Florence Guyot Madame Champagne
Editoriale
L’amore (anche) a tavola
E
ravamo nel suo uf ficio, parlando dei piatti più gustosi che avevamo as saggiato di recente. Lui ascoltava e poi, incuriosito, chiedeva altri dettagli sul posto dove si potevano gustare tali prelibatezze. “Vorrei portare mia moglie, a lei piacciono tanto i ricci di mare”: i suoi occhi si sono illumina ti, sprizzavano amore e un desiderio infinito di sorprenderla. “Davvero nel ristorante siciliano si mangia così bene? Dovrei portarla, lei è nata lì, impazzisce per la cucina del posto”. E’ innamorato, pazzamente inna morato di lei, pare ovvio. Fin qui nulla di eclatante, però mi è piaciuto immensamente il suo modo di pen sarla sempre e di volerla portare al più presto nei ristoranti dove avreb be potuto sentirsi splendidamente. D’altronde qualche mese addietro, sempre qui, raccontai una storia identica, nei pressi di Padova, al Calandrino. Ricordate? Lei era S, la donna dei miei sogni. Okey, detta così forse pare una spe cie di romanzo Harmony ma non lo è, perché è davvero assai raro vedere un marito che pensa subito a sua moglie, che vuole coinvolgerla e condividere con lei le delizie di
alcuni chef. Solitamente lo si fa con l’amante; fateci caso, quante volte avete sentito un uomo intento a gustarsi i momenti più belli assieme alla moglie? Poche. Chapeau. Detto questo, mi è venuto in mente che il cibo e l’erotismo sono fra i pochi interessi che un uomo e una donna riescono a condividere ap pieno, per non dire che sono com plementari, anzi, uno il preludio dell’altro. La cena romantica vi dice qualcosa? Lo chef che ammalia e conquista grazie ai piatti che prepa ra? Forse non c’è nulla di più bello che avere una compagna innamorata del buon cibo come voi. Di sicuro in tal caso non sarete come le coppie che al ristorante stanno cupe, sguardi bassi e assenti, senza proferir parola. E’ da sempre una specie di mantra quotidiano, non banalizzare mai quello che abbiamo. Detto così suo na come uno slogan buddista che ci invita a imparare ad essere felici con poco, a saper apprezzare le piccole cose e godercele appieno. Invece sto parlando di un livello di verso, di un mondo pieno di chef e delizie, di menu straordinari e risto ranti stellati. Un mondo che, aggiun to a quello della bellezza femminile, sa di paradiso.
No 2
Good Life
Sommario
Food is art
Florence Guyot Madame Champagne pag. 06
Tagliatore Terribilmente sexy pag. 08
Gianluca Bisol Mirare alla luna pag. 12
Alain Ducasse Un francese a Tokyo pag. 16
Trussardi alla Scala Roberto Conti pag. 20
Andrea Illy In cima al mondo pag. 22
Mario Peserico L’ad gourmand. pag. 28
Igor Oussenko Magia russa pag. 34
Hedy Nerito Body language pag. 36
Good Life dominiqueantognoni@yahoo.it
Julie Mechali La magia é servita
Copyright Alice e Julie
N
on avremmo mai immaginato potesse succedere e invece eccoci attorno a mezzanotte a metterci davanti al computer e guardare disciplinati un reportage realizzato da Marie Claire France sulla preparazione di un piatto, anzi, di una fotografia di un piatto. Guardavamo in religioso silenzio come quei telespettatori attontiti dalla bellezza di Penelope
Cruz nel film Per incanto e per delizia, con la differenza che noi eravamo rapiti da un piatto e non da una presentatrice. Certo, dietro quel piatto c’era la mano geniale di Julie Mechali, fotografa rivoluzionaria, nata in Normandia e parigina di adozione, che ha praticamente cambiato il modo di scattare con la sua peinture culinaire, uno stile che mette insieme immaginazione e talento, raffinatezza e sensibilità.
No 4
Ogni numero di Good Life cerchiamo di regalarvi più immagini possibili, soffrendo quasi fisicamente le situazioni dove dobbiamo rinunciare ad alcune per motivi di spazio. Man mano che andiamo avanti troviamo le modalità per pubblicare la gran parte, anche se nel frattempo Julie ne ha ingegnate delle altre. Ci manda sempre dei dipinti incredibili, fotografie piene di sensazioni e colori, ricche di elementi,
Per Julie c’è poca differenza fra una materia prima e un’altra: “adoro sia la materia animale che quella vegetale, sono una gourmand per cui apprezzo il cibo in sé, ogni componente trasmette e scatena in me un fremito particolare. Quando poi si mescolano, siamo al nirvana puro. Poi certo ci sono delle differenze evidenti, la frutta e la verdura sono così nobili nella loro semplicità, mentre la carne incute timore e rispetto perché si contrae, si distende, si ossida. Comunque entrambe hanno in comune il fatto che hanno una scadenza, subiscono delle azioni chimiche, di decomposizione, cambiando di forma e colore. Volendo salire di livello, potremmo dire che la materia prima culinaria contiene e propone una dimensione simbolica della vita, un momento sacro. Per questo amo la fotografia, permette di immortalare un momento di grazia, ferma il tempo, lascia per sempre impressa una sensazione di eterno. L’arte fa si che tutto possa diventare possibile, la luce fa si che tutto diventi bellezza infinita. L’arte è amore e nell’amore la bontà è totale. Queste foto sono la vita stessa, trasmettono la voglia e la necessità di creare, di donare emozioni. La mia filosofia è questa”.
creazioni di rara difficoltà realizzativa, che divoriamo con gli occhi. La preparazione è a dir poco maniacale, i risultati straordinari. Ha cominciato quasi per caso, da adolescente curava le luci, collaborando con i tecnici ai vari spettacoli teatrali. Proprio in quel contesto ha iniziato a rendersi conto delle infinite possibilità e potenzialità che offre la luce, che la puoi addolcire, manovrare, manipolare. Da lì alla fotografia il passo è breve, brevissimo. “Sentivo delle vibrazioni positive”, ci raccontava durante la nostra prima intervista, “era come la chiusura del cerchio, sapevo cosa avrei fatto da grande, riuscivo a guardare oltre, dove solo pochi eletti arrivano, quelli toccati da un dono misterioso, una specie di bacheca magica che mi regalava la possibilità di immortalare la bellezza”. Al mondo della cucina è arrivata più tardi ma fu amore a prima vista: “impossibile trovare altrove una tale diversità di materie prime, mi sono resa conto di avere a disposizione una paletta di colori vasta come quella di un pittore”, si confessava. “Avevo tutto per poter mescolare e creare come Michelangelo. La peinture culinaire è nata poco a poco grazie anche all’aiuto di tanti food stylist che mi hanno aiutato a superare alcuni limiti tecnici”, continuava il suo racconto.
Florence Guyot Madame Champagne
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rima di cominciare, un consiglio spassionato agli avventurosi: evitate di cenare con lei. Nel caso accadesse comunque, che sia vostra premura ordinare piatti freddi, anche perché non riuscirete toccare il cibo nei quindici minuti seguenti all’arrivo della pietanza. Il motivo è semplice: Florence deve girare il suo spot promozionale con il piatto e la bottiglia di champagne. Al confronto, il set della trasmissione televisiva di Nigella Lawson è un gioco da ragazzi. A differenza della famosa inglese (sveniamoappena dice parole come “sciroppo scarlatto”), Flo è one woman show, nel senso che è lei a pensare a tutto, dallo styling agli scatti e all’intera baraonda. Il tutto accade davanti ai vostri occhi, per la disperazione dei commensali che vorrebbero assaggiare il cibo prelibato. Piccola dimostrazione, in versione ridotta e rilassata: “Alors. Togli la mano. Sposta il bicchiere. Gira la bottiglia. Non, pas comme ca. Alors, non. Ancora un po’. Non va bene, si vede la tua camicia. Gira ancora. Sposta. Togli. Gira. Sposta. Togli”. Tu quasi ti scusi che esisti, avresti voglia di chiedere se non fosse meglio andare ad un altro tavolo. Poi la tempesta si calma e puoi iniziare a mangiare. Ovviamente, nel frattempo si è raffreddato, a meno che non abbiate ordinato il carpaccio di pesce oppure il sushi. Carne, ve la sconsigliamo: meglio andare con lei al giapponese o da Wicky, suo grande estimatore. Segue un altro lungo cerimoniale, con la scelta delle foto da pubblicare sui vari social, il titolo della serata e affini: per farla breve, si fa prima a decidere i titoli del New York Times, inteso come tutte le 60 pagine. La ragazza ha un’energia infinita e una passione sconfinata per le sue creature, ovvero i cinque petali della margherita, i suoi cinque champagne, motivo per
il quale le perdoni qualsiasi simpatica e genuina esagerazione: in fin dei conti meglio la gente che fa troppo rispetto a quella che fa nulla. In più, la ragazza ci sa fare: al Vinitaly lo stand più affollato è il suo. Ha creato un teatrino vero e proprio, portando per fino una band che suona il jazz: l’atmos fera è a dir poco avvolgente. Good vibes, direbbero gli americani. Nel mondo della ristorazione, italiano e fran cese, è immensamente rispettata per la tua tenacia e, inutile aggiungerlo, per la qualità del suo prodotto. Noi siamo dei fan sfegatati dell’etichetta verde, Desir: uno champagne poco dosato, come si usa oggi. Lei ne produce cinque, cinque petali di una margherita, il fiore che ha lo stesso nome della nonna, Marguerite Guyot: “Ho chiamato così i miei champagne per tenere vivi i ricordi di famiglia”, ci ha raccontato la prima volta che ci siamo in contrati, esattamente due anni addietro. Gli altri quattro? Lasciamo raccontare a lei: “Cuvée Séduction andrebbe divi namente con le ostriche ed i crostacei. Cuvée Passion, che è uno champagne molto elegante e fresco, con una bella persistenza, è perfetto con una tartare di tonno, un risotto di mare, oppure l’ara gosta. Cuvée Extase si abbina idealmente alle carni bianche e ai formaggi, mentre Cuvée Fleur de Flo lo preferisco con i salumi, gli scampi crudi oppure con la catalana (un piatto strepitoso al Baretto di Milano, il mio coup de coeur italiano). Quando sono a casa mia a Lione adoro abbinare i miei champagne al Paté croute di Joseph Viola, al Daniel e Denise, men tre per il dolce vado dai Garcons Bouchers nella Halles Paul Bocuse e mi delizio con la tarte praliné. Se vi capita di essere nei pressi chiamatemi e vi inviterò”. Sarà fatto.
I migliori ristoranti dove potete assaggiare i petali di Florence: Lione: Cours des Loges, La Tour Rose, L’Auberge de l’ile, La Mère Brazier, Le 33, L’Âme Soeur, Due By Maurizio Bullano, Le Neuvième Art, Daniel et Denise Crequi et St Jean, Bernachon Chocolats, Halles de Lyon, Christian Têtedoie, Maison Clovis, Tout le monde à table
No 6
Destini incrociati Esquire, Gwyneth e Lei
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i sono situazioni, immagini e persone che tornano e ritornano con una tale forza nella tua vita da farti venire i brividi. Ci sono degli intrecci del destino che non riesci a spiegare, forse proprio per questo ti sbalordiscono ancor di più, ti ammaliano e ti stordiscono, danno la scossa, ti frastornano, ti lasciano senza parole. Il piacere di averli vissuti ti commuove e ti fa sentire invincibile, ti porta a volare e a osare l’impensabile, ti motiva e ti convince che da qualche parte c’è un disegno ben chiaro fatto su misura per te. Fotografie di donne stupende e copertine di riviste famose che si rincorrono, parole mai dette e titoli illeggibili, mondi lontani e così vicini che si incontrano all’improvviso: la magia della vita. Non è un segreto che Esquire sia uno dei miei modelli editoriali. Irraggiungibili, d’accordo, ma sempre di modelli si tratta. Da quando ho deciso di diventare editore, quasi una vita fa, ho avuto loro come riferimento nel modo di rapportarsi ai lettori e alle aziende. L’idea era di creare una rivista aspirazionale, ne abbiamo parlato due numeri fa, non vorrei tediarvi ancora una volta. Però pian piano il puzzle si sta completando, fra fatiche immani e soddisfazioni da crepacuore. Certo, Esquire ha una forza e un potere smisurati, il target
di riferimento è molto sofisticato, da questo punto di vista siamo distanti anni luce (mi conforta solo il fatto che nessuno al mondo riesce di avvicinarsi a loro). Mi riconosco di più nel supplemento fashion, Black Book, di gran lunga il prodotto editoriale più patinato che ho mai sfogliato: custodisco con religiosa gelosia tutti i numeri. Nei momenti di massima euforia, cioè ogni santo giorno, mi piace convincermi che le differenze si stanno assottigliando, che ci stiamo avvicinando a loro. La grafica é molto pulita, essenziale e intensa: poi ci sono le copertine, che studio in modo certosino, spasmodico, cercando di carpire qualche astuzia e genialata. Le conosco a memoria, perfino quelle dell’edizione turca. Ok, loro stanno imitando gli inglesi e gli americani, ma rende l’idea della mia ammirazione ossessiva nei loro confronti. Due anni fa quasi copiai due loro pagine dedicate a Scarlett Johansson: anzi, toglierei il quasi. Cambiai solo il testo e la donna che pubblicai su una pagina intera. “Yes, she”, titolava Esquire aprendo un articolo sull’attrice, eletta la donna più bella del mondo. “Si, lei”, scrissi io, raccontando una donna altrettanto bella, se non di più. Per la cronaca, fu un successone. Oggi ecco la copertina con Gwyneth Paltrow, che anni fa apprezzavo moltissimo prima della sua deviazione totale e totalitaria verso un mondo vegano pieno di strambe teorie. L’inglesina aveva quell’aria snob che
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intrigava, la sua delicatezza mi incuteva rispetto, il suo fascino aristocratico alzava barriere infinite. Mi piaceva il suo sorriso ironico e smaliziato: negli ultimi anni l’ho seguita di rado, confesso che mi annoiano il suo modo da maestrina e il suo sito salutista, ma non divaghiamo. L’altro ieri mi sono imbattuto nella cover su Esquire Russia, un numero che risale a quattro anni fa: mi ha colpito non per la grafica oppure per la bellezza di Gwyneth, bensì per la somiglianza con la donna dei miei sogni. Tranquilli, non trasformerò Good Life in un diario sentimentale (fra l’altro c’è poco o nulla da raccontare), ma se questa rivista ha un’anima e dei colori particolari c’è una spiegazione, oltre alla mia infinita passione per il mondo dell’editoria. E’ qui però che si intrecciano i destini: qualche decennio fa, anzi a partire da quei tempi, pregavo che si potessero avverare due sogni. Il primo era creare la rivista più bella del mondo: ci siamo quasi. Il secondo era di incontrare lei. “Lei”, guarda caso, è spaventosamente ed incredibilmente identica a Gwyneth. Me ne sono reso conto proprio guardando la cover di Esquire. Strano, vero? La rivista che ho come modello mette in copertina proprio una donna così somigliante a lei. Due sogni che si intrecciano ma che non si avvereranno. Almeno per ora. One day, chissà.
