, la guida Espresso ha premiato Gabriele con tre rotelle (maggior riconoscimento per la pizza al taglio) per il Pizzarium di Roma e di Lucca e per il Panificio, una specie di piazzaristorante sempre nella capitale. E poi, nei primi due giorni di apertura a Chicago la pizzeria di Gabriele Bonci ha incassato 24.000 dollari, il che vuol dire più di mille tranci di pizza al dì. Per la cronaca, pure nei giorni seguenti si è viaggiato e si viaggia alla stessa velocità. Un mostro di bravura. Non pensate ad una città che appena ha sentito le parole pizza e italiano si è messa in fila: non incanti con tanta facilità una metropoli, lasciamo stare i luoghi comuni. Il locale, 130 metri quadrati, si trova a due passi dal quartier generale di Google, ovvero una zona cool con gente giovane e felice: proprio il mondo di Bonci. Per la cronaca, siamo nel West Loop.

Loro volevano Gabriele, così come un famoso fondo di investimento ha voluto lui e solo lui, acquistando il marchio Bonci Usa e ipotecando le future aperture in giro per il mondo. La pizza al trancio è una novità negli Stati Uniti: era una specie di salto nel vuoto, poteva non piacere. E invece, il boom. Come logica conseguenza sono al vaglio aperture a Washington, Miami, Boston, New York e Philadelphia, oltre ad altre due sempre a Chicago. E’ un personaggio adrenalinico al massimo, folcloristico e geniale, che unisce l’alto e il basso, il serio e l’ironia romana. Prima di tutto però è un imprenditore straordinario, con un fiuto per gli affari degno di Gordon Gekko del famoso film degli anni ottanta, Wall Street. Se lo ascolti rimani ammaliato, è coinvolgente e istrionico, le sue storie sono al limite o forse oltre l’immaginario: se ti elenca il menù della sua prima pizzeria romana resti senza parole, un po’ intontito e un po’ incredulo. Un posto come un altro, di fronte all’uscita della fermata Cipro, metropolitana romana: da ex cuoco insisteva con impasti e abbinamenti troppo avanti per quei tempi: ora tutti si riempiono la bocca con parole tipo “gourmet”, svuotandole di

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qualsiasi significato. Ebbene la prima pizza di un livello davvero superiore fu la sua: ora la diamo per scontato, vent’anni lo guardavano con stupore, per non dire altro. L’inizio fu tremendo, a lui sembrava un ottimo prodotto, agli altri il messaggio non arrivava. Poi, l’esplosione. Combinazioni fuori dagli schemi, estremi, che hanno fatto sì che le file fossero interminabili e la clientela andasse dai ministri ai tassisti, dai clochard ai capitani di industria e alti prelati, perché la pizzeria si trovava nei pressi del Vaticano. Parliamo di due decenni addietro: oggi è un brand, come Armani e come la Ferrari. Prima di aprire a Chicago ha messo a segno un colpo da maestro a Lucca, assieme al re della carne, Massimo Minutelli: perfino ad agosto hanno portato a casa numeri da fantascienza (scontrino medio 18 euro, molto per una pizza al trancio e una pizza, ma non tanto per la qualità e le emozioni regalate da Gabriele). Un delirio goloso, un luogo diventato cult ancor prima che aprisse nella ricca cittadina toscana. Piccola parentesi: il posto è stato studiato e disegnato da Diego Perusko, lo stesso che ha seguito i ristoranti di Minutelli in giro per l’Italia. Massimo definisce il Pizzarium lucchese un’esperienza gastronomica: tradotto, magia. Grandi materie prime, grandi lievitazioni, grandi farine: uguale, pizze al trancio orgasmiche (si, l’abbiamo scritto, orgasmiche, ma è la parola che Gabriele preferisce e usa di più). Bonci è da sempre attento ai prodotti locali, perfino a Chicago acquista la mozzarella da una piccola fattoria locale, figuriamoci in Toscana. Piccolo elenco dei prodotti acquistati dai contadini:l’acetosella della Garfagnana (raccolta dai ragazzi della Maestà della Formica), i würstel della norcineria Bullentini, i formaggi di capra dell’azienda Podere Al Carli di Monica Ferruci, le mozzarelle di Magie di Latte.

