Perchè mangiare Ê godere
Editoriale
Chef is now L
o si dice spesso: una rivista rispecchia il modo di vivere dell’editore. Niente di più vero ed è ovvio il perché: costruisce le pagine, impone il concept in base alla sua filosofia, alla sua quotidianità, ai suoi gusti e valori. Guardi le pagine e hai davanti agli occhi la vita dell’editore, ovvero la mia. In più, lo sentivo dire anni addietro, se non mangi bene non puoi essere felice. Probabilmente si potrebbe rovesciare la frase: se mangi bene vedi il mondo a colori. Frase ad effetto? No, pura verità. Basta sfogliare la rivista per rendervene conto. Una fotaografia di un piatto, la sua composizione, sono già un ottimo motivo per andare su di giri, figuriamoci assaggiarlo. Spesso capita di guardare in tv dei programmi britannici impostati sulla street food: rimaniamo esterrefatti dai progressi realizzati e soprattutto dal fatto che molti chef lasciano i ristoranti per cucinare in mezzo a una strada, su un furgoncino. Ma che delizie, che profumi (lo immaginiamo dai commenti degli intervistati in estasi) e colori sanno creare. Se avete fatto caso, uno chef si illumina quando vi racconta una sua creazione, quando vi parla del nuovo menù. Tutti loto sono come bambini, hanno quella gioia genuina negli occhi, come se volessero dire “hey, guarda guarda, hai visto cosa ho fatto?”. Spesso ricevo, ma vale per tutti gli altri che se ne occupano di alta ristorazione, dei messaggi entusiastici del tipo “ho cambiato menù, devi venire ad assaggiare”. Impressionante poi come scenda sempre di più l’età degli chef e ancor di più il fatto che alcuni, a 25-26 anni, già vantino esperienze in ristoranti
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pluristellati dei vari continenti. Lorenzo Cogo, per fare un esempio, a 25 anni poteva già raccontarti dei suoi anni accanto a Mark Best in Australia, Heston Blumenthal a Londra e di un’altra tappa in Giappone. Non a caso, un anno dopo, batteva i record italiani diventando il più giovane stellato con il suo El Coq, nel vicentino. Certo, una parte di loro si sente una star, un’altra genio incompreso: lasciamoli tutti a bollire nel loro brodo, per usare un paragone culinario. Avranno vita breve. Un esempio? Un paio di mesetti addietro ho avuto un’esperienza delirante: un giovane cuoco, nemmeno chef, anni 28, dicasi 28, arrivato per dei motivi alquanto sconosciuti in un ristorante di prestigio, ha rifiutato un’intervista motivandola più o meno così: “Mi sento sotto pressione, ci sono tantissime attese nei miei confronti, risentiamoci fra sei mesi”. Il giovine ha perfino un ufficio stampa nella persona della fidanzata che, con piglio decisionale visto nei film americani, andava in giro a sentenziare sconcezze del tipo “in sei mesi voglio fargli prendere una stella Michelin”, come se fosse lei a decidere. Morale della favola, dopo due settimane si è conclusa la sua avventura, il personale ha organizzato un mega party per festeggiare e la fidanzata ha rischiato di uscire dalla scena a calci a causa della sua insolenza e invadenza. Di sicuro non farà strada, il che è affar suo, ma ancor più sicuro è che le nuove generazioni di patron-chef sono in gran parte umili e con una volontà di ferro, un gran talento e tanta, tantissima voglia di emergere, impressionare, stupire. Per loro le porte, anzi, le pagine di Good Life saranno sempre aperte.
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Sommario
Good Life Food is art
Cool Copenhagen
Pag. 6
Virgilio Martinez
La Griglia di Varrone
Nigella Lawson
Tagliatore, dandy e glam
Inga Verbeeck
Pag. 20
Pag. 31
Pag. 12
Pag. 23
Pag. 34
Good Life dominiqueantognoni@yahoo.it
Wicky Priyan
I eat NY
Il vino di Ernie Els
Pag. 16
Pag. 24
Pag. 52
Copenhagen Wondercool
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na città felice nel paese più felice del mondo. Una città disegnata per le persone, non a caso qui ti raccontano che “la sera vai a letto con la sensazione che la mattina dopo sarà ancora meglio”. Vale per qualsiasi aspetto, incluso,o soprattutto l’alta cucina, perché Copenhagen è diventata una meta per i foodisti. Certo, il ristorante di Rene Redzepi ha acceso i fari, ma per essere una delle destinazioni più creative ci vuole altro, molto altro. La nuova cucina nordica parte sì da Rene però un viaggio gourmet nella capitale danese vi sorprenderà e, sopratuutto saprà deliziarvi. Non sono pochi i coloro che ci vanno pieni di dubbi e tornano con la certezza che, oltre a essere una città con un livello di vita stratosferico, si tratti anche di un mondo gastronomico pazzesco. Anni fa la situazione era completamente diversa, i ristoranti erano di basso livello, cheap, con l’eccezione di alcuni locali francesi, cari ed esclusivi: oggi invece Copenhagen vive il suo periodo d’oro, fra stellati e bistrot chic. Si punta sugli ingredienti e la qualità delle materie prime: sono i must dei ristoranti locali. Si fa uso di erbe spontanee raccolte in campagna, si presta un’attenzione folle ai prodotti biodinamici e sostenibili (d’altronde qui è la cula del mangiar sano e delle politiche ambientali). Se Noma è sulle prime pagine di tutti i giornali per via del suo terzo successo in quattro anni in quanto miglior ristorante del mondo, un ex sous chef di Redzepi (ma anche di Adrià ad El Bulli) fa faville al Relae: si chiama Christian Pugliese, siciliano di Messina che in un ambiente informale, quasi rustico, propone dei patti creativi della cucina danese: sgombro, agnello, poi varie verdure presentate in maniera coinvolgente (i cetriolini salati, le rape e altro), un menu vegetariano e un gelato al mirtillo esaltante, non a caso è già stato “ricompensato” con una stella, nel marzo del 2012. Ci sono alcune sommiglianze con Noma però non si paga più di 100 euro; possibilmente da non perdersi anche il brunch del weekend. Si consiglia vivamente la prenotazione, così come nell’altro locale di Christian, Manfreds, situato proprio di fronte. E’ un po’ come da Sadler, accanto al ristorante “principale” un piccolo bistrot: difatti si tratta di un caffè gourmet chicosissimo. Se al Relae trovate un ex chef di Noma, al Kodbyens Fiskebar commanda un ex sommelier di Rene, Anders Selmer. Grandi vetrate in un’area un po’ triste, tipo industriale anni sessanta, ma all’interno regnano la luce e il cibo ricercato, in più i prezzi sono abbordabilissimi, siamo sui 25: non perdetevi il foie gras scottato con l’uovo fritto e le ostriche
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locali. Una stella Michelin pure per AOC: andate preparati, nel senso che il menu degustazione propone dieci portate. Incantevole l’antipasto di muggine con polvere di funghi, crema di cozze e panna con olio di quercia. Stella anche per Kiin Kiin, l’unico ristorante thai con un riconoscimento Michelin, cucina asiatica rivisitata con ricette “rubate” al mondo della street food. Superlativa la mazzancolla e la thai salad, gli aperitivi da sballo, così come gli spuntini serviti nel salottino, prima di essere accompagnati al tavolo, al piano di sopra. Da non credere anche il gelato, al nocciola e ginger. 75 euro per un menu degustazione di dieci portate e una serata pazzesca (il servizio semplicemente perfetto, complimenti al patron Henrik Yde). Molto caro invece Geranium, dove lo chef Rasmus Kofoed propone un “tour of our universe”: 400 euro, compresi i vini abbinati ad ogni portata. Il più innovativo fra tutti è invece Radio: il patron è un altro che proviene da Noma, ovvero Claus Meyer: portate impostate sul pesce fresco e verdure, da non
perdere assolutamente. Il nome proveniene dalla sala di concerti della radio danese, che ormai ha traslocato. Fin qui i posti per i foodisti, ma la città pulsa creatività e buon cibo in tanti altri ristoranti. Per esempio da Cap Horn, nella zona turistica, in via Nyhavn, troverete un ambiente molto charming e soprattutto materie prime eccelse, dal pesce alla carne. Romanticissimo il piccolo Koefoed, in centro città, con pietanze fresche, gustosissime, perfino l’impatto visivo è notevole. Di primissima qualità la carne al Peder Oxe, ristorante che si trova in una piazza dal nome impronunciabile: Graabrodretorv. Comunque al primo posto fra le delizie locali c’è il panino con il burro aperto, lo smorrebrod. Il più gusto e autentico lo potete assaggiare al Schonnemann, edificio datato 1877. Costano otto euro, ma ne paghereste anche il doppio per il secondo e il terzo: strepitosi. Idem all’Aamanns, dove però troverete un ambiente moderno. Qualcuno li paragona alle tapas, altri parlano addirittura di “Danish Sushi”: ci sanno fare, non a caso hanno aperto anche a New York.
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Troverete quasi ovunque dei snack a base di salsiccia essiccata e cetriolini in salamoia accompagnati da birre artigianali spesso prodotte in loco: da Mikkeller servono una decina di birre autoprodotte. Ci sono poi dei posti, spesso delle enoteche con un amore sconfinato per l’Italia, per esempio Terrioristen nel quartiere Norrebro: ovviamente propone solo vini naturali. Per rimanere in tema italiano, la miglior pizzeria è senza dubbio Mother. Per i dolci un luogo sopra tutti gli altri, Royal Copenhagen, in pieno centro, in piazza Amagertorv: fiabesco, romanzesco, molto colorato, posti all’interno e anche fuori, nel cortile. I dolci profumano di paradiso, così come il bruch, dove gli smushi e le tartine al salmone la fanno da padrona. Antipasti, primi, secondi, i dolci e alla fine il caffè: il miglior della città lo potete bere al Collective e non pare ci siano delle discussioni, concordano tutti. Concludendo: cosa potrà mai essere di più invitante di una vacanza nella capitale del paese più felice al mondo e dove si mangia come forse da nessun’altra parte?
The Ledbury Brett Graham
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othing Hill, una delle zone più chic ed esclusive di Londra, diventata famosa per via del film con Julia Roberts e Hugh Grant e poi per via dei prezzi pazzi degli immobili. Su una piccola stradina, a cinque minuti dalla fermata Wetbourne, silenziosa e discreta, al numero civico 127 si trova uno dei migliori ristoranti della città più importante d’Europa. Due stelle Michelin, cucina moderna francese con prodotti britannici e soprattutto Brett Graham come chef. “L’idea era di creare un posto rilassante, dove la gente si possa sentire a suo agio, confortevole, essere trattata come a casa e ovviamente mangiare bene”. Non a caso il famoso dress code qui ha poca rilevanza: “Solo per il fatto di presentarsi senza cravatta non significa essere mal vestiti”, sostiene Brett. Ha iniziato a 15 anni a Newcastle, in Australia, in un ristorante di pesce. Deve quasi tutto a Liam Tom-
lin, uno dei mostri sacri della cucina australiana: lo ha chiamato nel suo ristorante di Sydney, Banc: “Un uomo fantastico per la sua passione non tanto verso il cibo, il che mi pare ovvio, ma verso la clientela, lui vive per far contenta la gente, ogni santo momento”. Da quei tempi nasce il suo interesse quasi fanatico per quello che pensano le persone che entrano e mangiano nel suo ristorante: “cerco di creare dei rapporti stretti con loro, voglio che si sentano bene, voglio capire cosa pensano. Noi cambiamo spesso il menu ed è fondamentale sapere il loro modo di valutare, pensare, giudicare, apprezzare”. A Londra arriva grazie a Philip Howard, il patron del Landbury: gli offre la possibilità di diventare chef e lui accetta: gli inizi sono alquanto incerti, medita perfino un ritorno in Australia ma poi resta e innesca la quinta. Entra nella classifica dei migliori 50 ristoranti al mondo piazzandosi addirittura tredicesimo nel 2012 e de-
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cimo l’anno successivo: un trionfo, per alcuni inaspettato. Badate bene: nei primi dieci ci sono due locali londinesi, il suo e poi Dinner di Heston Blumenthal, uno abituato ai riconoscimenti. Cacciatore di lunga data, ha sempre nel menu il capriolo ma non il canguro: ok, sarà un luogo comune che tutti gli Aussie debbano cucinare e andare matti per l’animale che più caratterizza il suo paese, però da qualche anno punta sulla stagionalità e sui prodotti locali. I suoi miti, modelli e sorse d’ispirazione sono René Redzepi, Alain Passard e il connazionale Peter Gilmore. Fra le nuove star emergenti ci indica Dabbous e Hedone, sempre a Londra: gli piace curiosare e scoprire dei nuovi talenti, è questo il suo passatempo preferito, nei giorni nei quali riesce o vuole staccarsi dal Ledbury.
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Virgilio Martinez Il genio di Lima
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on so se sono un genio, ma di sicuro con le materie prime andine riesco a realizzare dei piatti geniali”. Firmato Virgilio Martinez, la star di Lima, il primo chef del suo paese ad aver ottenuto una stella Michelin anche se, si spera, come dicono gli anglofoni, the best is yet to came. Altro che Carlo Cracco, il peruviano nato a Lima è bello per davvero. Giovane, sexy, bravissimo a tal punto da destare stupore e ammirazione non solo in patria, ma anche a Londra dove ha appena aperto il suo secondo ristorante. Viene considerato uno dei pionieri e degli artefici dell’alta cucina peruviana: é diventato famoso per via degli ingredienti a dir poco rari che ama utilizzare e proporre: il cushuro, la patata che si trova solamente a 5.000 metri di altezza è un must, così come i sali particolari (ne ha più di 130 nel suo ristorante a Lima). Ha creato più di 500 piatti, 70 dei quali imprescindibili per il suo percorso. “Soy un obsesivo del sabor”, dice di se stesso (a dire il vero la parola ossessivo la si trova spesso, nelle sue interviste). E pensare che niente presagiva un suo futuro da chef: cresciuto sulla spiaggia di Lima, da piccolo impazziva per il skateboard, poi ha studiato legge, insomma tutto
tranne che amore per la cucina. Appena finiti gli studi, il click: va in giro per il mondo a curiosare e a lavorare nei ristoranti, iniziando in Canada, ad Ottawa, al Cordon Bleu. Seguono tappe un po’ ovunque, da Londra al Singapore, dall’Italia a New York (al Lutece) per poi mettersi alla prova nel famoso Astrid e Gaston, il ristorante dell’idolo dei peruviani, Gaston Acurio. E’ stato il suo executive chef sia a Bogota che a Madrid, pare che non sia andata come avrebbe sperato, comunque meglio che in Francia dove un suo capo gli ha morso l’orecchio dopo una lite furibonda. Un pellegrinaggio che lo ha forgiato ma allo stesso tempo lasciato un grande interrogativo: non riusciva capire che strada prendere, non aveva uno stile proprio, si sentiva confuso, gastronomicamente parlando . Decise così di intraprendere una strada nuova, puntando su ingredienti rarissimi abbinati a delle tecniche moderne. Quando apre il suo primo ristorante, Central, nel quartiere chic di Miraflores, la sua cucina è una miscela non proprio ideale di culture diverse : poi, l’illuminazione. Avviene per via dei viaggi a Cuzco, antica capitale Inca, dove si stava costruendo un nuovo albergo cinque stelle, Palacio Nazarenas: volevano lui come chef (lo è tuttora, il ristorante si chiama Senzo)
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e così è venuto a contatto con i contadini locali. Nasce così la cucina andina, la sua moglie Maria Pia Leon come aiuto, materie prime del Pacifico e dintorni, destando l’interesse della critica mondiale. Il risultato è sfavillante, tanto da essere incluso fra i cinquanta migliori ristoranti al mondo. Per la cronaca, il menu degustazione costa 89 dollari più 75 nel caso si aggiungesse anche il vino (le birre sono artigianali e provengono dalle Ande). Le sue intenzioni ora vanno verso un altro tipo di menù, sorpresa: ogni giorno qualcosa di diverso, in base alla stagionalità e all’ispirazione del momento. D’altronde chi varca la porta del suo ristorante desidera, esige di essere stupito, possibilmente sempre. Due anni dopo eccolo aprire Lima, a Londra, zona Fitzrovia, in Rathbone Place 1: i patron del locale sono due fratelli venezuelani, Gabriel e José Luis Gonzalez, il progetto è costato cinque milioni di sterline ma ne é valsa la pena :tecniche hi tech e stessa cucina tradizionale peruviana gli portano la prima stella Michelin. Per la cronaca, i prezzi vanno dai 90 ai 100 euro. Ora siamo davanti alla seconda apertura londinese: Lima Floral, in Floral Street angolo Covent Garden. Sempre assieme ai due fratelli e, non c’è dubbio, sempre straordinario.