Tagliatore
Terribilmente sexy
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Pino Lerario ormai è un amico. Non solo ci piace ospitarlo nelle nostre pagine, ma conosciamo a memoria le sue collezioni, perfino quelle future: passiamo spesso nello show room milanese e restiamo incantanti dall’intensità e l’eleganza delle giacche, tant’è vero che in più di una situazione abbiamo sognato di indossarne una di tornarcene a casa vestiti con una delle sue creazioni. I suoi tuxedo sono favolosi, fanno sì che tu possa aspettare con impazienza una cerimonia altrimenti poco gradita. Sono terribilmente sexy e sensuali, per quanto possa sembrare azzardato l’accostamento degli aggettivi. Ecco l’essenza del suo taglio: è sexy. Piace perché ammalia, intriga, conquista. Tagliatore sta diventando sempre di più un nome importante nel mondo della sartoria italiana, dimostrando di non essere una meteora bensì un’azienda solida, con idee chiare e un progetto solido. Negli anni abbiamo assistito troppo spesso a dei casi umani, gente che compare in maniera pomposa per poi sparire nel nulla, causa esaurimento ispirazione e risorse. Qualche stagione all’apice e poi il dimenticatoio totale: Pino Lerario è invece saldo al commando della sua creatura, spinge sull’acceleratore sempre di più, prende fiducia e osa, proponendo colori e tagli dall’effetto “lo voglio subito”.
No 9
I
In più, la cura maniacale che dedica all’immagine dell’azienda porta i suoi frutti. Se le campagne pubblicitarie hanno come testimonial il prodotto stesso (il manichino ha già fatto storia), i cataloghi di Tagliatore sono straordinari: le fotografie che state guardando, presenti nel catalogo dell’azienda, riescono a destare un forte interesse e quel desiderio di sapere di più sulle giacche e sul personaggio che le indossa. Può sembrare un dettaglio di poco conto, invece non lo è: la solidità di un’azienda, la sua credibilità passa anche dagli aspetti legati all’immagine, soprattutto oggi. Chi dimostra e chi riesce a soddisfare meglio i desideri dei clienti, visual compreso, ha vinto e ha un futuro radioso. Lo si sa, più si sale di livello, più l gente esige di più: si vuole immedesimare, partecipa, chiede, si informa. Pino Lerario e la sua azienda lo hanno capito o forse è una qualità innata: solitamente chi ama il bello ama tutte le sfaccettature. Fatto sta che non ci stancheremo mai di pubblicare scatti del genere, anzi: Good Life è stata creata per fotografie e storie che fanno sognare. Proprio come la storia dell’azienda pugliese.
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Breitling Superocean II
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n orologio solo per intenditori, per dei grandissimi intenditori. Quadrante e lunetta ridisegnate, profilo assottigliato, un nuovo formato di 36 mm e un nuovo cinturino di caucciù: Breitling Superocean II conferma il suo carattere di orologio supersubacqueo capace di conciliare stile e prestazioni. Fin dall’anno del suo lancio, il 1957, Breitling non ha mai smesso di ottimizzare il Superocean sotto l’aspetto tecnico e funzionale. L’obiettivo fissato era ben preciso: accompagnare in tutti i mari del mondo i sommozzatori professionisti e militari, ma anche i
semplici appassionati di immersioni. Il Superocean II, il modello più recente, conferma la vocazione di Breitling alle grandi imprese. Il profilo della cassa è stato assottigliato per ottenere maggiore leggerezza e maggiore comfort. La lunetta girevole unidirezionale scanalata, rivestita di caucciù, presenta grandi cifre ben visibili, il conteggio degli ultimi quindici minuti del tempo d’immersione e un triangolo con punto di riferimento luminescente all’altezza delle 12h. La leggibilità del quadrante è rafforzata dalle grandi cifre arabe arrotondate, sottolineate dal rivestimento luminescente bianco, e dalle lancette sovradimensionate
Xerjoff
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che brillano a loro volta nell’oscurità. La robustissima cassa d’acciaio, con corona a vite, garantisce una perfetta impermeabilità dai 200 ai 1000 metri di profondità. Il nuovo Superocean è disponibile nel diametro di 44 o di 42 mm, con la cassa d’acciaio satinato (nella versione 44 mm) o levigato (nella versione 42 mm) e con il quadrante nero o blu, assortito alla lunetta e al cinturino. Breitling ha arricchito questa linea con un modello dalla cassa levigata del diametro di 36 mm, disponibile nel colore nero o in una versione squisitamente femminile in cui domina il colore bianco.
na passione infinita per l’Italia, tradotta ed espressa con l’intensità di un profumo. Xerjoff ci regala due nuove fragranze, un dono d’amore verso Roma e la Sicilia, presentando Zefiro e Naxos. Zefiro vuol essere un tributo alla Roma antica, mistero e potenza, una specie di pozione magica con note di miele e spezie. Evidente il legame fra la Sicilia e il profumo Naxos: Xerjoff lo celebra con un profumo sensuale e una nota di limone, per dare quella freschezza che si respira sull’isola. Le due fragranze si aggiungono al già ricco portfoglio della
Passione italiana
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maison, meglio alla collezione XJ 1861. “Italia è un paese complesso, dove si vive di passione, amore e tradizione”, racconta Sergio Momo, fondatore della maison. “E’ la mia terra, una terra piena di poeti e sognatori, artisti e creativi, solo loro la vera ricchezza dell’Italia”, continua. Per la cronaca, il primo profumo della collezione fu Renaissance, un profumo sofisticato pieno di carezze agrumate assieme al bergamotto, menta, ambra, rosa e cedro. I prodotti di Xerjoff non sono ancora disponibili in Italia, però li potete trovare al Harrods Salon de Parfum and Fortnum & Mason’s.
Gianluca Bisol Riserva del Fondatore
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a quando lo abbiamo incontrato per la prima volta cerchiamo in maniera quasi disperata un termine, un aggettivo che lo possa “inquadrare”. Dopo averne scartate alcune decine ci siamo soffermati su “Vulcanico”, parola che ha vinto contro “geniale”. Volendo possiamo metterle insieme, renderebbe al massimo l’idea: Gianluca Bisol, un vulcanico geniale. Non sta fermo un momento, riesce a superare per numeri di chilometri qualsiasi pilota: è un fantastico ambasciatore di sé stesso, della sua maison, del Prosecco e dell’Italia. Per lo speciale Pitti, l’espressione della massima raffinatezza, abbiamo deciso di farvi sognare con i due prodotti di punta della maison veneta: la Cuvée del Fondatore e il Cru Cartizze. Impresa facile, molto più arduo il tentativo di metterci in contatto con lui e farci raccontare le sue gemme: fra un volo e un altro, fra un evento e una manifestazione, ce l’abbiamo fatta. Eccoci. “La Cuvée del fondatore è la massima eccellenza, il nostro fiore all’occhiello, un pregiato Talento Metodo Classico... e poi c’è quel misterioso sciroppo di dosaggio, un segreto ben custodito. Eliseo, mio zio, è andato per tantissime volte in Francia pur di capire e carpire i segreti del dosage. In fin dei conti si tratta di grandi vini bianchi invecchiati in barrique e poi mescolati fra di loro, dei Pinot Bianco, Nero e Chardonnay messi a fermentare e poi a maturare sui lieviti per dieci anni. E’ assai difficile trovarlo nelle enoteche (i costi si aggirano sui 50 Euro, ndr) perché non abbiamo tantissime bottiglie e quasi tutte vengono prenotate dai nostri affezionati clienti, in primis dai collezionisti. E’ un gran vino prima di essere un grandissimo Talento Metodo Classico: è un vino pieno, morbido che si può abbinare a qualsiasi pasto, anche se io lo preferisco assieme all’aragosta. Uno dei ristoranti più famosi dove lo potete trovare è Al Sorriso, storico ristorante stellato Michelin nel novarese”.
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Cru Cartizze
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l Cru Cartizze è una gemma preziosissima, la nostra punta di diamante, la Formula Uno del Valdobbiadene Superiore”, continua il suo racconto. Nasce proprio sulla collina dove si trova l’azienda. Qui il vitigno ha la sua particolarità, l’uva solitamente viene lasciata perfino un mese in più rispetto all’altra senza perdere acidità. E’ evidente che la qualità del terreno fa la differenza, noi siamo qui dal 1542: assieme ad altre famiglie storiche custodiamo la terra per le generazione future. Pensate che ci sono circa 27.000 ettari di Prosecco e solo 106 di Cru Cartizze: così si spiega perché viene considerato un vino pregiato. E’ un vino che negli anni Novanta andava molto di moda a Milano, poi proprio per questo i prezzi si sono impennati e di conseguenza il consumo si è bloccato: ora sta tornando ai fasti di una volta. Il perlage è vivace, persistente e sottile, il profumo quello elegante di fiori di prato, gradevolmente fruttato con sentori di mela, pera e pesca. A me piace moltissimo a tutte le ore, è un vino da compagnia, equilibrato, pieno, sapido, da happening o da happy hour, ovviamente lo si può abbinare a qualsiasi piatto. Ricordo una cena preparata per noi da Carlo Cracco, anzi, furono cinque cene dove lo chef deliziò gli invitati con pietanze da favola: baccalà al vapore, spaghetti all’uomo abbinati al nostro Cartizze e via discorrendo. Fu nel 2005, anno straordinario per noi: abbiamo vinto la classifica come miglior vino bianco a Londra, fra sei cento altri prodotti. Lo potete trovare anche da Heinz Beck alla Pergola, oppure Dal Pescatore, dalla famiglia Santini”. Non possiamo concludere senza citare Adriano Madaro, il quale, raccontando quell’angolo di paradiso che ha nome Santo Stefano, cuore della ristretta zona dove nasce il celebre prosecco, diceva: “ecco clivi di Cartizze con le vigne a festone dove l’uomo per quasi mille anni si è consacrato alle loro cure rendendole eterne e sovrane”. Poesia pura.