Nei primi due giorni di apertura a Chicago la pizzeria di Gabriele Bonci ha incassato 24.000 dollari, il che vuol dire più di mille tranci di pizza al dì

Esempio di pizza al trancio tremendamente gustosa che potete trovare a Lucca, in Via Romana 1740, fuori dalle mura della città: crema di cipolle, acciughe, pomodorini secchi e lardo di Colonnata. “E’ la rivisitazione di un panino storico dalle nostre parti, in Toscana”, racconta Minutelli. “I cavatori di una volta portavano al lavoro i prodotti della propria terra, c’è chi aveva i pomodori, chi il lardo. Poi si metteva tutto insieme, difatti si chiamava il panino del cavatore”. con salsiccia di cinta senese e parmigiano, quella a basse rossa con ricotta di pecora e acetosella marinata, la burrata e cotto. Le code sono interminabili. La gente miagola per il piacere. Tutti contenti, tutti felici, tutti appagati. Non potrebbe essere diversamente.

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Mozzafiato Bucarest, Italia

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onfessiamo. Andiamo matti per quei ristoranti dove si incontra la gente potente. Sono i luoghi dove si fanno gli affari migliori: degustando piatti prelibati si è più rilassati e ottimisti, propensi a chiudere contratti, ci si conosce meglio e più a fondo, un po’ come quando si va a giocare a golf con il tuo potenziale futuro partner. Grondano ricchezza, benessere, buonumore, ottimismo. L’odor di soldi e ambizione lo annusi ad ogni tavolo. E poi diciamolo, fa effetto mangiare accanto a loro. A Bucarest il locale dove si incontra il gotha del mondo che conta si chiama Mozzafiato. Tre soci italiani, tutti con affari fiorenti qui e non da ieri. Per la cronaca, si mangia benissimo, ma andiamo con ordine. Ognuno ha i suoi parametri per valutare il livello e la qualità di vita di una città. Se vai a Bucarest e dai uno sguardo alle macchine parcheggiate, alle caffetterie e ai tanti negozi di sigari puoi trarre una sola conclusione: qui vanno a mille, consumano ed esibiscono a volte in maniera compulsiva, sta di fatto che la capitale rumena offre tutto quello che offrono le altre grandi metropoli europee e, per certi versi, qualcosa in più (il clubbing è straordinario, per fare un solo esempio). La ristorazione va di pari passo: il livello si sta alzando in continuazione, soprattutto nelle zone e nei quartieri alti (per le stelle è ancora presto, non esiste ancora una clientela del genere e alcune materie prime faticano a essere reperibili con una certa costanza). Già quindici anni addietro, in pieno boom economico, tantissimi patron italiani avevano portato qui cuochi e prodotti della penisola, forni e altro. Siccome in Romania non esiste l’orario

fisso, i ristoranti stanno aperti sempre: di conseguenza pure gli incassi sono notevoli, così si spiega che uno cuoco partito dalla penisola guadagnava, già cinque anni fa, più di 3.500 euro al mese. La clientela apprezza moltissimo il made in Italy, nove ristoranti su dieci sono italiani e poi i prezzi non sono così bassi come qualcuno potrebbe immaginare (da Mozzafiato un piatto di pasta si aggira sui sette-dieci euro, il caffè supera i due, idem l’acqua, la birra arriva ai 3,5). I tempi sono ormai maturi per la ristorazione di qualità: la gente sa paragonare e capire quando si tratta di un bluff, oppure di un qualcosa di autentico. I tanti manager della capitale viaggiano e assaggiano, il palato inizia a essere più sensibile. Se Mozzafiato fa il tutto esaurito ogni sera è proprio perché i buongustai di Bucarest ed i tanti patron di aziende e dirigenti di multinazionali (stranieri compresi) hanno trovato il posto che cercavano. Situato nel quartiere più esclusivo (Dorobanti, costruito fra le due guerre mondiali, è pieno di ambasciate), a due passi dalla zona residenziale dove abitano i magnati locali (Primaverii), il ristorante va a gonfie vele e l’inerzia è a suo favore. Ormai è una destinazione, c’è chi torna anche tre volte la settimana. Non si annunciano e ancor meno si prevedono tempi cupi, anzi. A quasi un’anno dall’apertura Marco Petriccione, uno dei soci, può considerarsi super soddisfatto: aveva fatto una indagine di mercato, sapeva delle potenzialità che offriva la metropoli rumena, però nemmeno lui sperava di poter andare così forte. “Il giorno dell’apertura fu shockante, una marea di gente

