ENEKI
RUTH
ATXA
REICHL CAMILLA
ANDREA
BARESANI
BERTON
LUCA
FELICE
COSLOVICH
LO BASSO
ANDONI
JOSÉ
MUGARITZ
JOE
AVILLEZ
BASTIANICH
EUGENIO
BOER Foto: Sebastiano Rossi/SGP
Marco Baldassari
Mister Eleventy
Editoriale
Giulia, magia, sogni e passione
M
e lo chiedono sempre. Me lo chiedo spesso anche io, seppur in maniera retorica: perché scrivo di chef e ristoranti? La risposta è ovvia, immediata: vivo per la magia, come potrebbe non piacermi un mondo così pieno di passione e colori, adrenalina e speranza, eleganza e delicatezza, profumi e bellezza? E’ un mondo che ti spinge a osare, a creare e cercare delle nuove iperboli, aggettivi e frasi calde ed elettriche, un mondo mirabolante che ti trasmette un entusiasmo contagioso, entusiasmo che poi tu cerchi di trasformare in un sogno di carta patinato, il Good Life che state per sfogliare. Avete notato? Gli chef sono perennemente innamorati, pazzamente innamorati del loro mondo: lo si capisce subito, appena ti guardano. Hanno quella luce negli occhi, quello sguardo soddisfatto che racconta tutto, sembrano dei bambini, é gente che ha il fuoco dentro, gente geniale che immagina piatti favolosi e vuole il ristorante pieno di persone felici. Spesso, appena entri in un locale, capisci e percepisci all’istante che vivono per il cibo, contagiandoti con il loro irrefrenabile ottimismo, trasmettendoti la voglia feroce di assaggiare tutto, di inspirare a fondo e goderti appieno la poesia dei piatti. Senti il piacere che cresce dentro di te, guardi estasiato, ti abbandoni alla seduzione, la coreografia dei piatti pungola il de-
siderio amoroso. Guardi, assaggi, é il nirvana puro, le sublimi frivolezze degli chef ti fanno volare con la mente al suo sorriso, ai suoi occhi blu smeraldo, ai suoi modi felpati e vellutati, ai movimenti spensierati e delicati, alle smorfiette e alla sua infinita dolcezza. Si, lei, anzi, LEI. La donna dei sogni, la donna che mai avrei immaginato potesse esistere: qualcuno potrà obbiettare che per me le storie, le frasi iperboliche e le parole sensuali sono all’ordine del giorno, che invento e creo fiabe per mestiere. Però credetemi, potete fare il giro del mondo e non troverete un’altra Giulia: forse sono il primo nella storia a mettere il nome di LEI in copertina, forse sono il primo a dedicare un editoriale ad un argomento del genere, ma se le parole hanno ancora un senso allora credetemi, è unica. Il fatto che nessuno finora si sia spinto a tanto ha una logica: nessun altro, nella lunga storia dell’editoria, ha avuto la fortuna di conoscere una donna così. E’ tutto quello che un uomo potrà mai osare immaginare e anche molto di più. In quel momento ti rendi conto di come si fonde tutto, i piatti straordinari e le pagine della rivista, i profumi delle pietanze e quello dell’inchiostro, le parole degli chef e la voglia pazzesca di riuscire a mandare in stampa la più bella rivista di sempre, che spero sia il numero che state per sfogliare. Il nostro mondo è una magia. Lei, è una magia.
No 2
di Dominique Antognoni
Sommario
Good Life Food is art
Marco Baldassari Mister eleventy pag. 06
Joe Bastianich Raccontaci, Bill pag. 18
Eneko Atxa Tre stelle basche pag. 20
Era Ora Copenhagen,Italia pag. 22
Andoni Mugaritz Immagina. Puoi pag. 24
Ruth Reichl La regina del NYT pag. 26
Eugenio Boer L’artigiano dei sapori pag. 30
Joaquim Koerper Un tedesco mediterraneo pag. 38
Le Vrai
Good Life dominiqueantognoni@yahoo.it
Bistrot mon amour pag. 42
Mister ele ven ty Marco Baldassari: Fin dai primi giorni ci accompagna uno slogan, una frase, un concetto, un modo di vivere: “Enjoy life with Eleventy”. Perché acquistarci? Perché il nostro è un prodotto Made in Italy al cento per cento. Perché pensiamo all’uomo contemporaneo. Perché siamo attenti al concetto di value for price. Life is now, true is in the details.
No 7
Fotografie di Sebastiano Rossi/SGP Make up: Laura Castellano
G
li inizi
Foto: Sebastiano Rossi/SGP Make up: Laura Castellano
Sono passati quasi dieci anni dalla prima collezione, ricordo come se fosse ieri. Avevamo proposto la polo no logo, in poco tempo diventò un simbolo, un must. Era il periodo della tentazione, poi diventata filosofia di tanti, quella di indossare dei capi belli e non logati. Realizzammo una piccola collezione di un mono prodotto declinata in più lavaggi: i clienti apprezzarono sia l’idea che la qualità e il Made in Italy. Però ci sentivamo con le ali tarpate, avevamo tante idee, volevamo far vedere e capire ai clienti il nostro mondo, raffinato, contemporaneo, giovanile, elegante. Nasce così la giacca in jersey, che a tutt’oggi sta spopolando, perché l’uomo del nostro tempo viaggia, si sposta e ha bisogno di abiti anti stropiccio, che non si sgualciscono, in materiali e tessuti comodi.
No 8
L
a nostra filosofia
Foto: Sebastiano Rossi/SGP Make up: Laura Castellano
Il Made in Italy presuppone e quasi impone di puntare sulla qualità, sul dettaglio e sulle maestranze, che fanno sempre la differenza. Siamo fieri e felici di supportare le piccole aziende italiane e loro famiglie: produciamo qui mentre forse sarebbe stato più conveniente andare altrove, ma credeteci, la soddisfazione di dare il nostro piccolo contributo all’economia nazionale in un momento di crisi non ha prezzo. Proprio per questo siamo consapevoli di essere competitivi e dedichiamo la massima attenzione al nostro consumatore, cliente e amico. Ecco, come potremmo inquadrarlo e raccontarlo? È una persona che non ha bisogno di rassicurazioni e loghi: lui resta affascinato, conquistato e si lascia portare per mano dal nostro mondo, dai nostri colori, dal nostro prodotto. Viaggia, ama mangiare bene, va in palestra, si cura, e tanto: sa di non dover dimostrare nulla a nessuno, è sicuro di se stesso. Non ci sono limiti, può avere 25 anni come 65, anche perché oggi ci si gusta la vita più a lungo, si osa di più, molte barriere legate all’età sono cadute.
No 9
E
leventy e Palladio
E’ stata una scelta davvero vincente e soprattutto umile, ci siamo resi conto che per crescere sono assolutamente necessari l’intervento, l’appoggio e l’apporto di professionisti di prim’ordine, gente che sappia interpretare, gestire e analizzare i numeri. E’ stata una scelta felice e consapevole, perché solo così possiamo garantirci una crescita armonica, vigorosa, costante. Vogliamo aggredire il mercato globale e senza il loro aiuto sarebbe impossibile, impensabile riuscirci. Ti mettono a disposizione un network fantastica, in più sono italiani, dettaglio che ha agevolato fin da subito le affinità. Prima di fare il grande passo si sono informati sui conti, hanno chiesto alla clientela cosa ne pensa di noi, dei prodotti, delle collezioni: solitamente loro investono in aziende di dimensioni diverse dalle nostre, però hanno saputo immaginare un futuro raggiante e interessante. Abbiamo deciso insieme di guardare avanti, molto avanti, imbastendo dei progetti per i prossimi quindici, vent’anni. I canali da seguire sono due, uno legato ai multibrand store, l’altro ai negozi monomarca. Due realtà completamente diverse, però complementari: nel primo caso il tuo prodotto è comparabile agli altri, nel secondo c’è solo il tuo universo, espresso ed esposto in maniera totale. A dieci mesi dall’ingresso nella società, siamo ancora più convinti della nostra scelta, Palladio ci ha dato una totale credibilità in giro per il mondo, oltre ad una solidità finanziaria di altissimo livello.
No 10
E
leventy e il network Probabilmente non saremmo arrivati da nessuna parte senza i nostri partner, le 94 piccole aziende con le quali condividiamo le strategie. Ci aiutano a essere competitivi, condividiamo i sacrifici, cercando di stabilire insieme i prezzi ed i margini di guadagno, per offrire ai clienti un prodotto eccellente a prezzi giusti. Solo così si costruisce una storia di successo, ne siamo certi. Impossibile elencare tutte le 94 e allora ne scelgo alcune. Nelle Marche abbiamo un rapporto straordinario con Ethica, azienda specializzata nella produzione di pantaloni: si appoggiano a loro le più grandi maison francesi e italiane, un motivo ci sarà. Poi Mirko Buffini, uno dei migliori “nasi” al mondo, colui che inventa dei profumi biologici e molecolari rarissimi, che assaltano il testosterone. Applausi anche per Galizio Torresi, pure lui nelle Marche, il nostro partner per quello che riguarda le scarpe.
No 11
New York, New York
Lo show room di New York
N
egli Stati Uniti siamo arrivati quasi per caso, non ci sentivamo ancora pronti e invece il destino ci ha fatto incontrare una persona alto collocata nel mondo della finanza newyorkese. Alloggiava al Four Seasons di Milano: sfogliando la house organ della catena alberghiera si è imbattuto nel nostro marchio. Ci ha contattati, ci siamo piaciuti all’istante e al suo ritorno nella Grande Mela ha parlato di noi ad altri investitori, gente influente e potente ma attenta al value for price. E’ passato un anno soltanto, però quanto siamo cresciuti! Oggi siamo presenti nei department store più famosi e importanti, vedi Saks, Bloomingdale
e Stanley Kojak, le vendite sono aumentate del 18 per cento, la giacca è un capo iconico che si vende senza soste, indifferentemente dalla stagione, mese, periodo dell’anno. Vanno molto bene anche gli abiti: per gli americani sono davvero imprescindibili, il che significa che per noi sono una specie di killer category, nel senso che vanno acquistati in quantità “esagerate”. Realizzati in maniera artigianale e sartoriale in un laboratorio campano, vantano otto passaggi a mano. Quello americano è un mercato pazzesco e una opportunità straordinaria: se un prodotto funziona, il resto va da sé. Sono rimasto impressionato dalla loro educazione e dal rispetto nei confronti del Made in
Italy, la loro disponibilità, l’accoglienza e l’apertura mentale dei media statunitensi. Quando ho aperto il Wall Street Journal e ho letto l’ampio articolo che ci avevano dedicato, non ci potevo credere: si, lo confesso, mi è venuta la pelle d’oca. E’ seguito il servizio di life style realizzato da GQ con l’attore Philip Wincester a indossare esclusivamente i nostri capi: maestoso. Uno che recita nei kolossal hollywoodiani come The Patriot e decide di posare con la nostra collezione, beh, che dire. In più abbiamo aperto uno show room favoloso, davanti al Bryan Park, una delle zone più chic della metropoli. Vista da cartolina, sensazioni incredibili: è il posto ideale per accogliere i nostri clienti americani.
Da sinistra, due immagini del numero di GQ e l’articolo del WSJ
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Lo show room milanese in Corso Venezia
L
Italy, my love
’Italia resta il nostro mercato più importante ed è giusto così, perché è il nostro paese: qui fatturiamo il 35 per cento del totale e poi si sa, un marchio funziona all’estero solo se funziona qui da noi. Abbiamo saputo aspettare: alcuni dei negozi scelti inizialmente faticavano a vendere il nostro prodotto, poi pian piano la situazione è migliorata fino a diventare straordinaria, spumeggiante, eccitante, intrigante. Oggi siamo presenti solo nelle migliori boutique, del Nord come del Sud, perché il marchio Eleventy non lo
possono vendere tutti, va saputo apparecchiare e interpretare. I negozi scelti da noi lo sanno, con loro c’è stata empatia fin dai primi istanti, altrimenti non sarebbe stato possibile continuare a collaborare. Qualche esempio? La boutique Marinotti a Cortina, poi Claudio Miceli a Catania, Lord a Taranto, Massa a Taranto, Maxio a Napoli. Potrei continuare all’infinito, citando Eraldo a Ceggia, La Coupole a Venezia, Roberto Rossi a Capri, Il Pellicano a Ischia e Petronius a Riccione, Virno a Cava de’ Tirreni. Spero di non fare un torto a nessuno se spendo due
parole in più per Claudio Miceli: il suo negozio si trova a Zafferana etnea, fuori Catania, ovvero una zona non centralissima. Eppure è uno dei nostri miglior partner, segno che le risorse umane fanno sempre la differenza. Negli ultimi anni è cambiato tutto nel mondo dell’abbigliamento, a cominciare dalla distribuzione: una volta i marchi importanti li trovavi in 400 negozi sparsi per la penisola, ora non si superano i 100, al massimo 150. Il motivo è semplice, i prodotti speciali si trovano nei negozi speciali. Solo nei negozi speciali.