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Il Visionario Mirare alla luna
“E
’ un visionario e un vero eccentrico. In lui non c’è posa ma personalità”. Lo senti dal tono della voce: quando Camilla Baresani parla di Gianluca Bisol sorride. “Ci siamo conosciuti una decina di anni fa. Tenevo una lezione sulla storia millenaria del vino. Il corso, per conto dell’Università di Venezia, era organizzato al Duca di Dolle, un resort a quei tempi di proprietà della famiglia Bisol”, racconta la scrittrice. “Il resort è nel mezzo del paesaggio straordinario e senza tempo delle colline del prosecco docg, che conoscevo sino a quel momento solo tramite le poesie di Andrea Zanzotto. Il celebre poeta dedicò gli ultimi anni della sua vita a una battaglia per preservare quelle colline dall’immobiliarismo rampante. Incontrai Gianluca e, oltre al savoir-faire e all’attenzione per gli altri, mi colpirono il suo amore
per i dettagli estetizzanti, la sua eleganza bizzarra, la passione per la qualità del prodotto: Bisol è ambizioso in ogni campo, non si accontenta, non tira a campare, mira alla luna”. Possiamo dirlo? E’ una delle più belle frasi che abbiamo sentito recentemente: non è un caso che le parole appartengano a lei, la nostra scrittrice gastronomica preferita assieme a Ruth Reichl. “Le stanze del resort erano di un’eleganza scabra, perfettamente fusa col contesto. Anni dopo ho ritrovato la stessa sensazione a Venissa, il resort creato da Gianluca sull’isolotto di Mazzorbo: è il sogno di ogni scrittore. Puoi prendere il vaporetto, andare a Venezia e stare nel mezzo alla baraonda e al jet set, però quando torni sull’isola sei in un mondo intimista, romantico, che aiuta la concentrazione e la creatività. Un po’ come da Cipriani a Torcello, ma con un tocco di naturalezza
rurale. Gianluca ha unito il culto del paesaggio a quello del cibo e del vino. Quasi tutto quello che viene servito nel ristorante è prodotto nei magnifici orti di Venissa, coltivati da pensionati dell’isola adiacente, Burano, oppure viene pescato in laguna. Il progetto di Bisol, costoso e non so quanto redditizio (il reddito non si fa con poche stanze raffinate e con una cucina da gourmet, semplice e molto ricercata), è da vero visionario”. E’ difficile poter aggiungere qualcosa, probabilmente nessun’altro saprebbe descrivere meglio il mondo fantasmagorico di Gianluca. Nessuno, perché le parole di Camilla sono una sinfonia, un assalto di sensazioni: “Per il mio penultimo romanzo mi ha regalato una bottiglia gigantesca di prosecco Bisol: al posto dell’etichetta ha fatto dipingere sul vetro la copertina del libro. La creatività di Gianluca è sorprendente”.
Camilla Baresani,
Foto: Settimo Benedussi
Il Sole 24 Ore, settembre 2010 “Su quali siano gli ingredienti ideali di un fine settimana romantico e suggestivo ci sono opposte visioni. Se per voi l’importante è un isolamento che però non escluda opportunità paesaggistiche, artistiche, architettoniche; esclusività non del prezzo ma della situazione (albergo di poche camere, ristorante con una manciata di tavoli); assenza di cafonaggine da eccesso di lussi ma comfort di dettagli, quali lenzuola e asciugamani di lino, stanze spaziose, arredate con gusto, wifi gratuito e funzionante; gran qualità della cucina e prima colazione sontuosa, preparata personalmente dallo chef… be’, un luogo con tutte queste caratteristiche lo trovate nella laguna veneta, sull’isola di Mazzorbo, collegata da un ponte a Burano e di fronte a Torcello. Si chiama Venissa e ci si arriva col vaporetto dalla stazione di Venezia o col motoscafo a tariffa “calmierata” mandato dall’albergo. Che più che un albergo è una locanda (6 camere doppie, 110 euro e 130 le suites), ma anche una tenuta con orto e vigneto di uva autoctona dorona, circondata da un antico muraglione”
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Hendrick Otto Andiamo a Berlino
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erlino si sta finalmente liberando dagli ultimi mostruosi ricordi del comunismo, un comunismo che ha distrutto due generazioni di tedeschi: nulla e nessuno potrà ridare alle persone cinquantanni rubati dall’orrore rosso, però il presente è brillante e questo basta per poter sorridere. Come spesso accade, chi ha subito tali ingiustizie dal destino tende ad esagerare quando finalmente vede la luce: vale anche per la capitale tedesca, diventata una città piena di energia e soldi, con locali di tendenza e una vita notturna senza pari. In più, fatto assai sorprendente, sta cominciando a essere una meta per i gourmet, proponendo un ventaglio gastronomico a dir poco invitante. Raffiche di chef e ristoranti stellati (dodici), da Michael Kempf a Marco Muller, da Sebastian Volz a Christian Lohse, da Fishers Fritz a Christopher Ruffer, fino a Hendrik Otto dell’Adlon’s Esszimmer, forse il migliore di tutti per come interpreta il connubio fra tradizione e contemporaneità. La nuova generazione di chef teutonici ha sviluppato un modo di pensare i
piatti poco legato al passato e più ispirato al meting pot della città (187 nazionalità popolano Berlino). Otto invece è ancora molto legato alle ricette di una volta, mette l’accento sulle materie prime, cerca di stimolare i sensi. Il ristorante si trova all’interno dell’hotel Kempinski: aperto nel 1907, chiuso e bruciato durante la seconda guerra, poi abbandonato fra Est e Ovest, oggi è tornato agli antichi splendori, essendo di gran lunga il più lussuoso della capitale. Oltre ai piatti di Otto aiuta molto anche la location: sei tavoli sono con vista sulla Porta il Brandeburgo, un lusso straordinario, atmosfera degna di un palazzo reale, il personale davvero all’altezza (“sembra che stiano danzando”, ha scritto qualcuno riferendosi ai camerieri). Il menu degustazione vale da solo il viaggio (qualcuno lo ha definito trascinante), la granita di menta ancor di più, le focaccine di grano saracino un must. Otto è qui dal 2010: prima aveva conquistato la stella con il ristorante La Vision, a Colonia (confermata per i sei anni successivi) e con Vitrum, all’interno del Ritz,
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sempre a Berlino. Fin dagli inizi aveva messo l’accento sulle materie prime, forse perché “condizionato” dai suoi genitori, cultori e coltivatori di frutta e verdura: sarebbe stato strano il contrario, a questo punto. Hendrick ha sempre fatto il cuoco e fin dai primi giorni al Kurhotel Lauterbad ha avuto la fissazione per il mix fra tradizione e modernità: i risultati lo hanno premiato, lì come al Landhaus Flattbek di Amburgo, suo primo step importante nella carriera. Piccola incursione fuori dal mondo gastronomico: se volete un albergo all’altezza del Kempinski potete scegliere fra Hotel de Rome (ex sede della Dresdner Bank, stile neo classico nella vecchia Berlino Est, vicino alla nuova Stazione centrale, proprietà del gruppo Rocco Forte), Hotel Q (boutique hotel dal design particolare), Regent Berlin (stanze sfarzose e un ristorante che vanta due stelle Michelin), Palace Berlin (per una clientela business, a due passi da Ku’damm, pure qui una stella grazie a Matthias Diether).
Alain Ducasse Un francese a Tokyo
“L
ei andrebbe da Chanel a lamentarsi che un vestito costa troppo?”. E’ una delle frasi preferite di Ducasse quando si osa commentare i prezzi alti dei suoi ristoranti. La domanda che invece si fanno gli altri è se lui sia un cuoco con naso per il business, oppure un uomo di finanza che si diverte in cucina. Lo considerano un mogul, ovvero un magnate, oppure un “culinary force”: in pratica tutto tranne che uno chef. Al di là dei pareri e delle risposte non dobbiamo dimenticare che ha “accumulato” 22 stelle Michelin e soprattutto che ha una storia da raccontare, forse come nessun’altro chef famoso. Tanto per fare un esempio: nel 1984 viaggia assieme a degli amici con un charter verso Courchevell, nelle Alpi, l’aereo si schianta e lui rimane l’unico superstite. Un vero
miracolo, seppur siano stati necessari 15 interventi chirurgici per rimetterlo in sesto. “Nei mesi passati in ospedale pensavo ai nuovi piatti, a come prepararli. Non potevo camminare, non ci vedevo e non potevo lavorare: sognare e immaginare invece sì”. La passione per la cucina e per l’essenza del gusto ce l’ha fin dagli anni dell’infanzia, a Castelsarrasin, nel sud della Francia. I suoi avevano una specie di agriturismo, la sua stanza da letto si trovava proprio sopra la cucina: il profumo della blanquette de veau lo mandava in visibilio tutte le domeniche, a quel punto il futuro pareva già segnato. La prima esperienza fu come cameriere, a 16 anni, al Pavillion Landais, ristorante a Soustons: “un lavoro terribile, dovevo cambiare altrimenti mi sarei ammazzato”, ricorda divertito. Difatti passò
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al ristorante di Alain Chapel, uno dei pionieri della nouvelle cuisine: qui imparò davvero molto, tanto da sentirsi pronto per la grande avventura, ovvero chef al Hotel Juana a Juan Les Pins. Il risultato? Due stelle Michelin, la prima nel 1984, la seconda un anno dopo. Nel 1987 gli viene proposto di prendere le redini del Louis XV, a Monte Carlo, ristorante che si trova di fronte al casinò, al piano terra del Grand Hotel. “Accetto, ma se nell’arco di quattro anni non riesco ad ottenere tre stelle Michelin me ne vado”, disse per poi metterlo perfino nero su bianco sul contratto. Non rispettò l’accordo: le tre stelle arrivarono con in anticipo. Per la cronaca Louis XV fu il primo ristorante di un albergo ad avere un riconoscimento del genere. Diventa così uno dei più giovani chef a poter vantare
un curriculum tristellato: il mondo gli sorride, poi viene colpito dalla disgrazia dell’incidente. Rieccolo dopo, ancor più agguerrito: apre un suo ristorante in Provenza, uno a New York nel Essex House Hotel e di seguito tutti gli altri, compresso Beige, a Tokyo: non poteva mancare nella capitale del paese con la miglior cucina al mondo. Situato al decimo piano del Chanel Ginza Building, nel quartiere esclusivo Ginza, propone una cucina locale con tocchi francesi. In pratica Alain ha messo solo il nome, perché l’executive chef è Kei Kojima, uno che non delude mai: i commenti dei clienti
e della critica sono sempre entusiasmanti, quasi sempre leggi frasi del tipo “Food is as wonderful as you’d expect“. Disegnato d Pierre Marino, ha compiuto undici anni di vita. Per tornare alla domande iniziale, sa bene che i prezzi nei suoi ristoranti sono altissimi: il piatto che costa di meno è l’insalata di 68 euro (va detto che per i nababbi russi si tratta di noccioline). A Parigi, al Plaza Athénée, il suo menù arriva quasi ai 400 euro, però sa come giustificarsi: “L’alta cucina è come la haute couture, i materiali sono pregiati, le finiture e la preparazione richiedono molto tempo,
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tanta bravura e rigore. Non mi sento in colpa, i prezzi sono giusti, per la cronaca ho aperto anche dei bistrot dove si spende molto meno”. Tutto vero: ne ha due perfino a Parigi, in totale ne gestisce e dirige 25 per un fatturato totale di 120 milioni (e 1.400 dipendenti). L’ultima apertura è in pratica un chioschetto parigino nel 15imo arrondissment, Chou d’Enfer: solo sweet food, bigné al burro salato al prezzo, non modico, di 9 euro l’uno. Per il 25imo anniversario del Louis XV ha invitato a Monte Carlo 240 chef dal mondo intero, compresi
67 francesi, 27 americani, 8 inglesi e spagnoli e 17 nostrani. Il rapporto con l’Italia è alquanto forte: fra l’altro da lui sono passati a lavorare Cracco e Oldani (Alain apprezza moltissimo anche Massimo Bottura e Fulvio Pierangelini). Oggi in pratica non cucina più, si limita a inventare e trasmettere le idee ai collaboratori. Continua ogni mattina ad andare personalmente e fare la spesa al mercato di Nizza: ha sempre messo l’accento sulla freschezza dei prodotti, come ha ripetuto spesso nel suo ultimo libro, Nature. Quello che si conosce meno è che sua moglie, Gwenaelle, incontrata su un volo Parigi-New York, è vegetariana convinta: pure Arzhel, il loro primo figlio, pare indirizzato verso la stessa strada, visto che viene catechizzato e obbligato a mangiare verdure due volte al dì. Il secondogenito, Dae, è ancora troppo piccolo per essere catechizzato: ha solo quattro anni. Forse si salverà. Non sopporta la televisione, ovviamente intesa come mezzo per parlare di cucina, di alta cucina: “La detesto, è caricaturale, uno chef deve fare il suo mestiere, l’artigiano, mica fa la star in tv”. Punti di vista. E’ stato, ed è tuttora, lo chef preferito di Sarkozy e consorte, del principe Alberto (ha gestito lui il banchetto di nozze) e di tantissimi altri. Lavora come se non vi fosse un domani, dorme poche ore, ama andare alle mostre e assaggiare i piatti degli altri chef famosi oppure emergenti, è un uomo fortunato e lo sa. Come lo sono i suoi clienti.