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fuori e noi che non ci aspettavamo una tale affluenza: non avevamo fatto pubblicità, per cui immaginatevi un ristorante che ha ancora bisogno di un minimo di rodaggio con tutti i tavoli pieni. I primi quattro mesi fu così ogni sera, ora si viaggia sempre in quinta, ma solo da mercoledì in poi”. E’ arrivato in Romania dieci anni fa, come dirigente di Banca Intesa: il trasferimento da Praga gli pareva una punizione. Ora non vorrebbe lasciare la città, tutto va per il verso giusto. Ha abbandonato la banca, mettendosi in proprio nel settore finanziario, mentre il ristorante è una sorte di secondo lavoro (lo trovi qui a pranzo e poi all’ora di cena, verso tardi, dopo aver corso nel parco Herastrau). Ha altri due soci, pure loro italiani, di recente si è aggiunto Pino, direttore, napoletano doc, un mastino buono che ci voleva. Il menù è classico, con qualche piccolo adattamento ai gusti locali: melanzane alla parmigiana, spaghetti di tutti i tipi, olive ascolane. “Qui non vanno le porzioni piccole, perfino i dolci devono essere di dimensioni notevoli”, racconta. Per il resto, è come se ti sedessi ad un tavolo in Italia. C’è la pasta di Gragnano, il parmigiano di 36 mesi, il tartufo, le mozzarelle di Battipaglia, poi bracciole di vitello locale, uno dei piatti più gustosi. “Però la gente vuole soprattutto il pesce, fatto assai strano in un paese di carnivori”, dice. “Sarà perché il nostro è davvero superlativo, gli antipasti e le tartare sono sublimi”. Si sta bene, dentro e fuori, c’è cura e ricerca nell’arredo, accanto alla cucina hanno sistemato il tavolo sociale, anche se qui si viene di rado da soli. A breve si ingrandiranno ancor di più, spesso i cento coperti non bastano per accontentare la marea di arrivi. D’altronde è il ristorante più cool della città. E di tornare in Italia, nemmeno l’idea.

A Bucarest il locale dove si incontra il gotha del mondo che conta si chiama Mozzafiato. Tre soci italiani, tutti con affari fiorenti qui e non da ieri

Ristorante Olio Made in Puglia

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anno appena aperto, di sicuro sarà un successo. D’altronde la cucina pugliese piace sempre di più e gli chef provenienti da quelle terre fanno man bassa di premi e riconoscimenti: prendiamo Milano, fra gli stellati ci sono Antonio Guida e Felix lo Basso, pugliesi doc. Lo chef di Olio,Marco Goerge Misceo, è una garanzia: creativo e concreto, quasi erotico, un talento puro. Ha la mano elegante e sicura, è nello stesso tempo elettrico e delicato, eccitante e potente, intuitivo e passionale. La sua cucina è un trionfo dell’estetica. Lo conosciamo da anni e non ha mai deluso: accarezza le materie prime come pochi, predilige il pesce, i suoi piatti coreografici ed elaborati sembrano semplici pur essendo sofisticati (o viceversa, vedetevela come meglio vi pare, tanto la sostanza non cambia). Il patron Angelo Fusillo ha scelto bene: lui stesso gronda ambizione e desiderio di imporsi e di conquistare la clientela. Sulla carta dovrebbe essere il classico ristorante di quartiere, ma sarà molto di più. Impazzirete di desiderio. Vi piacerà.