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Eneki Atxa Tre stelle basche
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n ristorante avveniristico. Un approccio verace, passionale, giovane. Una cucina tradizionale elaborata con delle tecniche moderne. Un’accoglienza straordinaria. Un maitre (Jon Eguskiza) fra i migliori al mondo. E, ovviamente, uno chef fenomenale: Eneko Atxa, basco di Amorebieta, provincia di Vizcaya. Benvenuti ad Azurmendi, tre stelle Michelin a dieci minuti di Bilbao, un posto dove la magia esiste: piccione arrosto di Navarra, ravioli di coda vaccina stufata, canapé di foie gras cotto alla parrilla affumicature, brodi, intingoli. Il paradiso è qui, a Larrabetzu. Appena arrivi ecco la prima sorpresa: la costruzione in vetro sovrasta il paesaggio dall’alto delle colline di Bilbao, anche se, e qui c’è l’unico neo, la vista dell’autostrada non sembra in linea con l’ambiente: pazienza, non possiamo incolpare Eneki. Il complesso, perché di complesso si tratta, comprende il vecchio ristorante (parliamo di sette anni di vita, non di più), dove ora si organizzano eventi, poi c’è la struttura per il pret a porter e il nuovo locale. Sul retro della struttura ci sono l’orto e anche la serra, il che fa impazzire di gioia i cultori ed i talebani del bio a tutti i costi, sempre e comunque. Atxa ci crede per davvero, ama la sua terra e lo dimostra in ogni suo piatto, al netto della retorica dei buontemponi che si
disquisiscono in discorsi etici dalla mattina alla sera, come se venisse prima l’aspetto ideologico e non la cucina in sé. Perché Eneko impressiona per la qualità, per la bontà dei piatti, non per la didattica dell’orto. E poi diciamolo: le stelle si prendono per la qualità dei piatti non per la serra. A volte, per puro divertimento, leggiamo sbrodolate infinite sul bio e altro, scoprendo che alle portate si da meno spazio che ai fiumi del nulla chiacchierato: pazienza. Occupiamoci delle cose serie: solitamente ad Azurmendi ci sono due menù, uno classico, con i piatti storici del ristorante (Erroak) e l’altro innovativo (Adarrak). E ora un lungo elenco delle squisitezze. Uovo all’inverso, ovvero tuorlo parzialmente svuotato e riempito da un brodo al tartufo. Triglia agli aglietti, profumata alla brace, raviolo delle sue interiora e brodo delle sue lische. Brodo di maiale con acciughe sotto sale, scalogni, asparagi, prosciutto iberico. Canapé di foie gras cotto alla parrilla mixato con della cenere, assoluta novità nel modo di preparare il fegato grasso. Tartare di astice marinata in erbe aromatiche, avvolta in fettine di sottomento di maiale iberico, poi un secondo tipo di astice, alla brace con fiori eduli.
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Crema di cavolfiore, animelle d’agnello e patate soffiate ripiene di crema all’aglio. Fermiamoci qui, perché infierire sarebbe inelegante. Torniamo a Eneko: ha avuto la fortuna di crescere in una famiglia dove il buon cibo é sempre stato una priorità. A 15 anni già si sentiva pronto per intraprendere l’attività di chef: prima tappa il Catering College a Leoia. Il grande passo lo compie andando da Berasategui, al Lasarte. Poi segue all’Etxebarri e al Andra Mari, riuscendo in pochi anni ad accumulare una esperienza notevole. Sicuro di sé, ambizioso, curioso, passionale fino al midollo sviluppa uno proprio stile tanto da sentirsi pronto, a 28 anni, di aprire un ristorante tutto suo, l’Azurmendi, appunto. I premi ed i riconoscimenti arrivano subito: “Most Beautiful Dish”, poi la stella nel 2007 e addirittura la seconda, nel novembre 2010, diventando il primo ristorante nella provincia di Vizcaya con un tale palmares. Quando ha ricevuto anche la terza (22 novembre 2012), stava quasi per diventare sindaco. Assieme all’Università di Bilbao si sta concentrando sulla continua ricerca di similitudini fra cibo e sensi. “La mia cucina è un viaggio”, ripete ad ogni intervista. E’ più di un viaggio, ci permettiamo di aggiungere. E’ il nirvana.
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Wicky Priyan The Master
Foto:Marco Varoli
Q
uando chiudi gli occhi e la prima delizia che immagini é L’arcobaleno di Wicky Pryan. Quando sei a gustarti un sigaro di alta classifica con una coppa di champagne e pensi che “ora ci vorrebbero i carpacci di Wicky”. Quando vorresti festeggiare qualcosa di straordinario, da solo o in splendida compagnia e sai già di aver scelto la destinazione, ovviamente il suo ristorante. Quando ti chiedi dove portare una donna da sogno per farla sentire in paradiso e ti rispondi subito Wicky, ebbene a quel punto sai con assoluta certezza che fra i piaceri assoluti della vita non potrà mai mancare un pranzo oppure una cena da lui, il mago della cucina asiatica, uno chef che sta letteralmente ammagliando la clientela, basta chiedere anche a Flavio Briatore il quale ha avuto l’ennesima idea geniale: durante l’estate, ha “ospitato” Wicky all’interno di Billionaire, in pratica lo chef si é spostato in Sardegna per proporre ai vacanzieri dei quattro mondi i piatti solitamente creati a Milano in Via San Calocero. Un successone? Ovvio. Sono stati 40 giorni pirotecnici per il locale, con la clientela in visibilio per le magie dell’uomo nato in Sri Lanka e poi trapiantato in Giappone per lunghi anni, prima di
arrivare in Italia e cambiare per sempre le regole della cucina giapponese, asiatica, fusion o chiamatela come meglio crediate che tanto di cibo divino si tratta. Così come i bambini rimangono a bocca aperta quando li porti al circo, così gli adulti restano senza parole mentre guardano e poi assaggiano le portate dello chef che in passato si é specializzato in criminologia. E’ un tripudio di squisitezze, il suo mondo. Un continuo crescendo rossiniano di emozioni pazzesche e di piatti intriganti, perchè la mano dello chef é sempre decisa, l’armonia fra gli ingredienti straordinaria, le tecniche padroneggiate e applicate alla perfezione, i colori e le architetture del piatto degne del miglior Dalì, i gusti così intensi ed i profumi così complessi da farti esclamare e ripetere parole del tipo “oh mio Dio”, “non ci posso credere” e via di questo passo. Non staremo qui a dosare le parole e a mantenere un contenimento di facciata, non ha senso trattenerci, non ci importa passare per esaltati, tanto sappiamo di essere dalla parte della ragione e di non esagerare nemmeno un pò, perché le stesse affermazioni le sentirete da qualsiasi persona abbia mai passato una serata da lui. Non sai se ti colpisce di più il cibo oppure il personaggio, forse
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entrambe. Rimani conquistato quando ti racconta dei suoi maestri Sushi Kan e Kaneki, così come quando ti porta le sue creazioni, hai la sensazione di essere trasportato in un mondo lontano, un mondo fantastico, da fantascienza. Piccolo elenco delle magie e le prelibatezze colossali che potete assaggiare: angus all’aceto di champagne, cappesante giapponesi, dentice rosa, cernia tigre, il maialino siciliano messo a cuocere per 16 ore. La lista è infinita. Accanto a lui l’inseparabile moglie Nozomi, conosciuta a Milano, presenza felpata e piacevole, fondamentale e preziosa per l’andamento del locale, donna d’altri tempi, discreta e delicata, raffinata e decisa. Insieme hanno una figlia davvero splendida, Lonka: il nome significa isola nella lingua srilankese e orchidea in giapponese. Tornando ai piatti, pare una follia dover scegliere solo alcuni, li vorresti tutti, però vi suggeriamo Sushi Kan, Natura e, ovviamente, L’arcobaleno. Lui probabilmente vorrà farvi assaggiare il pagello fragolino sardo anche perché, ama raccontare, “un giorno vennero da me gli chef di Bottura e non sono stati in grado di capire gli ingredienti del piatto”. Ecco, in quel piatto c’è tutto il suo mondo, anzi, i suoi mondi.
Pommery
Frizzanti emozioni
P
olaroid meneghina che più meneghina non si può: Galleria Vittorio Emanuele, Savini. Il ristorante è rinomato, fa parte della storia della città, è un’istituzione: a due passi della Scala, ospitava spesso Maria Callas, il suo tavolo è ancora il più ambito. Al primo piano l’atmosfera è da favola, un misto riuscito fra il passato glorioso e il presente frizzante. Frizzante, un termine usato non a caso. Perché l’ebbrezza dell’alta cucina, il menu ricco e ben articolato ci ha fatti arrivare subito con i pensieri a Pommery. I piatti richiedono, quasi impongono, la presenza di uno champagne deciso e di personalità che accompagni le squisitezze proposte dallo chef Michele Bon. Piccolo elenco dei piatti classici rivisitati in maniera in-
trigante: pacchero in salsa carbonara con guanciale croccante, sfera di parmigiano e aria di pepe di Giamaica; spaghetti grezzi Cavaliere Cocco con salsa di gamberi rossi di Sicilia e lupini di mare, poi il filetto di branzino alla plancia con panzanella, basilico croccante e salsa di pomodorini datterini. Ogni ingrediente è perfettamente definibile, le portate, compresi gli antipasti (accostamenti fantasiosi), sono costruite su geometrie e colori, gli equilibri sono perfetti, l’architettura dei piatti è notevole, la mano è decisa. Lo chef ha personalità e temperamento, lo si capisce subito, così com’è evidente il suo piacere di portarti per mano in un viaggio fantastico. Sarà per via dell’atmosfera aristocratica, sarà per i sapori complessi, sarà per la cucina che tocca corde artistiche, ma l’esaltazione del momento ci ha portati con i pensieri
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a Pommery e al suo mondo elegante e completo. E così, accanto al pacchero con guanciale croccante abbiamo immaginato il Pommery Noir, perché la raffinatezza di uno champagne che riposa per 60 mesi sui lieviti incontri la croccantezza di un fritto. Con gli spaghetti grezzi avremmo abbinato l’Apanage Rosé, un po’ per gioco e un po’ per smitizzare la nobiltà dello champagne. Il branzino invece lo avremmo assaporato con la Cuvée Louise, champagne pieno di carica sapida e fresca, a base di chardonnay che riposa 10 anni sui lieviti. Sognavamo, ma da domani si potrà gustare questo connubio nel mondo reale, visto che la maison e il ristorante, si sussurra, stanno per convolare a nozze. Gastronomiche, ovviamente. Di sicuro si brinderà con bollicine Pommery. Cin Cin.
Kate Moss Cin Cin
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modella. I suoi movimenti sono più languidi e meno nervosi. E’ rimasto intatto il suo potere di sedurre. Sa essere elegante e subito dopo stracciona. Rara e squisita. Umana e divina. Poderosa e vulnerabile. Glamour e terrena. Ofelia e Lady Macbeth. Una modella multimilionaria e la fidanzata più bella del mondo. Moglie ed esibizionista. Dominatrix e beach babe. Socialite e amica. E’ l’unica che piace ai maschi stupidi e a quelli intelligenti, ai tamarri e ai gentleman, ai belli e ai brutti. Sa le buone maniere e ha dei cattivi comportamenti. Chi ha lavorato con lei sostiene che nessuna fotografia le rende giustizia, perché di persona è molto più passionale e sconcertante che nei video e le immagini che ammiriamo in tv e sui giornali. I grandi della macchina fotografica sostengono che ogni qualvolta hanno avuto l’occasione di posarla si sono trovati davanti una Kate Moss diversa. Lo dicono Mario Sorrenti, David Sims, Nick Knight, Glenn Luchford. Nessuno è riuscito a catturare Kate, bensì solo versioni di lei. Non ci è riuscito Lucian Freud che le fece il ritratto. Nemmeno Bansky, colui che l’ha warholata. Ancor meno Marc Quinn con la sua scultura. Idem per Tracy Emin e Chuck Close che l’hanno dipinta. Icona di stile, icona del grunge, pin up, marchio”. Continua, Alex: “A 40 anni è più bella, popolare e famosa che mai. Non sappiamo mai nulla di lei. Non ha twitter, Facebook, Istangram, non rilascia interviste. Never complain, never explain, frase imparata dal suo ex fidanzato Johnny Depp. Lo studioso Kevin Kopelson ha sentenziato che nella storia ci sono soltanto due donne che incarnano tutte le contraddizioni appena elencate: Kate e Mona Lisa.”. Alex è straordinario nel raccontarla. Ha scritto l’articolo che avremmo voluto fosse nostro. Fin qui, Kate Moss. Poi, la nostra copertina. Un colpo di fortuna, perché abbiamo visto la foto sul sito di Treats Magazine e poi abbiamo contattato Laura Schofield, pr che sta curando il lancio della coppa di champagne che porterà il nome di Kate: verrà lanciata l’8 ottobre, al ristorante Mayfair di Londra, in occasione del suo 40imo compleanno ed i 25 anni di carriera. La ha disegnata assieme a Jane McAdam Freud. Si dice che la prima coppa di champagne fosse ispirata al seno di Maria Antonietta. Noi, d’ora in poi, ad ogni sorso penseremo a lei, Kate, che vale mille Marie. O forse penseremo a qualcun’altra, ma questa è una storia diversa.