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Trussardi alla Scala Roberto Conti
Scampo,champagne e tartufo
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nthony Bourdain, noto ai più per i suoi romanzi gastronomici ed i programmi televisivi, un giorno esclamò: “Amo mia moglie, mia figlia e questo piatto”. Lo disse mentre assaggiava una prelibatezza di strada, uno dei succosissimi piatti dello street food, realtà sempre più affascinante e ricca di sorprese. A noi invece ci è venuta la voglia di gridare una frase identica dopo la prima forchettata della genialata proposta da Roberto Conti, il nuovo executive chef del Trussardi alla Scala, ovvero gli spaghetti cacio pepe e ricci di mare. Ci esplodevano in mente una serie infinita di espressioni, aggettivi, termini esaltanti ed esagerazioni varie: tutte ci parevano azzeccate, perché il piatto merita applausi e complimenti infiniti. E’ la perfezione, un piatto potente, l’insieme della cucina di terra e di mare, sprigiona seduzione, la felicità immediata, dove ogni ingrediente è perfettamente riconoscibile e i profumi sono nitidi. Siccome il cibo
e l’eros vanno di pari passo, la prima forchettata è stata come accarezzare il seno di una giovane donna, il seno sodo, con la punta come se fosse un bottone di porpora. Pungola il desiderio amoroso, va respirato profondamente, provoca vertigini di piacere. Troppo gustoso, troppo succulento, il sapore ti esplode sul palato. Certo il menu non si ferma al piatto appena esaltato: scampo, tartufo e champagne sanno di paradiso, soprattutto se abbinato ad un Sauvignon, la lingua di vitello in salsa verde si scioglie in bocca. Il gelato al lardo non va lontano: è nato da un’idea di Pierangelini, che preparava la passatina di ceci con gambero e lardo, Roberto ha afferrato il concetto e l’ha adattato alla sua filosofia. Il risotto con l’ossobuco va di moda soprattutto fra la clientela straniera, mentre gli italiani ordinano perlopiù crostacei, pur non rinunciando alle pietanze tipicamente milanesi.
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La prima volta che siamo andati da lui abbiamo provato e amato il cervo alleggerito con la salsa al cioccolato. “Rispetto alla selvaggina classica, il cervo è molto più elegante”, ci raccontava. Pur amando molto la carne, la materia prima che lo stimola di più è la verdura: “Riempie il piatto di colore, la si può preparare in modi diversi, prendiamo la melanzana, cucinata alla griglia sembra quasi una bistecca. Ogni verdura la condisco con l’aceto di anfora di zibibbo. La carne si, è strepitosa, ma hai pochi margini per poterla trasformare”. Quando parla della sua cucina Roberto la descrive come “diretta, italiana, di prodotto, toccando il meno possibile la materia prima, non amo le marinature”. Ultima nota per quello che riguarda la cucina: il pane è uno dei migliori che abbiamo assaggiato negli ultimi anni. Roberto è arrivato qui in punta di piedi, sei anni addietro, nello staff di Andrea Berton, per poi rimanere
Costoletta alla milanese
come vice di Luigi Taglienti. Molto disciplinato, con la mano decisa, ha preso le redini della cucina senza alcun timore, convinto del fatto suo. Ha creato il proprio menu, rompendo con il passato (fra l’altro non ha più avuto alcun contatto con Taglienti), ascoltando solo Carlo Cracco, uno che oltre a essere il consulente della famiglia è uno di casa. “Lui è il mio idolo, ha cambiato il modo di intendere la cucina intesa come gruppo di lavoro, è molto presente, da lui le persone restano per due, tre anni, fatto assai raro nel mondo dell’alta ristorazione”. Ha mantenuto la brigata di prima, dodici soldati che lo seguono e lo apprezzano per i modi e le qualità umane, perché il ragazzo di Vigevano è molto umile, sa coinvolgerli e renderli partecipi.
Roberto Conti
Spaghetti cacio pepe ricci
Complimenti anche a Tommaso Trussardi, l’amministratore delegato del gruppo, che ha saputo valorizzarlo, che ci ha creduto, promuovendolo come executive chef quando sarebbe stato più logico puntare su un altro nome stellato, come forse imponeva l’importanza della maison del levriero. “La scelta di Roberto Conti è stato un riconoscimento al suo talento”, commenta Tommaso, “un attestato di valore alla sua idea gourmand che ci rappresenta pienamente: mettere al centro la cucina, fatta di materie prime di eccellenza e di piatti che combinano heritage e raffinata lavorazione”. Mossa astuta, ponderata e vincente, perché oggi i risultati sono sotto gli occhi di tutti, la sala è piena sia a pranzo che a sera, mentre nel passato recente la situazione era
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assai diversa, con giorni davvero deprimenti dal punto di vista delle presenze numeriche. Oltre al cambio in cucina da Trussardi hanno scelto di rinnovare anche gli interni: “Con questa rivisitazione”, racconta Gaia Trussardi, direttore creativo del gruppo, “abbiamo voluto dare calore all’ambiente, facendone uno spazio confortevole dove sentirsi accolti e a proprio agio. Anche per questo abbiamo puntato su scelte essenziali, nel design e nelle tonalità delle pareti come dei rivestimenti, in armonia con lo stile che da sempre definisce ogni espressione creativa di Trussardi”. La chicca più preziosa è il lounge bar accanto al ristorante, sempre al primo piano, dove puoi gustarti un sigaro in santa pace: un posto del genere mancava davvero a Milano.
Andrea Illy In cima al mondo
Illy a Regent Street
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rriva e ordina un caffè freddo, con due cubetti di ghiaccio. “D’estate mi piace così”, dice. L’espresso classico lo beve senza zucchero, quando si tratta del suo (per suo si intende che lo produce lui): “Se è buono, di una qualità superiore, non ha senso aggiungere altro, si mette latte o zucchero per coprire il gusto cattivo”, racconta. “Lui” lo produce e lo vende in 145 paesi: per la cronaca il signor Andrea Illy ne beve quattro al giorno. L’appuntamento era per le 10.30 a Larte, in Via Manzoni, il locale aperto assieme ad altre aziende di alto livello che fanno parte dell’associazione Altagamma, da lui presieduta. Forse non lo dovremmo scrivere, però ci ha colpiti a tal punto da sentirci in dovere di raccontarlo: alle 10.35 la sua segretaria ha chiamato per informarci che il signor Andrea sarebbe arrivato con qualche minuto di ritardo. Conoscete altro imprenditore di un tale peso che si comporti così? Una lezione di vita e di stile, un piccolo e significativo esempio di come si arriva in cima al mondo. Non è il primo e non sarà l’ultimo nell’arco di un incontro che ci ha insegnato tanto.
- Partiamo, inevitabilmente, dall’Expo, dove siete protagonisti assoluti: cosa rappresenta per voi? - Non parlerei di noi in quanto Illy ma in quanto Italia. L’Expo è una vetrina straordinaria, non esiste situazione migliore per promuovere i nostri prodotti, il ritorno d’immagine sarà colossale. E’ prima di tutto una opportunità economica, perché arrivano visitatori da tutto il mondo, spendendo per gli alberghi e altri acquisti. Oggi l’Italia esporta cibo per un valore di 35 miliardi di euro, dopo l’Expo si spera possa fare ancora di più. E’ la grande occasione di rilancio del nostro cibo a livello mondiale e di rafforzare la cultura italiana. Se poi vogliamo toccare i temi sociali dell’Expo, allora senza dubbio si tratta di un buon pretesto per affrontare la nutrizione intesa come food safety, ovvero la lotta all’obesità, mangiando in maniera più sana. Discutendo di fame e sostenibilità, ci si incontra per migliorare l’agricoltura, per risparmiare l’acqua. Sono argomenti concreti che si approfondiscono in maniera profonda durante i sei mesi, è davvero una specie di anno zero, di
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discontinuità. Dobbiamo capire che il problema non è se abbiamo abbastanza cibo per nutrire il pianeta, perché ne abbiamo fin troppo. Dobbiamo invece capire come distribuirlo e che fra non molto i terreni non saranno più compatibili, che spesso il clima sarà avverso e questo tocca direttamente i produttori di caffè. In essenza viviamo in un circolo virtuoso fatto di piacere e sviluppo, che si autoalimentano: più si alimenta, più si riduce la povertà. - Il mondo Illy cosa porta all’Expo? - Abbiamo almeno una ventina di progetti nei sei mesi di Expo, per noi è un anno straordinario. Chi va in fiera avrà l’occasione di trovare il personal blender, un’applicazione da scaricare sul telefono, per il resto preferisco che lo scopriate voi stessi. Dico solo che si può scegliere fra nove gusti e che tutti i dati inviati dal vostro telefonino rimarranno per sempre nella memoria di Illy, così che ovunque andiate troverete in automatico la vostra personale ricetta di caffè. Per ora la house blend la si trova solo all’Expo, fra non molto in tanti punti Illy: l’industrializzazione non è un problema, il più è stato fatto.
- Come procede con l’apertura dei nuovi monomarca Illy? - Ne apriamo 40 all’anno, la gran parte nelle città metropolitane, come Londra, Parigi, Tokyo. In Italia è più difficile per via della burocrazia, qui le norme sono stringenti, ma alla fine ce la caviamo, incontro sempre persone collaborative, il problema è quando hai davanti persone che ti fanno muro. Comunque parliamo il meno possibile delle difficoltà dell’Italia e di più delle sue capacità. - All’estero come si beve il vostro caffè? - Al di fuori dal mondo latino, cioè Spagna, Francia e Portogallo, dove impera il classico espresso, gli altri europei lo preferiscono con il latte, mentre negli Stati Uniti bevono il caffè filtro. Il caffè però è ovunque lo stesso. - Qual è il posto più inconsueto dove avete aperto un punto Illy? - In mezzo al Deserto dei Gobi e, anche se pare incredibile, vicino alla cima dell’Everest. Ho trovato un chiosco perfino in una baietta sperduta e nascosta: abbiamo dei fan convintissimi ovunque. - Il caffè Illy costa più del doppio rispetto agli altri: è solo marketing, oppure ci sono ragioni legate alla produzione? - Ci sono mille motivi. Per prima cosa è un caffé realizzato con i migliori blend, creati esclusivamente per noi, per cui pure noi paghiamo più degli altri. Acquistiamo subito dopo il raccolto, mentre la concorrenza compra spesso a spot, ovvero quando e se ne ha bisogno. La lavorazione è accurata al massimo per non parlare della confezione pressurizzata e sofisticata. Stiamo crescendo come numeri, la dimostrazione che la gente apprezza la qualità. D’altronde il caffè è piacere, puro piacere, le persone sono disposte a pagare qualcosa in più pur di regalarsi momenti del genere. - Cosa succede quando va in un bar, oppure in
Andrea Illy
Illy a Dalian
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Illy a Pechino
Illy a Regent Street
un ristorante dove non riesce a bere un caffè Illy? - Solitamente un bar con caffè Illy lo trovo, mentre i ristoranti li scelgo spesso in base alla presenza del nostro prodotto. Comunque se la domanda era che tipo di caffè mi infastidisce, allora devo ammettere che sono intollerante all’odore del robusto, a quello pieno di caffeina, amaro e alla tostatura scura. - Nel caffè cattivo mette lo zucchero? - Si, certo. - Quali sono le più belle caffetterie Illy? - Quella appena aperta a Milano, nella Piazza Gae Aulenti e la caffetteria londinese di Regent Street. - Larte, dove ci troviamo ora, le piace? - Si, tanto. E’ un progetto dove sono coinvolte 15 aziende d’eccellenza italiana in un contesto che vuole rappresentare uno stile di vita, con il cibo al centro. – Qual è il paese che vanta più caffetterie monomarca Illy? - La Corea del Sud, ne ha una ventina. - Un paese dove desidera aprire? - L’Austria. - All’aeroporto, quando gli addetti le chiedono il passaporto per il controllo, come reagiscono vedendo il nome? - Alcuni fanno finta di nulla, altri mi dicono che bevono solo il nostro caffè, altri vogliono addirittura fare una foto assieme a me: però non sono una rockstar, non ci sono bagni di folla attorno a me. - In tre parole come possiamo caratterizzare il suo caffè? - Complesso, equilibrato, elegante. - Il complimento più bello che le hanno fatto? - Ovviamente quando mi dicono che il nostro caffè è di una qualità superiore. Però vado molto orgoglioso del fatto che ho messo l’accento sulla responsabilità
d’impresa ed i risultati si vedono: gli agricoltori hanno un senso di appartenenza straordinario, ci dicono che grazie alle nostre politiche pure loro guadagnano di più. - Possiamo affermare che llly è il marchio più riconosciuto al mondo, per quello che riguarda Illy a Milano, in Piazza Gae Aulenti
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il caffè? - Si, è il marchio globale più riconosciuto. - E’ anche il migliore? - Il sogno di mio nonno era quello di offrire il miglior caffè al mondo. Siccome spesso i sogni si avverranno…
Sergio Herman E
Fucking Perfect
’ una storia da film americano, con una trama intensa e con tante sfaccettature, personaggi e situazioni da libro cuore, una storia piena di successi e interrogativi. In breve: uno chef inizia a lavorare nel bistrot del padre, cambia l’impostazione e ottiene tre stelle Michelin, però il lavoro lo travolge e sconvolge, facendoli perdere la nozione del tempo e di conseguenza lascia in secondo piano moglie e quattro figli. Decide di fermarsi per gustarsi la quiete quotidiano, poi riprende da dov’era rimasto, conquistando di nuovo la ribalta e le stelle in un nuovo locale, aperto in una chiesa sconsacrata. E ora riavvolgiamo il nastro, tornando indietro nel tempo. Il personaggio principale è Sergio Herman, chef geniale nato al confine fra l’Olanda e il Belgio. Tutto inizia con il padre. Oud Sluis era il suo bistrot, rinomato, dove potevi gustare dei frutti di mare di ottima qualità. Lui, Sergio, il figlio, lo ha trasformato radicalmente, fino alla conquista delle tre stelle Michelin nel 2006(la prima nel 1995). Una cucina impossibile da inquadrare e catalogare, di sicuro moderna e geniale, un misto di culture, una piacevole complessità, piena di elementi nordici e spezie, agrumi e verdure di evidente matrice orientale. Una cucina leggera, quasi niente grassi e in compenso tanta acidità, in un locale spartano situato nel centro di Sluis, paesino benestante in Olanda. Due salette essenziali, arredi elementari, illuminazione che varia a seconda dell’intensità della luce solare. Il menu più apprezzato era quello dal nome “father and son”, padre e figlio, evidente testimonianza del passaggio di consegne. Metterci qui a raccontare di un ristorante chiuso nel 22 dicembre del 2013 ha poco senso, però elencare alcuni numeri ne vale la pena: nel 2003 era settimo nella classifica dei migliori al mondo, nel 2011 si trovava al 17imo posto. Prima di chiudere ha tenuto di realizzare un libro in più versioni, intitolato “Sergiology”: quella limitata ultralusso, stampata in 500 copie in inglese e 1500 copie in olandese, e una versione standard. L’intento è stato quello di realizzare un libro con forte connotazione artistica, ossia cercando di trattare la sua cucina nella stessa maniera in cui vengono trattate le altre arti nei libri di grande valore. Quando all’inizio parlavamo di film hollywoodiano non eravamo lontani dalla realtà: prima della chiusura di Oud, la documentarista Willemiek Klujifhout ha seguito lo chef tra la vita privata e la cucina, realizzando una pellicola commovente, “Fucking Perfect”, la parabola di uno chef che non riesce più a gestire la vita di famiglia. L’aspetto assai sconvolgente è che in cucina nemmeno prestavano attenzione al fatto che fra di loro si aggirava una giornalista. Il nome del menù è “father & son” a testimonianza del passaggio di consegne avvenuto da suo padre, Il pane? Di un solo tipo, eccellente, ed opera di Alex Croquet ed il burro davvero grande di Jean Yves Bordier. - See more at: http://www.passionegourmet.it/2011/04/03/oudsluis-sluis-nl-chef-sergio-herman-di-norbert/#sthash. uhoBcegM.dpuf “Erano sempre così indaffarati, che non si rendevano neanche conto che c’era una telecamera a riprenderli –
racconta la regista Willemiek Kluijfhout -. Ne abbiamo utilizzata una piccola, per non intralciare troppo, ma non è stato comunque facile”. Da qui la scelta successiva di chiudere il ristorante che lo aveva trasformato in una star, per riscoprire l’uomo che si stava smarrendo. “Ero al culmine del mio successo – racconta Sergio Herman -: avevo il massimo dei punti nella guida Gault
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e Millau, tre stelle Michelin, e poi, per nove, dieci anni, anche il titolo di migliore ristorante dei Paesi Bassi. Dopo 25 anni a sgobbare in cucina per tutto questo, mi sono però detto che per me era abbastanza”. Si è preso una pausa, gustandoci le colazioni con la moglie ed i quattro figli, poi rinvigorito si è messo alla ricerca di un posto dove ricominciare. La storia di The Jane, nell’articolo accanto.