Un’immagine del negozio monomarca a Milano in Piazza Meda
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Andrea Berton Fantasy Eleventy
“T
ecnica, fantasia e follia”. Firmato: Andrea Berton, chef stellare più che stellato, visto che ultimamente le guide regalano riconoscimenti con troppa facilità, non regalando sogni e ancor meno magia. Per provare frammenti graffianti di piacere, per incendiare i sensi e per un piacere inebriante andate in Via della Liberazione al civico 13, nella zona ultra nuova e chic delle Varesine, quartiere molto in, ideale, perfetto per un ristorante come quello di Andrea. Per la cronaca fu il primo in assoluto ad acquistare uno spazio nei palazzi di vetro quando nessuno ancora ci credeva, o per lo meno non ci credeva pienamente. Ha rischiato o forse no, perché pare una persona senza molti dubbi e con tante, tantissime certezze, in cucina e nella vita. Il posto sa di business class, l’ambiente profuma di seduzione ed eleganza, si capisce al volo che è stato tutto studiato e scelto per mettere allegria, liberare la mente, far stare bene la
gente, vedi la luce che all’ora di pranzo inonda la sala, aumentando il piacere e la voglia di assaggiare e tornare al più presto per una nuova avventura che ti aprirà dei territori sconosciuti. Del suo slogan ne abbiamo parlato all’inizio del articolo, ecco qui pure i concetti base della sua cucina: chiara, immediata, decifrabile, attuale. Mescolando tutto abbiamo un’idea sul mondo di Andrea e capisci anche il motivo per il quale si è innamorato di Eleventy, stessi valori e stessa voglia di aggredire la vita, stesso impeto e desiderio di stupire e lasciare un segno, anzi, il segno. “Propongono uno stile elegante e sportivo, rispecchiando la mia filosofia. Mi piacciono da morire i loro pantaloni con il tascone, sono perfetti per gli oggetti del lavoro, a dire il vero li indosso anche nel tempo libero perché sembrano creati apposta per me e il mio stile di vita”. Eleventy e Berton, alta moda e alta cucina, due mondi identici per tanti aspetti, due mondi cromatici e creativi, accattivanti e articolati che si “rubano” a vicenda concetti e dei segreti, che si
completano e traggono ispirazione uno dall’altro con un unico scopo, regalare attimi di felicità che ti riempiono gli occhi e la mente: guardare per credere. Colori simili, spesso identici o quasi, colori che non poche volte cambiano in base alle stagioni. “Durante l’inverno è dura trovare dei pomodorini di un rosso intenso, a quel punto metti l’accento sulla frutta e la verdura di stagione, così che ora, con l’arrivo dell’autunno, nel mio menu si fa spazio il beige del cavolfiore, il verde della cima di rapa che è tutt’altro colore rispetto al verde frizzante dei piselli primaverili. Di sicuro l’estetica è predominante, Enzo Ferrari sosteneva che una macchina di Formula 1 pulita ed esteticamente intrigante ha più chances per vincere, per cui tradotto vuol dire che tutto deve essere bello e buono”, racconta lo chef, uomo con una visione della cucina solida e colta e una padronanza dei fondamentali sulla quale si innesta la capacità di variare e andare oltre le mode e le stagioni, difatti
Gambero rosso di Mazara con amaranto, accanto alla maglia con collo a scialle e maniche raglan
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Sfoglie di latte, sesamo nero e kumquat abbinate al bomber in montone con maniche di pelle nappata
riesce spesso a rendere moderne ricette antiche. E ora spazio agli abbinamenti, un gioco frizzante fra la cucina pittorica di Andrea e le collezioni di Eleventy: si inizia con il gambero rosso di Mazara con amaranto, cromaticamente ideale affiancato alla maglia con collo a scialle
e maniche raglan, bottoni in corno naturale, realizzata in morbido filato merinos moulinĂŠe. Si continua con i ravioli aglio, olio e peperoncino, morbidi come cuscini, con brodo di cicale: se lo chef ci porta a sognare con le mani, Eleventy lo fa proponendo un cappotto
in jersey di cashmere a disegno Chevron. Concludiamo con le sfoglie di latte, sesamo nero e kumquat abbinate al bomber in montone con maniche di pelle nappata reso grintoso dalle importanti chiusure zip. Life is now. True is in the details.Â
Ravioli aglio, olio e peperoncino e il cappotto in jersey di cashmere a disegno Chevron.
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Andrea’s version
Andrea Berton indossa Eleventy
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Foto: Sonja Cacamo
“H
o conosciuto Andrea andando una sera al Pisacco. Mi sono innamorato all’istante, ora eccoci qui a progettare insieme un futuro intrigante, perché stiamo pensando di aprire una sorta di club, il bistrot della moda, un luogo dove i nostri amici potranno deliziarsi con le proposte dello chef e acquistare i nostri capi”. Marco Baldassari guarda lontano, è sempre proiettato verso il domani: in Berton ha trovato un compagno di viaggio con la sua stessa voglia selvaggia di divorare il mondo. Se Marco vive per le sue collezioni, lo chef vive per il cibo, per regalare vertigini di piacere ai suoi clienti. Il nuovo menu sussurra segreti, alcuni piatti ti stordiscono, ne abbiamo scelti due, a malincuore, sapendo di compiere un torto immenso escludendone altri altrettanto eleganti e intensi. I tortelli d’anatra con topinambur croccante e crema di zafferano promettono emozioni infinite, mentre la polenta morbida con fonduta al grana padano, mais croccante e tartufo bianco di Alba lascia letteralmente senza parole: è un piatto che va annusato in modo profondo, ti inonda la testa e per un attimo temi di perdere i sensi. ”Sono piatti che mi rappresentano, ricordano le mie origini friulane: ho semplicemente preso delle ricette classiche rendendole più moderne. In entrambi i casi abbinerei una bollicina italiana, un Giulio Ferrari del 2004”, suggerisce lo chef.
Louis Roederer Brut Nature 2006
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on so gli altri, ma io ho messo ben in mostra la bottiglia di Brut Nature 2006 assieme alla sua confezione, come se fossero dei trofei. Avete presente quando uno vince l’Oscar, il Pulitzer oppure il Pallone d’Oro? Ecco, qualcosa di simile. Un po’ perché ideate e create da Philippe Starck, già il nome dell’artista francese aiuta e fa effetto: però il motivo è un altro, le sento davvero mie, sembrano dei regali personalizzati. Il designer ha saputo trasmettere l’idea di aver pensato a me mentre immaginava e disegnava l’etichetta. Visto che si tratta di uno champagne non dosato, ovvero il mio preferito, posso davvero immaginare il signor Philippe che pensa a Dominique, il critico gastronomico che beve pochissimo e non ama gli champagne forti. Se non mi credete provate a trovare il video della maison, googlate Brut Nature 2006: una sinfonia di parole al miele, una visione semplice e concetti elementari che, espressi da lui, diventano verbo. Hai la netta sensazione, la certezza assoluta, che Philippe e Jean Baptiste Lecallion stiano parlottando su come far felice proprio te. Sogni, storie, parole, verità, onestà, profumi: tutto tradotto in uno champagne, uno champagne che impersona proprio i valori espressi sopra. Siamo stati a dir poco rapiti dal discorso di Philippe, “Volevo portare lo champagne verso un’eleganza moderna, l’eleganza del minimo. Ciò che affascina dello champagne rispetto a tutti gli altri vini è il fatto di essere un’idea, un’intenzione, un progetto, prima di essere un vino. L’unico modo con cui sviluppiamo l’idea è attraverso conversazioni e, poiché le parole ci consentono di esprimere dei concetti, parole come eleganza,
Davide Callegari Un bacio al cognac
L
o chef innamorato ci ha accompagnati in quasi ogni numero di GOOD LIFE. La carbocalamaro è ormai parte della storia della rivista e parte della sua, di
storia. Lo seguiamo sempre e appena assaggiamo una sua delizia proviamo a indovinare a chi ha pensato mentre ci faceva sognare con le mani. Stavolta ci ha spiazzati, perché una è essere innamorato e un’altra essere perdutamente innamorato: fin dalla prima forchettata abbiamo avuto la sensazione che si tratta di una storia folle, un amore pazzesco.
Piatto elegante, seduttore, passionale, quasi un racconto. Carezzevole, succulento, indecente, ampio, avvolgente, piatto ideale per chi ha la predisposizione d’animo paziente alla lentezza del gusto. Hai la netta sensazione che lo chef abbia accarezzato la pasta sfoglia, il tomino di capra amalgamato con la polpa di fichi autunnali e che abbia baciato il foie gras come avrebbe baciato lei. La sfumatura finale del cognac è un tocco magico, chiudi gli occhi e senti il crepitare del fuoco nel camino, la nebbia che avvolge le colline. Dalla serie “emozione da includere nello scafale dei migliori ricordi”.
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oppure zero per cento di zucchero permettono di aprire nuove prospettive. E’ straordinario, solo Louis Roederer può proporre seriamente di passare dalla danza classica a quella moderna. Volevo portare lo champagne verso un’eleganza moderna, ho reinventato un metodo. Ero già stato sollecitato da altre maison di champagne ma ho sempre declinato l’offerta perché ritenevo ingannevole vendere una bottiglia firmata Starck senza che vi fosse dello Starck all’interno. Qualunque sia il soggetto non bisogna mai girarvi attorno, ma andare al centro: se avessi accettato di fare solo la bottiglia non sarei entrato nella verità del soggetto. Occorreva dunque che partecipassi all’elaborazione di questa cuvée perché la bottiglia fosse il risultato di un processo onesto che esprimesse una coerenza tra il design e il contenuto. La bolla di Brut Nature è fine, molto fine. Ricercavamo l’eleganza ed eccola: tanta dolcezza e freschezza insieme, davvero sublime. Il risultato è così ben riuscito che non è più necessario produrre la bottiglia, non vale la pena di fare niente e perfino l’etichetta dovrebbe essere il più essenziale possibile, perché il vero gioiello si nasconde all’interno”. Quando ci hanno invitati alla presentazione del Brut Nature sapevamo di assistere a qualcosa di magico, così è stato. Già prima la maison veniva considerata l’Hermes dello champagne, ora, con la nascita del Brut Nature 2006, ancor di più. Un invito totale all’evasione, una frontiera mai superata prima, un incontro straordinario fra un territorio storico, una maison leggendaria e un uomo libero, come libera e indipendente è Louis Roederer, una delle poche a non essere stata acquistata da gruppi giganteschi.
Joe Bastianich B
Raccontaci, Bill
ill Bufford, ancora lui, il Don Chisciotte in cucina, l’uomo che ha lasciato il New Yorker per fare lo sguattero. Il suo libro, Calore, ha fatto storia e la storia. “E’ come un pranzo sontuoso”, scrisse New York Times. “Le descrizioni dei personaggi che Bufford incontra sono una gioia per la lettura”, aggiunse The Wall Street Journal. “Se conosci qualcuno che non ha più appetito per la vita e per il cibo regalagli Calore e vedrai che si alzerà dal letto, le sue guance riprenderanno colore e il suo stomaco reclamerà per la fame”, rincarò la dose Frank McCourt. Se nel numero passato abbiamo pubblicato ampi estratti che riguardavano Mario Batali, ora eccoci ad esaltare Joe Bastianich. “Entrambi i genitori di Joe sono immigrati, italiani che abitavano in Istria quando Tito l’annetté alla Yugoslavia: agli italiani, detestati sin dai tempi della guerra (la maggior parte erano stati fascisti), fu ingiunto di assimilarsi oppure di andarsene. Il padre di Joe salì su una nave e arrivò a New York illegalmente. Aveva quindici anni. Lidia arrivò in maniera un po’ più convenzionale
e le fu dato asilo politico. Il primo lavoro di suo padre era stato in un ristorante: la sua prima casa era stata sopra un panificio (di un immigrato). Trentacinque anni dopo, il loro figlio sta offrendo un’ancora di salvezza a un’altra generazione di immigrati.
Joe non è un romantico della cucina. E’ cresciuto in un ristorante nel Queens e ha verso i soldi un atteggiamento molto concreto e schietto. I suoi genitori gestivano La Buonavia, locale di loro
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proprietà con trenta coperti. I ricordi d’infanzia di Joe sono dominati dalle realtà meno gradevoli di quando si deve cucinare per vivere: pulire i filtri dei grassi di cottura, spazzare via gli insetti dopo il passaggio dei disinfestatori, l’odore pervasivo di lucido per scarpe e la puzza dello spogliatoio gremito di italiani e croati grassi e sudati che leggono le formazioni delle corse dei cavalli, dove Joe faceva i compiti e dormiva sulle casse di pomodoro finchè non lo riportavano a casa. Ancora oggi non sopporta la vista delle foglie di alloro. “Per ben tre volte ho dovuto infilare la mano in gola a qualcuno che si stava strozzando con una foglia di alloro, compresa mia nonna, quando io avevo solo nove anni, e per che cosa? Credi davvero che conti tanto il sapore?”. Il pollo gli mette i brividi, perché da piccolo accompagnava suo padre al mercato all’ingrosso per comprare pollame a poco prezzo. I volatili erano ammassati insieme al ghiaccio per evitare che si avariassero e quando il ghiaccio si scioglieva diventava un’acquetta rosa di pollo che gli sgocciolava giù per la schiena. Joe non voleva un ristorante, voleva tanti
soldi, perciò divenne operatore di borsa a Wall Street, ma poi scoprì che odiava quel mestiere. Ricorda di quando aspettava il suo primo bonus: contò i minuti, lo incassò, dopodiché tornò in ufficio e rassegnò le dimissioni. Poi andò dritto all’aeroporto e si comprò un biglietto per Trieste. Ci rimase un anno, vivendo in un furgoncino Wolfswagen, lavorando per chef e vinificatori, cercando di capire questa cosa che, ormai cominciava ad accettarlo, sarebbe stata la sua vita”. “Joe ha otto anni meno di Mario ma il portamento serio di chi ne ha dodici di più. Si rasa la testa. E’ grosso ma non grasso, e la sua molle trasmette un senso di potere. Ha la camminata caracollante del pugile- gambe larghe, mani lungo i fianchi, in guardia- e quando sono andato a un battesimo della famiglia Bastianich ho notato che il figlio di quattro anni lo stava già imitando”. “Alla fine del pranzo Joe chiese a Mario se gli andava di fare un giro. C’era un posto non lontano dal Meatpacking District che voleva fargli vedere. Dopo un quarto d’ora ci trovavamo davanti a un grande edificio vuoto, mentre Joe ci descriveva dettagliatamente il suo sogno a occhi aperti. “Cinquecento coperti”, disse, “con grandi scalinate e un valletto che ti posteggia la macchina e un negozio di tabacchi da una parte. Facciamola completa, dimostriamo a New York che può esistere un ristorante italiano con quattro stelle”. Improvvisando, con altre idee che gli venivano via via che parlava, Joe disse: “No, ripensandoci non dovrebbe essere italiano, ma italo-americano”, un ritorno alle sue radici, un omaggio alla cucina di sua madre Lidia. Stavo assistendo alla parte creativa della nascita di un ristorante-una cosa esaltante- e nel giro di sei mesi Joe aveva ottenuto la licenza, ingaggiato un architetto e cominciato a realizzare la visione che aveva avuto in quella strada proprio sotto i miei occhi. Il locale si sarebbe chiamato con un nome italiano: Del Posto”. To be continued.