squire, si sa, è una grande, grandissima rivista. Raffinata, ironica, colta, frizzante. Non conosce crisi ed è giusto così, perché non è vero che la stampa sta per spirare, è vero invece che mancano passione e giornalisti di livello. Alex Bilmes dirige l’edizione britannica di Esquire ed è uno di quelli che leggiamo e leggeremo sempre. I suoi editoriali sono succosi, spassosi, ricchi di contenuti e idee. Sarà un caso, ma l’Italia è l’unico paese dove la rivista non è riuscita a crearsi un mercato e un’edizione locale. Servono persone come Alex, come David Granger, direttore dell’edizione americana, e qui non esistono; al massimo trovi tediosi pseudo intellettuali che ti fanno addormentare dopo tre righe. A loro basta guardarsi allo specchio per sentirsi bravi. Come sempre stiamo divagando. Eccoci: l’anno scorso Alex aveva raccontato Kate Moss, le foto le abbiamo pubblicate pure noi, lo rifaremmo ancora se non fosse che stavolta vogliamo dedicare l’intero spazio all’immagine con lei accanto alla coppa di champagne che ha creato assieme a Jane McAdam Freud. Alex, nell’articolo, scrisse che “a 25 anni dal suo primo lavoro come modella Kate Moss continua ad essere la ragazza che le donne sognano di diventare, mentre gli uomini la sognano e basta”. Sinceramente a noi non piaceva fino a poco tempo fa. Forse perché ai tempi del suo rapporto burrascoso con il musicante trasandato, ubriaco e sempre drogato, ci pareva pure lei alla deriva (eufemismo). Non era una sensazione, bensì la pura verità, come hanno testimoniato quelli di Daily Mirror. Ricordate? Lei che simpaticamente sniffa in continuazione mentre il suo boyfriend tenta di registrare una canzone. Era il 2005, aveva una figlia di tre anni, Lila Grace, nata della relazione avuta con Jefferson Hack, giornalista ed editore della rivista Dazed and Confused. Siamo rimasti molto colpiti dalla solidarietà degli stilisti nei suoi confronti: tutti le hanno offerto un contratto come testimonial, mentre le aziende che la pagavano profumatamente prima del fattaccio le hanno girato (giustamente) le spalle. Ecco, quella solidarietà, onestamente rischiosa, ci è piaciuta, ci ha molto incuriositi e da allora abbiamo provato a capirne il motivo. Perché se un brand decide di investire su una donna che si trova su tutte le prime pagine per la sua vita poco morigerata, allora vuol dire che la signora Kate Moss ha qualcosa di speciale, di unico. Così é. Guardatela, a 40 anni: senza parole. Per tornare al genio narrativo di Alex, “ora è più felina e meno angelica. E’ femmina femmina, con delle curve da donna e non da
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Pommery Magic moments
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ristocratici sono il rigore delle produzioni e l’eleganza delle etichette. Ha una purezza estrema un perlage persistente, note burrose e tostate, profumo di agrumi canditi, di pompelmo e limone, mandorla e pesca matura, tabacco biondo e un sentore di fiori d’acacia. Seduce con il suo gusto raffinato ed elegante. Leggero e fresco, morbido e delicato. Ha una storia straordinaria, una sede meravigliosa, dei prodotti da favola. Impone quasi rispetto, una bottiglia di Pommery. Personalità, gran temperamento, bevibilità facile, piuttosto immediata per freschezza e corposità. Il mondo Pommery lo si può raccontare in mille modi, uno più frizzante
dell’altro, tanto per restare nell’ambiente delle bollicine. Mille modi e mille emozioni, mille come le mille e una notte, perché lo champagne è da sempre sinonimo di sogni e romanticismo, di momenti unici carichi di sensualità e ricordi. La maison è nata per accompagnare i magic moment della vita aggiungendo il suo tocco di gran classe, irripetibile e inconfondibile. Una maison, tanti prodotti. Pommery, Cuvèe Louise, Heidsieck: nomi storici, un patrimonio vitivinicolo immenso, più di 7.000 ettari di vigneti a denominazione d’origine con proprietà dislocate tra Champagne, Camargue e Provenza. Infinito il ventaglio dei prodotti per gli appassionati e per i cultori del gusto
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superbo: dal Pommery Noir, che è il più adatto per l’aperitivo, fino al Rosé Apanage, aromi fruttati e un color rosa pastello a dir poco entusiasmante, senza dimenticare il Brut Royal, selezione di 40 Cru di Chardonnay, Pinot Noir e Pinot Meunier. Oltre a Pommery la maison vanta altri gioielli, anzi, dei diamanti, a cominciare dalla Cuvée Louise che nasce dai tre più importanti Grands Cru e con un dosaggio di zucchero minimo. Per gli amanti di edizioni limitate segnaliamo il formato magnum custodito in una preziosa bag Shanghai Tang, oppure il Cuvée Louise Rosé Millesimé 2000 dedicata al calendario cinese, con un prezioso cofanetto in pregiata lacca.
La Griglia di Varrone Il tempio della carne
Massimo Minutelli
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’ perfino oltre le attese, le aspettative e i sogni. La carne si scioglie in bocca come fosse un cioccolatino pregiato, è così tenera da evaporare. Assaggiare, assaporare, gustare la carne Kobe, che a Milano si trova solo da lui, da Massimo Minutelli, è davvero un’esperienza strepitosa, come un Dom Perignon d’annata oppure un Cohiba Behike 58: primizie indimenticabili, piccoli grandi piaceri per i quali vale la pena vivere. Ecco, andare a La Griglia di Varrone fa parte dell’elenco delle attività assolutamente da fare almeno una volta nella vita. Perché ci sono ottime steak house o griglierie, ristoranti di buonissimo livello che si sentono i padroni della parilla ma poi c’è il Griglia di Varrone, massima espressione della carne a Milano e non solo, visto che, prima di quello in Via Tocqueville, due locali con lo stesso nome si trovano a Lucca e Pisa. Per la crona-
ca, il nome è un omaggio a Marco Terenzio Varrone, filosofo dell’allevamento del bestiame. Fa un po’ impressione sapere che il patron, Massimo Minutelli, sia nipote di un pescatore savonese: solitamente chi nasce in barca sogna di aprire un ristorante a base di pesce, scampi e ostriche, invece lui ha optato per l’angus e per il Kobe. “E’ stata una specie di scelta obbligata”, racconta. “Volevo aprirne uno di mare, però a Lucca il mio amico ne aveva uno e di alto livello; non potevo e non volevo fargli concorrenza. Meglio così, ho fatto la scelta migliore, anche perché a Lucca non esisteva un ristorante come il mio, è stata la mia fortuna”. Già. Lo capisci subito che è un bon viveur, uno che ama le cose in grande e per di più ha l’ossessione per l’eccellenza e la perfezione. Non a caso, prima di aprire, ha portato l’intero staff in Galizia, da Victor Arguinzoniz, ad Axpe Achondo, dove le tecniche di cottura
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sono meravigliose, all’avanguardia: “Volevo che vedessero come la cucinano, come la rispettano e la amano, la carne”, ci dice estasiato. Piccola aggiunta: si è innamorato a tal punto di una griglia vista nel ristorante basco da farsene costruire una identica in Italia, da un maestro di Ferrara. - Partiamo proprio da qui, dal genio della griglia, Victor. - Non puoi capirne la portata finché non assaggi la carne con il caviale cotto sopra le alghe, le ostriche grigliate, l’uovo al tartufo passato per la cottura con le ceneri della brace. Per lui la cottura alla brace è un rito, fra ferraglie e legni, fumi e fuochi. Rimasi colpito dal vedere delle buffale nel giardino del ristorante che pascolavano tranquille. - Passiamo alla carne di Kobe. - Siamo i primi in Italia ad averla importata in maniera
regolare e continua: sia chiaro, qualcuno la proponeva già in modo sporadico, portandola dal Giappone in maniera privata, non tramite un fornitore. Prima c’erano anche alcune difficoltà nell’importarla, ora lo si può fare, noi ci appoggiamo a Giraudi, uno dei più importanti nel settore. Detto questo, forse non tutti sanno che per poter essere denominato Kobe il manzo deve arrivare da Hyogo, nel Giappone orientale, per poi rispettare alcune rigide procedure di allevamento: non tutte le carni provenienti dalle mucche Tajima soddisfano i criteri specifici; nessuna di loro inizia la propria vita come carne Kobe. Durante l’estate, per via del caldo e dell’umidità, tendono a perdere appetito e di conseguenza anche peso, motivo per il quale viene data loro la birra: stimola la voglia di mangiare il grano. I manzi Kobe vengono poi massaggiati con un guanto di crine, è per questo che la carne presenta la miscela di grasso e muscolo molto inframmezzata, che le dà il tipico aspetto marmorizzato. La cottura avviene a fiamma vivissima su una piastra molto calda: la carne deve essere appena scottata, così che il grasso inframezzato non venga disperso e la consistenza risulti croccante fuori e morbidissima dentro. - Piccolo elenco delle altre carni pregiati. - Il black angus australiano alimentato a mais è il più gustoso e succulento, quello americano arriva da Arkansas, dalla Creekstone Farms. Non è da meno la carne piemontese, con la quale proponiamo un piatto di dieci mini tartar tagliate a mano. Ci sono poi la Rubia galiziana, i sashimi di Wagyu fatti con filetti di razza giapponese (imbattibile per tenerezza) e i prosciutti spagnoli più raffinati come il Patanegra e il Joselito. Potrei continuare con l’asado ed i vari hamburger: Cheddar Chees, quello con spuma di foise gras e confit di cipolla di Tropea oppure con l’uovo di Paolo Parisi e papada Joselido, con salsa guacamole oppure chimicciuri. C’è perfino il burger vegetariano cotto nel forno a legna. - Il midollo di bue servito con osso e spalmato su pane caldo come antipasto è una trovata ad effetto. – “A Milano è una grande tradizione, non potevo non proporlo, per la verità ce l’abbiamo nel menù anche a Lucca. - Non ci sono dei primi, nel menù… - A Milano no, a Lucca invece si: ci sono la carbonara e l’amatriciana, realizzate con una pasta di primo livello. - Pure il pane è di altissimo livello. - La focaccia la facciamo noi, per il resto ci rivolgiamo al Panificio Grazioli di Legnano. - Gli antipasti sanno di poesia. - Non posso che confermare: acciughe del Mar Cantabrico con stracciatella di Andria, la scaloppa di foie gras con mele caramellate e confettura di fichi e pan brioche, le animelle di vitella… per citarne alcuni. - Capitolo vini. - Mi fido ciecamente della mia sommelier, Lucia Gatti, ha una passione sfrenata per i vini e gli champagne, ha già un curriculum di prim’ordine, basta nominare il ristorante di Lorenzo Cogo e Unico. La mando spesso in giro per scoprire nuove cantine, in Piemonte e in Francia e torna sempre con sorprese straordinarie, come rossi non noti ma possenti e avvolgenti. Come idea vogliamo solo vini naturali biologici. - Prossima impresa? - Per ora vorrei riuscire a far andare bene il ristorante di Milano, poi se inizia a “girare” come si deve prenderò in considerazione l’apertura a Roma, così che in Via Tocqueville lascerò il commando a mia figlia Sofia: ha 22 anni, studia psicologia a Padova, però è nata per fare l’imprenditrice. Se buon sangue non mente dovrebbe essere proprio così…
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Victor Arguinzoniz Il re della griglia
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ra i ristoranti acclamati e quelli che vantano stelle Michelin è di gran lunga il più spartano in assoluto così come lo chef Victor Arguinzoniz è il più umile fra le star del mondo gourmet. Un semplice casolare sperduto fra le colline basche, un’ora di macchina da San Sebastian e Bilbao, a 1.300 metri di altura in un paesino, Axpe Achondo, diventato famoso esclusivamente per via di Victor e le sue tecniche di cottura alla brace. Intanto il nome, Etxebarri: in lingua basca significa la casa nuova; per continuare con le definizioni, Victor non considera il suo un ristorante bensì un asador, come se fosse un omaggio alla sua arte di cuocere la carne. Difatti impressiona il numero infinito di padelle e pentole, ognuna con forature diverse.
Poi i legni, la vera ossessione di Victor: chi parla di una cucina preistorica non lo offende, anzi, valorizza i suoi saperi antichi. Non c’è che dire, è una delle mete obbligatorie per gli appassionati ed i foodisti, ma soprattutto un luogo didattico per i ristoratori, perché qui davvero sei come all’università, si imparano e si carpiscono mille segreti sui metodi di cuocere. Nessuno poteva immaginare che un giorno la carne alla brace diventerà una materia da studiare, ancor meno che la griglia fosse un arte, che il fuoco potes-
se diventare fondamentale non solo per la cottura ma anche per la definizione di un piatto. A tal punto si potrebbe scrivere un intero trattato sulle ostriche grigliate e sui gamberi di Palamos , sui polipetti e sull’uovo al tartufo passato per la cottura con le ceneri della brace. Non sono cotte la sanno di meraviglia anche le acciughe del Cantabrico, i salumi fatti in casa e i percebes, crostacei saporitissimi, difficile da trovare altrove. Parlavamo dei modi spartani del casolare: il primo piano, sostiene qualcuno, potrebbe essere facilmente un classico bar da paesello sperduto e invece siamo davanti ad uno dei ristoranti più acclamati. Eccelle il servizio, Si può scegliere fra il menu degustazione di 12 portate (125 euro), oppure ordinare à la carte.
Cultura pop
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L’importanza dei paninari
a Milano e l’Italia degli anni Ottanta hanno trovato il loro libro di culto. Si intitola ‘L’importanza dei paninari - Milano anni Ottanta’ e l’ha scritto il giornalista Stefano Olivari, una vera garanzia per gli appassionati di cultura pop: uscito nell’estate 2013, solo con il passa-parola è diventato un fenomeno da migliaia di copie vendute e anche nel 2014 ha ridicolizzato opere inserite nel circolo mafiosetto delle recensioni culturali. Parla di ragazzi che hanno vissuto gli anni Ottanta con intensità e al tempo stesso leggerezza, ha lo stile del romanzo e parte dall’incontro, a New York, fra una ex ragazza e un ex ragazzo paninari. Attraverso il segreto che li lega racconta l’unico movimento giovanile della storia d’Italia a non essere importato dall’estero: dalla Milano che si trovava al Panino al boom incentrato
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su moda e marchi, passando per amicizia, amore, politica, scuola, televisione, violenza metropolitana, sport, tecnologia, ideali e soprattutto assenza di sensi di colpa. Un’epoca affascinante, in un paese che non aveva paura del futuro. Con qualche insegnamento che oggi potrebbe servire. Per forma mentale il ragazzo degli anni Ottanta non guarda infatti al passato e rimane insuperabile nell’evitare tristezza e negatività. Per chi è questo libro? Facile la risposta: per tutti gli italiani nati fra il 1964 e il 1980. Ma anche per chi apprezza quella visione del mondo. Sono in tanti, siamo in tanti. L’importanza dei paninari - Milano, anni Ottanta, di Stefano Olivari (editore Indiscreto), 170 pagine a 12 (edizione cartacea) o 5,99 (eBook) euro.