The Jane
Come una donna
N
on si accettavano scommesse. Sergio ha ottenuto la prima stella con la sua nova creatura, The Jane: ha aperto a marzo dell’anno scorso ed è subito stato un successo clamoroso, di pubblico e di critica. Va detto che Anversa, la città dove ha deciso di continuare la sua carriera dopo la chiusura di Oud Sluis, è molto sensibile ai grandi della cucina: pur non essendo una metropoli vanta 988 ristoranti e affini, un’enormità. Per la cui la gente sa apprezzare, è curiosa, ha fame di conoscere e assaggiare le novità: non ci poteva essere situazione migliore e non ci poteva essere ambientazione migliore per il suo nuovo regno. “Il Belgio significa buon cibo, ce l’hanno del dna, sapevo che se dovessi aprire l’avrei fatto qui, dove le aspettative sono altissime”, racconta il 44enne. Aggiungiamo che la città è assai benestante, visto che qui abbondano i mercanti di diamanti, la moda e le attività portuarie. The Jane nasce in una chiesa abbandonata, per esattezza la chiesa di un ex ospedale militare riconvertita dallo studio Piet Boon in un locale che,
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per restare in tema, celebra la sacralità della cucina. “Il posto mi è subito piaciuto, ha una buona energia, delle good vibes”, dice. Laddove prima c’era l’altare ora si trova la cucina, rigorosamente a vista: fin qui nulla di sorprendente, ma poi scopri che gli elementi originali, i mosaici e gli affreschi, si mescolano con le incisioni ispirate al mondo dei tatuaggi sull’acciaio dei banconi. Design, musica, arte e relax più, ovviamente, dell’ottimo
cibo. All’inizio volevano dare il nome La Chapelle, la cappella, ma sarebbe stato troppo banale e ovvio, così che hanno scelto The Jane. “In pratica è una donna che ama mangiare, viaggiare, la nostra donna ideale”, continua il suo racconto. Posto molto informale ma anche molto ambito, perché il nome di Sergio attira e attizza, non a caso si deve prenotare novanta giorni prima: è tutto molto chic, dal quartiere ai cocktail, dall’ambiente agli arredi
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e in più i prezzi sono contenuti. Gli aficionados, la clientela affezionata lo ha seguito e non è rimasta delusa, perché i piatti sono sempre nello stile di Oud, anche se meno maniacali per quello che riguarda i dettagli. The Jane è un mondo più libero, più giovane: parte del menu, quella classica, è identica, non ha voluto rinunciare agli evergreen che lo hanno lanciato nell’Olimpo della ristorazione. Le stelle saranno tre pure qui, non ci sono dubbi.
Mario Peserico
L’ad gourmand. Molto gourmand
Il ristorante Noma a Copenhagen
“D
avvero lì fanno quel piatto, spaghetti cacio pepe e ricci? Mia moglie ama moltissimo i ricci, la vorrei portare”. “Si mangia così bene nel nuovo ristorante siciliano? Mi piacerebbe andare con lei, è nata da quelle parti”. Mario Peserico ci ha conquistati fin dai primi scambi di battute, perché raramente si incontra un marito così innamorato e pieno di entusiasmo, desideroso di portare la sua amata nei posti migliori. Sapevamo fosse un’eccellente forchetta nonché un ottimo amministratore delegato, abbiamo scoperto un altro suo lato, molto privato e davvero apprezzabile: chapeau. L’intervista per Good Life ha un senso ben definito: l’anno scorso ha mangiato fuori per ben 487 volte, nel 2013 ha girato 380 ristoranti, mentre nell’anno corrente siamo già a quota 146 (lo abbiamo incontrato a metà maggio). In ristoranti stellati e locande, in alberghi anche fuori mano, per lavoro e per delizia, fatto sta che Mario Peserico passa gran parte del tempo assaggiando e gustando più prelibatezze di un ispettore delle guide del settore, motivo per il quale lo possiamo considerare una delle massime autorità in materia. Pare ovvio che, dovendo viaggiare tanto, un po’
per scelta e un po’ per necessità ha sempre avuto la possibilità di varcare le porte dei ristoranti. Il suo interesse per il cibo inizia per via delle trasferte di lavoro, oppure prima? Prima, molto prima, per esattezza nel 1978, quando i miei hanno divorziato e io andavo a cenare ogni sera al ristorante, assieme a mio padre. Lui è un’ottima forchetta, con una passione per il cibo straordinaria. A quei tempi a Milano imperavano la cucina milanese
Vorrei andare da Noma, a Copenhagen: sono davvero curioso di capire se per davvero è il miglior ristorante al mondo e quella toscana: Bice, L’Assassino, Rigolo, si mangiava bene e soprattutto si facevano dei piatti tradizionali. Ora si è un po’ perso questo interesse per la cucina locale: un peccato. Forse perché il mondo è cambiato ed è meno
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legato alle tradizioni, forse perché si viaggia di più e la gente vuole anche altro. Probabilmente, ma si potrebbe percorrere la strada della rivisitazione: sono convinto che il soufflé, il bollito e altre pietanze di una volta troverebbero l’apprezzamento delle nuove generazioni. E poi nel Veneto, per esempio, si mangia ancora in maniera tradizionale, prendiamo per esempio il baccalà. Ci sono delle attinenze fra il mondo dell’alta orologeria e quello dell’alta cucina? Tantissime, com’è ovvio che sia: le materie prime, la manualità, spesso anche il marketing. Per certi versi funziona la stessa logica in entrambi i mondi: la gente va educata, parlo del palato come dell’indossare un orologio. Nessuno nasce con un Eberhard Chrono al polso e nessuno mangia da Cracco fin da bambino, però parlando, raccontando e insegnando cos’è il buon cibo e un cronometro fatto in maniera artigianale possiamo sperare che un giorno ci troveremo davanti un estimatore, un cultore del bello e della qualità. Facciamo le classiche classifiche. Ci dica tre chef che apprezza in modo spasmodico. Prima di tutti Giancarlo Perbellini, lui è la concretezza del cibo, mette la tradizione al primo posto, poi il
I fratelli Cellar
servizio e la cortesia sono straordinarie. Cito anche Davide Oldani, ha creato una specie di cucina povera con dei sapori strepitosi. Non riesco a fermarmi a tre nomi, perché per forza di cose devo aggiungere almeno un altro paio, oltre al terzo. Metto Valeria Caino, a Montemerano, una grande famiglia dove la colazione tocca corde artistiche, poi Giancarlo Morelli del Pomireau e Vittorio, il regno dei Cerea. Mangia di tutto? Quasi: sono molto curioso, però la cucina coreana non mi intriga per nulla. Un ristorante famoso da dov’è uscito deluso? Da Robuchon, a Parigi, nel Saint Germain: pessimo servizio e un secondo pagato 75 euro senza valerne la pena. I ristoranti italiani dove ha mangiato in maniera superlativa. Al Schoeneck di Brunico, poi da Davide Scabin al Combal Zero, da Iyo, il nuovo ristorante giapponese nel cuore di Milano, alla Pizzeria Mascagni di Napoli e a La Madia di Licata, dove hanno saputo mantenere la tradizione aggiungendo un tocco moderno. E all’estero?
Sono rimasto molto colpito a Varsavia da un ristorante italiano, Sogliola. Poi ovviamente El Celler, lo Zuma a Hong Kong, L’Hotel Europa a Pamplona e quello di Alain Ducasse a Tokyo, Beige, dove ammetto di essere arrivato per caso. Aggiungo anche il ristorante di Berasategui, ma per il motivo opposto, mi ha deluso tantissimo, forse dovrei tornare prima di dare un giudizio definitivo. Solitamente all’estero si fida delle guide? Si, non solo quando sono fuori dall’Italia, anche perché poi mi piace confrontarmi e capire se hanno avuto ragione. Però mi piace anche scoprire dei ristoranti che magari non trovi sulle guide: solo per citarne uno, metterei Fierobecco, a Maggiora, nel novarese, dove ho gustato dei fusili con bottarga e pistacchio a dir poco favolosi. Tre ristoranti dove non è ancora riuscito di andare ma dove si ripromette di recarsi al più presto. Da Noma, a Copenhagen: sono davvero curioso di capire se per davvero è il miglior ristorante al mondo. Poi da Niko Romito e da Mauro Ulliassi: se Romito è assai difficile da raggiungere, non ho scuse per non essere ancora stato a Senigallia da Uliassi.
Giacomo Morelli
Joel Robuchon
Eberhard Chrono 4 Vanno di moda gli chef che fanno da testimonial per le aziende, oppure sono degli ambassador: potendo sceglierne uno, chi prenderebbe? Come testimonial nessuno, perché il nostro testimonial migliore è il prodotto stesso. Come ambassador siamo stati all’avanguardia, visto che Andrea Berton è stato per anni uno dei nostri. Facciamo un gioco: per ogni modello di Eberhard scegliamo uno chef. Per il Chrono 4 prenderei Ernst Knam, un po’ folle, anzi, ardito e folle. Per l’Extrafort scelgo Ciccio Sultano, mentre per il 8 giorni punto su Robert Niederkofler, visto il tempo che ci mette per rispondere al telefono. A Giacomo Morelli farei indossare il Nuvolari, per come corre in macchina. Important’è che ciascuno indossi un orologio Eberhard…
Mario Peserico
No 29
Steve Shaw The magician
A
d ogni uscita di Good Life c’è un riferimento a Treats Magazine e a Steve Shaw. Chi sfoglia la nostra rivista sa a memoria quanto ci piace il progetto editoriale del fotografo di Manchester trapiantato a Los Angeles. In pratica ha cambiato il modo di fare e pensare la fotografia erotica: non più donne di plastica, bionde e abbronzate, bensì ragazze sensuali, morbide, sguardi leggeri, spensierati, innocenti e pieni di gioiosa passione. “Non ero contento di quello che offriva d mi offriva il mondo editoriale, le riviste non erano come volevo, il mercato era dominato dagli agenti, che in pratica gestivano e addirittura imponevano il tipo di scatti da realizzare. La distribuzione è a tutt’oggi arcaica, terribile. Non faceva per me una situazione del genere, così che ho creato una rivista che potesse farmi felice, una rivista dove mi possa esprimere al
massimo”, ci raccontava qualche mese addietro. Fin dal primo numero è riuscito a coinvolgere altri maghi dello scatto, da Davide Bellemere a Ben Tsui, da Jason Ierace al nostro Adolfo Valente e via dicendo. “Sono molto persuasivo, sono abile nel convincere gli altri, figuriamoci se ho faticato nel farli scattare e lavorare per Treats!”. Come ha fatto, cosa ha detto loro? “Vi do a disposizione tutto lo spazio che desiderate, non vi impongo alcun tipo di copione, sprigionate la vostra fantasia, sentitevi liberi di osare, sperimentare, scattate quello che vi piace. In pratica, così ho realizzato una rivista che non esisteva e che avrei voluto esistesse quando lavoravo per gli altri”. Poi fu il caso Emily Ratajkovski, la sua musa, o per la verità la sua ex musa: ora la vediamo ovunque, ma fu lui a lanciarla. Prima all’interno della rivista, poi sulla copertina e in questo ci sentiamo molto in sintonia, visto che pure noi abbiamo agito allo stesso modo, con una nostra musa del passato.