No 19
Eneko Atxa Tre stelle basche
U
n ristorante avveniristico e soprattutto completamente auto sostenibile, come ama ripeterlo. Un approccio verace, passionale, giovane. Una cucina tradizionale elaborata con delle tecniche moderne. Un’accoglienza straordinaria. Un maitre (Jon Eguskiza) fra i migliori al mondo. Benvenuti nel mondo di Eneko Atxa, basco di Amorebieta, provincia di Vizcaya, che dal 2012 ha realizzato il sogno di una vita, ovvero il nuovo locale. Benvenuti ad Azurmendi, tre stelle Michelin a dieci minuti di Bilbao, un posto dove la magia esiste: piccione arrosto di Navarra, ravioli di coda vaccina stufata, canapé di foie gras cotto alla parrilla affumicature, brodi, intingoli. Il paradiso è qui, a Larrabetzu, cucina semplicemente gustosa, che va diritto al gusto e al cuore dell’ospite. Appena arrivi ecco la prima sorpresa: la costruzione in vetro (applausi all’architetto Naia Eguino) sovrasta il paesaggio dall’alto delle colline di Bilbao, anche se, e qui c’è l’unico neo, la vista dell’autostrada non sembra in linea con l’ambiente e lascia
poco spazio all’immaginazione: ti sembra di essere all’autogrill. Il complesso, perché di complesso si tratta, comprende il vecchio ristorante (parliamo di sette anni di vita, non di più), dove ora si organizzano eventi, poi c’è la struttura per il pret a porter e il nuovo locale.
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Sul retro della struttura ci sono l’orto e anche la serra, il che fa impazzire di gioia i cultori ed i talebani del bio a tutti i costi, sempre e comunque). Atxa ci crede per davvero, ama la sua terra e lo dimostra in ogni suo piatto, al netto della retorica dei buontemponi che si disquisiscono in discorsi etici dalla mattina alla sera, come se venisse prima l’aspetto ideologico e non la cucina in sé. Perché Eneko impressiona per la qualità, per la bontà dei piatti, non per la didattica dell’orto. E poi diciamolo: le stelle si prendono per i piatti non per la serra. A volte, per puro divertimento, leggiamo sbrodolate infinite sul bio e altro, scoprendo che alle portate si da meno spazio che ai fiumi del nulla chiacchierato: orrore, ma non possiamo fare molto. C’è chi vive di frasi fate a tavolino e di buonismo ridicolo. Occupiamoci delle cose serie: la sala della cucina è una delle più imponenti mai viste: sterminata, pare infinita (da notare che il ristorante ha solo 12 tavoli). Poi, la luce: arriva da ogni angolo, perché il ristorante è tutto in vetro: la sensazione, lo ammettia-
mo, è fantastica. Ed ora concentriamoci sui due menù, uno classico, con i piatti storici del ristorante (Erroak, 135 euro) e l’altro innovativo (Adarrak, 160). Elenco delle squisitezze, in ordine sparso: uovo all’inverso, ovvero tuorlo parzialmente svuotato e riempito da un brodo al tartufo. Triglia agli aglietti, profumata alla brace, raviolo delle sue interiora e brodo delle sue lische. Brodo di maiale con acciughe sotto sale, scalogni, asparagi, prosciutto iberico. Canapé di foie gras cotto alla parrilla mixato con della cenere, assoluta novità nel modo di preparare il fegato grasso. Tartare di astice marinata in erbe aromatiche, avvolta in fettine di sottomento di maiale iberico, poi un secondo tipo di astice, alla brace con fiori eduli. Crema di cavolfiore, animelle d’agnello e patate soffiate ripiene di crema all’aglio. Fermiamoci qui, perché infierire sarebbe inelegante: annusare solo da lontano le magie di Eneko può causare disturbi seri e frustrazioni infinite. Torniamo a Eneko: ha avuto la fortuna di crescere in una famiglia dove il buon cibo é sempre stato una priorità. A 15 anni già si sentiva pronto per intraprendere l’attività di chef: prima tappa il Catering College a Leoia. Il grande passo lo compie andando da Berasategui, al Lasarte. Poi segue all’Etxebarri e al Andra Mari, riuscendo in pochi anni ad accumulare una esperienza notevole. Sicuro di sé, ambizioso, curioso, passionale fino al midollo sviluppa uno proprio stile tanto da sentirsi pronto, a 28 anni, di aprire un ristorante tutto suo, l’Azurmendi, appunto. I premi ed i riconoscimenti arrivano subito: “Most Beautiful Dish”, poi la stella nel 2007 e addirittura la seconda, nel novembre 2010, diventando il primo ristorante nella provincia di Vizcaya con un tale palmares. Quando ha ricevuto anche la terza (22 novembre 2012), stava quasi per diventare sindaco. Assieme all’Università di Bilbao si sta concentrando sulla continua ricerca di similitudini fra cibo e sensi. “La mia cucina è un viaggio”, ripete ad ogni intervista. E’ più di un viaggio, ci permettiamo di aggiungere. E’ il nirvana.
Era Ora
Copenhagen,Italia
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a stella più longeva dell’intera Scandinavia (diciannove anni), motivo di vanto per la cucina italiana, rappresentata in maniera eccelsa nel cuore di Copenhagen, al ristorante Era Ora, regno di Elvio Milleri. Fascino italiano, ovvero atmosfera romantica e coinvolgente, colori caldi, tavoli e sedie in legno sagomate, ampie vetrate e un giardino che ricorda la provincia nostrana, un design ricercato, minimal chic (se ne occupa la moglie Edelvita). Lo sanno tutti: di imitazioni cheap e kitch ne è pieno il mondo, per cui spesso si va in un ristorante italiano all’estero con assai diffidenza. Tradotto, per poter riempire un locale all’estero basterebbe un minimo di autenticità, qualche prodotto di qualità: è assai elementare come ragionamento. Invece qui hanno voluto fare le cose in grande, puntando sulle eccellenze, come se fossimo nel cuore di Milano. Va detto che i gourmet danesi sono davvero preparati, per cui provare a imbro-
gliare sarebbe assai controproducente. La sensazione è che Elvio Mileri, qui dal lontanissimo 1973, non lo farebbe nemmeno sotto tortura: arrivato qui dalla provincia di Perugia, aprì un ristorante di 28 coperti in un edificio del 18imo secolo completamente ristrutturato, tra i vecchi canali di Christianshavn. Potete credere oppure no, ogni mese saliva in macchina, guidando fino al suo paesino per poi rientrare con dei prodotti di primissima qualità. Raccontata così, si inizia a capire il perché della stella, poi ti siedi, inizi a degustare le prelibatezze e ti senti davvero a casa. Già l’amuse bouche ti fa capire che vivrai una serata che ricorderai sognante: riso selvatico croccante con burrata e Beluga. Quando ti arriva la vongola sospesa nel parmigiano hai la netta sensazione che il ristorante merita più di una sola stella. Per chi non è stato convinto, ecco la terza piccola meraviglia: chips croccante di quinoa con ricotta grattugiata, olive taggiasche e pomodoro. Quando vi
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suggeriscono una bollicina di Franciacorta avete definitivamente la sensazione di trovarvi a casa vostra. Lo chef Nicola Fanetti ha superato la prova prima ancora di arrivare all’antipasto: composizioni artistiche, carezze e meraviglie, tradizione e interpretazione, una mano decisa e delle conoscenze solide. Si va avanti con la panzanella toscana, la faraona farcita con funghi e tartufo nero, l’agnello leggermente affumicato, fino al dessert, una tartare di mozzarella con pesca e focaccia, dolce e salato insieme, ovvero il nirvana. La piccola pasticceria continua la notte dei sogni. Parlavamo prima della bollicina di Franciacorta: non pensate sia una chicca isolata. Man mano che si va avanti con il menu il maitre vi suggerisce un Verdicchio, oppure un Grechetto, un Nero d’Avola e un Nebbiolo, Barbera e altro. Perché siamo a Copenhagen, regione d’Italia.
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Mugaritz
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Immagina. Puoi
rrenteria, provincia di Guizpucoa, sulle colline basche, fuori San Sebastian, fra l’Atlantico e le alture, Spagna. Uno dei più adrenalinici fenomeni gastronomici degli ultimi dieci anni, Andoni Mugaritz, vi accoglie qui. Due stelle Michelin (la prima nel 2000, la seconda nel 2005), maestro degli sperimenti e dei così detti trompe d’oeil visivi e gustativi, Andoni ha vissuto varie tappe nella sua carriera, motivo per il quale diventa assai problematico inquadrarlo. Probabilmente sta nel gruppo dei “bulliani”, senza però mai aver esagerato. L’idea rimane quella, basta assaggiare e deliziarti con il suo menu degustazione, una sorpresa per tutti visto che nessuno sa in anticipo cosa troverà nei piatti. Ti arrivano 23 mini portate (dolci esclusi), un tripudio di gelatine, alternanze dolce e salato, salse, grassi quasi non dosati, creme e fermentazioni, fritti e sfoglie: ovviamente le consistenze sono perfette, le cotture anche, i sapori sublimi. Sarebbe un esercizio assai avventuroso provare a elencare le squisitezze gusta-
te, anche perché, come già raccontato, quasi mai ritrovi un piatto per due giorni di seguito: si rischia di riempire pagine e pagine con le idee proposte da Andoni senza poi riuscire ad assaggiarle. Piccoli esempi, in ordine sparso, iniziando con i finger food: sfoglia di pelle di pollo con la sua gelatina, mousse di anguilla affumicata con erbe di campo (ovviamente dall’orto privato del ristorante), guancia di manzo con susine e crauti liofilizzati, polipo con salsa di maiale, fesa di puledro con crema di limone (monumentale), capasanta con lenticchie fermentate (idea meravigliosa, da sballo l’acidità delle lenticchie), tempura di crema pasticcera con pietra da grattare (fulminante, vero?). Poi: la coda di porco con zucca, i bastoncini di agnello soffiato, le fettine di rana pescatrice cotte al vapore, la lonza di agnello da latte con ragù di cervella e via discorrendo. A proposito: possiamo affermare, senza alcun timore di sbagliare, che da Andoni abbiamo mangiato la pietra perfetta: ti viene portata in una ciotola bianca e si tratta di un piatto squisito. L’impatto
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è decisamente strano ma sta proprio qui il gioco: il tocco con la lingua ti porta a pensare che per davvero hai davanti a te un sasso, poi lo mordi e inizi a correre con la mente, ad immaginare mondi lontani, un po’ come nei film di science fiction. Appena trovi il coraggio di affondare gli incisivi la crosta, la superficie si rompe e scopri l’interno morbidissimo, caldo, umido, una polpa che si scioglie in bocca. In pratica, una patata in crosta dura, glassata in maniera perfetta, dipinta con pasta di caolino, tanto dura e così ben “disegnata” da sembrare un sasso liscio. Sensazioni forti come da Heston Blumenthal, la logica è la stessa: stupire, in alcuni casi andare troppo oltre, ma la filosofia della nuova cucina sperimentale è questa. “Chiediamo molto ai nostri ospiti”, racconta Andoni, “vogliamo che partano con l’immaginazione, abbandonare i pregiudizi, superare i confini. La nostra è una sinfonia fatta di sfumature, essenzialista, mutevole, è una cucina d’autore, facciamo quello che vogliamo. Cerchiamo che ogni piatto sia un racconto in se stesso:
ci sarà gente che riuscirà a decifrarlo e altri che non ce la faranno. Si tratta di non mostrare tutto, che l’immaginazione delle persone voli, che siano pronti per la sorpresa e che non sia tutto già stabilito in partenza”. Appena ti cali nella parte capisci che ne vale la pena giocare: superati i cinque secondi di diffidenza ti rendi conto della genialità del piatto, provi a immedesimarti e renderti conto di quanti sperimenti, quante ore sono dovute passare perché si arrivi ad un tale risultato, perché il gusto ed i profumi sono eccezionali, non si tratta di sensazionalismo e di uno sperimento fino a se stesso, qui parliamo di alta cucina, ma una cucina autentica, di ricerca, di sensazioni incredibili. “Sappiamo che se la gente non apprezza, non si diverte, non riusciamo a convincerla di osare, abbiamo fallito”. E invece hanno vinto. Andoni ha aperto qui nel 1998: prima c’era una fattoria in mezzo al nulla, a sei chilometri dalla costa, nella baia di Pasaia, con il villaggio di Errenteria a pochi minuti distanti, una zona piena di verde, tanto da paragonarla all’Irlanda. Dal parcheggio vedi la cucina, le finestre sono grandi, puoi ammirare e osservare tutto, potresti fermarti lì e passare la serata osservando i movimenti eleganti e precisi del personale. L’incanto continua appena entri nel “laboratorio”, nella sua cucina, dove vengono invitati tutti gli ospiti prima del vero e proprio inizio della lunga serata (ci vogliono quattro ore per assaggiare le portate). Ti siedi e assaggi l’aragosta affumicata al pane nero, probabilmente il piatto più affascinante, molto più del sasso-patata, però l’idea di Andoni è di stupire senza soste: conoscendolo si esalterebbe se venisse apprezzata la pietra glassata e non l’aragosta. Ovviamente il suo ristorante è ogni anno fra i 50 migliori al mondo: se lo merita, Andoni. Ci ha creduto follemente fin dall’adolescenza, da quando a 16 anni capì che il futuro e la magia stanno proprio nel mondo del cibo. Aveva già una buona preparazione di base, perché andava assieme a sua madre al mercato del pesce: comprava la coda e non il filetto di tonno, per dei motivi prettamente economici. E’ stata la sua fortuna: guardava come dalla coda si faceva la gelatina e anche le varie salse, la curiosità gli ha fatto aprire gli occhi, il passo successivo è stato l’acquisto di un libro di cucina sperimentale, il resto è storia: inizia a lavorare in una pizzeria, poi in un catering, nel 1993 eccolo al Bulli, il sogno di tutti gli aspiranti grandi chef. Una dura e fantastica gavetta, fra clementine da sbucciare e dolci da impiattare, due anni che lo fanno diventare estremamente bravo e con una autostima altissima. Dopo Adrià va da Arzak, poi da Berasategui, praticamente il suo maestro, poi apre una pasticceria: il cammino è tracciato, la strada in discesa, per quanto si possa parlare di discesa in un mondo infernale come questo. Mugaritz, ovvero il posto dove è stato aperto il ristorante, lo ha scoperto per caso ed è stato amore a prima vista. Lo ha ristrutturato e soprattutto gli ha aperto nuove strade: “noi eravamo tutti ragazzi di città, arrivando qui in montagna è stata una folgorazione. Andavamo di buon mattino a passeggiare ed a raccogliere fiori ed erbe per poi assaggiarle”, racconta, indicandoci il giardino di spezie. “Il primo cliente fu un ciclista che smarrì la strada”. Non è stato tutto rose e fiori: nel 2010 ci fu un incendio che distrusse il ristorante, però quattro mesi dopo riaprì le porte. Ora va tutto a gonfie vele. Merito suo, della sua tenacia e del suo talento.