Nigella Lawson Un toast con la dea
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vete presente quel tipo di serata morbida, leggera, spensierata, quando stai sul divano con sigaro e guardi programmi di cucina in tv? Ecco, era una di quelle serate, il programma era davvero straordinario, sullo street food, il vero street food. Un tripudio di colori, idee, gente felice e pietanze succose. Subito dopo ne iniziava un altro, condotto da Nigella. Si, quella Nigella, Lawson. Quella accusata dal marito da far uso di droghe in maniera quotidiana. Quella quasi strangolata in pubblico. Quella che permetteva alle sue due assistenti, Francesca ed Elisabetta Grillo, di spendere a iosa e viaggiare in business class, una specie di accordo tacito fra le parti: voi non raccontate in giro che io me la spasso sopra le righe, io fingo di non sapere che acquistate borse costose con la mia carta di credito. “Eri così sconvolta dalle droghe che hai permesso loro di spendere a piacimento. Hai avvelenato i tuoi figli con la droga e hai rovinato la loro vita, ma sono sicuro che ti
sei divertita un sacco, ora tutto a posto, complimenti. Sei diventata l’ospite impeccabile delle celebrity in una trasmissione a premi globale. Tra l’altro hai ottenuto il lasciapassare per goderti in libertà tutte le droghe che vuoi, per sempre. Che classe”, suona così la lettera del famoso marito e letta in tribunale nel corso di un’udienza preliminare. Simpatico il gioco di parole usato da Charles. Higella, ovvero drogata. Lasciamo stare le droghe, il divorzio dal magnate Charles Saatchi, l’immagine di lui che-pare-cerca di strozzarla in un ristorante di Mayfair, per esattezza lo Scott’s. Torniamo alla serata davanti alla tv. Non riusciamo a capacitarci che una donna del genere, tutta curve e sorrisi ammiccanti, voce calda e movimenti sensuali, potesse essere infelice e, ancor più, una persona “sempre tesa, ansiosa, non facile da gestire” come la dipinge una sua ex amica. Per noi Nigella è la donna perfetta. La stavamo guardando come prepara un toast francese, che meraviglia, che momento indimenticabile, non potete
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capire. Movenze da gattona, quella voce con la quale può chiedere qualsiasi cosa: quando ha poi pronunciato le parole ‘sciroppo scarlatto’ siamo letteralmente svenuti. Non siamo i soli: l’intera Inghilterra stravede per lei, The Domestic Goddess, la dea in cucina. Il premier Cameron non nasconde di tifare per “team Nigella”. Non puoi che rimanerne stregato. Facciamo finta che non siamo al corrente degli episodi ormai noti: non la vorreste come compagna, amica, amante? Noi sì. Negli Stati Uniti invece no: é stata bloccata allo scalo di Heathrow mentre stava imbarcandosi su un volo per Los Angeles, gli americani vorrebbero che lei dimostrasse di essere rimasta pulita per un anno. Duro colpo per una star della tv. Noi però non perderemo nemmeno una puntata dei suoi programmi. Quando in chiusura di puntata ha sibilato “ora con il mio french toast torno davanti alla tv per godermi la domenica mattina” abbiamo sognato che venisse accanto a noi. Forse accadrà alla prossima.
I eat NY
S
New York, New York
crivere di New York è sempre piacevole e anche molto difficile, soprattutto se tenti ti imbastire classifiche o se vorresti raccontare le nuove tendenze. Perché quello che scrivi oggi domani è già storia, le aperture sono all’ordine del giorno, poco importa se parliamo di grattacieli oppure musei, negozi oppure lounge bar. Tendenze, idee, novità, svaghi. La qualità sempre eccezionale: non siamo più negli ottanta, quando la città più importante del mondo vantava pochi ristoranti esclusivi e tanta violenza.
Oggi è cambiato quasi tutto, la metropoli pulsa ricchezza, è frenetica e frizzante più che mai, ossessionata da alimentare il suo stesso mito. Si è rifatta il look alla fine del decennio passato, quando i vari Norman Foster, Renzo Piano, Jean Nouvel, Richard Rogers, Fumihiko Maki e altre archistar dell’architettura hanno messo la firma su progetti futuristici che hanno rivoluzionato la città. Il Hearst Tower sulla 57ima, la nuova sede del new York Times, 228 piani di intelaiatura in acciaio, vetro e ceramica, la Freedom Tower, poi la torre di 75 piani firmata Jean Nouvel dove ha la sede il gruppo
immobiliare Hines in collaborazione con il MoMa. Idem per il mondo della ristorazione: star che si mettono in mostra ovunque, nuovi chef emergenti che, spavaldi, cercano la gloria. Alcuni riescono a conquistarla subito: è di loro, ma non solo, che vogliamo parlarvi. Prendendo spunto dal New York Times (che non ci piace per le scelte editoriali e per le inclinazioni moscio-liberal, ma non abbiamo motivo di dubitare quando parla di ristorazione) ecco alcuni che sono riusciti a far breccia nel cuore della critica e altri già consacrati da classifiche e testate prestigiose.
1. Sushi Nakazawa, West Village
La storia ha dell’incredibile. Alessandro Borgognone, da una vita nel settore (già nel 1993 aveva aperto la pizzeria Patrizia per poi lavorare nella cucina di Lidia Bastianich) stava guardando in televisione Jiro Dreams of Sushi, documentario impostato sui giovani talenti della cucina giapponese. Per chi non lo sapesse, Juri Ono è considerato il miglior chef al mondo per quello che riguarda il sushi, non a caso vanta tre stelle Michelin. Il giorno Alessandro dopo andò da Daisuke Nakazawa, protagonista del film, grande studioso del pesce con esperienze nel famosissimo mercato Tsukiji, a Tokyo e undici anni da Shiro Kashiba, un altro dei mostri sacri del sushi. Lo portò a New York ed ecco nascere il ristorante, nel Bronx, a West Village:aperto nell’agosto del 2013 è l’unico ad aver già conquistato quattro stelle da parte del quotidiano americano. Banco in marmo, atmosfera coinvolgente, servizio ottimo, cucina non proprio giapponese ma complessivamente un ristorante notevole.
3. Betony, 57th Avenue
Ristorante molto moderno creato dai due ex Eleven Madison: il sous chef Bryce Schuman (per sei anni il vice di Daniel Humm)e il general manager Eamon Rockey. A due passi dalla Fifth Avenue, 35 posti al bar e 85 seduti, atmosfera easy, informale con piatti creativi. I più forti sono l’aragosta affogata, il foie gras affumicato, le sardine marinate, le costine di manzo. Cocktail di altissimo livello.
2. Carbone, Greenwich Village
C’è stato un lungo e articolato percorso fino all’apertura del ristorante. Si è iniziato con un negozio di prelibatezze italiane in Mullbery Street, il Torrisi Italian Specialities. Qualche mese dopo ecco proposto un menù a base, ovviamente, di prodotti italiani. Da qui il passo è stato breve per aprire Parm, con l’idea di vendere sandwich, torte e gelati. Ora il ristorante, che i due chef, Rich Torrisi e Mario Carbone, assieme al partner Jeff Zalaznick, hanno immaginato simile ad un down town theater; i quadri sono scelti da Vito Schnabel, figlio del famoso Julien, poi le divise dei camerieri sono disegnate dallo stilista Zac Posen. Un ristorante con le miglior materie prime possibili e porzioni abbondanti. Atmosfera informale e funny. Sulla Thompson Street, nel Greenwich Village.
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4. Del Posto,
Meatpacking District
Joe Bastianich e Mario Battali sono i patron del ristorante che si trova sulla Tenth Avenue, nella defilata e rinata zona del Meatpacking District e che propone una cucina italiana “trans-generazionale contaminata”. Mark Laudner crea piatti italiani ad un livello tale da meritarsi le quattro stelle del New York Times e una Michelin. E’ un ristorante impostato sul confort e senza molti fronzoli, i tavoli distanziati e il conto altissimo. Il così detto signature dish è il risotto con le aragoste, ma tutto il menu è spaventosamente buono, ricco e saporito.
5. Per Se,
Columbus Circle Tre stelle Michelin e con questo abbiamo già detto molto. Si trova a Columbus Circle in un centro commerciale, al quarto piano del Time Warner Center, con vista sul Central Park, si mangia benissimo (le cappesante un capolavoro), ma l’aspetto che più entusiasma i clienti sono le coccole del personale, l’attenzione ai minimi dettagli e la cortesia, chef Thomas Keller prima di tutti, il quale spesso offre il bis e invita gli ospiti a visitare la cucina. Si può scegliere fra due menu fissi di 9 portate, il vegetable tasting e lo chef ’s tasting al costo fisso di 295 dollari, mentre per pranzo è possibile optare per una versione ridotta a cinque portate al costo di 185. Nella zona lounge 25 posti dove troverete un menu ° la carte.
Bistrot Breri Paradiso pugliese
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a vera focaccia pugliese, croccantissima, autentica, nel cuore di Brera, in Via Pontaccio al civico 5: mozzarelle dalla Gioia del Colle, olive di Capuzzo e olio del Palo del Colle, vini di Tormaresca, poi taralli fatti a mano, focacce, panzerotti, spaghetti all’assassina, sfornati di melanzane e ovviamente la classiche e prelibate orecchiette con cime di rapa rigorosamente di Fasano. Angolo di paradiso pugliese al Breri dove i due giovani patron Andrea di Paola e Lorenzo Loseto volevano a tutti i costi riprodurre la vera focaccia barese in un ambiente giovanile con arredamento sorprendente, vedi i tavolini in ferro e le sedie recuperate dai tempi
della seconda guerra mondiale, 25 posti sempre occupati. Andrea di Paola doveva diventare avvocato, però ha preferito aprire un’azienda di occhiali a Los Angeles e poi un ristorante italiano sulla spiaggia a St.Barth, “L’Isola”. Lorenzo Loseto invece ha studiato economia e commercio per poi diventare un imprenditore edile di successo. Insieme hanno aperto un bistrot chicchissimo in Via Pontaccio, nel cuore del Brera: “E’ la culla del cibo pugliese a Milano, prima non esisteva uno come il nostro, con dei prodotti al cento per cento provenienti dalle nostre terre, idem per le ricette. La gente ne va pazza, alcuni entrano per com-
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prare qualcosa e volo e tornano dopo cinque minuti per sedersi e gustarsi un altro piatto, stavolta con tutta calma. Nel pomeriggio fino a tarda sera propongono dei cocktail particolari come il Negramaro, molto apprezzato dalle modelle, imprenditori, blogger fashion e dai hipster che bazzicano la zona, così come lo spritz fatto con Verdeca di Gravina, bollicine di altissima qualità, idem per i vini locali proposti a 4 euro al calice. Il format lo vogliono “esportare” a Londra e Ibiza, le aperture sono imminenti, intanto vi invitano in Brera. Non rimarrete delusi, anzi. La focaccia con cime di rapa, ve lo assicuriamo, è un vero paradiso. Pugliese.
Florence Guyot Madame Champagne
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spetta, non iniziare a mangiare, prima devo fare la foto. Alors, togli la mano. No no, si vede ancora, togli togli. Gira la bottiglia. Ok, ok. No no ancora un po’. Così va bene. Come sono venute? Quale ti piace? Questa mi sembra bella. Questa invece è brutta. Donc, quale mettiamo? Che titolo scegliamo per la serata? No no, questo l’abbiamo già messo. No no non va bene nemmeno quest’altro, pensiamoci bene, é importante. Dai, facciamone un’altra che non sono venute bene”. Se volete cenare tranquilli non andateci con Florence Guyot, patron dell’omonima maison di champagne. E soprattutto non ordinate piatti caldi, perché al mille per cento si raffreddano prima che riusciate a goderveli: fra foto, messa in posa e il controllo degli scatti state certi che le pietanze le mangerete fredde. Per essere sicuri ordinate sushi, carpacci e simili. Ora non pensiate che una cena con lei sia un incubo, tutt’altro: fa parte dello show, il suo show. Se non fosse così vivace ed energica probabilmente, anzi senza alcun dubbio, non riuscirebbe a essere presente in tutti i migliori ristoranti del mondo, laddove tanti grandi produttori non si sognano nemmeno di mettere piede. Instancabile, iperattiva, commovente per tenacia, grinta, voglia di fare e di stupire, frizzante e intensa, solare e iro-
nica. Chapeau. Poi certo, oltre ad una grinta feroce ci vuole anche un prodotto di altissima qualità, altrimenti tutti gli sforzi cadrebbero nel nulla. Non puoi pensare di presenziare da Claudio Sadler ed Enrico Bartolini, Vittorio e Schoeneck più altri cento ristoranti stelattissimi senza eccellere: e lei eccelle, eccome. Cinque tipi di champagne, dal rosé al millesimato, cinque tipi caratterizzati da una personalità forte, raffinata ed elegante. Padre francese e madre italiana (Renata Bruni, nata a Firenze, così si spiega il nome della figlia), Florence ha iniziato a produrre il suo personalissimo champagne pochi anni addietro, dopo una vita passata a vendere le bollicine degli altri. Ha preso in affitto un pezzo di terra a Dammery, nella regione di Champagne Ardenne e ha creato un prodotto che piace ai più, perfino agli ex astemi: “In pratica un mio carissimo amico, Yohann, mi ha concesso parte della sua uva, producendola per me alle mie condizioni. Difatti ho personalizzato due fasi nel processo dell’elaborazione, perché ho voluto delle bollicine molto naturali con dei lunghi tempi di affinamento in cantina e poco dosati”. Il nome dello champagne, ca va sans dire, lo ha scelto lei: “Mia nonna si chiamava Marguerite, volevo tenere
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vivo il suo fantastico ricordo. Partendo dal nome, che ovviamente significa margherita, ho pensato ai petali di un fiore e così ho voluto realizzare cinque tipi di champagne, legati fra di loro, una sinfonia di sensazioni e profumi, gusti e colori.” Perfino le etichette sono ideate e create da lei: con davanti agli occhi un quadro di Alphonse Mucha, in gran voga nell’epoca dell’art nouveau, ha pensato ad un mondo romantico, che possa far venir voglia di sognare una coppa di champagne. Parlavamo prima di Sadler e Bartolini: entrambi hanno realizzato dei menu personalizzati, cinque piatti da abbinare con i cinque champagne di Florence: ricordiamo con infinito piacere il granchio reale scottato con il Cuvée Seduction e la quaglia alla pizzaiola di frutti rossi con il Cuvée Passion Pinot Noir di Bartolini, così come il tataki di tonno con mandorle tostate e yogurt assieme al Cuvée Desir Blanc Pinot Meunier, più la gallinella di mare ai profumi d’oriente accanto al Cuvée Extase Blanc de Blancs Grand Cru 2002. Riesce sempre ad attirare l’attenzione, é una calamita. Al Vinitaly lo stand più affollato era il suo: almeno tre chef ogni giorno che deliziavano gli ospiti, musica dal vivo, jazzisti e altro: semplicemente meraviglioso. Perché, come ama ripetere, la vita è un’emozione.