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Grande ammiratore dei lavori di Peter Lindbergh e Helmuth Newton, si definisce uno che realizza dei lavori senza tempo, sensuali e di gran classe. In due anni è riuscito a diventare e ad attirare verso di se l’attenzione del mondo che conta. Due esempi: a Londra, alla festa di Treats! C’era tutto il gotha del mondo britannico, da Gordon Ramsey a David Beckham, mentre all’evento organizzato a Los Angeles per Halloween venne così tanta gente importante che il New York Times disse che mai si erano visti tanti personaggi di altissimo livello ad un party. Però prima di tutto è un fotografo, uno che riesce a sorprendere sempre, basta guardare le foto che stiamo pubblicando qui. Un’ultima curiosità: da dove proviene il nome Treats? “Quando vivevo in Inghilterra, a Manchester, quando ci piaceva una tipa la chiamavamo proprio così, Treats. Suonava meglio di chicks e birds”.
Angelo Inglese Giacca da chef
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inora la giacca da chef non se l’aveva portata, al Pitti. Un po’ perché lo spazio che gli riservano è assai ristretto (nonostante le sue continue richieste per uno più ampio), un po’ perché il mondo della moda presente a Firenze poco ha a che fare con gli chef, un po’ perché si tratta di una chicca, non di una collezione. Eppure non abbiamo alcun dubbio che a breve ci sarà da sgomitare per indossarla o per regalarla. Naturalmente è realizzata interamente a mano, come tutte le sue opere d’arte. L’idea è partita quasi per caso, in sordina, senza aver avuto nemmeno il tempo di mettersi al tavolino e realizzare un vero e proprio progetto industriale; la prima fu un regalo per Gualtiero Marchesi, un omaggio alla grandezza del maestro. Oggi ecco le giacche indossate dai chef più rinomati e altri stanno per iniziare a farlo. Rispetto alle camicie, le giacche
Tiffany CT60 Limited edition
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iffany CT60, ovvero l’orologio ispirato al fondatore Charles Lewis Tiffany, l’inventore del New York Minute, e alla città in cui per la prima volta ha aperto le porte a un nuovo stile. Una collezione dinamica che riflette il ritmo della vita moderna, dalle strade di New York, per arrivare ad ogni punto pulsante del globo. Gli orologi emanano l’energia e l’ambizione riassunte nella famosa espressione - New York Minute - 60 secondi di pura possibilità. Il design è ispirato a un orologio d’oro Tiffany
& Co. donato al Presidente americano Franklin D. Roosevelt nel 1945 e rappresenta il passaggio da un modello storico al design moderno di Tiffany & Co. In edizione limitata di soli 60 pezzi, ciascuna numerata sul fondello, è stato realizzato un orologio con calendario in oro rosa 18 carati, riserva di carica di 42 ore, sistema di assorbimento urti e fondello in cristallo di zaffiro. Tra gli altri modelli, un orologio a tre lancette in oro rosa 18 carati con numeri in oro poudré e lunetta di diamanti.
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necessitano di qualche ora in più di lavorazione, siamo vicini alle 35. Per non parlare del cotone utilizzato, ovvero biologico: “Gli chef hanno il problema delle temperature alte in cucina”, ci racconta Angelo. “Per forza di cose dobbiamo pensare ad un tessuto diverso, più fresco. Dico di più, stiamo perfino pensando ad una specie di taglietto sotto l’ascella, proprio per far sì che giri più aria fresca. La portiamo al Pitti e la presenteremo in un stand accanto al nostro, al Secondskin, dove ci saranno degli espositori giapponesi che assieme a noi stanno sviluppando una linea di intimo. Al di là del discorso legato alla giacca porteremo delle camicie colorate, un nuovo progetto che, senza dubbi, ci darà tante soddisfazioni. Il capo forte sarà però la camicia classica, c’è un forte ritorno di interesse. Sono sicuro che piacerà anche la nuova giacca, molto ringiovanita e realizzata con dei tessuti particolari”. Piacerà tutto. Come sempre.
Insomnia Lounge Love is in the air
Lo chef Davide Callegari
hiedimi se sono felice, sembrava voler gridare lo chef, ma la risposta era scontata. Chiedimi se sono felice, sembra sussurrare la regina del locale, Silvia Ambrosini, movenze felpate e decise. Chiedimi se sono felice, sembravano voler urlare estasiati i clienti che assaggiavano i finger food assieme ai cocktail e poi la carbocalamaro, uno dei piatti più potenti, esplosivi che abbiamo mai gustato. Il primo boccone vi schiude territori sconosciuti, poi la grande delusione, perché scoprite che sta per finire. La mente si riempie di sublimi frivolezze, il sangue romba nelle vene guardando la vostra accompagnatrice mentre assapora ogni forchettata con la bocca arroventata.
sboccia sul palato, hai la voglia di divorare il mondo, Forti raffiche di brividi di piacere, quel piacere che si vive solo a guardarlo ci si sente invasi dal desiderio. accarezzando i suoi seni che sembrano velluto scuro. Non da meno la capasanta cruda al foie gras e sale al Se vi aspettate molto dalla nuova cucina, le vostre aspettative saranno interamente soddisfatte. bambu flambato, la catalana di astice e cocco, il tataki di tonno con gel di mango, mentuccia, sale nero e fico: Perché Insomnia Lounge, a Pavia, è il regno di Davide solitamente lo trovate all’ora dell’aperitivo, fra i finger food. Callegari, chef fantasioso che ama i giochi pirotecnici in La sua cucina lascia trasparire un’istintiva consapevolezza cucina, uno che dà il meglio di sé quando se ne innamora follemente e in questo periodo pare lo sia assai. delle potenzialità di ciascun ingrediente utilizzato. Poi la location aiuta e stimola l’immaginazione: una La sua carbocalamaro ha fatto storia fin da quando piccola chiesa nascosta e sconsacrata, delle ampie la lanciò al Bistrot Les Gitanes, un anno e mezzo vetrate, un bar ben fornito dove Luca e Tomasso addietro. La ricetta è semplice, la si deduce dal nome: sanno il fatto loro, sono giovanissimi ma la passione al posto della pasta usa i calamari d’oceano appena è evidente, la conoscenza della materia anche: faranno cotti e tagliati sottili. C’è anche la magia della salsa, strada, e tanta. rosso d’uovo, pepe e pecorino giovane: il sapore ti
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Alfonso Campiglio
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La mia seconda vita
iao. Sono Alfonso Campiglio. Dopo anni in cui mi sono dedicato alla fotografia, ho deciso di mettermi alla prova come regista per un nuovo progetto: girare un corto metraggio. Da tempo avevo in mente una sceneggiatura, perfino l’interprete maschile, però c’è un però: nonostante avessi fatto numerosi casting, non solo in Italia, faticavo a trovare l’interprete femminile di questa storia assai intrigante e inquietante. Poi, all’improvviso, eccola: Elena No velletto, una giovane modella Italiana
rappresentata dalla Mademodel agency. Mi ha colpito immediatamente per il suo sapersi relazionare con il perso naggio che ho in mente per lei. Mi é piaciuto il suo voler mettersi in gioco con grande entusiasmo in un avventura anche per lei nuova. Le riprese sono pronte: di più non posso dire, per non rovinarvi la sorpresa. Vi assicuro però che Il Guardiano vi farà rabbrividire. Di piacere”.
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Insomnia Lounge
Foto: Roberto Marsura
La carbocalamaro
Immagina. Puoi www.ufoody.com
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arti dalla Sicilia e immagina di sentire il profumo degli agrumi, immagina di perdere il tuo sguardo lungo i più nascosti sentieri dell’Appennino, raggiungi la maestosità delle Alpi e immagina di veder nascere in tutti questi luoghi i migliori prodotti agroalimentari, cullati da mani esperte e sapienti. Ora immagina di poterli gustare quando e dove vuoi. È Ufoody, il grande mercato delle eccellenze agroalimentari, disponibile su tutte le piattaforme mobile e su ogni tipo di device, raggiungibile ovunque e dove trovi la migliore selezione di prodotti agroalimentari artigianali. Ufoody è la start-up made in Modena nata per azzerare la distanza tra i prodotti enogastronomici artigianali e il grande pubblico: da adesso, tra l’utente finale e il produttore artigianale di qualità c’è solo lo spazio dello schermo di un device. La logica di Ufoody si basa infatti sul reperimento di prodotti alimentari che rispecchino un imprescindibile motivo qualitativo artigianale, con tanto di prodotti biologici, presidio slowfood e d.o.p. e i.g.p.che non possono essere realizzati in grande produzione per via di logiche qualitative e tempistiche. Per non rinunciare alla vastità culinaria italiana, alle sue tradizioni, ma perché no anche alle sue innovazioni e soprattutto alle specialità regionali di nicchia, che il più
delle volte sono sconosciute anche agli stessi residenti, è nata Ufoody, che si preoccupa di reperirle su tutto il territorio e rendere disponibile il loro acquisto attraverso il web ovunque ci si trovi. Tutta la genuinità della produzione “lenta” artigianale unita alla velocità della Tecnologia Web. Quindi Slow Food, ma Fast Delivery. Ufoody non solo assicura il prodotto agroalimentare di alta qualità, ma anche un spedizione in 24/48 ore in tutta Italia. Alta qualità che si traduce in scoperta, in un viaggio attraverso sapori sconosciuti, alcuni antichi ed altri frutto di nuove sperimentazioni, riscoprendo anche i nostri gusti che troppo spesso vengono omologati a causa della routine. Grazie a questa nuova start-up, espressioni come: ma a chi gli è venuto in mente di fare la marmellata “Melanzane ai Pistacchi”? A un genio!!! ci appariranno assolutamente sensate. Durante questo viaggio non dobbiamo dimenticare comunque la comodità del reperimento. D’ora in poi se si dovesse avere voglia di cioccolata di Modica, di parmigiano reggiano di Bianca Modenese, di carciofi romani, di salame al Chianti o altre prelibatezze d’eccellenza non ci si deve più chiedere dove poterli reperire pensando che sarebbe assurdo poi trovarli facilmente e magari tutti nello stesso posto. Perché la risposta allora è: Ah sì è vero, sono tutti qui, sul mio smartphone.
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Ufoody si è munita anche di Blog dove si racconta l’attualità sul food, si trovano le ricette e le storie legate alla produzione, tutte notizie per la passione del Foodier, il personaggio ideale creato dalle menti del team di Ufoody. Il Foodier è la persona simbolo che ama Ufoody, quella persona che è dentro ad ognuno di noi che non vuole perdere la qualità del prodotto di cui si nutre e anzi vuole scoprire e riscoprire i sapori dei prodotti realizzati lentamente, ma senza rinunciare alle comodità tecnologica che ormai è un dato imprescindibile della vita e degli acquisti contemporanei. Così scopriamo che il miele è sì possibile sceglierlo per il tipo di fiore da cui inizia il processo, ma che in Sicilia esiste un’azienda che non seleziona solo la pianta dei fiori, ma anche l’ape che “deve fare il lavoro” e possiamo ordinare il nostro miele prodotto dalla sola Ape Nera Sicula che realizza un miele con antiossidanti dieci volte superiori alle altre tipologie. L’utente che si iscrive gratuitamente su Ufoody.com può accedere a tutta l’ampia selezione di eccellenze e dalla piattaforma può poi conoscere, imparare, ordinare, ma anche condividere e consigliare, direttamente dal catalogo. La spedizione avviene in 24/48h attraverso un sistema express e un packaging studiato che consente di garantire la qualità del prodotto. Che dire ,Ufoody, #FindYourFlavor.
Igor Oussenko Magia russa
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’ già la terza volta che pubblichiamo i suoi scatti. Volendo, potremmo riempire l’intero numero solo con le sue foto: ci piacciono da morire, la sua estetica erotica ci ha conquistati fin dalla prima volta che lo abbiamo scoperto. Poi ci furono le immagini pubblicate su Treats Magazine e da quel momento diventò il nostro preferito.