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Gong Oriental attitude

E’ un ristorante internazionale e contemporaneo, ti sembra di essere a Singapore oppure Hong Kong, Londra o Shanghai

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nizio agosto, ovvero quel periodo dove i ristoratori iniziano a giustificare il numero basso di presenze con le vacanze alle porte. Persone che miagolano per il piacere all’interno del ristorante Gong? Cento. Esattamente come a metà aprile, fine maggio, ottobre, oppure marzo. Perché qui, nel regno sofisticato di Giulia Liu, non si trova mai un posto. Ogni giorno è sempre pieno, come d’altronde accade anche da Iyo, il primo ristorante giapponese in Italia ad aver conquistato la stella Michelin, pure lui di proprietà della famiglia Liu (se ne occupa il fratello Claudio). Per la cronaca, c’è un terzo fratello (Marco) che, ovviamente, pure lui gestisce un ristorante di successo, Ba Asian Mood. Sono tutti i tre cresciuti qui, in Italia: la famiglia è invece originaria di Zhejiang, nel sud della Cina. Un milione di complimenti perché riempire un ristorante è sempre impresa ardua, ancor di più farlo sette giorni su sette, dodici mesi su dodici (non chiudono mai, altri applausi). Aggiungiamo che nella vita professionale nulla accade per caso, ancor meno a Milano, dove la clientela non perdona, punendoti oppure premiandoti in maniera drastica. I numeri e il colpo d’occhio dicono che Gong, due anni e mezzo di vita, viene premiato, eccome: forse per la cura dei dettagli, forse per l’estetica del ristorante (davvero indovinata la scelta dei gong giganteschi di onice), sicuramente per i piatti e per il servizio. E’ un ristorante internazionale e contemporaneo, ti sembra di essere a Singapore oppure Hong Kong, Londra o

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Molta tradizione orientale, qualche tocco futuristico, tante insinuazioni, sfumature, idee, contaminazioni, marinature, crocantezze, tecniche Shanghai: oggi, per attirare una clientela trasversale, l’unica strada percorribile è questa. Grandi vetrate, un’eleganza che non pesa, spazi aperti. Chapeau, chapeau, chapeau. I piatti, dunque. Si mescolano le filosofie dei due chef, Keisuke Koga e Guglielmo Paolucci, quest’ultimo arrivato di recente, dopo aver girovagato per l’Italia: molta tradizione orientale, qualche tocco futuristico, tante insinuazioni, sfumature, idee, contaminazioni, marinature, crocantezze, tecniche, acidità. La gran parte dei piatti è impostata sull’equilibrio dei sapori, che sono garbati, quasi languidi. Come inizio ti suggeriscono la Tartare Exotic: gambero rosso di Mazara lavorato con salsa di mango, basilico shiso, gocce di salsa ai frutti di bosco, kiwi essiccato e bacche di goji. Si sale di livello con il hamachi in cupola di fumo, ebbrezza di alta cucina anche per la presentazione: ricciola del Pacifico affumicata con legno di melo, salsa di aceto di riso e miso, crescione, pepe rosa, wasabi. Il raviolo di barbabietola con ripieno di king crab, tobiko nero e punte di asparagi è l’assaggio più esaltante di una cena che si può definire vellutata: semplicemente un bocconcino perfetto. Come portata principale vi suggeriamo il piccione: in tanti ristoranti rinomati e stellati non lo si trova ad un tale livello, maestoso. Standing ovation.

Da sinistra: Keisuke Koga, Giulia Liu e Gugliemo Paolucci

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Marco Pierre White Il libro dei libri