Biarritz Life is now
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izio autunno, il miglior momento dell’anno per una vacanza a Biarritz. Lo sanno bene i surfisti, che spesso arrivano in massa per partecipare ai vari campionati. Non è un caso che la moda del surf nel vecchio continente sia iniziata proprio qui, nel 1957, quando lo sceneggiatore americano Peter Viertel, durante una pausa di lavoro sul set del film “Il sole sorgerà ancora”, si prese la tavola a surf portata dalla California e si mise a solcare l’Atlantico. Oggi la costa è piena di scuole di surf, così come la cittadina è piena di ristorantini chic. Piccola incursione? Let’s go. Café dela Grande Plage appartiene al mondo che fu, è una brasserie d’antan, molto elegante che propone menu a base di ostriche, aragoste e frutti di mare. Vista da cartolina al Sin, ristorante disegnato dall’americano Steven Holl di fronte all’oceano, dove lo chef Michel Cassou Debat crea piatti invitanti, soprattutto
di pesce. Philippe, nei pressi dell’ippodromo, viene considerato dai più uno dei migliori. Lo chef e patron Philippe Lafargue, originario di Bordeaux, un passato con Ducasse al Louis XV, poi esperienze a Saint Martin e Punta dell’Este vi suggerisce di non perdetevi il foie-gras con confit di hibiscus. Il design del ristorante è davvero intrigante (sculture e dipinti moderni abbondano), così come le portate, creative e audaci: per trovare un titolo, oseremmo un “esplosione di gusto”. Meno esplosivo, decisamente più classico Chez Albert, da decenni una vera istituzione a Biarritz. Sul lungo mare, vicino al porto dei pescatori, tanto pesce crudo, ostriche e crostacei, scampi e fasolari, granchi e lumache, tartare di tonno, zuppe, arringhe grigliate, servizio rapido, prezzi in linea con la qualità dei prodotti. Come antipasto non perdetevi le lenticchie con polipo. Una stella Michelin per Clos Basque, dove Gary Duhr vi riceve in un bistrot rustico, atmosfere conviviale d’al-
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tri tempi, muri in pietra con ceramiche e azulejos,ma soprattutto una gustosa cucina basca e spagnola con accostamenti mai banali, spesso spiazzanti. Stella anche per Villa Eugenie, nella ex dimora di Eugenie di Montijo, moglie di Napoleone III, poi diventata imperatrice. Il ristorante si trova all’interno dell’Hotel du Palais, di gran lunga il più sfarzoso, appariscente e lussuoso della città, affacciato sulle acque dell’oceano. Prezzi alti, servizio impeccabile, piatti squisiti anche se forse prevalgono troppo le proposte di pesce. Pure L’Atelier vanta una stella. Piatti creativi ben presentati, abbondanti, servizio perfetto, è il classico ristorante dove andare per una serata particolare oppure un anniversario. Si trova in una zona residenziale, poco distante dal centro, comunque facilmente raggiungibile a piedi. Notevole anche il bistrot Chez Ospi dei fratelli Julien e Fabien Ospital, famoso per il tiramisù al mango. E ci fermiamo esclusivamente per motivi di spazio.
Corvette Stingray Icona sportiva
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ualcuno ricorderà l’ultima edizione di The Apprentice, reality show copiato dagli americani. Mai una volta che la tv italiana possa avere un’idea vincente: però va bene anche copiare, forse è addirittura meglio. Difatti Hell’s Kitchen, Masterchef, X Factor e, appunto, The Apprentice sono state realizzate inizialmente negli Stati Uniti, dove sanno fare tv, dove sanno far soldi e spettacolo. Chi non sa copia. A dire il vero Flavio Briatore non ha sfigurato, anzi, spesso si è mostrato ancor più sprezzante e spietato dell’originale, ovvero Donald Trump: è stato lui il grande mattatore del reality, non i concorrenti. Comunque non allontaniamoci troppo dall’argomento: una delle prove è stata una campagna pubblicitaria per la Corvette: penosa da parte di entrambe le squadre, letteralmente penosa. Mancanza di glamour, di idee, di tutto. Gente vuota e presuntuosa, altro che futuri manager. L’unico aspetto positivo della puntata è aver risvegliato in noi la passione per la automobile prodotta dalla Chevrolet a partire dal 1953, la prima auto sportiva americana, diventata la macchina sportiva statunitense per antonomasia.
Meccanica semplice, piccola, leggera, a due posti e soprattutto più economica rispetto alle altre: la ideò così Harey Earl, designer di auto. La presentò per la prima volta al Motorama Show presso il Waldorf Astoria Hotel di New York nel gennaio 1953. Il nome Corvette lo ha proposto invece Myron Scott: derivava da Corvetta, piccola unità navale. La carrozzeria fu realizzata in fibra di vetro, a quei tempi una novità assoluta; il motivo era legato alle quote sull’acciaio, ancora in vigore dopo la fine della seconda guerra mondiale. Le vendite non andavano bene, tanto che General Motors, a quei tempi proprietaria del marchio, prese in considerazione la cancellazione del modello. Poi però ecco la svolta: introducono il primo motore V8 Chevrolet dopo una quarantina d’anni e soprattutto Ford aveva presentato il Thunderbird sul mercato orientandosi verso la fascia alta, di conseguenza Corvette voleva apparire come la versione sportiva e meno costosa. Il successo è immediato, il resto è storia. La seconda generazione della Corvette inizia nel 1963 e si conclude nel 1967. Venne disegnata da Larry Shinoda che si ispirò al progetto Q Corvette, vettura mai prodotta, realizzato da Chuck Pohlmann e Peter Brock sotto la supervisione di Bill Mitchell. Altre fonti
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di ispirazioni furono le linee della Jaguar E-Type e la cosiddetta Mitchell Sting Ray, vettura speciale di proprietà dello stesso Mitchell, che si ispirava alle forme e ai colori dello squalo Mako. Ogni nuova versione della Corvette viene identificata con i termini C1, C2 fino alla C7 Stingray Gran Turismo Concept, 466cavalli, presentata a Las Vegas: è un modello diverso al modello in serie perché presenta minigonne e paraurti posteriore in fibra di carbonio più aerodinamici, fari gialli, terminali di scarico modificati, splitter anteriore. Gli interni di quest’ultima sono stati ispirati a quelli dei velivoli da combattimento e offrono sedili in pelle Nappa con inserti in fibra di carbonio e alluminio. I pannelli e il volante in morbida pelle o in microfibra stile pelle scamosciata (opzionale a pagamento) sono rivestiti e cuciti a mano. Il design è stato sviluppato sulla base dell’esperienza in pista e nella galleria del vento. Le cinque prese d’aria sul cofano, sui parafanghi anteriori e nella parte posteriore della vettura ne accentuano la potenza, raffreddano il motore e riducono la portanza aerodinamica. I fari anteriori al led satinati ad alta luminosità e le luci posteriori sdoppiate illuminano la strada. Com’è lo slogan? Life is now.
Angelo Galasso Lo stilista di Al
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ue anni fa non lo conoscevamo. Però sfogliando il supplemento del Financial Times, il mitico How to Spent It, ci siamo imbattuti in una pagina spassosissima. La rubrica si chiamava “Perfect Weekend”. Angelo Galasso raccontava la sua vita nella villa di famiglia, in Toscana. L’abbiamo conservata, mettendola nell’archivio delle chiccherie. Giorni fa, per puro caso, ci siamo imbattuti in quella stessa pagina e l’abbiamo riletta con ancor più entusiasmo, visto che nel frattempo avevamo conosciuto Angelo. “Venerdì sera, appena arrivo a casa apro una bottiglia di Sassicaia, per me il miglior vino al mondo. Nella mia casa toscana, una villa costruita cinquecento anni addietro con venti ettari di terra, mi godo le volpi, i caprioli, i conigli. L’ho acquistata nel 2004, cadeva a pezzi, mi ci son voluti tre anni per farla risplendere. Adoro mettermi a cucinare i prodotti locali: i cinghiali, che ho sempre attorno alla casa, nei boschi, i tartufi e i funghi porcini. Le colazioni in giardino sono spettacolari, fra formaggi e salumi, ovviamente toscani. Poi amo andare
alla cantina Villa Sesta, è meravigliosa: ci aspettano con pane tostato, formaggi, olive e un bicchiere di vino. A cena spesso tagliatelle con ragù di cinghiale, stufato dello stesso cinghiale, marinato per due giorni a base di aceto e rosmarino. Se invece mangiamo fuori andiamo all’osteria La Vecchia Fornace, oppure a l’Orciaia, a Montebenichi, dove il patron Gino prepara i migliori fagioli al fiasco. Quando vado a pagare il conto ci fermiamo a lungo a parlare delle nostre famiglie e soprattutto di cibo, noi italiani possiamo parlarne per ore”. Se Good Life sta “virando” verso il mondo dell’alta cucina allora abbiamo un motivo in più, l’ennesimo, per parlare con e di Angelo. Lo confessiamo: quest’uomo è una sorpresa continua. Tira fuori dal cilindro collezioni mirabolanti. Appena entriamo nel suo negozio di Corso Matteotti ci brillano gli occhi. I suoi tuxedo sono i più belli che abbiamo mai visto e non esageriamo. C’è quel misto di eleganza e irriverenza, di classe e voglia di stupire, di raffinatezza e vanità che ci ha conquistato sin dal primo momento. Poi quando inizia a raccontarci di Al Pacino che acquista in
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maniera compulsiva i tuxedo e che alle nove del mattino ne indossa uno perfino per andare da Starbucks, cosa dire, ci piace da morire. Se lo merita, un successo del genere. Ha rischiato e ha vinto. A fine giugno siamo stati al suo evento, nel negozio milanese: c’erano i nipotini di Michael Jackson, centinaia di affezionati, amici, clienti, tutti arrivati per lui e non per la festa in sé. Angelo stringeva mani, si faceva fotografare con tutti, si vedeva che era, ed è, un uomo felice. D’altronde come non esserlo: il suo negozio di New York, al piano terra del The Plaza, angolo con la Fifth, viene preso d’assalto perfino dai giapponesi e dai messicani, arrivati apposta dai propri paesi. Visto che parlavamo di eventi: a metà giugno ad una serata organizzata proprio là, a NY, venne perfino Clint Eastwood, che non indossa ancora giacche e jeans di Angelo, ma che era sicuramente curioso di capire perché l’amico, Al Pacino, ama ripetere che perfino a letto indosserebbe i suoi capi. Testate come Vogue, Gq ed Esquire lo venerano, gli dedicano servizi e pagine intere. Perché sa affascinare e far sognare. Non è poco, anzi.
Four Seasons U
nlimited golf. Per di più nel resort che viene riconosciuto come il più romantico in assoluto. Si può chiedere qualcos’altro? No di certo. Fra l’altro le stanze sono state appena ridisegnate e ammodernate, per cui profuma di nuovo oltre che di romanticismo. Il resort, poche miglia a ovest di Maui, è proprietà di Larry Ellison, miliardario che ha costruito le sue fortune con i software. L’isola di Lanai è molto meno assediata dai turisti rispetto alle popolate e trafficate Waikiki e Ka’anapali. Se arrivate via mare con il catamarano, vi aspetteranno con il pullmino e lo stesso vale per l’aeroporto. Fiori profumatissimi, delfini (si può notare assieme,
Manele Bay amano venire a divertirsi in gruppo, ci sono sempre una cinquantina pronti a giocare), selvaggina, i fondali della baia fiabeschi, piscina da mille e una notti, camere enormi (alcune non hanno la vista sull’oceano bensì sul giardino interno), ristoranti di alto livello (Nobu, una garanzia). La spiaggia straordinaria, ancor di più il servizio: ombrellone per ognuno degli ospiti, c’è perfino la wifi per non parlare dei continui frullati, bottigliette di acqua e della frutta fresca che, gratuitamente, vi viene offerta. Per quello che riguarda le possibilità degli ospiti, possono perfino scegliere se alloggiare qui oppure a qualche centinaia di metri di distanza, nel Lodge at Koele, una specie di Hill station dell’Impero britannico, sempre di proprietà del Four Seasons (ci sono delle shuttle che ti
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portano da uno all’altro). Fatto rarissimo: il resort fornisce ai genitori passeggino per i bambini, perfino i pannolini e le salviette. Le 18 buche disegnate di Jack Nicklaus sono tutte vista oceano. Alcune sono di una difficoltà folle, altre di una bellezza impensabile: monumentale la 12, sulla collina, in alto. Dopo le 18 buche non perdetevi una sosta, alquanto lunga e appagante, al ristorante della club house: la vista sulla così detta Pu’u Pehe (la roccia dell’innamorato) e sulla Hulopo’s Bay lascia senza parole. Per quanto possa essere inflazionata l’espressione, qui ne ha davvero un senso e ci potete credere sulla parola. Piccolo gossip: Bill Gates ha noleggiato l’intera isola per il suo matrimonio.