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Quello che impressiona, che ci spiazza è il modo insolito di Igor di guardare le donne: solitamente gli artisti russi sono malinconici, la storia è piena di scrittori e attori tristi, cupi, al limite del suicidio. Invece Oussenko è esattamente l’opposto, dimostrando una vena creativa straordinaria, piena di luci e forza, di energia e vigore, in totale contrasto con i suoi connazionali. Volendo trovare una spiegazione possiamo buttarla nell’ideologia, puntando il dito sul misero mondo sovietico, comunista, che ha tolto qualsiasi speranza e voglia di vivere ai suoi connazionali per quasi un secolo. Igor è cresciuto con il capitalismo pieno di colori e profumi, ambizioni e desideri: di sicuro ha influito molto, perché una è vivere in un mondo grigio e povero, un’altra nella Russia post sovietica. Negli anni bui non c’era Vogue da sfogliare e ancor meno la luce della speranza in un futuro radioso: ora è tutto cambiato. Qualcuno lo ha nominato Miracle Man e non è andato lontano. Purtroppo non possiamo pubblicare gran parte delle sue opere causa ipocrisia imperante. Non si capirà mai e ha poco senso cercare di capire perché si possono far vedere in scioltezza immagini di gente ammazzata, mentre il nudo viene bandito in maniera brusca e definitiva. Sarebbe tempo perso, per fortuna esiste la rete, l’internet e google, per cui divertitevi cliccando il suo nome: vi si aprirà un mondo favoloso, dagli scatti di Alena alla serie che ha fatto letteralmente saltare il banco, ovvero The Guess who project. Sono quindici situazioni memorabili, donne senza volto in pose pazzesche, una sorta di ironia erotica. Donne che prendono il toro per le corna, che portano il cane al passeggio (nude, ovviamente), che rispondono svogliate al telefono (niente abiti, inutile aggiungere): pare Helmuth Newton nella sua versione migliore e a colori.
Igor ha sempre sostenuto di aver avuto come modelli Richard Avedon e Mert and Marcus, però a noi piacciono molto di più i suoi scatti. “Non mi accontento mai, proprio come cantano i Rolling Stones, I can get no satistaction”, ci raccontava qualche mese addietro. “Amo molto le forme, le geometrie, non mi basta la bellezza in se stessa, troppo facile scattare una donna con un fisico mozzafiato”. Un altro tema sempre presente nei suoi scatti è il hockey, uno degli sport più praticati in Russia e più ge neralmente nella ex Unione Sovietica: pure qui riesce a
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imprimere un tocco sensuale al massimo. Nel numero passato avevamo pubblicato una donna vestita di rosso nel ruolo di portiere, ora eccola strattonata e spinta, con il rossetto che “subisce” qualche ammaccatura. Una foto surreale, un mondo impensabile e per questo ancora più intrigante e sexy. Igor ti sorprende sempre, in più parla poco e non ti tedia con la storia della fotografia e il futuro dell’umanità. Ci confessava di voler fotografare Natasha Poly, però la domanda è chi non vorrebbe farsi immortalare da lui.
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Hedy Nerito
Foto:Toni Pavone
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i tratta del suo nome autentico. Suona leggermente strano, forse tutti sono convinti che dietro Hedy si nasconda un’altra identità e invece no: nessun nome d’arte, l’arte sta negli scatti. Tutte le immagini che troverete sul suo sito, www. hedy.it, sono di una rara intensità: gran parte nudo, per cui ci troviamo nell’impossibilità di pubblicarle, però l’internet è un mondo libero, senza censure ipocrite. Le piace molto il body language, parlare con il corpo, le piace giocare e sa che diventa irresistibile davanti alla macchina fotografica: ci sono modelle che si presentano e già splendono, lei invece si accende, si trasforma, diventa una belva indomabile, muovendosi in modo felino e felpato, selvaggio ed elegante nello stesso tempo. Un paradosso? Forse, ma anche lei lo è, perché riesce a essere tutto e il contrario di tutto. Quando ha cominciato non ne sapeva un granché su modelle e fotografi, così che si è messa a studiare i più importanti e le più vincenti, memorizzando pose dopo pose per poi ripeterle davanti allo specchio. “Avevo bisogno di una disciplina che mi facesse sentire
libera e allo stesso tempo poter esprimere quell’io un po’ vagabondo, gestire la mia energia, cacciare via quella parte di me, un pò triste, insicura, anche un po’ arrabbiata, come facevo con la danza”, si confessa. “Le immagini che preferisco, sono quelle che riescono a farmi conciliare con la natura, o che sono espressione di un sentimento o di un messaggio, o creano forme. Non mi ha mai interessato essere fotografata per sentirmi bella o per sedurre anche se le foto di questo genere sono quelle più commerciali. Apprezzo invece l’espressione di un energia o di una grinta seduttiva piuttosto. Ascolto moltissimo quello che i fotografi mi chiedono, sono sempre attenta, soprattutto quando l’interpretazione non richiede la classica espressione sexy. Ascolto, perché voglio trovare dentro di me, quello che il fotografo ha in mente e tirarlo fuori, come voglio sentirmi parte della natura quando scatto in esterno o percepire quale sia la posizione giusta per le differenti situazioni. Ho lavorato molto sulla mia personalità , sono cresciuta, ho acquisito sicurezza, sono riuscita a tenere a bada la mia timidezza (anche se c’e’ sempre), per essere
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differente. Non facendo parte dell’immaginario classico della modella, dovevo puntare su altro, sulla capacita’ di posare e di interpretare: dovevo essere diversa, unica”. Non ha mai desiderato diventare una playmate, puntando su una bellezza di nicchia, “da galleria d’arte” come ama raccontare. Non ha mai sognato fan e feste pseudo vip, bensì solo posare: a pagamento, ovviamente. “Il miglior complimento che mi è stato fatto da un fotografo è stato quando mi ha detto respiro fotografia. Aveva ragione”, continua. Con lei abbiamo avuto un solo problema: convincerla di abbreviare la lista dei fotografi che apprezza. Dunque, eccola: “I fotografi più importanti della mia carriera sono Piero D’Orto, perché il primo in assoluto, poi Vittorio Battellini con il quale ho realizzato delle immagini bellissime a Favignana, dove sono riuscita ad esprime tutto il mio amore verso la natura. Idem il set nella Death Valley idem con Charles Nevols. Per non dire del grande onore per aver lavorato con fotografi storici come Gianpaolo Barbieri, Franco Fontana, Steve McCurry, Antoine Verglas”. Onore corrisposto. Basta guardare gli scatti.
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Foto: Matteo Collina
Foto: Vittorio Battellini
Angelo Galasso L’uomo copertina
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i prende la scena ogni qualvolta irrompe con le sue giacche frivole ed eleganti allo stesso tempo, piene di colori violenti, flash come ama chiamarle. E’ sempre lui l’uomo copertina, nel senso più largo della parola, perché per cover non intendiamo solo le riviste glam (compresa ovviamente la nostra, ci è stato per due volte nell’arco di un anno e mezzo), ma l’intero mondo dandy, che stravede per lui e le sue creazioni. A chi ancora pensa che la parola dandy sia un retaggio di snobismo elitario suggeriamo di guardare con attenzione i cambiamenti della società, i modi gioiosi e giocosi di vestirsi. Angelo lo ripete sempre, è tutto una questione di carattere, di personalità, di vanità e di voglia di mettersi in gioco. “Ci sono tre livelli”, ci raccontava qualche mese addietro, “tre tipi di uomini. Il primo è l’uomo pronto alla trasgressione, poi c’è quello che vorrebbe però ha bisogno di un input e infine, c’è l’uomo monotono. Interessante il secondo tipo, lo vedo nel nostro negozio di New York, al The Plaza: arriva in vacanza, acquista due camicie quasi per caso, poi gira per la città, si sente a suo agio vestendo qualcosa di diverso e torna ad acquistare”. Abbiamo parlato così tante volte con lui che ormai ci sentiamo i suoi testimonial, andiamo in giro a raccontare il suo mondo e quello de dandy. Conosciamo a memoria i momenti chiave della sua carriera, i suoi clienti più affezionati, a cominciare da Al Pacino. L’ultima volta che i due si son incontrati l’attore disse allo stilista: “Solitamente mi fermano per strada per gli autografi, l’altro ieri invece mi hanno chiesto chi mi ha fatto la giacca”. Al ha contagiato perfino Clint Eastwood: l’anno scorso lo ha convinto di venire a New York, all’evento organizzato proprio al The Plaza: ha acquistato poi alcuni capi, anche se la gran parte per i suoi attori che avevano lavorato con lui in Jersey Boys. Noi abbiamo esaurito gli aggettivi e i complimenti: quando varchiamo l’ingresso del suo negozio milanese in Corso Matteotti rimaniamo a bocca aperta: c’è una tale carica di colori e idee che difficilmente riusciamo a raccontare con le parole. Il bello delle sue collezioni è che sono senza tempo: “non a caso si chiamano Forever, spesso creiamo giacche che guardano avanti, troppo avanti”, diceva. Avanti, ma con classe.
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Ristorante Curò Sinfonia siciliana
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hiusi gli occhi e respirai profondamente, assimilando la fragranza vigorosa dell’aragosta. Profumi che ti avvolgono come una sinfonia. Mi sembrava di assorbire gli odori con la pelle. Sentì un fremito in tutto il corpo, come se prima fossi stata congelata e ora il ghiaccio si stesse sciogliendo”. Sono le parole di Ruth Reich, la più grande giornalista gastronomica, lavorava per New York Times prima di aprire la sua rivista, Gourmet. Senza alcun dubbio avrebbe detto le stesse parole assaggiando la coda di aragosta cotta nella sua acqua, con pomodorini pachino e fave fresche, al ristorante Curò (Milano, Via Monte Grappa 7). Ruth sarebbe stata assalita da torbide sensazioni se avesse gustato la cucina di Marco Misceo, chef che vive per i piatti dipingendo meraviglie, ispirato dalla sua musa, perché solo uno chef pazzamente
innamorato può creare una cucina pittorica del genere, dove le consistenze cremose ed i sapori avvolgenti ti stordiscono. Guardando la coda di aragosta ti senti invaso dal desiderio: un piatto saporito come un bacio, con un’aroma unico, irripetibile, come quello della pelle di lei. Poi, i paccheri con scampetto cotto, bottarga e lime vanno annusati in modo profondo, ti inondano la testa e per un attimo temi di perdere i sensi: la prima forchettata un colpo al cuore, il piacere era infinito, avevo la voglia di divorare il mondo. La crema di asparagi con l’uovo cotto a bassa temperatura induce alla lentezza, sussurra segreti, i segreti di uno chef che sta viaggiando spedito verso la consacrazione. Siccome non si può separare il cibo dall’erotismo, la freschezza del piatto mi sbocciò sul palato, portandomi con i ricordi alla prima volta che sfiorai il seno rosa,
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diritto, giovane e, appunto, fresco di una donna indimenticabile. Okei, sono di parte: ci sono andato quattro volte da Curò, esaltandomi proprio come Ruth nel suo racconto. Anzi, non mi sentivo per nulla congelato, perché ci andai pieno di aspettative, certo già che non sarei tornato a casa deluso. Sono di parte anche perché una delle donne più belle del mondo ci va assai spesso, facendomi vivere con la speranza che un giorno ci incontreremo per caso. Però credetemi, non esagero mai quando si tratta di cucina: se mi lascio andare è proprio perché da loro, la famiglia Drago Ferrante, la coreografia dei piatti è straordinaria, c’è una dedizione totale verso i prodotti stagionali, ci si abbandona alla seduzione, i piatti si sciolgono in tutto il corpo, il giorno dopo ti svegli con la voglia di ricordare ogni singolo assaggio. La magia è servita.
Sarah Borghi Dandy world
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miamo i dandy per il semplice motivo che lo siamo pure noi. Ci piacciono da impaz zire i colori forti, quelli sparkling, quelli flash. Angelo Galasso, l’uomo che ha sdo ganato la moda dandy, ci raccontava come ebbe inizio la sua fiaba, la sua svolta: “Venne da me un principe libanese, aveva all’incirca 35 anni, mi disse di volere qualcosa di molto ‘sparato’ perché doveva andare ad un party a New York e desiderava fare una gran figura, promettendomi che sarebbe diventato un mio cliente fisso nel caso la sua scelta d’abbigliamento fosse sta ta apprezzata. Gli preparai una camicia floreale con il collo e il polso classici, poi uno smoking bianco e delle scarpe di vernice. Fu un successone e la settimana se guente andò a Los Angeles, dove la gente lo fermava per strada. Da quel momento mi convinsi ancor di più che, là fuori, le persone aspettano solo di mettersi in
mostra”. Fin qui la storia di Angelo, a noi però piace pensare che il principe avrebbe accompagnato alle creazioni di Galasso delle calze altrettanto chic. Un esempio? Quelle di Sarah Borghi, un tripudio di giochi cromatici audaci, di grafismi, righe, pois, fantasie astratte: nero, geranio e grigio per le righe dalle diverse alternanze, rosso e beige per i pois, ottanio, turchese, panna e te sta di moro per le fantasie astratte. L’elenco è assai lungo, perché l’azienda mantovana, quattro decenni di esperienza, prova e riesce sempre a superarsi, pronta ad esaudire le richieste dei più audaci, soprattutto di coloro che hanno come mantra il detto “dimmi che calze indossi e ti dirò chi sei”. Uno di loro è lo stilista Charlie Casely Hayford, il quale sostiene che “Le calze raccontano molto di più di una persona rispetto alle scarpe”. Sottoscriviamo.