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Ruth Reichl La regina del NYT
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erché scriviamo di cibo? Potremmo rispondere con una frase che è già diventata cult: perché mangiare è godere. Oppure perché mangiare è come vivere. Perché il cibo ci aiuta a capire le persone. Perché i ristoranti ci liberano dalla realtà quotidiana, fa parte dell’incantesimo. Assaggiare dei piatti eleganti e ricercati, intensi e vigorosi sono atti d’amore, momenti di piacere assoluto e profondo. Scrivendo di quello che abbiamo degustato facciamo assaggiare anche ai lettori, con il palato dell’immaginazione. Per lo meno ci proviamo: chi invece riesce in maniera sublime è Ruth Reichl, la grande damme del giornalismo gastronomico. Per anni ha scritto sul New York Times: abbiamo divorato le sue recensioni e d’ora in poi condivideremo con voi le migliori. Iniziamo con un articolo che ci è
piaciuto moltissimo: si intitola “Dove la bistecca è insieme re e giullare”. Kurt Vonnegut non ha l’aria contenta. Lo scrittore è in attesa vicino all’entrata di Sparks in compagnia dell’attore Albert Finney e un’altra ventina di fiduciosi avventori. Il maitre d’hotel non sembra minimamente curarsi del fatto che siamo schiacciati l’uno contro l’altro e risponde bruscamente a chi gli chiede quando sarà pronto il tavolo. Dopo una ventina di minuti il gruppo di Vonnegut rinuncia e mentre li osservo andarsene mi chiedo se esista in America un altro ristorante dove a personaggi di quella levatura venga fatta fare anticamera. Alla fine la nostra attesa rispetto all’ora di prenotazione ammonta a quaranta minuti e costatare che da Sparks non si fanno favoritismi è una ben magra consolazione. Il fatto è che non si fanno favoritismi neppure con
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le bistecche. Da Sparks ho mangiato bistecche fantastiche. E ho mangiato bistecche mediocre. A volte nel corso della stessa serata. E se è vero che l’aragosta di solito è eccellente, so di serate in cui si è rivelato un disastro. Alla fine dell’anno scorso, Sparks si è allargato ai locali adiacenti, un tempo occupati da Arcimboldo, e la cucina stenta a adeguarsi alle nuove esigenze. I tortini di patate spesso non sono croccanti, la carne spesso è stracotta, e praticamente tutto è sempre troppo salato. Tuttavia ci sono due cose di cui si può essere certi una volta seduti al tavolo: il servizio sarà cortese e la lista dei vini riuscirà quasi a far dimenticare tutte le altre mancanze. E comunque le probabilità di cenare come si deve da Sparks si possono aumentare. Ecco come. Andateci di sabato sera. Da Sparks, a differenza di altri locali, il sabato sera è fiacco. Ci sono maggiori possibilità di accomodarsi subito al tavolo e anche
fondo siete pur sempre in una steak house. Non fatevi scrupolo di respingere i piatti. La qualità delle bistecche varia e l’unica cosa da fare per averne una di buon livello è affidarsi alla Provvidenza. Ma per quanto riguarda il modo in cui le bistecche vengono cucinate, la Provvidenza non c’entra. Se non è come la volevate dite al cameriere di riportarla in cucina. Se l’avete ordinata al sangue, non accettatela ben cotta. Non aspettatevi troppo dai tortini di patate. Da Sparks, sfortunatamente, non mi sono mai capitati dei tortini di patate come si deve. Cioè dovrebbero essere croccanti all’esterno, morbidi all’interno e molto caldi. Ma forse in cucina non sanno come si fanno. Gli spinaci al burro, invece, sono di un bel verde squillante e hanno un ottimo sapore. Prendete un dessert liquido (a meno che non ordiniate cheesecake). Evitate tartufo, frutti di bosco e gelato e date un’occhiata ai grandiosi porto, sauterne e vini da meditazione che vi garantiranno un fine pasto dolcissimo. Confermate la prenotazione. Spesso da Sparks si distraggono quando telefonate per prenotare. Una volta mi è capitato di prenotare per una domenica sera. Solo che quando sono arrivata davanti al ristorante l’ho trovato chiuso. Lo sanno tutti che Sparks chiude sempre la domenica, no?” di sedersi lontani da un gruppo di tredici operatori di borsa ubriachi che festeggiano i loro successi (a me è capitato di mercoledì). “Quanto hanno speso?”, ho chiesto al cameriere quando la tavolata ha tolto finalmente le tende. “Oh, non molto”, mi ha risposto aprendo con un colpo di polso il blocchetto degli ordini. “Hanno preso soltanto quattro doppie magnum e una bottiglia di porto. Un paio di migliaia di dollari, non di più”. Andateci in pochi. Sarà una coincidenza, ma le volte in cui ho mangiato da Sparks eravamo solo in due al tavolo. Ci è sempre arrivato tutto caldo e sia bistecche sia aragosta erano superbe. Guardate quello che mangiano gli altri. Non vedrete nessuno nei tavoli accanto che mangi antipasti di mare. C’è una ragione. I molluschi al forno sono affogati sotto il pan grattato e quasi crudi. Non vi capiterà neppure di vedere qualcuno che mangi melone. Gli antipasti da prendere sono: cocktail di gamberetti (servito direttamente nel piatto con i gamberi aperti a farfalla), polpa di granchio, insalata di pomodori e cipolla. Vi accorgerete che gli esperti si fanno servire insalata di pomodori tagliati a pezzettini con una salsa al Roquefort: un tocco molto americano e sorprendentemente delicato. Potrete anche notare che molti dei vostri commensali prendono gli asparagi in vinaigrette. Sul menu non compaiono ma sono molto buoni. Limitatevi a bistecca e bracciole lisce. Nel menu sono riportati una quantità di piatti frufru tipo medaglioni di manzo in salsa bordolese, bistecca al formaggio (cioè con sopra Roquefort), o scaloppine di manzo (fettine di filetto con peperoni e funghi). In cucina devono coltivare un sommo disprezzo per chi è in attesa di simili preparazioni decadenti, e carne e condimenti non sono all’altezza di quelli usati per i piatti ortodossi. Detto per inciso, la portata più affidabile che abbia sperimentato sono le bracioline d’agnello, sempre notevoli. Se volete piatti di mare, prendete l’aragosta. Da Sparks l’aragosta solitamente è degna di fiducia. Solo una volta l’ho trovata così dura da doverla mandare indietro. Il pesce viene trattato come una presenza importuna e chi si azzarda a ordinare bocconcini d’aragosta e gamberoni alla griglia con salsa di burro al limone lo fa a suo rischio e pericolo. In
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Camilla Baresani Gli sbafatori
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inalmente è uscito, il 22 settembre. Il nuovo libro di Camilla Baresani, Gli sbafatori, è più che altro un esilarante documentario di cronaca rosa-nera, piuttosto che un romanzo. Gossip e bassezze che accadono quotidianamente nel mondo patinato dell’alta ristorazione, gente subdola e piccola che pretende favori e regali, personaggi viscidi e presuntuosi, egocentrici e saccenti, cattivi fino al midollo, interessati solo al torna conto personale. Un libro fantastico, di cui pubblicheremo ampi paragrafi: diventerà un libro cult, una specie di Bibbia del mondo del giornalismo gourmet. Valeva la pena di diventare l’ennesima atleta della scrittura su commissione? No, aveva concluso Rosa. Era meglio lasciar perdere il giornalismo vero, che tra l’altro ormai era 30 31 finto, ed entrare nel mondo del cibo. Un lavoro appagante benché non pagato: lì almeno si mangiava. Ora, dopo mesi di presenza attiva sul web, stava costrue Era piuttosto una principiante nel giorno eccelso della prima scalata al vertice della comunità degli sbafatori, accolita cui tutti aspirano – benché, per ipocrisia, sostengano di non contemplarla tra le proprie chance esistenziali. Sebbene non retribuiti per le proprie prestazioni professionali, i più abili appartenenti a questa fortunata setta riescono a vivere alla grande senza mai metter mano al portafoglio. Non pagati, non pagano: una vita da paradosso. Si era rassegnata ad accontentarsi di quello che aveva trovato: una serie di piccole collaborazioni non retribuite nel mondo del cibo, e da quasi un anno aveva anche un suo blog. Cose da poco, che però le davano modo di sopravvivere a scrocco, tra un invito per il lancio di una linea di marmellate, l’apertura di una friggitoria di tendenza spersa in un quartiere nuovo e ancora incompiuto, l’invito a una pizzata offerta da un produttore di farine biologiche. Senza contare la quantità di libri di ricette e monografie di cuochi che riceveva, anche venti al mese, spediti da uffici stampa all’affannosa ricerca di una segnalazione, persino su un blog appena nato, pur di far vendere qualche copia di
quei monoliti cartonati, pieni di inerti immagini patinate, nell’èra in cui anche l’ultimo degli analfabeti digitali le ricette le guarda gratis su YouTube. A ogni modo, quei libri erano una manna: Rosa pubblicava la copertina sul blog, copiava il comunicato stampa, aggiungeva un paio di definizioni estatiche e correva a rivenderli al Libraccio.
Erano il suo bancomat. Da un po’ di tempo si era accorta che avrebbe dovuto svecchiare la mandria di sbafatori della carta stampata con cui lavorava da anni. Tutta gente che dietro le moine era di una presunzione, di un’avidità e di un’ingratitudine esemplari. In cambio di viaggi e pasti da sogno, emettevano due
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righe a fondo pagina, magari riuscendo a inserire nel pezzo anche qualche marchetta praticata ad altri marchi. “Del resto”, si disse la Accursio in uno dei suoi rari momenti d’introspezione, “siamo noi pierre che li viziamo. La questione è sempre la stessa, dai tempi di Mani Pulite: chi ha più colpa, il corrotto o il corruttore? Entrambi”, concluse, sazia della propria saggezza. “Al cliente” – e pensava al marketing Dom Pérignon ma anche ad altri marchi di cui gestiva la promozione – “devo presentare qualcuno di nuovo, ci vuole un’immissione di sangue fresco. Gente più devota e meno subissata di inviti. È ora di fare un po’ di scouting”, decretò. Meno di venti minuti dopo, la segretaria le consegnò una lista di oltre quattrocento foodblogger nazionali – erano quasi tutte donne – scaricata da Google. «Ma è un pollaio!» strillò la Accursio. «Fatemi una selezione delle influencer. Voglio trenta nomi, non di più». La Accursio giudicò l’insieme abbastanza glamour da surclassare l’aspetto muffito e ormai francamente sgradevole delle giornaliste della carta stampata. Sei circondato da sbafatori così accecati dallo sfarzo offerto gratuitamente, che si dimenticano di farsi pagare dalle aziende e dai datori di lavoro Abbiamo scoperto che c’erano un sacco di ispettori che ci truffavano. Mangiavano gratis e, con la promessa di recensirli, costringevano i ristoratori a fargli ricevute finte, che poi noi rimborsavamo. È un mondo disonesto”. Altroché.