Tagliatore Dandy e glam
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iacche iper leggere e chic, a righe oppure a scacchi, saxon e tweed, tartan e cashmere rivisitati, con ampi revers e spalle a camicia, applicazioni di bottoni personalizzate e mille altri dettagli: benvenuti nel mondo di Tagliatore, azienda di Martina Franca, per decenni un laboratorio che produceva come fasonista prima di lanciarsi nel mondo straordinario della moda. Era il sogno di Pino, vedere una sua giacca in una vetrina importante milanese. Il nome dell’azienda proviene dal soprannome di Vito Lerario, negli anni quaranta il calzolaio del paese prima di diventare sarto. Lui tagliava le tomaie, la sua moglie Teresa le cuciva. La tradizione di famiglia si è tramandata fino ai giorni nostri, dove i quattro fratelli Vito,
Luciano e Teresa, figli del fondatore Francesco (ancora molto presente in azienda) portano in alto il nome della famiglia. La prima sede era un appartamento di 250 metri quadri e contava dieci dipendenti, ora l’azienda si è trasferita in una palazzina di proprietà, fattura 15,5 milioni, è presente in 800 punti vendita e vede impiegati 180 fra sarti e altre maestranze. Avanti con i numeri: 70.000 capi, 320 al giorno, 55 per cento si vende all’estero ma la percentuale è pronta a salire al 65 per l’anno a venire. Vive per disegnare, Pino: da sempre in azienda, ama ripetere che in una giacca conta prima di tutto la vestibilità, poi lo stile e il tessuto. “Guardo i revers, poi le spalle e le maniche. Una giacca deve essere come una
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seconda pelle, non larga”. Niente testimonial, il simbolo dell’azienda è un manichino spaventapasseri di bamboo, idea nata per caso ma che è piaciuta fin da subito. Giacche ma non solo, però come dice Pino, “una sartoria è un po’ come un ristorante, se i primi sono buoni allora di sicuro pure i secondi saranno all’altezza. Se sai fare bene le giacche tutto il resto viene con facilità”. Nella foto, collezione Tagliatore Pino Lerario: Check jacket tinta in capo, sfoderata e destrutturata, in lana/ mohair/alpaca effetto bouclé, monopetto due bottoni, tasche a toppa, sottocollo in velluto mille righe, spalla insellata, dettagli sartoriali, asole aperte, bottoni in metallo oppure silver. Vestibilità molto sciancrata, ultra slim. Prezzo consigliato al pubblico: € 620,00
Tagliatore
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on è una storia romanzata, ancor meno inventata, anche se ha tutti gli ingredienti per essere una favola. Londra, 1988. Bob Ringwood, noto costumista hollywoodiano, passeggia distratto quando si ferma davanti ad una vetrina, attratto da un abito visto su un manichino. Entra, chiede lumi sull’azienda che lo produce, chiama e propone loro di cucire tutti gli
abiti per il film Batman. Dall’altra parte del telefono, a Martina Franca, pensano ad uno scherzo del solito buontempone. E invece no: Bob li voleva per davvero. Il film con Kim Basinger, Jack Nicholson e Michael Keaton ebbe un successo planetario e fu anche la fortuna dell’allora piccola realtà del sud. Oggi lo ammette pure la concorrenza: le giacche di Tagliatore nulla hanno da invidiare ai famosi sarti di
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Savile Raw. Nella foto: capsule collection Tagliatore Pino Lerario, giacca smoking sfoderata e destrutturata, in lana effetto camouflage, monopetto un bottone, rever sciallato con inserti in velluto liscio, tasche a filetti e bottoni ricoperti in velluto liscio, dettagli sartoriali, asole aperte. Vestibilità molto sciancrata, ultra slim. Prezzo consigliato al pubblico: € 550,00.
Tagliatore
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uona anche bene, in maniera musicale: “Tagliatore”. All’estero vanno pazzi per i nomi italiani. Sembra una banalità, oppure un dettaglio da poco, però in Germania, Svezia, negli Stati Uniti e Giappone apri le porte ed i cuori degli amanti del bello semplicemente pronunciando il nome dell’azienda. Ovviamente non basta, serve per un primo approccio, per una simpatia iniziale: poi ci vuole la qualità, l’originalità, qualità che non mancano all’azien-
da di Pino Lerario, tanto che alcune boutique espongono i loro capi al contrario per mostrare la qualità della lavorazione interna. Per rimanere in tema estero: l’export per quest’anno andrà dal 55 per cento del fatturato totale al 65, con un incremento proprio nei paesi di cui sopra. Semplice coincidenza? Forse. Ora segue la Russia, ma senza alcuna fretta. “La crescita deve essere sana e soprattutto per vie interne, mentre sulla qualità non possiamo transigere”, racconta lo stilista. Altri nu-
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meri, per restare in tema: l’azienda di Martina Franca è presente in 800 punti vendita, producendo 70.000 capi l’anno. Nella foto: Check jacket totalmente sfoderata e destrutturata, in lana (tessuto in esclusiva), monopetto 2 bottoni, 2 tasche a filetti con pattina, spalla insellata, maniche a camicia, sottocollo in velluto mille righi, dettagli sartoriali, asole aperte, bottoni in metallo invecchiato/oro. Vestibilità slim. Prezzo consigliato al pubblico: € 560,00
Inga Verbeeck The Love Affair
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gni estate lo studio legale Fetman&Garland di Chicago tira fuori dal cassetto una campagna pubblicitaria che, perché negarlo, fa sorridere assai: “Life is short, take a divorce”, suona il claim. La vita é breve, divorzia! Si rivolge sia ad un pubblico maschile che femminile, é di grande impatto, desta sorrisi ed ironie, riflessioni e, a qualcuno, qualche giramento di bile : davvero una bella trovata, anche se non sappiamo quali siano gli esiti. Fa sorridere se, ovviamente, sei single oppure felicemente sposato, non se il tuo rapporto fa acqua da tutte le parti. Di sicuro divorziare é la soluzione ideale per le casse degli studi legali, un pò meno per le proprie tasche, per cui qualcuno festeggia e qualcuno invece no. Se lo studio legale di Chicago intende trasmettere un messaggio diabolico agli indecisi, portando per di più acqua al proprio mulino, Berkeley International invita i desiderosi d’amore e di un rapporto stabile, duraturo e pieno di soddisfazioni di provare a entrare in contatto con la propria rete di collaboratori, promettendo di trovare il partner ideale. Non avviene sempre e non in modo automatico, però funziona nella maggior parte dei casi. Non é la falsa promessa di un sito di incontri qualsiasi, non é un Cupido a buon mercato e ancor meno un’azienda di poco conto: stiamo parlando del leader assoluto per quello che riguarda il così detto “matching”, che non é come scovare partner occasioni nella rete. Qualcuno potrà obbiettare che il mondo é pieno di siti web d’incontri, seppur la gran parte della gente fatica ammettere di ricorrere al dating online. La così detta Generazione Y, ovvero i nati dopo il 1980, pare il target più scaltro, é gente più sciolta e priva di imbarazzi, più tecnologica e abituata ai social. Sono loro i principali fruitori delle applicazioni come Tinder, che sta spopolando negli States e ora anche in Inghilterra. Le regole sono però spietate, leggere per credere: si devono inserire i propri dati personali e sullo scher-
mo dello smartphone compare subito la foto profilo di una ragazza, il suo nome, la sua età, a quanti chilometri di distanza si trova. L’utente può decidere se premiare la foto con un like, oppure scartarla con un movimento del pollice e quindi passare al profilo successivo. Se il like viene ricambiato a quel punto la chat può avere inizio. Insomma, roba da ragazzi, roba cheap, usa e getta, siti per gente in cerca di avventure, per non dire che, almeno secondo uno sperimento condotto sul sito Okcupid, per ogni messaggio ricevuto da un uomo, una donna ne riceve almeno una ventina. In più, si è obbligati ad accettare che le app utilizzino i tuoi dati personali e così tutto diventa di dominio pubblico. Per andare oltre, pare che Lindsay Lohan stava scartando foto su Tinder quando si é imbattuta nella foto del proprio fratello. Ricki Lake invece stava addirittura sposarsi con un affascinante inglese conosciuto in chat (anche se stentiamo a crederlo), tranne poi scoprire che il birbante aveva come unica intenzione ottenere la carta verde per gli States. Privacy zero, dunque. Eleganza ancor meno. Possiamo andare avanti all’infinito, citando Local Sin (app d’incontri geolocalizzata), o Pure (si inserisce una foto provocante e un cuoricino inizia a pulsare sullo schermo del cellulare diffondendo la richiesta per un raggio di 50 chilometri, per la durata di un’ora). Ci sono poi Avocado, You&Me, Couple and Between, che stanno addirittura fidelizzare gli utenti dopo la formazione della coppia, tenendoli in contatto a distanza: niente da dire, la rete si sta attrezzando alla grande , ma siamo sempre nell’ambito dell’aspetto giocoso, avventuroso. Per questo Berkeley International é diversa. Offre ai suoi clienti la certezza della discrezione, vanta una banca dati di prim ordine e soprattutto la ricerca, così come il contatto, non avviene in maniera automatica, anzi. Inga Verbeeck ha creato una rete di filiali straordinaria, si é occupata personalmente di cercare, trovare e formare lo staff, ha aperto uffici ovunque, da New York a Parigi, da Londra ad Amsterdam, da Ginevra a Milano: non parli
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con un computer bensì con delle persone addette preparate, che svolgono delle ricerche accurate. Intermediari, consulenti, confidenti: persone autentiche, non applicazioni fredde. La splendida imprenditrice belga, che oltre a Berkeley vanta imprese di gran successo nel mondo dell’acciaieria, ha messo in piedi un vero e proprio colosso dell’amore, una multinazionale che ti garantisce più di qualsiasi altra azienda la possibilità di trovare il partner ideale. Che sia chiaro: non si occupa di avventure e non prende in considerazione un target basso e nemmeno medio. “Non offriamo un servizio escort e partner per la vita notturna”, puntualizza con fermezza. No, ha ideato la Berkeley International come un sistema di relazioni umane di altissimo livello. Per accedere ed essere ammessi non basta staccare un assegno, ci vuole ben altro: prima di tutto un incontro conoscitivo, due-tre ore di confronto pacato, amichevole, informale dove si cerca di capire i desideri dei futuri clienti, il loro modo di vivere, le aspettative, i propri gusti, l’infanzia, la famiglia dove sono cresciuti. In media ti si assicurano otto incontri all’anno, mentre per restare nell’ambito della statistica ci vogliono sei per trovare il partner giusto. Altre piccole curiosità: l’uomo italiano ha delle esigenze molto più semplici rispetto al maschio, che punta sui maschi inglesi oppure scandinavi. L’ottanta per cento degli uomini manca di coraggio per invitare una donna a cena, la fascia che più ricorre ai suoi servizi sono i quarantenni che prima si sono dedicati solo alla carriera, lasciando poco spazio alle relazioni personali. La fascia d’età che più incontra difficoltà sono gli over sessanta, quella meno interessata i under trenta. Tutto bello, ma, vi chiederete, come avviene un incontro? Semplice: al maschio viene dato il numero di telefono della donna e, si suppone, la chiamerà per invitarla fuori. Per il resto non dipende da Inga ne da Berkeley International. Se son fiori…
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Avana
Polaroid cubana
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n è deserta a tutte le ore del giorno e della notte. Uno spazio infinito, mettiamo cinque volte la milanese piazza Duomo o sei volte la romana piazza Navona, tutto cemento e attorno dei grotteschi monumenti eretti subito dopo la catastrofe del 1959. Nemmeno i turisti scendono dal pullman e ancor meno le guide si prendono la briga di esaltare il posto. Il bus sembra che faccia una tappa obbligata e nulla più. Polaroid numero due: davanti ad ogni banca e ufficio di cambio ci sono code infinite. I cubani, che anni fa stavano disciplinati in coda per lo zucchero, ora aspettano il proprio turno sotto un sole a dir poco cocente, per cambiare i Cuc in dollari (o viceversa, ma accade di rado). L’unica ideologia forte, anche qui, è il denaro. Polaroid numero tre: il Malecon, famoso lungo mare di Avana, sembra una strada di Gaza dopo i bombardamenti. Zero persone e tanti palazzi fatiscenti che pensi siano abbandonati o in via di demolizione per costruire alberghi cinque stelle. I motivi però sono altri: la gente non può radunarsi sul Malecon perché Fidel (o chi per lui, ormai) lo ha proibito temendo che la gente, fra poco, possa scendere in strada per festeggiare la sua morte (qualcosa non torna, in Italia si legge ovunque che la gente è fidelista). In quanto ai palazzi,
sono abitati da famiglie intere, nonostante possano crollare appena si alza il vento. Polaroid numero quattro: un olandese, non troppo sveglio, racconta di aver perso 400.000 dollari (la cifra è giusta) per via di una fidanzata del posto. In pratica il furbacchione, di mestiere agente immobiliare, ha pensato di fare il colpaccio acquistando un palazzo intero ad un prezzo secondo lui giusto, immaginando succulenti guadagni fra qualche anno. Siccome la legge cubana vieta agli stranieri di acquistare e possedere immobili, ecco la soluzione di questo genio: dà i soldi alla fidanzata (sarebbe interessante capire quando si sono conosciuti, cioè due giorni prima o se lui fosse già stato lì parecchie volte), poi i due stipulano una scrittura privata fra di loro (furbo lui, eh) e così l’immobile nella zona Kholy, relativamente alla moda, diventa proprietà dell’olandese. Questo lo pensa lui, perché il giorno seguente lei si installa assieme a tutta la famiglia nella nuova dimora, mentre lui morirà con la scrittura privata fra le mani. L’atto di acquisto è a nome della ragazza, tutto il resto è operetta: forse lui andrà al tribunale internazionale, forse a Bruxelles, nel frattempo lei balla la salsa assieme a fratelli, zii, nonni, capre e cani. E magari a un fidanzato con addominali scolpiti meglio rispetto a quelli del flaccido olandese.
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Polaroid numero cinque: la città vecchia è straordinaria, pulsa di romanticismo e storia, ci sono palazzi coloniali del VXII secolo trasformati in alberghi cinque stelle, l’atmosfera è fantastica, la sicurezza totale (la polizia difende e protegge lo straniero), insomma un paradiso: caffetterie, alberghi, ristorantini, negozi dove si acquistano e si fumano i sigari più pregiati al mondo. Ecco la vera Avana di oggi: scaltrezza, voglia di arricchirsi, il passato che scompare per il disinteresse dei più. In una zona del centro ci sono anziani vestiti da Che Guevara pensando che le miriade di turisti faranno la gara a fotografarli: nemmeno mezzo scatto, i bei tempi sono andati. È finito anche il periodo dei cubani che nemmeno vedono la tv: possono entrare in qualsiasi bar, dove le tv (Samsung e altro, come se fossimo a Rimini) sono sintonizzate sulla BBC oppure la CNN. Ci sono perfino dei telefoni cellulari, addirittura iPhone, il che ci ha sorpreso assai: dubbia la provenienza, ma li abbiamo visti con i nostri occhi. Per la verità siamo anche rimasti spiazzati: non eravamo preparati nel vedere un cameriere di Cuba che chatta su WhatsApp. La fine del comunismo ha disorientato i comunisti, ma anche noi. Il turismo sessuale è fiorente ma non è più l’unica fonte di introiti per le donne, comunque ci sentiamo di sconsigliarlo, non per motivi etici ma perché
non ne vale la pena. I due bar entrati nella storia della città per via delle frequentazioni di Hemingway, Floridita e Bodeguita del Medio, sono presi d’assalto dalla mattina alla sera. I prezzi? 5 euro per un mojito alla Bodeguita e 5 per il daiquiri alla Floridita. Tutto in nero, perché si, le casse ci sono, però manca la voglia di fare lo scontrino (d’altronde perché mai farlo?). Se pensiamo che uno stipendio va dagli 8 ai 25 euro, immaginatevi quanto possano essere benestanti i barman ed i camerieri. Tutti con la bava alla bocca per i soldi, altro che revolucion. Nessuno ci crede, anzi, sarebbe bello poter chiedere agli abitanti dei palazzi fatiscenti come mai i cattivi capitalisti stanno con l’aria condizionata nei palazzi coloniali e spendono nei ristoranti mentre i comunisti buoni vivono al buio fra le macerie. Potevamo farlo noi, ma siamo andati per goderci i Cohiba e basta. Alla fin fine ognuno vive come merita o, se vogliamo, come meglio crede. Ci sono mille sfumature in una città con un passato splendido e un presente arrestato più di mezzo secolo fa dai satrapi rossi. La sensazione che ci hanno raccontato i residenti è che il futuro possa essere luminoso, anche con quel che rimane del partito unico. Alla gente importa poco della politica, vuole solo poter spendere (e prima ancora guadagnare) in santa pace. Ci sono ormai quasi tutti i grandi player del mercato mondiale, basta avere i soldi: Nestlé, Coca Cola e tanti altri. Vale più la gioia di una lattina fresca che ascoltare un tedioso discorso sul socialismo o anche, ammettiamolo, sulla democrazia. Probabilmente ci sarà una specie di accordo tacito fra lo stato e la popolazione: noi non ci immischiamo nei vostri piccoli affari commerciali e nelle vostre tasche, voi non mettete becco nelle scelte politiche. Sarebbe la situazione ideale per un paese che, visto il misto di comunismo e clima tropicale, non eccelle per grinta e voglia di lavorare. Per concludere, qualche prezzo: cena con filetto di maiale massimo due euro, il caffè va dai 60 centesimi all’euro, una bibita idem, stanza in albergo cinque stelle (non aspettatevi però il Four Seasons) non più di 70-80.