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Per fortuna oggi viviamo in un mondo colorato, ci sia mo liberati degli abiti scuri e istituzionali, si osa di più, soprattutto nelle grandi città, si respira un’aria fanta stica. Tutto è iniziato a Londra, metropoli che, grazie alla multietnicità, vedeva gente vestita nelle maniere più diverse; aggiungiamo che tutti noi possediamo la voglia di azzardare, di stupire e che la metropoli stessa quasi ti obbliga a uscire la sera, e per distinguersi e creare l’effetto “amazing” ti porta a spingerti oltre i limiti consueti. Una decina di anni addietro forse in pochi avrebbero avuto il coraggio di indossare calze colorate, oggi invece pare quasi la norma: si è partiti con le giacche, poi con le scarpe, ora eccoci. Il mondo è cambiato, è arrivato il momento dell’uomo vanesio, che piace e sa di piacere, che ama mettersi in gioco, sentirsi speciale, distinguersi, stupire e, perché no, esa gerare. Ovvero è il momento di Sarah Borghi.
Antica Posteria U
dei Sabbioni
na ricetta che sa di mistero, l’anatra che si scioglie sul palato, il parfait di fega tini che intriga e seduce, una torta al cioccolato che pare uscita dal film con Johnny Depp e Juliette Binoche, il pane fatto in casa, croccante e gustoso, un casolare sulla così detta via delle rane, a pochi chilometri da Pavia e dal Ticino. Benvenuti all’Antica Posteria dei Sabbioni, ri storante ideale per chi cerca il silenzio e la quie te amorosa, per chi ama il lato dolce della vita. Chiudete gli occhi: potete immaginare il crepitare del fuoco nel camino, la nebbia che avvolge la campagna, la luce prima dell’inverno oppure le serate calde di ini zio estate. Non importa la stagione, perché qui l’at mosfera è sempre la stessa, la cucina è ispirata, con dei profumi nitidi, sapori ampi, golosità calde e fredde, una carta formaggi notevole (ce ne sono più di trenta tipi) e una cantina da far impallidire le migliori eno teche dato che propone circa quattrocento etichette. Lo chef Gabriele Ciceri, qui da sempre, dimostra di avere la mano decisa: il risotto con gli aspara gi bianchi e verdi di Cilavegna e maggiorana ha una consistenza cremosa, il pane che prepara si avvicina molto a quello dei ristoranti che vantano la stella. Il petto d’anatra affumicato al tè é un piatto che va respi rato ampiamente, ti inonda la testa, è quasi peccamino so, solo a guardarlo ti senti invaso dal desiderio. La sal sa è seducente, aggressiva: le frattaglie tostate e bagna te nel passito sanno di intrigo, un intrigo gustosissimo. Poi il parfait di fegatini servito accanto restituisce la passione alle anime stanche, sorprende per freschez za, intensità e quel gusto dolce-salato che ti conquista: raccontarlo come semi freddo non rende l’idea, come contorno ancor meno, però fidatevi, vi sorprenderà. Nelle stagioni di caccia si trovano sempre la pernice e il piccione, poi passando ai piatti classici non possiamo tralasciare la cotoletta (che pesa quasi mezzo chilo): forse non è chic esaltare piatti del genere, ma saperli fare è tutt’altro che scontato e poi la clientela non ti pre mia senza un giusto motivo. La gente viene qui perfino
da Tortona e Milano, un motivo ci sarà: oltre all’acco glienza di Mario ed Elena (insieme hanno un figlio di quattro anni, Pietro) c’è la certezza di farsi travolgere da un ambiente familiare e dai piatti convincenti, in più le materie prime sono eccellenti, basta scorrere l’elen co dei produttori: le macellerie Oberto di Alba, il cioc colato Valrhona, le tome di capra di Occelli, gli aspa ragi di Cilavegna ,la zucca Bertagnina di Dorno, sele zionati salumi delle colline pavesi e insaccati di piccoli produttori valtellinesi, i Gamberi e gli scampi di Porto Santo Spirito. Il riso Carnaroli per i risotti dello chef viene coltivato nella risaia confinante con il locale, Il Riso del Paradiso, Per gli amanti della storia, la Po steria ha rappresentato, per secoli, un momento di ristoro lungo la via Francigena, la strada reale che por
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tava i pellegrini dalla Francia a Roma e trovava pro prio qui, a poche leghe da Pavia, uno dei suoi incroci più importanti. Si trattava di un’antica stazione della posta dove cambiare i cavalli, dotata anche di un’ac cogliente locanda diventata famosa tra i viaggiatori. Al confine tra Lombardia e Piemonte, la Poste ria fu anche un punto di riferimento per i patrioti del Risorgimento, per esempio i fratelli Cairoli, che si erano stabili da queste parti come in un avam posto ideale per realizzare il loro sogno politico. Ora invece è il regno della famiglia Sacchi, per esattez za dal 1924, quando il nonno di Mario, origini valtel linesi, decise di acquistarla e di trasformala in osteria. Amanti della storia oppure no, Elena e Mario vi trat teranno da re.
Griglia di Varrone Passione carnale
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er il popolo dei carnivori è stato come l’arrivo del Messia. Scherzando ma non troppo, l’apertura de La Griglia di Varrone a Milano ha suscitato un grande interesse prima e un immenso successo poi, tanto da diventare, senza alcun dubbio, il numero uno in Italia per quanto riguarda i ristoranti di carne. E’laDisneylanddeigolosi,ilparadisodegliamantidiribeye, kobe e qualsiasi prelibatezza desideriate e immaginiate. Il merito è tutto suo, di Massimo Minutelli, un autentico animale da ristorazione, uno che vive per il cibo, che ha il fuoco dentro, uno che la passione gliela leggi in faccia. Un uomo convinto, convintissimo del suo progetto, uno che dopo le aperture di Lucca e Pisa (ma ora lo ha ceduto), ha deciso di calare gli assi e aprire nel cuore della movida milanese, in Via Tocqueville, di fronte al famoso locale perché frequentato anche da calciatori in cerca di privacy (ma non troppa). Tanto per rimanere in argomento, alcuni dei più famosi ci vengono e tornano spesso, altri festeggiano perfino il compleanno (l’ultimo, Jeremy Menez, venuto con una decina di ospiti e uscito a dir poco raggiante).
Non meno entusiasta Gualtiero Marchesi, uomo che non ha il complimento facile ma che ha divorato le pietanze di Massimo, gustandosi tutto, dai prosciutti al codone. Carni che sono un colpo al cuore, che si sciolgono in bocca, succulenti, gustose, da respirare profondamente, i profumi avvolgenti, tutti i tagli sono saporiti come un bacio: solo a guardarli ci si sente invasi dal desiderio, ti inondano la testa. Parliamo spesso del connubio fra cibo ed erotismo, ma qui si va oltre, perché la carne è così morbida e gustosa che perfino la donna, poco incline al consumo, diventa insaziabile divorando l’entranas e il ribeye. E’ risaputo che la golosità porta dritta alla lussuria, così che mentre guardi le sue labbra avvicinandosi piene di fuoco ti immagini già il suo seno morbido come un velluto scuro: magia pura. Già dagli antipasti capisci che si vola alto: acciughe del Mar Cantabrico, scaloppa di foie gras con mele caramellate, le animelle di vitella, il midollo di bue servito con osso e spalmato su pane caldo, i prosciutti senesi di Stefano Dal Conte. Poi inizia il delirio: tartare e sashimi, black angus
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australiano e americano, entrambi alimentati a mais per trenta mesi, t-bone e Tomahawk. Poi ci sarebbe l’argomento kobe, perché Massimo è stato il primo ad averlo importato in Italia, acquistandolo da Giraudi, il re della carne stabilitosi a Monte Carlo, dove peraltro ha aperto una infinità di ristoranti, l’ultimo impostato sulla cucina cinese, di altissimo livello. Qui trovi marezzature varie, dalla 6 fino alla 12, inutile aggiungere altro: dire che si scioglie in bocca è assai banale. Ha investito tanto, ci ha messo il cuore e il portafoglio, però la clientela apprezza e risponde alla grande, d’altronde non potrebbe essere altrimenti. Basta guardare la sua griglia per capire che vuole offrire il massimo ai suoi ospiti: l’ha vista da Victor Arguinzoniz, ad Axpe Achondo, dove le tecniche di cottura sono pazzesche, poi è tornato e ne ha commissionata una identica ad un mastro ferraio di Ferrara. Ha aperto esattamente un anno addietro, forse nessuno si sarebbe aspettato un tale successo: ma forse nessuno immaginava una tale qualità. Chapeau. E cin cin.
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Smoking estivo con collo a scialle in lino e seta indossato su camicia celeste.
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filati bouclé si rinnova nei gessati, nei disegni jacquard, nei patchwork a righe, con effetti denim in puro cotone. Le silhouette dei capi sono in grado di vestire ogni tipologia di uomo: la giacca soft, dal look classico e dal taglio sartoriale, la giacca easy o “giacca camicia”, completamente destrutturata; infine il nuovo modello soft in versione jersey, per un comfort estremo ottenuto grazie alla costruzione leggera. La gamma dei colori spazia dal bianco, di forte tendenza, all’avana fino alle numerose nuance del sabbia. Il blu, cromia chiave della collezione, è declinato in tutte le sue gradazioni, dal tono celeste al pervinca fino al blu notte ed è declinato nelle giacche, nella maglieria e nella camiceria. Il capospalla si arricchisce di stampe utilizzate sia esternamente che internamente al capo con micro disegnature quali pois e gessati, tono su tono o sul tinto in capo con la tecnica della stampa a riserva. La proposta si completa con tessuti dall’effetto irregolare e dai colori sfumati ottenuti dalla stampa direttamente sul filo prima della sua tessitura. Gli abiti più formali e le giacche sia doppiopetto che monopetto rompono la trama dei tessuti assumendo un allure rilassata dai toni tenui con effetto délavé grazie a trattamenti di tintura completamente ecologici. Il risultato finale è un capo da indossare in qualsiasi situazione della giornata, dal pranzo di lavoro al cocktail informale.
vunque ci girassimo vediamo il fiorellino sul revére della giacca, ormai marchio di fabbrica dell’azienda di Filottrano. E’ un bel vedere, perché Lardini ci piace per i suoi modi e modelli pieni di vitalità, colori, eleganza e raffinatezza, un mondo che sta conquistando sempre di più il mercato, composto dalla gente che piace e sa di piacere. Ci sono addirittura dei Lardini addicted, gente che ormai veste solo le giacche confezionate nell’anconetano: come dar torto? Basta guardare le prossime collezioni per farsi un’idea e, magari, diventare degli assidui acquirenti. Primavera Estate 2016 è un viaggio in Costa Azzurra, da Montecarlo ad Antibes, con sosta a Saint Tropez. Una reinterpretazione del classico guardaroba del gentleman in vacanza, fatto di abiti morbidi in lino, giacche a righe breton, blazer di cotone bouclé in check scozzesi rivisitati e ampi pantaloni bianchi. Tutto è attraversato dai colori iconici del bianco e del blu, oltre alle cromie naturali come il beige e il sabbia. La collezione mescola un’eleganza senza tempo con silhouette aggiornate e tessuti all’avanguardia, tradizione e innovazione che trovano il punto d’incontro in capi classici e contemporanei. Parlavamo della raffinatezza caratteristica al marchio: si esprime nel modello della giacca in maglia coniugando il comfort del tricot al look di un capospalla monopetto e con revers a specchio e sciallati. La lavorazione dei
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Gabriele Pasini L’estate libera
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’abito tre pezzi, rivisitato con tessuti originali, sia tradizionali che innovativi, e con fantasie che richiamano la sartoria anni 60’, ovvero l’occhio di pernice, il principe di Galles, i gessati, e i quadri realizzati in tessuti bouclé: sono i punti cardine della collezione primavera estate 2016 di Gabriele Pasini. Poi la riga over orizzontale reinterpretata nei differenti tessuti, nobili e rustici, crea modelli per le più svariate occasioni e rappresenta una delle novità della collezione, riga che ritroviamo anche nella maglieria, nelle camicie fin negli accessori come cravatte e berretti. Il must dell’estate é la texture esclusiva e ariosa per la giacca camicia, ispirata da Wimbledon anni 30’. La gamma dei colori spazia dal blu, alle sfumature del beige, fino a toccare il bianco e nero. “L’old style” è interpretato nella maglieria a treccia, nelle t-shirt con stampe esclusive, nelle sciarpe in lino/cotone. Tutto indossato su pantaloni over.
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mimicocodesign_photo M.Mionetto