Felice Lo Basso Diavolerie erotiche
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o ammetto: andare da Felice lo Basso mi mette in difficoltà. Il motivo è semplice: ti stupisce a tal punto da non trovare mai gli aggettivi giusti per esaltare le sue diavolerie geniali. Le parole non bastano per raccontare l’esplosione di gusti e colori, sapori e profumi: in più, padroneggia le tecniche in maniera straordinaria. Non bastano le parole, però se ti siedi al tavolo che si trova nella sua gigantesca cucina, al 20imo piano del Ristorante Unico, vista panoramica su Milano, capisci esattamente il motivo per il quale scrivi di cibo e chef: lo fai per vivere il tripudio di sensazioni che ti regala la mano sapiente di Felice. Esattamente un anno addietro, quando si “insediò” all’Unico, dopo un lungo periodo pieno di soddisfazioni in Val Gardena, arrivai qui per la prima volta. Rimasi ipnotizzato dal suo riso al formaggio di capra e polipo, dal cervo e altre prelibatezze. Guardavo la città, il tramonto e i pensieri volavano, mi sentivo inondato da mille
idee, l’adrenalina impazziva. Era l’effetto Felice, un luogo dove ti rendi conto che il cibo non si può separare dall’erotismo, perché appena assaggi un piatto la mente vola alle sue labbra socchiuse e dolci come un mango maturo, immaginandola assaporando le delizie dello chef. Oltre alla magia, la sua cucina lascia trasparire un’istintiva consapevolezza delle potenzialità di ciascun ingrediente utilizzato: sai perfettamente quello che stai mangiando. Detta così pare una banalità, ma non lo é. Prendiamo il suo foie gras, il migliore mai assaggiato, delicato come la schiena arcuata e vellutata di una fanciulla, saporito come un bacio, leggero come se fosse panna montata, morbido come le parti intime di una donna. Marinato per un giorno con latte di capra, poi per un altro con sale, zucchero di canna e calvados, appena lo assaggi ti si schiudono territori sconosciuti. Solitamente il foie gras piace assai poco alle donne, per un discorso squisitamente legato alla bilancia. Per fortuna, alcune non riescono a
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resistere alle tentazioni gourmet: dovevate vedere le due signore accanto a me come miagolavano mentre lo gustavano con le loro labbra di seta. Passiamo ad altra esplosione, la bisque di gamberi: prima lo scoppiettio delicato della pallina, poi il piacere cremoso e accattivante, il profumo divino del gambero, il suo aroma unico, irriproducibile. La magia è servita. Le cozze in Alto Adige sono delle squisite frivolezze, delle morbide caramelle croccanti fuori e cremose all’interno: chiudi gli occhi e respiri profondamente il mare. L’ultima “creazione” è il cuscinetto, l’airbag di rapa rossa farcito di baccalà mantecato. E cosa dire delle capesante, piatto che tocca l’anima, dove hai la sensazione di assaggiare l’intensità del mare? Chiudi gli occhi e respiri profondamente, assimilando la fragranza vigorosa delle alghe e, ovviamente, delle capesante. Ti sembra di assorbire gli odori del mare con la pelle. Se vi aspettate molto da lui, le vostre attese saranno interamente soddisfatte.
Eugenio Boer L’artigiano dei sapori
Tortelli con gamberi di Mazzara
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nthony Bourdain, Al sangue, pagina 191: “Come dovrebbe accadere in tutte le grandi esperienze culinarie, mi era sembrato che qualcuno mi avesse parlato, mi avesse raccontato qualcosa di sé, del suo passato, delle cose che amava e ricordava”. Mentre assaggiavo le creazioni di Eugenio Boer mi sono tornate in mente le parole di Anthony, che esaltava la cucina di Thomas Keller. Ha 37, di cui 25 passati in cucina. Esatto, non si tratta di un errore, perché Eugenio, artigiano dei sapori con mamma ligure e padre olandese, ha cominciato a sognare con le mani a 12. Il suo attuale ristorante, Essenza, si trova in Via Marghera: fa tanto Milano d’antan, in bianco e nero, case di ringhiera, profuma di tempi passati. La zona è fra le più intense per quello che riguarda la vita gastronomica meneghina, piena di famiglie antiche e benestanti, gente con il palato sicuro, ovvero i clienti di Eugenio. Il target è assai trasversale, giovani e anche over
sessanta, il che significa semplicemente che ha colpito nel segno, riuscendo ad attirare e conquistare tutti, fatto assai inconsueto. Merito della sua filosofia culinaria, che desta curiosità prima e ammirazione poi, una filosofia difficilmente inquadrabile anche da se stesso: difatti la considera “di ricordo”, il che significa personale al massimo, irripetibile, narrativa. Ovvio, si nota qualche leggero tocco imparato alla corte di Norbert Niederkofler e Gaetano Trovato, i suoi due maestri, però si tratta più di un omaggio che di una intenzione di seguire la loro filosofia. Ha un’energia ed un entusiasmo contagiose, pensa già al prossimo menu e fin qui nulla di eroico se non fosse che stiamo parlando di un centinaio di portate, dagli amuse bouche deliziosi ai dolci, quest’ultimi ideati da lui e poi creati dal suo pasticciere. Se gli chiedi di un piatto che altrove si chiama signature dish ti guarda perplesso: “Non posso dire quale sia il mio preferito, oppure quello che mi
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caratterizza di più, ognuno è una mia creazione, frutto delle mie esperienze, del mio passato, della mia storia”. Lo vedi che soffre mentre risponde, gli procuri una violenza terribile, mettendolo a scegliere. Tornando al menu: i cinque amuse bouche sono l’inizio di un viaggio meraviglioso. Un primo omaggio alla sua terra di origine, la Liguria, poi un altro alla sua metà olandese (sontuoso), seguono altri tre delizie, ringraziamenti a Norbert Niederkofler, Gaetano Trovato e Gualtiero Marchesi (cialda di zafferano e spuma di parmigiano 18 mesi). Il voto è già alto, il palato soddisfatto, la serata un successo, aspettando le altre meraviglie, perché dopo un inizio così le aspettative sono alte, altissime e sai già che non verrai deluso. Non potendo elencare l’intero menu ci fermiamo su tre piatti che abbiamo amato visceralmente. Le caramelle croccanti, perché i tortellini di Eugenio Boer sono proprio così, croccanti. Il motivo?
La pasta all’uovo é fatta in casa, servita al dente, creando un contrasto intrigante con l’interno morbidissimo, ovvero gamberi di Mazzara. La favola non finisce qui, perché sopra viene servito un consommé freddo (altro contrasto), realizzato con le teste di gambero, poi si aggiunge la buccia di limone. “Metto la buccia perché i profumi sono intensi, con il succo ci sarebbe stata più acidità. L’abbinamento perfetto? Con lo champagne Renaissance Sauvage”, racconta lo chef.
Segue il macaron con fave di cacao e fegato di piccione, un must, un piatto cult: la clientela non riesce e non vuole rinunciarci, torna per gustare e riempirsi dei profumi della selvaggina, idem per l’altro piatto storico, il cervo. Vince su tutti il risotto alle ceneri, salmerino di montagna e le sue uova, piatto che sussurra segreti e impedisce la conversazione: “Le erbe di montagna ritornano in due tempi, fresche per la marinatura del salmerino, e bruciate per ricreare
Risotto alle ceneri, salmerino di montagna e le sue uova.
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l’idea del caminetto, della cenere, dell’affumicato”, racconta lo chef. “Essendo un risotto di pesce di fiume delicato, non si può mantecare con un formaggio invasivo, quindi serve un Grana Padano giovane, ma per restituire sapidità al piatto ho usato le uova del salmerino. Per dare un twist, nella fase finale, un ingrediente tipico di quelle zone e della Mitteleuropa: la grattugiata generosa di kren fresco che emana con il calore del risotto una nota balsamica”. Mano decisa, una visione colta della cucina, Eugenio fa parte della ristretta categoria dei predestinati: “Mio padre mi portava in giro in macchina e aveva la guida Michelin sul sedile. Ho cominciato a cucinare all’età di tre anni, a 12 lavoravo in un ristorante dopo l’orario di scuola. A quel tempo era un po’ strano che un bambino, anziché giocare fuori, passasse le giornate in cucina”, raccontava poco fa al Gambero Rosso. Sa il fatto suo e non va dietro il pensiero unico e politically correct, rispendendo al mittente l’ossessione del km 0: “Se la melanzana di qualità la si trova in Sicilia, la prendo lì, mi sfugge perché dovrei acquistare una di Cinisello Balsamo”. Come dargli torto. D’altronde per far sognare i clienti ci vogliono le materie prime migliori, non quelle più vicine.
Foto: Fabrizio Di Nucci
Bistrot Les Gitanes
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l re è morto, evviva il re: la frase dovrebbe essere aggiornata e utilizzarla per il mondo degli chef, un mondo che forse sta diventando troppo frenetico, nel senso che non fai in tempo ad assaggiare le pietanze di uno di loro che ha già cambiato ristorante (accade nei stellati e non solo, per la disperazione dei patron e anche delle guide). Un turnover malato, isterico, controproducente assai, con l’unica nota positiva di favorire l’ascesa di giovani chef come Davide Gianni, 26enne con il piglio deciso che ha preso le redini del Bistrot Les Gitanes. Il luogo ha una sua storia e un’identità ben precisa, vive soprattutto grazie all’atmosfera newyorkese e alle intuizioni di Stefano Della Chiesa, istrionico restaurant man che sa accontentare la
clientela trasversale della via Tortona. Perché il bello del bistrot è proprio questo: vedi l’imprenditore e la pr, la modella e il creativo, l’adolescente e l’uomo di mondo attempato, un mix perfetto che ha un solo significato, ovvero che il posto ha successo. E’ sempre pieno, merito della nomea costruita giorno dopo giorno e dell’atmosfera bohemienne e chic: ora però alcuni clienti, già affezionati e fidelizzati, tornano per il ragazzo che sta impressionando con i suoi piatti, eseguiti insieme ad Alessio Truddaiu, qui praticamente da sempre. Il primo menù firmato Davide Gianni ha superato la prova con il massimo dei voti, dimostrando di vivere per il cibo e di avere le idee chiare, di essere un romantico della cucina. Sublimi frivolezze come la caramella di culatello
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con gelato di pesca e la scarpetta di scampo con salsa di mango e cioccolato bianco (si, proprio così, prendi lo scampo e lo utilizzi come se fosse un pezzo di pane), intrigante anche la semplice pasta al pomodoro che poi semplice non lo è mai: ha scelto quattro tipi di pomodori diversi, dandoti la sensazione di averli accarezzati uno per uno in cucina. Chic la cenere di cipolla sulla carne di vitello e poi c’è il mille foglie con pane carassau, stracciatella, melanzane, zucchine e pesce spada marinato con agrumi e alloro, piatto che impedisce la conversazione: il primo boccone é un’emozione violenta, un’esplosione di aromi, poi la delusione, perché il piatto è finito. Il gioco delle consistenze davvero impeccabile, la cremosità dell’insieme anche. Chapeau.
Albora, Madrid Joselito e saguitos
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uartiere Salamanca, Madrid. Zona residenziale, di livello alto. I palazzi sono spettacolari, l’architettura ti colpisce, l’atmosfera è davvero aristo chic, i viali sono larghi e alberati. Poco lontano, il parco Del Retiro. A due passi, le strade dello shopping, Calle Serrano e Calle José Ortegay Gasset. E’ qui che si trova Albora, in Calle Jorge Juan: ristorante di design diventato famoso perché ti accoglie con la trilogia di Joselito gran riserva, piattino a tre piani che già vale la serata. Tre tipi dello stesso prosciutto con tre stagionature diverse: accanto, il pane fatto in casa (quello di mais delizioso). Accompagnate il jamon ad uno champagne rosé: chi ben inizia… In ordine disordinato, altre frivolezze a base di carne: la tartare piccante, poi la “carrillera de ternera asada con terrina de patata y bacon”, ovvero una specie di guanciale al forno con accanto patate e bacon. Una sinfonia di gusti e contrasti da andare in visibilio. E’ un piatto che mette in pace con se stessi, che regala emozioni forti, che lascia senza parole: non
da meno i saguitos, i sacchettini, una sorta di ravioloni ripieni di coda di bue con crema di zucca di vaniglia. Sempre Qui troverete anche le patate al “mojo picon”, in pratica una specialità delle Canarie. Tanta carne, però anche pesce, per soddisfare proprio tutti: le capesante ed i moscardini sono di altissimo livello, come le trippe, “callos a la vizcaina”. I dolci non sono da meno, anzi, sullo stesso piano: il cioccolato bianco con il cuore di passion fruit ti porta a toccare il cielo con un dito. Per gli abbinamenti, i sommelier vi consiglieranno soprattutto dei rossi, com’è logico che sia: però i prezzi sono davvero onesti. Raccontando i piatti ci siamo dimenticati di parlare dei due proprietari e dello chef. Il ristorante appartiene a José Gomez, patron del Jamones Joselito e Cayo Martinez, il numero uno di Conservas La Catedral, azienda navarra conosciuta per le conserve. I due volevano creare un luogo di incontro, un punto di riferimento gourmet nella capitale, per
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proporre i loro prodotti ad una clientela sofisticata e soprattutto benestante. L’edificio è molto capiente: c’è il terrazzo, poi il bar, molto ampio, dove si servono tapas a volontà. Il ristorante è al primo piano, dove vi accoglieranno Jorge Davila e Jose Maria Marron, due dei miglior uomini di sala dell’intero paese. Il re di Albora è invece David Garcia, basco, figlio d’arte (suo padre gestiva un bar, Tamesis), discepolo di Martin Berasategui: pochi fronzoli, tanta leggerezza ed eleganza, niente follie alla Adrià, una cucina solida, con radici nella tradizione ma presentate in maniera ultra moderna. La stella l’ha ottenuta l’anno scorso e pare assai improbabile perderla, anzi: di questo passo si va verso la seconda. L’unico neo, i camerieri (peraltro impeccabili) hanno una certa fretta nel portarti i piatti, spesso non ti danno la possibilità di respirare fra una delicatezza e un’altra. La frenesia, in un ristorante del genere, in un quartiere del genere, è assai fuori luogo. Ma ripensando alla trilogia di Joselito e alla carrillera ti torna il sorriso. E la voglia di sedersi di nuovo a tavola, in Calle Jorge Juan.