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amilla Baresani sostiene che solo scrivendo un libro hai la possibilità di dire quello che pensi. Tradotto, sui giornali non si può: il direttore non vuole grane, scatta l’autocensura, impera la dittatura del politically correct e mille altri impedimenti più o meno assurdi. La stampa muore per colpe solo sue. Poi certo, uno deve anche la personalità e il coraggio di esporsi, qualità che a Marco Pierre White, il più giovane chef ad aver conquistato tre stelle Michelin non manca. Il suo ultimo libro, “La vita dannata di uno chef stellato”. Frasi cult, concetti chiari, alcun giro di parole. Sarebbe bello un mondo pieno di gente come lui. Qualche estratto. “Essere autodidatta è una macchia impossibile da lavare per uno chef che voglia far parte dell’elite. Nel mondo reale è un po’ come dare a uno del bastardo”. “Alcuni trovavano curioso che avessi vinto tre stelle Michelin senza aver mai messo piede sul suolo francese. I giornalisti venivano a intervistarmi e mi chiedevano di parlare del miglior pasto che avessi consumato in un ristorante d’Oltremanica. “Non so che dirvi”, rispondevo. “Non sono mai stato in Francia”. Mi limitavo a dire: “Beh, che ci volete fare? Sarà la prova che non occorre andare in Francia per vincere tre stelle Michelin”. Ah, facevano loro, e passavano alla domanda successiva”. “Riflettei sul fatto che avevo passato la mia intera carriera a farmi giudicare da persone che ne sapevano meno di me, che fossero ispettori o critici gastronomici. C’erano altre ragioni per cui avevo deciso di appendere il grembiule al chiodo. Il continuo processo di rielaborazione dei piatti, della ricerca della perfezione, mi aveva esaurito. Non volevo spingermi oltre. Le tre stelle non bastano a garantire un pò di tranquillità, perchè bisogna migliorarsi costantemente. La gente ti considera uno chef affermato e le sue aspettative diventano sempre più alte. Si tratta di spingersi oltre i

limiti. Purtroppo, però, non c’è mai fine a un processo del genere”. “Perché mai, vi chiederete, questi poveri giovanotti continuavano a lavorare per un despota violento come me? Buona domanda. E molti non solo continuarono a lavorare come me, ma rimasero per anni, fino al giorno in cui mi ritirai, nel 1999. Il fatto é che le sgridate non erano cose personali. Servivano a creare un breve-a volte non tanto breve- attimo di shock. Una mia scenata fungeva da sveglia. Era la tazzina di espresso di cui avevamo bisogno. Nel bel mezzo del servizio non avevo tempo di dire: “Arnold, scusa, ti spiacerebbe accelerare, per favore?”. Non potevo distrarmi e astrarmi dai miei doveri per dire educatamente: “Gordon, quando ritieni che sarà pronta quella faraona, amico?”. Il messaggio doveva arrivare forte e chiaro. Tutti lo capivano” “Al fine di realizzare il mio sogno credevo di aver bisogno di una brigata dalla disciplina militaresca e, come avevo imparato al Gavroche, la disciplina era figlia della paura. Quando hai paura, ti fai delle domande. Se non hai paura di qualcosa non ti interroghi alla stessa maniera. E se hai paura in cucina, non prendi scorciatoie. Se non temi il tuo capo prenderai delle scorciatoie, ti presenterai in ritardo. La mia brigata doveva soffrire, spingersi oltre i limiti- solo così avrebbe scoperto fin dove poteva spingersi. Io li costringevo a prendere delle decisioni. Se se ne andavano, tanto meglio: avevano deciso che una cucina stellata non era cosa per loro”. “Un ristorante stellato deve rendere onore alla sua fama, altrimenti é inutile che resti aperto. Quante volte siete usciti a cena e vi è capitato di mangiare un ottimo antipasto e un ottimo dolce,ma una portata principale così così? Non posso permettermi di mostrare alcuna debolezza. Qualunque essa sia, dal pane all’amuse bouche, dall’antipasto al piatto di pesce, dalla portata principale al dessert, dal caffè ai petit fours, dai cioccolatini al formaggio, tutto deve essere di suprema qualità. Costantemente”.

Un ristorante stellato deve rendere onore alla sua fama, altrimenti é inutile che resti aperto No 42