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Casa del Habano Un mondo perfetto
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re 11,30, Avana, Casa del Habano nel cortile dell’hotel...., al primo piano. Un vero gioiello, un posto da leccarsi i baffi, da tornare sempre, da portare gli amici, da sognartelo spesso. E’ l’essenza di un mondo maschile fatto di sigari straordinari e atmosfere rilassanti, é un club poco esclusivo ma dove i piaceri sono assoluti, dove ognuno ha i suoi riti. Chi non é un fan dei sigari forse si sente estraneo alle emozioni vissute dei fumatori appena varcano le porte di un locale del genere, metà negozio e metà salotto. Però abbiamo visto tante coppie in vacanza che, una volta entrate, non volevano più andare nonostante uno dei due aveva poca dimestichezza con i robusto. Ci é capitato di vedere giovani ragazze impressionate dall’atmosfera, rapite dai colori e dai profumi di un posto fino a quel momento sconosciuto. “Se vuoi restare e fumare ci sto pure io, mi prendo un caffé”, dicevano ai mariti o fidanzati. Perchè le case del habano alla fin fine sono un lounge bar, oppure una specie di british club tutto mogano e poltrone in pelle, sono dei locali che piacciono a tutti gli amanti delle storie, dei racconti, dei ritmi lenti. Era uno dei nostri piaceri quotidiani, spesso ci torna-
vamo nel tardo pomeriggio per un altro sigaro e un espresso: una routine favolosa, che ci piacerebbe tanto gustare anche nella nostra città, dove invece imperano i divieti talebani. Stavamo sfogliando un numero di Cigar Aficionado (non arriva a Cuba però gli amanti dei sigari la portano in regalo ai negozianti) con un Hoyo fra le ditta e ascoltavamo jazz in sottofondo. Ci guardavamo attorno ammirati dalla semplicità di un posto che aveva tutto quello che una persona possa chiedere per sentirsi al settimo cielo: silenzio, sigari, buona musica, un’atmosfera rilassata, il personale gentile, competente e appassionato. Per godersi al massimo le vacanze non c’è bisogno di andare chissà dove e spendere fortune, non é necessario esagerare. Ci vogliono pochi elementi ma che riescono a gratificarti. Una poltrona, un sigaro eccelso, una rivista patinata ed i pensieri che vanno lontani: what else? Pare assurdo che a Milano non ci siano posti del genere, per non parlare dei divieti talebani che ci urtano da anni. Pare assurdo che uno possa fumare tranquillo solo a Bucarest oppure ad Avana. Sorvoliamo e torniamo ai piaceri della vita.
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Il nostro soggiorno nella capitale cubana aveva come principale obiettivo la scoperta delle migliori casa del habano: ce ne sono davvero tantissimi, com’è ovvio, il che non toglie il piacere pazzesco e coinvolgente, a volte sfrenato, che si assale ogni qualvolta ne scopriamo uno. Nel centro vecchio la migliore a nostro avviso è quella che si trova nel cortile dell’hotel Conde de Villanueva. Fortuna voleva che si trovava a dieci metri dal nostro albergo, San Felipe y Santiago, per cui la prima tappa mattutina era d’obbligo. Andando verso il centro, incollato al Floridita, il bar dove Hemingway si scollava un daiquiri dietro l’altro, ce ne é un altro: Cinque minuti e siete alla fabbrica Partagas, dietro il Capitolio, luogo di culto per qualsiasi amante dei sigari. Ormai é aperto solo il negozio, fornito in maniera opulenta: Cohiba Behike 58 come se piovesse e badate bene che parliamo di sigari che ad Avana costano 31 Cuc, ovvero 25 euro: prezzo giusto ma alto e nonostante la cifra si fa fatica a star dietro alle richieste dei fumatori, la gran parte arrivati dal Canada oppure dagli Stati Uniti via Nassau, Messico oppure la stessa Canada. Non é possibile per i statunitensi volare diret-
tamente a Cuba: nel caso lo facessero vengono puniti con una specie di multa di 10.000 dollari. Siccome il visto per Cuba non rimane sul passaporto (al posto del timbro c’è un semplice foglietto da compilare e consegnare alla frontiera), l’ostacolo viene aggirato
con gran facilità. Poi ci sarebbero i due che si trovano all’interno degli alberghi più gettonati della città: dell’Hotel Nacional parlano i libri e la storia. Costruito nel 1930 fu uno dei luoghi più lussuosi dell’epoca d’oro della capitale
Kate Mara N
Ricca e famosa
on perderemmo la testa per lei. Non è bella, forse è sexy. Però il fatto che interpretta un ruolo nella serie televisiva più bella, cinica e intensa dell’anno, House of Cards, le fa guadagnare punti. Nella serie prodotta da Netfix gioca nella parte di una giovane giornalista affamata di gloria e notizie. Già questo ce la fa simpatica, perché non puoi non paragonarla alle nostrane, scarse ma con smanie di protagonismo fuori da ogni immaginazione, pseudo intellettuali e con il buonismo e moralismo a manetta. La tresca con il fenomenale Frank Underwood (Kevin Spacey) ci ha lasciato un po’ un gusto amaro perché non pensavamo lui potesse entrare in un gioco che poteva essere a suo sfavore, ovvero ricattato. Lui però vince sempre, sa tenerla a bada e a distanza quando serve. Nella serie lei inizialmente fa le scarpe ad una cronista antipatica e presuntuosa che si crede Dio: lì abbiamo tifato per lei, ammettiamolo. La giovane ottiene delle
notizie che l’altra se le sognava: nonostante ciò, la veterana invocava la sua autorità e altre amenità che troppo spesso vediamo anche da noi. In più è sciatta, non si cura, i capelli sembrano sempre in disordine: come non tifare per Zoe? La prima serie finirà per rendercela leggermente antipatica: tifiamo per lui, Frank Underwood e non ci piacciono i dispetti di Zoe. Kate invece pare andare diritta per la sua strada, al di là del personaggio. Dopo House of Cards le porte del cinema sono aperte, anche se a lei pare interessino di più le due squadre di football americano di proprietà della famiglia: quella materna possiede i Pittsburgh Steelers, mentre quella paterna i New York Giants. Le ultime dall’Usa la danno neo single dopo la fine del lungo fidanzamento con Max Minguella: quattro anni insieme e poi il comunicato stampa congiunto dove si informa il mondo che il rapporto sia arrivato ad una fine naturale.
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cubana. A picco sul mare, atmosfere d’antan e al piano inferiore la casa del habano: non sfarzosa, non chic, ma ben fornita. A dire il vero sarebbe un delitto fumare un sigaro laggiù quando l’hotel è pieno di bar e terrazze vista mare. Molto più elegante quello del Sol Melia, nel Miramar, zona residenziale di alto livello. Qui si che ne vale la pena fermarsi anche se in principio vige la stessa ragione del Nacional: te lo puoi gustare anche davanti al mare, però l’atmosfera è coinvolgente, contagiosa, il personale simpatico e il bar promette soddisfazioni.
Belle Ile en Mer L’isola segreta
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i chiama Belle Ile en Mer, è l’isola più grande della Bretagna, lunga una ventina di chilometri e larga una decina: da alcuni anni viene considerata la piccola enclave dei parigini benestanti, poco inclini a farsi notare. “A Saint Tropez si va per mostrarsi, qui per nascondersi”, ama ripetere la gente del posto. Non fattevi ingannare dalle biciclette, non siamo in uno di quei posti radical chic, non siamo a Forte dei Marmi. Qui sull’isola si vive davvero low profile e di macchine non c’è bisogno. A quattro ore di macchina dalla capitale e a tre da Nantes, temperature mediterranee, palme, tutti vogliono impregnarsi del profumo dell’Atlantico, di riempirsi di odor di fico e eucalipto, di mimosa e oceano, cascate di ortensie e aloe. La polaroid che più rappresenta l’isola è l’Hotel du Phare, accanto al porto. Lo si trova nel piccolo borgo di Sauzon, pieno di ristorantini intimi che propongono piatti a base di pesce appena pescato. Branzini,
gamberi, capesante, tutto squisito, tutto come nelle favole: sedetevi al Café de la Cale per una cena gustosa e una vista da cartolina, fra barche e tramonti. I cultori dell’aperitivo non rimarranno delusi, anzi: kir royal servito con graseola sul letto di alghe. Chi viene qui per una vacanza non può che alloggiare al Vauban, a picco sull’oceano; stanze sontuose a dei prezzi decisamente abbordabili. Poi ci sarebbe il Chateau Bordeneo, castello ottocentesco con un parco immenso nei dintorni: salone biblioteca con camino, piscina coperta, mosaici nel più classico stile orientaleggiante. Le pietanze locali sono una sinfonia di sapori e colori, basta guardare le bancarelle per riempirti di quel languido benessere. Le sardine conservate in scatole d’alluminio colorate e disegnate sono addirittura una rarità che i collezionisti cercano in continuazione. Ed i locali? Un indirizzo obbligato è il bistrot Annexe, specializzato in pesce alla griglia: però non dimenticate di ordinare l’andouille, una salsiccia locale affumicata e
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anche le così dette gallettes, praticamente delle crepes considerate le migliori sull’isola. Poi La Desirade, in piena campagna: cucina bretone intensa e succosa, tanto pesce fresco, spiedini di aragostine e un servizio davvero curato, vini squisiti e dolci favolosi; in più i prezzi sono ragionevolissimi, non a caso molti turisti vengono qui a cenare tutte le sere. Volendo si può anche passare qui la vacanza perché ci sono cinque casette rosa con le finestre blu attorno alla piscina. Ci sarebbero anche Le Marie Galante e la Creperie Cafe Coton, entrambe proponendo una cucina francese molto curata. Molto chic il caffè letterario Liber and Co aperto da una famiglia di parigini appassionata di letteratura: si mangia bene e si partecipa agli incontri con gli autori. Le Palais, il capoluogo, una volta era un deposito della Compagnia delle Indie: fra gli qui sbarcò Jacques Prevert (per via delle battute di pesca) e anche Claude Monet, Flaubert e Sarah Bernhardt.
Maalifushi Thaa, Maldive
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uando leggiamo i comunicati stampa rimaniamo a dir poco interdetti. Oltre alla banalità delle frasi ci colpisce come tengono a mettere in evidenza aspetti che, onestamente, contano meno di zero. Da qualche anno va d moda sbandierare frasi legate all’attenzione dei proprietari dei resort verso l’eco sistema, l’energia pulita prodotta sul posto e altre. Si da il fatto che un albergo, una spiaggia, un ristorante debbano prima di tutto emozionare, offrire le migliori condizioni, una vista mozzafiato e via di questo passo. Che poi l’energia sia ottenuta in un modo oppure un altro non sarà certo argomento di esaltazione dalla par-
te dell’ospite, il quale vuole semplicemente godersi una vacanza indimenticabile. Guardate le immagini del resort della catena Como: vorreste essere subito lì o prima di prenotare vi preme chiedere lumi sull’ecosostenibilità? Sarà pure importante per alcuni, ma sui grandi numeri dubitiamo che più del uno per cento si interessi a dettagli del genere. Maalifushi, 220 chilometri da Mahé, sull’atollo Thaa, fa sognare, punto. Il resto sono discorsi tiepidi e senza senso. 35 ville vista mare, la gran parte con piscina privata, altre trenta verso l’interno dell’isola: tutte spaziosissime (oltre 100 metri quadri) arredate in maniera a dir poco
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lussuosa. Si mangia davvero benissimo al giapponese Tai, sushi e sashimi di alto livello (lo chef Tadashe davvero bravo), così come negli altri ristoranti dove si eccelle nei piatti di pesce, fresco ovviamente. La palestra è di ottimo livello, il wi-fi gratuito e velocissimo per i standard maldiviani, il centro immersioni straordinario, in più gli amanti della fauna avranno una sorpresa nel trovare Francesco, biologo appassionato a tal punto dal volervi raccontare qualsiasi dettaglio. Basta immergere il viso nell’acqua per vedere pesci ovunque, poi snorkeling, kayak, scuba diving, tutto compreso nel prezzo. Probabilmente uno dei migliori resort maldiviani. Con o senza comunicato stampa annesso.