Oaxen
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Una stella sul fiume
vvertenza: il bistrot Slip e il ristorante Krog si trovano nello stesso edificio, però ognuno ha il suo ingresso separato e, ovviamente, sono dei locali diversi. Lo diciamo perché in tanti si aspettano un pranzo, oppure una cena stellata e si siedono ai tavoli del bistrot dove si degustano prelibatezze sì, ma senza i fasti del ristorante stellato. “Da una parte puoi passare del tempo con gli amici, da un’altra il focus è sull’esperienza culinaria”, mettono dei paletti i proprietari. Sì, perché i proprietari sono gli stessi, Magnus Ek assieme alla moglie Agneta Green: i due hanno chiuso il ristorante Oaxen al sud di Stoccolma (sull’isola che porta lo stesso nome) per aprirne uno nell’area centrale della capitale. Nella prima
vita (dal 1994 al 2011) erano riusciti a far parlare di loro ed entrare nella classifica dei cinquanta miglior ristoranti, nella seconda (iniziata nel 2013) hanno già ottenuto due stelle. L’edificio, affacciato sulle rive del fiume Djurgarden, in una zona residenziale, a due passi dai tanti capannoni industriali e non lontano dal museo ABBA, ha qualcosa di rustico e di poetico. Progettato dagli architetti Mats Fahlander e Agneta Pettersson (in grande considerazione qui in Svezia), molto belli gli arredi, cordialissimo il servizio, poi ci sono i piatti tipicamente nordici, dove primeggia una ampia scelta di pesce e dove, forse a sorpresa per uno stellato, si sorseggia birra locale piuttosto che dei vini sofisticati. L’inviato di New York Times rimase impressiona-
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to dalla coreografia delle portate: “sembrano usciti da un dramma di Ingmar Bergman”. Lo ammettiamo, non siamo esperti di cinema in bianco e nero (come la gran parte dei coloro che ne parlano come se lo fossero), però l’idea ci piace. Tornando indietro, va detto che agli inizi Agneta serviva ai tavoli, mentre Magnus si destreggiava in cucina assieme ad altri due. Poi lei è diventata sommelier, lui si è specializzato sempre di più nella cucina locale e tradizionale, intensificando i rapporti con i produttori locali. Hanno deciso di chiudere il vecchio locale nel 2011 perché l’isola non era accessibile per l’intero anno (a causa dei pesanti inverni), aprendo in una zona facilmente raggiungibile: il resto lo potete scoprire andando in via Beckholmsvägen 26. Ne vale la pena.
Pascal Caffet Magia pura
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Caramello! Il macaron al caramello, con un leggero e raffinato tocco di fior di sale. Lei è il macaron al caramello, perché il gioco assai infantile ma intrigante voleva che tu cercassi l’abbinamento perfetto: assaggiare un pasticcino che ti avrebbe prima portato in un mondo fiabesco e poi, chiudendo gli occhi, in base ai gusti, alle sensazioni, dovevi immaginare una donna. Certo, il macaron è sopravvalutato e assai inflazionato, copiato e scimmiottato oltre misura: ormai è un dolce da baraccone. Però andateci da Pascal Caffet, in via San Vittore al civico 3, vera roulette per i golosi: profumi, colori ed emozioni mai vissute. Entrate, chiedete di Olivier. Scegliete un dolcino, assaggiatelo e dopo il morso iniziale, come per magia, i pensieri voleranno ad una donna che (forse) già desiderate follemente. LEI è il macaron al caramello e l’eclair al pistacchio. Non avevo alcun dubbio, appena Olivier mi ha invitato a provarlo, suggerendomi che sarebbe il preferito di una donna che ama gustarsi la vita e il cibo in maniera spensierata, sorridente e rilassata. Sarà un caso, ma
appena le ho raccontato la storiella, mi ha sussurrato che sì, il pistacchio è il suo preferito da sempre. A quel punto la strada era tracciata, il giochino poteva continuare all’infinito ed allora eccoci: assieme a Olivier Gallo, maitre patissier parigino, origini italiane, il cerimoniere di Via San Vittore, ci siamo messi a sognare e a immaginare, volando e facendo paragoni osè, veritieri e puntigliosi. Seguiteci, con la fantasia. L’eclair al cioccolato, un cioccolato venezuelano fondente al 70 per cento, intensità da urlo, color ebano, impatto visivo devastante, lo immaginiamo assaggiato da una donna esigente, gourmet, decisa. Quello al ribes nero e violetta pare perfetto per una donna frizzante, sportiva, elettrica, che ama il profumo di libertà e di bosco, il jogging e la natura. La lista sarebbe infinita, però fermiamoci a quattro esempi, dove il quarto è l’eclair al limone: l’accostamento è difficile, il colore e la polvere spruzzata sopra ti portano a pensare alla magia, alle stelle. Olivier invece suggerisce la donna ambigua, sfuggente all’inizio, ma che poi, quando decide di aprirsi, diventa poesia
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pura, goduria cremosa (io sono rimasto al pistacchio, l’avrete già capito). Macaron, torte, cioccolatini eleganti e golosi: entri qui e provi quella sensazione di felicità immediata, vorresti assaggiare e avere tutto, scatoline comprese, perché al tatto alcune sembrano raso. E’ tutto oltre la magia e la perfezione, sei sulle montagne russe del gusto oltre i limiti immaginabili, qui ti si aprono territori sconosciuti, è una favola senza fine. “Sono nel mondo delle fiabe”, sussurrò ancora lei, felice come una bambina, quando entrò per la prima volta. Tutto vero, perché Pascal Caffet dipinge, riesce a far sognare con le mani: fa parte della storia da quando ha vinto il titolo di campione del mondo, nel 1995, proprio a Milano. Si potrebbe raccontare per pagine e pagine delle sue creazioni, dei gusti e delle sensazioni vissute una volta varcata la porta delle sue boutique, però sarebbe assai riduttivo: l’impatto visivo è così ipnotico e potente che solo andandoci vi potrete fare un’idea. Di sicuro appena morderete un suo dolcino vi sentirete in paradiso e direte “Life is now”. La vita è un cioccolatino, soprattutto da Pascal Caffet.
Noma, Copenhagen Vita da stagisti
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proposito degli stagisti, categoria sen sibile in Italia, con tante pro s pettive altrove: qui da Noma c’è una situazione interessante, che merita essere approfondita. Intanto non vengono retribuiti e fin qui ci sta, vista la fila per entrarci da Noma (la puoi sempre mettere al curriculum e fa un certo effetto). Alcuni di loro vengono assunti in seguito ma nei mesi di stage si devono dannare l’anima in un modo folle. Sentite qui la testimonianza di Anna Lisa Macellaio, sous chef di Luigi Nastri al Settembrini di Roma. E’stata da Noma per due mesi, fra novembre e dicembre dell’anno scorso, ne ha da raccontare, anzi, la sua testimonianza è un “documento” a dir poco straordinario per
chi vuole capire come si svolgono le attività nel ristorante più acclamato degli ultimi anni. Sentitela. “Due settimane prima dell’inizio dello stage ho ricevuto una mail di conferma e un file che racconta la filosofia del Noma, quello che avrei dovuto portare in dotazione e quello che mi avrebbero dato loro. Mi hanno avvertito che non sarebbe stato possibile fare foto, abbandonare prima della scadenza prevista lo stage o avere comportamenti inappropriati. Se avessi commesso uno di questi errori, sarebbe scattata la penalizzazione e sarei stata inserita sul famoso libro nero degli stagisti che condividono tutti i grandi ristoranti. Insomma, tolleranza zero”. Ed ecco il suo “diario”.
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“La mia sveglia suona alle 5 del mattino. Devo attaccare a lavorare alle 6 e continuare fino alle 23-24, dal martedì al sabato. Lo staff al Noma è diviso in 5 sezioni. 1. Am è la sezione di quelli che attaccano alle 5 del mattino e staccano alle 18 del pomeriggio. Si occupano delle centrifughe di frutta e verdura, così come del pranzo e della cena al personale. 2. Snack è la sezione che si occupa dei 20 assaggini iniziali. 3. Section 1 è la sezione che si occupa dei piatti freddi che escono dopo gli assaggini. 4. Section 2 è la sezione dei secondi caldi. 5. Pasticceria. Tutti siamo divisi come se fossimo in una caserma. Ognuno è in una sezione e se sei fortunato, come
me, ti mandano anche a fare il servizio nella cucina del piano di sotto. Solo così puoi portare i piatti ai tavoli e annullare la distanza tra cucina e sala, uno dei miti del Noma. Il tempo è scandito da un cronoprogramma molto preciso. Dalle ore 6.00 alle ore 8.00. Alla Section 1 prepariamo tutte le guarnizioni e le erbe che vanno nel piatto. Alle 8.00 arriva la spesa e con guanti e cappotto si esce fuori a sistemarla. Anche sotto la neve, se è questo che state pensando, perché il magazzino è esterno. Dalle ore 8.00 alle ore 9.00. Pulizia generale dei piani e del pavimento. Dalle ore 9.15. Mise en place delle preparazioni. Ore 11.30. Di nuovo pulizia generale dei piani, delle pareti e del pavimento. E’ la seconda. Ore 11.45. Briefing nella sala del ristorante dove il maître di sala racconta chi sono gli ospiti del giorno e se tra loro c’è qualche Vip o Friend (come li definiscono) o qualche tavolo con allergie e richieste particolari. Si discute anche del servizio del giorno prima e lo chef non manca mai di fare giuste annotazioni o di motivare lo staff a dare sempre il meglio di se stessi. Dalle ore 11.45 alle ore 11.48. Se sei fortunato hai 3 minuti per mangiare in piedi una scodella di minestra: i primi tavoli arrivano alle ore 12.30 e molte preparazioni sono ancora ineludibilmente da completare. Ore 15.00 circa. Finito il servizio (section 1) se lavori nelle cucine al piano inferiore ti tocca passare almeno un’ora per lucidare e pulire tutto. Se invece lavori nelle cucine di preparazione al piano di sopra continui fino alle 16.30. Quindi di nuovo mega pulizie generali sui piani di lavoro, sulle pareti e per terra. Ore 17. Cena dello staff. Ore 17 .30. Di nuovo preparazione. Ore 18.30. Il briefing della sera. Ore 19.00. Inizia il servizio serale. Ore 22.00. Finito il servizio, di nuovo mega pulizie con svuotamento di tutti i frigoriferi e delle celle del piano superiore. Poi si continua a fare preparazione fino le 23 per il giorno successivo. Ore 00.00. Lo staff di cucina si riunisce per organizzare l’attività del giorno seguente. Sempre così, dal martedì al venerdì. Il sabato, poiché la domenica è giorno di chiusura e non c’è bisogno di fare alcune preparazioni c’è più tempo per svolgere le pulizie straordinarie. Si prendono le scale per arrivare al soffitto, si smontano tutti i mobili per disinfettarli e si puliscono anche le prese di corrente per togliere ogni ombra di grasso. La cosa più terribile, almeno sino al disgelo, è la pulizia dei magazzini esterni (sei al freddo). Il giorno della chiusura per le feste natalizie (22 dicembre) siamo rimasti fino alle 3 di notte per completare le pulizie di chiusura attività. Tutti coloro che lavorano al Noma in pianta stabile sono ragazzi molto giovani con età di 23-25 anni. Non reggono più di un anno e poi scoppiano. I ritmi sono pazzeschi, ripeto dalle 6 del mattino fino a mezzanotte e 6 giorni su 7. Perché anche se il lunedì è un giorno di chiusura si va lo stesso al Noma per fare alcune preparazioni. Contate che ci sono solo tre souschef che hanno più di 35 anni: controllano tutti questi giovani e talentuosi capopartita. La verità è che non mi riesco ad immaginare come potrebbe fare il Noma a reggere questi ritmi di produzione senza l’aiuto di noi stagisti”.