Al fresco Giardino gourmet

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hiara Ferragni e Fedez sono clienti fedeli e affezionati: tornano assai spesso, l’ultima volta a metà giugno, prima delle vacanze intercontinentali. Ovviamente hanno scattato all’impazzata, perché entrambi sono selfie addict, chi per mestiere e chi per status. Morale della favola, in pochi minuti il primo post di Chiara ha toccato quota 301.320 like, mentre il secondo si è “fermato” a 180.000 e spicci: numeri da capogiro che possono cambiare la vita di un ristorante o di qualsiasi azienda. I due piccioncini non hanno postato il nome del locale, oseremmo dire per fortuna, perché il giardino gourmet è quasi sempre pieno, toccando numeri da favola, spesso più di cento coperti ogni sera. Cosa sarebbe successo se si fosse aggiunta la pubblicità derivata dall’uragano Chiara Ferragni, sesto posto nella graduatoria delle influencer mondiali? Azzardiamo: isterie e code come da Zuma. Il giardino è gigantesco, ti pare di stare ad un picnic organizzato, oppure ad uno di quei matrimoni patinati in una villa di campagna inglese. I milanesi adorano le situazioni del genere, il “caso” Bulgari insegna.

In più la cucina di Nicola Delfino, arrivato dal ristorante romano Benito, inizia a fare la differenza: è il tocco in più, la mossa vincente, l’asso nella manica. Se la clientela torna sempre più spesso, gran parte del merito è (anche) suo. I piatti sono diretti, immediati, golosi, intriganti: scelta azzeccata soprattutto all’ora di pranzo, quando si ha meno tempo ma si vuole mangiare bene lo stesso ( impazzano l’hamburger e l’insalata di tonno rosso). La sera il menù diventa più sofisticato, motivo per il quale lo chef è il primo a non gradire folle oceaniche all’interno del ristorante: se così fosse ci rimetterebbe la qualità del servizio,e, a volte, perfino i piatti. “La domenica sera facciamo la carbonara ubriaca, che batte tutti i record”, ci racconta Nicola. “Durante la settimana la fa da padrona l’amatriciana 1939, il risotto al burro acido e la catalana di baccalà”, continua. Modelle, imprenditori, studi di architettura, abitanti: il target è trasversale, sono tante le aziende che ultimamente si sono spostate da queste parti, in Via Savona. Iniziò tutto una quindicina di anni addietro, ora pare la norma avere lo show room fra Via Tortona e Via Voghera: va detto che il quartiere ha cambiato pelle completamente, c’è una miriade di locali uno dietro l’altro, fra birrerie, ristoranti etnici e hamburgherie. In breve, è una zona cool, gastronomicamente parlando: ghiotterie per tutte le tasche e gusti. Al Fresco si distingue dagli altri per dimensioni e atmosfera, idea di cucina e il profumo dell’erba fresca, appena tagliata. Quasi da passare la vita intera.

La domenica sera facciamo la carbonara ubriaca, che batte tutti i record

Ostriche sul terrazzo

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o champagne, da sempre uno stato d’animo e un eccitante infallibile. Poi le ostriche, seducenti lacrime di mare che si prestano a scivolare come baci prolungati. Insinuazioni sensuali, assaporando giochi erotici. Perché lo si sa, i confini tra l’amore e l’appetito sono così labili da confondersi completamente. Poi, l’atmosfera elegante e civettuola. Tutto questo sulla terrazza di Al Fresco, al primo piano. Arredamento firmato Roda (che fra l’altro ha lo show room proprio lì, nello stesso edificio), ostriche e pesce fresco preparato dall’azienda bergamasca I Love ostrica (sono perfetti, davvero perfetti), bollicine italiane e francesi, in più c’è anche il caviale Calvisius, scatole mini, di 10 grammi, ideali per l’aperitivo pomeridiano. Immagina, puoi. Perché l’immaginazione è un demone tenace, senza di lei il mondo sarebbe in bianco e nero.

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Venini Un mondo a colori

Le Gemme

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e lo chef ti colora la vita, Venini lo fa ancor di più. Lo fa dal 1921, quando l’avvocato milanese Paolo Venini e l’antiquario veneziano Giacomo Cappellin fondarono la Cappellin Venini & C. Quasi un secolo di eleganza e bellezza, di colori e sensazioni, di passione e voglia di far sognare: concetti che noi di Good Life ripetiamo come un mantra. Lo abbiamo detto e ridetto: siamo un club, dove, d’ora in poi, Venini sarà uno dei “soci” d’onore. Chef stellati, ristoranti eleganti, camicie su misura, giacche sartoriali, alberghi sontuosi: mancavano loro, proprio loro. Perché Venini fa parte di quel mondo che piace alla gente che piace, che pesa e conta, gente sofisticata e colta, delicata e dal gusto sicuro. Gente che legge Esquire e Monocle e soggiorna al Four Seasons e al Banyan Tree, che va al MoMa e si delizia da Daniel Humm e Joel Robuchon. Ci immaginiamo già i commenti e gli apprezzamenti di Tyler Brulé, il patron di Moncle, rivista che promette ai suoi lettori “istruzioni sugli affari globali, business, cultura e design”: se non su Monocle, di sicuro lo fa con gli amici o nella sua rubrica Fast Lane, che potete, e/o forse leggete, ogni sabato sul Financial Times. Per certi versi le realizzazioni in vetro soffiato di Venini stanno diventando quasi aspirazionali, non solo avanguardia artistica. Chi li acquista è orgoglioso di esibirli, di metterli in bella mostra nella propria casa, che sia in città oppure al mare, che sia un moderno open space oppure un old style. E poi ci avete fatto caso? Una creazione dell’azienda veneziana è quasi come un piatto tristellato: pittorica, narrativa, letteraria. Ogni vaso è un racconto, un dipinto. Le similitudini fra il lavoro dello chef e quello dell’artigiano sono

infinite: così come un cuoco ha la consapevolezza delle potenzialità di ciascun ingrediente, il Mastro vetraio conosce a occhi chiusi il materiale che ha fra le mani. Una portata può essere di una delicatezza vibrante e lo stesso vale per un oggetto dell’azienda di Murano. Isabel Allende scriveva che “la temperatura è importante quanto la consistenza e il calore: tutto concorre nella sensuale esperienza di un pasto”. Cambiate pasto con vaso: siamo sempre lì. Potremmo continuare: l’impeccabile equilibrio dei sapori sostituiamolo con i colori e via di questo passo. Di sicuro inseguono la qualità a ogni costo, come gli altri protagonisti e “soci” di Good Life. Benvenuta nel club, Venini.

Per certi versi i le realizzazioni in vetro soffiato di Venini stanno diventato quasi aspirazionali, non solo avanguardia artistica. Chi li acquista è orgoglioso di esibirli

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Pyros

Gusci

Satin

Monofiori e coppetta Carnevale

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Adolfo Valente Racconti d’autore

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Mangia Woods

er noi il nome di Adolfo Valente è legato principalmente a due situazioni, Treats Magazine e Giada Ghittino. La prima, ve lo ricordiamo sempre, è la rivista più cool degli ultimi anni. La seconda è stata una delle muse di Good Life nella fase iniziale della rivista. Non scatta da qualche anno, nel caso lo facesse pubblicheremmo subito. Sono quattro anni che lo seguiamo, Adolfo: iniziò tutto con una magia indimenticabile, le foto apparse, appunto, su Treats. Rosanera Adams, il nome della modella: googlate e resterete ammaliati. Fu amore a prima vista: poi fotografò Giada e così diventò ospite fisso delle nostre pagine. D’altronde abbiamo sempre sostenuto che Good Life è un club, vero? Stavolta eccolo presente con tre fotografie maestose dove le luci fanno tutta la differenza del mondo. Guardate il viso di Giulia Xie, evidenti origini asiatiche: pare un dipinto d’altri tempi, ci porta con i pensieri a Vermeer. “E’ delicata e raffinata”, racconta Adolfo. “E’ una modella già esperta, ha posato per una valanga di campagne pubblicitarie, dall’alta gioielleria agli occhiali, dalle banche ai capelli. La sua più grande qualità? Sorride sempre”. La terza è Dharma Mangia Woods, madre italiana e padre australiano, attrice e fotomodella. “Posare mi ha aiutata a crescere, soprattutto perché ho sempre gestito tutto personalmente, non avendo un’agenzia”dice. Come si può facilmente osservare, Adolfo ama una fotografia molto semplice, intimista, fatta di pochi elementi, è una fotografia quasi spartana: in più, nelle proprie foto preferisce raccontare piuttosto che mostrare. Racconta così bene che non ci stancheremo mai di pubblicare le sue storie. Anzi, i suoi scatti.