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Joacquim Koerper Un tedesco mediterraneo
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’ uno degli chef più acclamati degli ultimi anni. Fin qui, niente di eclatante: se però aggiungiamo che si tratta di un tedesco considerato fra i migliori interpreti della cucina mediterranea, le carte in tavola cambiano. Ha lavorato nei ristoranti più importanti, aggiungendo ad ognuno stelle, notorietà e magia: il Girasol a Moraira (prese la prima stella dopo nove mesi, tre anni dopo la seconda), vicino Alicante, poi L’Ambroise a Parigi (tre stelle), Moulin de Mougins (pure qui tre), Guy Savoy, Hostelerie du Chef a Marlenheim, Au Chapon Fin. Ora, oltre all’Eleven se ne occupa anche di due ristoranti a Rio, Enotria ed Enoteca Uno. Vive in cucina dall’età di 15 anni: nato a Saabrucken, non lontano dal confine con la Francia, i primi passi a Costanza, all’hotel Kalken, poi lavorò a Berlino al Kempinski e in Svezia
prima di girare i paesi mediterranei, Grecia, Italia (in Sardegna) e Spagna (nel sud). Fatto assai curioso, nel 1976 ha vinto le Olimpiadi culinarie di Francoforte. In Portogallo arriva nel 1999, quando lo chiamano per una consulenza al Quinta das Lagrimas, a Coimbra. Un giorno riceve la visita di José Miguel Judice che gli propone di aprire Eleven ed eccolo a Lisbona: il nome proviene dal numero di soci che ci sono imbarcati nell’avventura appunto undici. Il ristorante si trova probabilmente nel posto magico per eccellenza della capitale portoghese, ovvero in alto nel Parco Edoardo VII, con vista sulla città vecchia. Ottiene la stella nel 2004 e a quei tempi era l’unico ristorante della capitale ad aver conquistato un riconoscimento del genere (poi la perse nel 2010).
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Come mentori cita sempre i due francesi, Bernard Pacaud e Roger Vergé: “Da loro ho imparato a selezionare sempre i migliori prodotti e di capire l’essenza e la freschezza della cucina mediterranea”, racconta. Considera la sua cucina elegante e luminosa, mentre se dovesse aprire un’attività tutta sua aprirebbe una hamburgheria de lusso: “un pane straordinario e una scelta ampia, dal salmone al baccalà, oltre alle varie carni pregiati”, sogna ad occhi aperti. Una via di mezzo fra quello che propone all’Eleven e l’hamburgheria la potete trovare al brunch del sabato, vera e propria Disneyland delle piccole golosità. Piccola aggiunta: la lista dei vini pare sia la più imponente della città. Dicevamo dei ristoranti brasiliani a Rio: entrambi si trovano a Barra da Tijuca, con Enotria che sita sull’avenida Ayrton Senna.
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Massimo Sagna
Dinasty
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Massimo Sagna assieme al figlio Leonardo, dietro al ritratto del fondatore Amerigo
uoi anche non essere un esperto e nemmeno un appassionato di vini e champagne, però sentire i racconti del barone Sagna rimani ammaliato comunque. Storie di vini famosi e aziende storiche, ristoranti e personaggi leggendari, dinastie e mondi prelibati: Massimo Sagna è un conoscitore e un intenditore come pochi, in più è un narratore nato, con un linguaggio felpato e acuto. Dedicargli due pagine ci pare poco, la promessa è che al più presto torneremo con altri spazi, più ampi, anche perché oggi il suo mondo, quello della distribuzione, vive un periodo storico, un’effervescenza per certi versi inusuale. Partiamo proprio da qui, dall’anno zero del settore. - Cosa succede, nella distribuzione? - Il mondo è cambiato in tutto e dappertutto, i consumi ed i consumatori anche. Una volta andavi in un pub e chiedevi un gin tonic, ti davano quello che avevano e nessuno aveva da eccepire. Ora perfino nei posti di un livello medio trovi almeno cinque, sei tipi di gin e il discorso vale per il rum, tequila e la vodka. - Già che ci siamo, nella vostra scuderia è appena arrivata Purity. - Un grande, grandissimo prodotto, una vodka distillata
ben 34 volte, non a caso ha vinto il titolo come la migliore al mondo. Fanno poche bottiglie l’anno, non più di 5.000. Abbiamo deciso di importarla e distribuirla perché è in linea con i valori dell’azienda, ovvero avere a che fare solo con l’eccellenza pura, con dei prodotti unici. - Non a caso siete gli importatori storici di vini come Petrus e Romanée Conti e champagne come Cristal. A proposito, come risponde il mercato? - Per dei vini come Romanée Conti non ci sarà mai abbastanza, nel senso che la richiesta è tale da superare di gran lunga la produzione. Il Petrus invece soffre moltissimo, come d’altronde tutti i vini di Bordeaux. Il motivo è semplice: con l’avvento dei consumatori cinesi hanno deciso di aumentare i prezzi, trattando in maniera arrogante il mercato europeo. Oggi la bolla del dragone si sta leggermente sgonfiando e dalle nostre parti sono intenzionati di far pagare a caro prezzo le politiche dei bordelaisi. Cristal invece, per fortuna, sta tornando a essere considerato per quello che è, ovvero un grandissimo vino. Negli anni d’oro era diventato, suo malgrado, il sinonimo di feste pacchiane, dell’ostentazione volgare, il che lo ha squalificato agli occhi degli intenditori. Era diventato famoso per le
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sue qualità, ovvero uno champagne di grande fascino, sta tornando a essere apprezzato in quanto tale e non come simbolo di opulenza dimostrata ad ogni angolo. - Prima di Cristal eravate importatori di Mumm Rouge, altro nome famosissimo negli anni d’oro. - C’è stato un periodo, negli anni ottanta, quando l’Italia era diventato il mercato numero uno per bottiglie di champagne vendute: dieci milioni. Lo dico pur sapendo di andare un po’ contro i miei interessi: forse si consumava un po’ troppo. Però c’era questa voglia di far festa e diciamolo, i francesi sono stati bravissimi ad accostare la gioia allo champagne: basta la parola per pensare ad un party, invece se dici che hai acquistato una bottiglia di Gaia puoi pensare alla qualità, ma non ad una festa. - Si dice che ultimamente state aprendo alle aziende italiane, non solo alle maison straniere. - Esatto: dopo un quarto di secolo di concentrazione sui prodotti francesi eccoci pronti a dedicarci alle eccellenze nostrane. Il motivo è semplice: alcune aziende, pur realizzando un prodotto straordinario, non hanno a disposizione una rete distributiva adeguata. Noi abbiamo una rete di agenti validissima, vogliamo sfruttarla al massimo. Oggi la clientela non
vuole fare magazzino, i ristoranti ordinano quattro bottiglie per volta: a noi viene facile consegnare, ai produttori no. - Facciamo un breve elenco delle new entry. - Il friulano Ronchi di Cialla, il toscano Terrabianco, il Barolo Pianpolvere Soprano Bussia, poi la grappa Romano Levi. - Passo indietro: 1928, suo nonno Amerigo fonda l’azienda. - Erano altri tempi, per certi versi era tutto più facile, c’era meno burocrazia, forse per questo motivo il mio nono un giorno importava cappotti per poi decidere di vendere e di acquistare delle tabaccherie. Un grandissimo personaggio, davvero. - Ci racconti la storia della sua nomina a barone? - Fu subito dopo la fine della seconda guerra mondiale: il re Vittorio Emanuele III gli ha riconosciuto i grandi meriti di aver aiutato e salvato tante vite, grazie alla sua attività fervente negli ospedali. - Suo padre era un medico, pure lei lo stava per diventare. - E’ vero, ho studiato per un anno: sarei diventato un dentista, probabilmente un pessimo dentista. Per
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fortuna mi sono salvato in tempo. - Che sensazione le fa passeggiare nella piazza antistante all’azienda, che porta il nome del nonno? - Bellissima. Aggiungo un altro motivo di grande vanto per la famiglia: la piazza è stata dedicata ad Amerigo da una giunta di sinistra, il che non era proprio scontato. - Tornando ad oggi, noi ci siamo conosciuti nell’occasione della presentazione dell’ultimo prodotto della maison Louis Roederer, lo champagne creato dalla maison assieme a Philippe Starck. - Un vino di grande onestà, senza dosaggio, di una sola vigna, trattato in biodinamica. Lo fanno solo nelle annate con molto sole, tant’è vero che nel 2004, 2005, 2007 e 2008 non c’è stato verso: si è tornati a produrlo nel 2009. - Lei è l’amministratore delegato dell’azienda, il futuro però si chiama Leonardo, suo figlio nonché pronipote del fondatore. - E’ il nostro orgoglio, la quarta generazione della famiglia, sarà un ottimo amministratore, è molto preciso e attento, aperto e disponibile. Ed é molto meglio di me.
Le Vrai
Bistrot mon amour
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’impatto. Il primo impatto è fondamentale, qui come altrove. Appena metti il naso dentro il bistrot vieni assalito da un profumo inebriante di baguette appena sfornata, un profumo che sa di tostato e soprattutto ricorda, inevitabilmente, Parigi. Poi c’è un intenso odore di pasticcio di carne che ti porta con i pensieri nella campagna francese: il gioco è fatto, sei già conquistato, anche se non ti sei ancora seduto a tavola. Dopo aver gustato il foie gras fatto in casa, la tartare di manzo, la blanquette e la zuppa di pesce prometterai a te stesso che tornerai almeno due volte la settimana, ti alzi dal tavolo con la voglia
di ricordare ogni boccone, ogni sapore. E tornerai, eccome se tornerai. Perché mangiare è come vivere, perché qui ogni cucchiaio della zuppa di pesce incendia i sensi, è un colpo al cuore, perché ogni morso di foie gras lascia senza fiato, perché il colore del manzo sa di favola, perché ogni piatto ti ricorda un angolo della Francia. Va detto che finalmente la parola bistrot viene accompagnata anche dai fatti, perché in tanti, troppi, mettevano il nome come se non significasse nulla in particolare. Eccolo, il vero bistrot, seppur consapevoli che deve acquisire la patina del vissuto per sentirsi come nella Parigi degli anni trenta, quando le follie del French can can mandavano in visibilio i goderecci ed i viveur.
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Raffiche di piacere, perché c’è l’intero paese transalpino qui da Le Vrai, nel bistrot aperto dietro Piazza Repubblica, in Via Monte Santo al civico 8: è un luogo per gente con il gusto sicuro (non a caso il target va dai 38 ai 60 anni), con piatti ricchi e colori pieni, un luogo che mette allegria. “Chi entra rimane sorpreso, piacevolmente sorpreso”, dice sorridente la patron Claire Pauze, madre italiana e padre di Saint Etienne, una vita passata nel mondo della ristorazione transalpina, fra catering e ristoranti tristellati. “Dicono quasi tutti che un pane del genere non lo trovavano da nessuna parte, a Milano. Le loro parole si trasformano poi in fatti, perché
ogni giorno vendiamo un’ottantina di baguette, mentre nel weekend arriviamo a 120. Sforniamo il pane due volte al giorno, la mattina presto e poi a mezzogiorno, i ristoratori hanno iniziato a prenderlo da noi, il primo è stato Lo Priore, l’allievo prediletto di Gualtiero Marchesi. I lavori qui sono stati estenuanti, infiniti, però ce l’abbiamo fatta. Avevo in mente due posti che a me piacciono tanto, il bistrot Ami Jean di Parigi e la Brasserie Bocusse di Lione. Mio fratello, che abita a Milano da vent’anni, ed io abbiamo deciso di portare in Italia il meglio della cucina e dei prodotti francesi, il vero gusto del nostro paese. Tante bollicine, piccole cantine di altissimo livello: Amour de Deutz, Payelle, poi i vini Condrieu e Viognier, poco conosciuti, fruttati e secchi, di gran carattere, che riempiono il palato. Sono dei vitigni difficili da coltivare, nella Valle del Rodano. Abbiamo anche il Monbazilac, il Corton Perrieres Grand Cru e il Meursault Clos du Rois, per gli incontentabili perfino il Chateau Margot. In più tanti succhi biologici e artigianali, quello alla pesca rosa è il mio preferito (ndr: anche il nostro, una volta assaggiato)”. Tornando al pane, appena assaggiato quello nero ci siamo ricordati delle parole dei grandi chef che, quasi tutti, raccontano che a casa lo mangiano assieme al burro di Normandia e alle acciughe. Siamo certi che, a breve, potremo sederci qui e deliziarci pure con una prelibatezza del genere: sta arrivando. Nel frattempo abbiamo toccato il cielo con un dito gustando le portate del menu (che a pranzo cambia quasi ogni giorno). Il voto è altissimo per almeno sei piatti: partiamo con calma, continuando a leccarci i baffi perché le emozioni sono state tante e la voglia di mordere tutto a dir poco feroce. Il foie gras fatto in casa è di una delicatezza vibrante, di una leggerezza mai sentita prima: è fresco, puro, morbido e sensuale, sa di campagna, il sapore ti sboccia sul palato. “Mettiamo poche spezie, lo mariniamo con fleur de sel de Camargues , Noilly Prat et Pineau des Charentes, pepe de Sechuancon vaniglia di Tahiti, poi c’è un tocco finale di cognac”. Il salmone color corallo, lievemente affumicato, si scioglie al solo contatto con il palato. La zuppa di pesce è così buona che il suo profumo ci ha accompagnati per l’intera giornata: troppo gustosa, troppo indecente, troppo intensa, un’esplosione di aromi, è ampia, avvolgente, aggressiva. Ti percorre tutto il corpo, va annusata in maniera profonda, sprigiona seduzione, in pratica stai assaggiando l’intensità dell’oceano. Poi la delusione, il piatto è finito. La tartare di manzo è uno dei piatti cult, viene servito con le patatine fritte: il colore della carne è commovente e non lo diciamo per la semplice propensione alle iperbole. La blanquette è squisita, il profumo del parmentier de boeuf pure. Capitolo dolci: abbiamo assaggiato il Trianon ed è uno spettacolo, presto seguiremo anche il consiglio di Claire, ovvero la tarte tatin, noi abbiamo chiuso con una creme bruleé al pistacchio che scivolava sensuale in bocca. La brutta notizia è che dobbiamo alzarci e tornare a casa, la buona che tutto quello che si mangia qui possiamo acquistarlo e portarlo a casa, partendo proprio dal foie gras (70 euro al chilo). “Nel pomeriggio puntiamo molto sul café Gourmand, che va di gran moda in Francia: in pratica lo serviamo con dei pasticcini, un compromesso fra il dolce e il gusto del caffè, tostato e intenso”, dice Claire, invitandoci in pratica a tornare, con le canzoni di Edith Piaf in sottofondo. Lo faremo senz’altro.