Nicole Basanthy

Nicole Basanthy è una giovane ragazza italiana di origini indiane che da quasi due anni vive e lavora in Spagna, a Barcellona. Ai tratti raffinati ed eleganti unisce la sensualità ed il tipico fascino esotico, accentuati dalla profondità dello sguardo e dalla pelle di uno splendido colore ambrato. No 46

Giulia Xie


No 47


Roberto Conti Il meglio deve ancora arrivare

Spaghetto al tartufo e capriolo al cacao

V

alerio Visintin e Mac Van Dinther, il suo omologo olandese, forse fanno ragione. Vale anche per Ruth Reichl, ex temutissima e autorevolissima critico gastronomico del New York Times che non solo andava in incognito nei ristoranti, ma si travestiva pure. Loro, e non solo loro, sostengono che un giornalista non deve avere un rapporto di amicizia con lo chef, perché in tal caso l’articolo sarà assai soggettivo. Tradotto, se lo conosci avrai un occhio di riguardo e nasconderai le eventuali delusioni e defezioni. Può darsi, però a noi piace frequentare i cuochi e sentirli raccontare i propri piatti, seguire la loro evoluzione e ammirare quella luce folle negli occhi. Roberto Conti è uno di loro: scrivemmo di lui per la prima volta quasi tre anni addietro. Ricordate? Fu portato al Trussardi da Andrea Berton, poi rimase executive chef pure con Luigi Taglienti. L’azienda del levriero gli aveva dato tutta la fiducia del mondo dopo l’addio dello chef ligure, scontentando non pochi mammasantissima del settore. Transeat. Roberto si presentò al mondo intero con quel piatto che sussurrava segreti, lo spaghetto cacio pepe e ricci. “Un piatto non migliorabile né dall’uomo né da Dio”, iniziammo così il nostro primo articolo su di lui. “Hello World”, fu il titolo, parafrasando le parole di Tiger Woods quando apparve e stupì il mondo del golf. Dal marzo del 2015 lo abbiamo seguito con attenzione, analizzando la sua crescita costante: “per essere un grandissimo gli manca un’esperienza all’estero”, ci disse una volta Berton. Sara’, però il ragazzo di Vigevano ha fatto da sé, a volte sbagliando per eccesso di entusiasmo, altre volte entusiasmando per davvero. Certo, il ristorante non ha mantenuto la stella, i maligni hanno brindato, ma lui non ha battuto ciglio, spingendo ancor di più sull’acceleratore. Ora vai da lui con la certezza di passare un pranzo, oppure una cena formidabili. I suoi piatti sono cerebrali, mai istintivi, ricchi, generosi, potenti, esprimendo il suo orgoglio e la voglia feroce di imporsi e di farti star bene. Dopo il cacio pepe ricci seguì la pizza non pizza, altro capolavoro: piatto liquido, fresco, delicato, frastornante quanto semplice. Questa primavera ci aveva deliziato con lo spaghetto freddo, gamberi di Mazara (di Paolo Giacalone, of course) e zabaione di datterino giallo, piatto che ha poi stravinto al Taste of Milan: “Solo a guardarlo vien la voglia pazza di divorarlo, è come fare all’amore con Megan Fox, oppure andare al 200 all’ora con una Lamborghini”, tanto per citare noi stessi.

Ora eccoci al sontuoso tagliolino al tartufo e capriolo baciato dalla polvere di cacao, una sorte di piatto unico. Guardatelo, impossibile aggiungere altro. Una tale esplosione e ricchezza di gusti fai fatica perfino a pensarla. “Mi sono ispirato a Ducasse”, racconta. La tanto attesa stella non sappiamo se arriverà. Pure il ristorante se lo merita, per come ti accoglie, dai camerieri al servizio di posate. Roberto aspetta con trepidazione: se non quest’anno, arriverà nel 2018. Intanto arriva il suo primo figlio. Auguri. E comunque, the best is yet to came, come dicono gli anglofoni.

Lo spaghetto freddo, gamberi di Mazara (di Paolo Giacalone, of course) e zabaione di datterino giallo è come fare all’amore con Megan Fox

No 48

Pizza non pizza


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