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Fortaleza N
el punto più a Ovest d’Europa, a La Fortaleza Do Guincho, vicino Cascais, l’oceano davanti e le vetrate quasi sull’acqua. Molto silenzio, atmosfera sospesa nel tempo, camere a strapiombo sulla costa rocciosa, arredi allegri e ovviamente la cucina pirotecnica di Vincent Farges, una stella Michelin. Il ristorante ha aperto nel 1998: a quei tempi, per una veloce affermazione, decisero di ingaggiare Antoine Westermann, tre stelle con i suoi locali parigini. Ora in pratica copre solo il ruolo di supervisore: dal 2005 il suo posto lo ha preso Vincent, innamorato dell’oceano, uno che ha girovagato per il mondo, lavorando in Grecia e Marocco, Brasile e Thailandia, prima di arrivare a Cascais. Vincent e Antoine si conoscono da almeno vent’anni, condividendo la stessa filosofia culinaria: amano parlare insieme e confrontarsi, ma soprattutto mettono il lavoro di squadra prima di ogni altra cosa. Farges è un gran cultore delle materie prime, privilegiando sempre il rapporto con i piccoli produt-
Do Guincho tori locali perché, dice, dimostrano una passione infinita per il proprio lavoro. Ovunque è andato, ha sempre lavorato così. Tornando alla Fortaleza, si può scegliere fra alcuni menu degustazione. Quello di quattro portate (90 euro a persona) è ideale per l’ora di pranzo, magari accompagnato da una bollicina locale (suggeriamo il Campolargo Brut Rosé da uve pinot noir 2012). Si inizia con dei gioiellini deliziosi; madeleine con chourizo, mousse di salmone su conchiglia di papadani; bignè con queso delle Azzorre e infine biscottino alle mandorle con crema di formaggio, carpaccio di orata olio di oliva, cipolla, lime e chicchi di uva spina. L’antipasto non delude le attese: patè di foie gras con muscadel de Setubal, gelée di rabarbaro, zenzero e mousse di mela: contrasti ed equilibri perfetti, accostamenti fantasiosi e ispirati. Il crescendo è spettacolare, il primo sa di paradiso, perché il pesce è soffice, il piatto raffina-
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to ed elegante: filetto di Robalo (si, la spigola) con molho (sugo) di begamotto, verdure croccanti, mousse di finocchio e cialda ripiena di tartare di ostrica e conchiglie contenenti olio aromatizzato da versare sul pesce. Applausi. La seconda portata regala emozioni ancora più forti: porco preto alentejano (maiale nero della regione dell’Alentejo) con asparagi, involtino di finocchio e bicchierino con stufato di guancia di maiale e purea di patate. Accostamento delizioso e pretenzioso, raffinato. C’erano tante aspettative per il dessert, perché va bene la stella, va bene il primo e il secondo, ma le voci girano ed è un coro unanime: tutti ti consigliano di tenerti spazio e voglia per il dolce. Quando arriva, non delude, anzi: sorbetto al pistacchio e fragola, praline di pistacchio, fiori eduli, fragole e mousse di fragole. Servizio eccezionale, veloce, cortese e molto professionale. Prezzi alti per essere in Portogallo ma bassi rispetto ad altri Paesi europei. In 2 circa 270€.
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Bomboniera gourmet
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omboniera gourmet in Via Piero della Francesca, zona della baraonda chic meneghina, ristorante che sembra un purosangue, nel senso che una volta lanciato al galoppo diventa travolgente. Anni fa, ai tempi dei balocchi, qui c’era un ristorante tipico dei quartieri residenziali benestanti, una specie di all in one, con pizza, aragoste, pasta, carne e pesce: era sempre pieno, però i tempi cambiano e se dobbiamo essere sinceri l’idea dei due soci, Edy Beqja e Pietro Penna, ci pare più attinente alla via e alle esigenze dei residenti.
Molto curato, old style, pareti e mobili bianchi, atmosfera romantica e ovattata, una settantina di posti all’interno e una trentina fuori per un target over 40, ovvero gente con il palato educato, che sa quello che vuole e sa dove spendere: scelte azzeccate in pieno. I due sono le classiche persone che vivono per il cibo, lo si vede fin dal primo antipasto, appena assaggi la patata viola croccante, assieme al salmone marinato con zucchero e vino. Cucina marina e terrena, con il tartufo sempre presente (ora troverete quello marchigiano), poi
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grande scelta di pesce (tonno, Sanpietro, baccalà, dentice), carni piemontesi e bollicine di Franciacorta (piccole scoperte di Edy, che ama trovare delle chicche per conto suo), oltre a dei vini friulani e dell’Alto Adige. Il menù è molto ricercato, piatti decisi e poi spazio alla fantasia, perché la clientela ama lasciarsi sedurre dalle idee di Edy e Pietro. Troverete prevalentemente scelte basate sul pesce, anche nel menu degustazione, però le paste sono eccezionali. Di alto livello le linguine mantecate al cipollotto con calamaretti e pane, poi c’è lo spa-
ghetto cacio, pepe, tartufo e un fondo di sugo di carne: è probabilmente l’emblema di Pier52, un piatto amoroso che impedisce la conversazione: il primo boccone è un’emozione violenta, al secondo l’intensità addirittura aumenta. Piccolo appunto: è così intenso da far fatica continuare con altre pietanze, nel senso che siamo all’apoteosi, difficile da superare con un piatto successivo. Difatti vi suggeriamo un antipasto e un primo oppure un secondo, per poi passare al dolce, dove sarebbe un delitto non assaggiare il tiramisù. Lo chef Pietro Penna, 32enne salentino ex Four Seasons assieme a Sergio Mei e poi al George V parigino (due stelle Michelin) definisce la sua cucina concreta, passionale e con un velo di innovazione, però c’è qualcosa di più, una istintiva consapevolezza delle potenzialità di ciascun ingrediente utilizzato. “Vogliamo far star bene la gente”, dicono i due. Altro che bene, si sta come fra le nuvole, non a caso l’ambiente è tutto bianco.
Parma and Co La roulette dei sapori
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arma and Co, ovvero la roulette dei sapori, un paradiso per irrefrenabili golosi in Corso Garibaldi. Salumi e prosciutti troppo gustosi, troppo indecenti, dolci e morbidi come il raso: sono talmente buoni che il loro ricordo ti accompagna per gran parte della giornata, il profumo e il sapore ti sbocciano sul palato, sussurrando segreti, ti sembra di assorbirli con la pelle. Ora arriva l’autunno e si inizia pure con i piatti caldi, capelletti in brodo e tortellini parmensi:
i milanesi adorano il locale, lo si capisce ogni giorno perché non si trova mai un tavolo. Sarebbe strano il contrario, visto che il patron Camillo Carmignani sembra un gioielliere per come sa scegliere e proporre i suoi tesori, per come allestisce le tante vetrine e per come invoglia la pretenziosa clientela meneghina: le ultime novità, il crudo di maiale nero (ricco di Omega 3 e Omega 6, privo di colesterolo) e il salame Mariola stagionato (nato come un cotechino) sono già dei must a tutte le ore.
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E’ un luogo ambito anche per l’aperitivo, perché il classico abbinamento culatello e champagne sta folleggiando. A noi piace l’abbinamento con la spalla cotta di San Secondo, sempre di maiale nero, un modo per sdrammatizzare le bollicine e farle diventare un drink come un altro, sfizioso e raffinato. Vertigini di piacere, sapori puri come il peccato, atmosfera rural chic, zona in, prezzi moderati. Se vi aspettate molto, le vostre aspettative saranno interamente soddisfatte.
Luca Coslovich The Cybartender
Lo abbiamo conosciuto grazie a Florence Guyot ed è stata una vera, grande e piacevolissima scoperta. Il ragazzo, perché si tratta di un ragazzo cinquantenne, nel suo settore è una specie di mito, quasi alla pari di Tom Cruise nel film Cocktail. Mista, crea, affascina, inventa e pubblica libri sull’argomento: potevamo farcelo scappare? Ovviamente no. A partire da questo numero sarà il nostro e il vostro amico, ci e vi proporrà dei cocktail sublimi.
Eve’s Temptation
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ashion, modaiolo, status symbol: questi alcuni aggettivi che possono descrivere il cocktail nell’immaginario comune. Ma non è tutto: il cocktail è mezzo di seduzione e compagno nella solitudine, aiuta il pensiero e può indurre all’azione. Chi dice di non amare i cocktails in realtà non ha ancora avuto la fortuna di incontrare il SUO cocktail. Se e quando succederà è una questione di fortuna, ricerca, caso. Da quel momento in poi comincerà la documentazione, l’interesse crescerà fino a diventare cultura. La letteratura del caso è vastissima, passa dai libri, dai film, dalla musica e dalla memoria. Il TUO cocktail ti ha già incontrato?
Westin Golden Time
vita, si sa, è fatta di momenti, non sempre piacevoli, per questo ogni occasione è buona per poter godere ed assaporare il bello ed il buono, che sia in un piatto, in un bicchiere o in un alcova... Il piacere di stare con la persona amata, fosse anche solo amata per una sera, il gioire per una conquista, anche effimera, il bello di un istante, nella
Westin Golden Time
Eve’s Temptation
Richiami biblici, per una tentazione che non è mai finita. La mela, come scusa per peccare, probabilmente la cosa che riesce meglio da sempre, la vodka che dà vigore e disinibisce quel tanto che basta. Il Galliano originale, come il suddetto peccato, colora e profuma della dolcezza della vaniglia. Una coppia nella prenombra di un piccolo bar, sussurri di promesse, chissà se poi mantenute, il serpente sul bicchiere che induce nell’eterna tentazione. Una storia che si ripete da sempre, aiutata in questo caso dalla complicità del cocktail. La
nel tempo, ma sempre vicini nella memoria gli uni agli altri. Ed ogni volta è uguale e diverso allo stesso tempo, una scoperta continua ed un turbinio di sensazioni, l’opportunità ed il rischio (di un rifiuto?) si incrociano e si mschiano, dando un brivido mischiato a piacere La vita è ora, è quel momento, quel sapore, quel profumo, quelle labbra…
speranza che non svanisca. Attimi che passano, ma che potrebbereo ripresentarsi sotto altre forme, altri colori, altri sapori o perchè no, altre labbra, altri sguardi, altri momenti. Sempre diversi eppur sempre piacevoli, distanti
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Nettare di fragola Vodka aromatizzata allo zafferano Prosecco Il “Rossini” si arricchisce di forza e di gusto. Lo zafferano aggiunge un tocco di “lusso” ad un drink molto amato dalle donne, la vodka dona una sferzata di vigore che lo farà amare anche agli uomini. Bevetelo prima di una cena a lume di candela, o per finire la serata, quando la seduzione è all’apice... Life is now Cocktail tratti dal libro: Il cocktail ben vestito, ed. Bibliotheca culinaria Foto cocktail: Janez Pukšic Foto Luca: Emanuela Nocito Cocktail tratti dal libro Il cocktail ben vestito, ed. Bibliotheca culinaria Luca Coslovich www.cybartender.it
Gianni Peroni
I L
T U C A N O
V I A G G I
R I C E R C A
Viaggi d’Aut ore No 48
Le mille feste
india
dell’
Carla Milone
CON IL TUCANO IN INDIA IN CONCOMITANZA CON FESTE ED EVENTI TRADIZIONALI Holla Mohalla: il grande raduno dei Sikh del Punjab e i tesori dello Shekhawati. Partenza con accompagnatore dall'Italia: dal 16 al 28 marzo 2016 Viaggio in occasione del Yoshang Festival. Partenza con accompagnatore dall'Italia: dal 20 marzo al 3 aprile 2016 Kerala: le tigri e gli elefanti, viaggio in occasione del grande Festival di Thrissur. Partenza con accompagnatore dall'Italia: dall'8 al 20 aprile 2016
Kumbh Mela, viaggio nella sacralità dell'India. Partenza con accompagnatore dall'Italia: dal 17 al 28 aprile 2016 Karnataka: viaggio in occasione del Dussehra Festival. Partenza con accompagnatore dall'Italia: dal 9 al 21 ottobre 2016 Parchi dell’India e Hornbill Festival a Kohima. Partenza con accompagnatore dall'Italia: dal 22 novembre al 6 dicembre 2016
Per informazioni: IL TUCANO VIAGGI RICERCA Piazza Solferino, 14/G - 10121 Torino tel. 011 561 70 61 - info@tucanoviaggi.com www.tucanoviaggi.com Twitter
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Viaggio “Là, dove scorre il Gange” in occasione del Maha Shivaratri a Varanasi partenza con accompagnatore dall'Italia: dal 28 febbraio al 10 marzo 2016; in occasione del Dev Deepawali Festival a Varanasi partenza con accompagnatore dall'Italia: dal 5 al 16 novembre 2016 Itinerari, date e quote sempre aggiornati sul sito www.tucanoviaggi.com
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