Agadir, Marocco Sole,golf,chic
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l nuovo numero uno del turismo marocchino, Abderafie Zouiten, sostiene che nell’arco di due anni il numero dei golfisti che passeranno le vacanze ad Agadir si triplicherà: non ci sono motivi per non credergli, conoscendo le potenzialità della città affacciata sull’oceano. Una spiaggia come poche altre al mondo, larghissima e lunga per dei chilometri, alberghi cinque stelle uno dietro l’altro, quattro campi da golf, ristoranti chic, lounge bar, un lungo mare infinito e una marina che si è trasformata nel quartiere più in, ambito e trendy. Si aggiunge la miriade di cantieri di ville private super lusso e di interi complessi residenziali che aumentano l’appeal della città, nonostante il lacunoso collegamento con il resto del mondo. Difatti dall’Italia ci si arriva solo con Royal Air Maroc, compagna di bandiera che mantiene dei prezzi altissimi. L’alternativa è un volo fino a Marrakech e poi due ore di autostrada, che poi sarebbe la miglior soluzione anche per via delle ore risparmiate. A far due conti ne vale la pena sia dal punto di vista economico che pratico. Gli italiani una volta arrivavano in massa ad Agadir, grazie soprattutto a Valtur: era l’unica possibilità di andare direttamente salendo sui charter del tour operator, in tre ore e mezzo eri sulla spiaggia, ora invece perdi quasi una giornata intera fra spostamenti e attese. Peccato: speriamo che il nuovo corso del ministero del turismo porterà ad una inversione di tendenza, ad un ritorno al passato, con gli italiani che affollavano la costa. E’ un peccato anche perché negli ultimi anni Agadir è diventata una meta a cinque stelle, con le catene alberghiere che fanno la gara a chi apre prima. Riu, Sofitel,
Iberostar hanno addirittura più di una struttura sul lungo mare e altre sono in procinto di essere ultimate. Nel quartiere residenziale hai la sensazione di trovarti a Santa Barbara: strade large, palme, silenzio, case curate a due livelli. Solitamente la città viene preso d’assalto nei mesi invernali: golfisti e gente della terza età passa gran parte del tempo al caldo, qui oppure a Tenerife, niente di nuovo. D’estate invece il turismo si trasforma, l’età si abbassa in maniera considerevole e la notte pare non finire mai: Club Med diventa una discoteca continua, lo era anche Valtur, i club sulla spiaggia profumano di atmosfera brasilera. Non è una esagerazione: è più larga di Copacabana e il fascino delle donne locali non è certo meno elettrizzante rispetto alle bellezze carioca. Dovessimo scegliere una meta fra le tante opteremmo per il nuovo Sofitel, aperto tre anni addietro: molto minimal, molto milanese, chic e austero, elegantissimo, stanze notevoli, un cinque stelle autentico, con standard europei elevatissimi, in più la spiaggia è proprio lì, davanti alla tua stanza. Il momento più bello e intenso è sicuramente la colazione: il mare davanti, il cielo limpido, la giornata che si annuncia favolosa, la qualità delle pietanze. L’ultima volta ci siamo stati a marzo, nell’occasione del torneo Hassan II, ormai tappa fissa del Tour Europeo di golf, sia maschile che femminile. L’organizzazione è perfetta, la gente ha una voglia di dimostrarsi all’altezza a dir poco commovente, ti seguono e ti fanno sentire davvero importante e desiderato. I due campi che ospitano le manifestazioni sono tirati a lucido, uno di loro viene aperto esclusivamente per l’occasione, per il resto dell’anno rimane chiuso. Il motivo è semplice:
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appartiene al te, è il suo campo privato. Qui giocano gli uomini, invece il Ladies European e la Coppa Meriem si svolgono all’Ocean, l’ultimo costruito ad Agadir. Per la cronaca, nel torneo dedicato agli uomini ha vinto lo spagnolo Alejandro Canizares, mentre nella gara delle donne si è imposta l’inglese Charley Hull. Tornando ai campi. Prima venivano presi d’assalto solo Les Dunes e Le Soleil, ora ce ne sono altri due, il piano di sviluppo ne prevede altri. Non c’è nulla da eccepire, Agadir è una destinazione fantastica a tutti gli effetti, lo dimostrano i numeri, che la premiano. I tedeschi ed i francesi la prendono d’assalto, seguono i belgi ed i britannici. La ristorazione sta migliorando, raggiungendo livelli apprezzabilissimi. In tanti amano cenare nella zona della marina, a Pure Passion, da molti considerato all’altezza delle migliori brasserie parigine, oppure a Le Quai, vista porto e arredi contemporanei (chi viene a mangiare presto si può gustare anche il tramonto). Nel centro turistico, a due passi dal Club Med, troverete Le Petit Dome. Cucina raffinata a Little Norway, di fronte all’ex Valtur: pare un ristorante milanese per arredi e modi sobri. Carpacci di pesce, carni di qualità e vini spagnoli: non vi deluderà. Chi non può resistere senza la pizza può andare da Mezzo Mezzo, dove propongono perfino il calzone, fatto alquanto insolito da queste parti. Buon livello, perfino per i più esigenti. La carne e la cucina francese protagoniste al Le Tapis Rouge, mentre la sorpresa più grande ce l’avrete al Quartier d’etè, leggermente fuori zona turistica, di fronte al Paradis Plage. I dolci sono meravigliosi e soprattutto le donne rimangono incantate dal carisma del patron Christian.
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Bugatti Veyron Gran Sport Vitesse
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emplicemente l’auto di serie più veloce, potente e costosa mai costruita. Raggiunge i 408,47 chilometri, ha 1001 cavalli, 16 cilindri e 4 turbocompressori e per un milione e spicci di euro è vostra. Il progetto della Veyron iniziò nel 1999 con Giorgetto Giugiaro, poi la versione definitiva fu disegnato da Hartmut Warkuss. I test hanno rivelato dei problemi non indifferenti: la stabilità era troppo bassa per le alte velocità, tanto che un prototipo si incendiò per via del surriscaldamento del motore e un’altra andò fuori controllo durante una dimostrazione al Mazda Raceway di Laguna Seca. La particolare struttura a w del motore è la causa della gran parte dei problemi perché rende difficile il raffreddamento, poi l’elevata potenza della vettura causava una prematura usura dei pneumatici. Lo raccontiamo perché oltre ai dettagli prettamente tecnici i ritardi hanno causato dei grossi problemi con i clienti, i quali avevano versato un anticipo di 300.000 pur di essere fra i primi ad averla. Dopo due anni di attesa sono riusciti ad entrare nel possesso dell’automobile, sborsando complessivamente un milione tondo tondo (poi il prezzo aumentò del dieci per cento). La velocità massima promessa era di 406 km/h, ma i prototipi a quella velocità si rivelarono instabili: fu necessario ridisegnare il modello per migliorare l’aerodinamica. Nell’ottobre 2005 la versione finale della Veyron, guidata da James May, raggiunse i 407,52 km/h sul lungo rettilineo (9 km) del circuito tedesco di Ehra-Lessien, di proprietà della Volkswagen Da notare che per tutti gli interventi di manutenzione, inoltre, è necessario portare l’auto allo stabilimento di produzione. Il nome Veyron viene dal pilota che vinse la 24 Ore di Le Mans nel 1939 correndo proprio con una Bugatti. Viene costruita a Molsheim, in Alsazia, dove aveva sede l’azienda fondata da Ettore Bugatti. E’ qui che l’imprenditore italiano ideò i primi modelli e anche la mastodontica Bugatti Royale, conosciuta anche come Gold perché parte delle componenti erano in oro. Doveva essere la concorrente di Rolls Royce, invece ebbe poco successo: solo tre auto vendute su sei prodotte. In pratica l’italiano ha cessato di essere il patron della casa automobilistica nella seconda guerra mondiale, quando i tedeschi praticamente sequestrarono l’azienda per metterla a disposizione dell’esercito: fu costretto a venderla per 150 milioni di franchi, metà del suo valore. L’ultima variante della serie Legend basata sulla Veyron 16.4 Grand Sport Vitesse si chiama ‘Ettore Bugatti’. Fa parte di una serie limitata di soli 3 esemplari per ogni versione, arrivando dopo la Jean-Pierre Wimille, la Jean Bugatti, la Meo Costantini, la Rembrandt Bugatti e la Black Bess. Le prestazioni sono da record: accelerazione 0-100 km/h in 2,6 i e velocità massima di 408,84 km/h, i valore più elevato mai raggiunto con una roadster di produzione. Da record anche il prezzo, visto che per uno dei tre esemplari della Bugatti Legend Ettore Bugatti - per quanto caratterizzata da verniciatura speciale e finiture a mano, compreso il celebre ‘elefante danzante’ rivestito in platino - occorre sborsare la rispettabile cifra di 2,35 milioni di euro. La Bugatti oggi di proprietà della Volkswagen: lo hanno acquistata a fine dell’anno scorso per una somma vicina al miliardo e settecento milioni di euro.
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Gavin Bond Sex and glam
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n mix sofisticato di sex e immaginazione, glamour e humor. Così lo definisce il suo agente, Walter Schupfer. Certo, può sembrare alquanto riduttivo però rende l’idea. Gavin Bond è ovviamente molto di più, è un nome di prim ordine nel mondo hollywoodiano e dintorni: vanta una serie infinita, invidiabile di celebrities che hanno posato per lui, in maniera privata oppure per delle campagne varie. La lista dei personaggi che hanno desiderato farsi im-
mortalare da lui è lunghissima: Jessica Alba (una delle sue attrici preferite, non a caso l’ha fotografata innumerevoli volte), Jennifer Aniston, George Clooney, Eva Mendes, Rihanna, Sasha Baron Cohen, gli U2 e gli ACDC. L’elenco dei clienti è altrettanto impressionante: Sony Music, HBO, Universal, NBC, Fox, Showtime, ITV. Lo vogliono in tanti perché ha un talento innato di spiazzarti, di stupirti, in più sa metterti a tuo agio, riesce a creare quell’intimità necessaria per realizzare dei
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scatti da antologia. Ha studiato alla St.Martin’s School of Art di Londra per poi iniziare a fotografare i backstage delle sfilate, riuscendo così a crearsi dei rapporti stretti con i vari personaggi del mondo modaiolo. A distanza di anni il dietro le quinte rimane uno dei suoi piaceri preferiti: difatti non si perde una sfilata di Victoria’s Secrets ed altri eventi di prim ordine come i Golden Globs. Ora vive a New York con in mezzo delle visite flash a Los Angeles e Londra.
Toy Watch Chic. Molto chic
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iesce a stupire sempre, Toy Watch. Ad ogni collezione propone dei modelli intriganti, chic, eleganti, giocosi, piccole sfiziosità che vien la voglia di acquistarle all’istante. Prendiamo per esempio le forme classiche reinterpretate per la collezione Maya Chrono: tre versioni per lui (oro giallo, oro rosa e IP black) e due per lei, impreziosite da elementi Swarovski. Il movimento svizzero è al quarzo, la cassa in acciaio è di 42 cm, mentre il fondello avvitato e la corona a vite permettono una resistenza all’acqua fino a 10 atmosfere. Materiali preziosi anche per la collezione femminile Maya Natural Stones,taglio evergreen ma carattere de-
ciso: cinque proposte che si distinguono per il sofisticato quadrante in pietre naturali. Ogni variante riporta inciso sul fondello il nome della pietra preziosa e la proprietà ad essa attribuita: il diaspro rosso (“balance”) conferisce un senso di tranquillità e di completezza a chi lo indossa, la malachite (“protection”) fin dai tempi antichi è considerata un potente protettore, mentre il lapislazzuli (“wisdom”) promuove la saggezza stimolando l’intuizione e la concentrazione. Le varianti “mother of pearl” svelano infine la lucentezza della madreperla rendendo Maya Natural Stones un accessorio unico nel suo genere. Monnalisa è invece la nuova icona di design della mai-
The Gigi
Giacche con anima
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l tempo corre, forse troppo. Non c’è più tempo per gustarsi lentamente e lungamente le bellezze che ci circondano. Era la fine dell’anno scorso, pare incredibile. Mario e Pierluigi Boglioli avevano inviato un comunicato che suonava così: “Cari Amici. Il nuovo è nell’aria, ma per leggerlo bisogna saper cogliere l’essenza delle cose in modo quasi istintivo. Noi abbiamo la curiosità, la passione, l’attenzione, la voglia di cercare per il gusto di cercare, senza mai innamorarci delle cose. Noi abbiamo sempre ritenuto che il nostro compito fosse quello di elevarci dal conformismo dilagante e di pensare oltre.
Noi non facciamo solo giacche, non è interessante. Ciò che è eccitante è cercare di dare loro anche un’anima e fare in modo che esprimano un concetto di libertà e di stile. Il desiderio di presentare il nostro punto di vista ci ha spinti ad intraprendere un nuovo percorso che prevede la creazione di una collezione dove il lavoro di ricerca è stato impostato sulla base della nostra filosofia, libero dalle imitazioni che talvolta vengono imposte dal mercato”. Eccoli: proprio come nella prima lettera di intenti: non hanno tradito, d’altronde non l’hanno mai fatto. E mai lo faranno.
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son: una speciale edizione limitata arricchita dal pavè di diamanti neri che fa risaltare il design grintoso. L’edizione limitata è numerata nel fondello e ha il cinturino in razza con chiusura deployante personalizzata con il logo del brand. Monnalisa è declinato in tre varianti, due con i numeri romani, in bianco con dettagli oro giallo e nero con dettagli oro rosa, e in una versione total black con i numeri arabi. Per la prima volta nell’orologeria la curvatura del quadrante si sviluppa nelle due direzioni, verticale ed orizzontale, creando un nuovo effetto avvolgente. Chic, trendy, raffinati, grintosi e preziosi: Toy Watch colpisce ancora.
David Bellemere Stile diafano
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’ uno dei fotografi più in voga del momento e non solo perché lavora spesso per Treats! Magazine, la rivista più cool degli ultimi anni (ne parliamo spesso, praticamente in ogni numero e quello che sfogliate non è essente da commenti). Ha uno stile molto definito, riconosci subito i suoi scatti e già questo lo fa diventare un grande. Uno stile diafano, scatti dolci, leggeri, sensuali, sempre fanciulle in erba che si godono la purezza della loro esistenza: “au naturel”, come amano dire
in Francia. Giovani ninfe quasi sempre immerse nel bel mezzo della natura, nel lago oppure che sbucano dagli alberi di un bosco, sulla spiaggia: sempre nude, sempre scattate di giorno. Fa il fotografo praticamente da sempre. Ha studiato all’Accademia delle belle arti, il che spiega la sua visione del mondo, i suoi scatti. Molto timido, quasi pudico, è riuscito a far innamorare gli editori del mondo intero, non a caso questo mese ha firmato la copertina di Vogue
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Thailandia (in media ogni tre numeri lo puoi vedere protagonista dell’edizione asiatica), dove fra l’altro ha vissuto per due anni prima di ristabilirsi con la famiglia a Parigi. Pochi mesi addietro ha realizzato le cover di Marie Claire Italia e Vogue Turchia: potremmo continuare all’infinito e riempire lo spazio mettendo in fila le riviste per le quali ha lavorato. Barbara Palvin, una che non vedrete mai completamente nuda, per lui si è spinta oltre ogni limite: uno degli scatti lo abbiamo pubblicato sotto.
Woman we love Giada Ghittino
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Foto: Adolfo Valente
eggevo qualche giorno addietro che la rivista Time ha dedicato dieci copertine a Marylin Monroe. Poche, molte, tante, troppe, chi lo sa e poi ricordiamo che stiamo parlando di Marylin. In più, immagino che ogni uscita con lei sulla cover registrasse un record, vendendo molto più degli altri numeri. Probabilmente ognuno di noi editori ha la sua Marylin: io non sono essente e nemmeno voglio esserlo. Aggiungo, sbilanciandomi: è una fortuna averla. Non é un segreto chi è e come si chiama: ha molto in comune con l’attrice e l’icona americana, di sicuro entrambe sprigionano mistero e una bellezza folle. Sono irraggiungibili, se le conosci non puoi e non vuoi dimenticarle. Qualche giorno dopo, altra polaroid da ricordare e raccontare. Avete presente il film Sognando l’Africa? Si, proprio quello, con Kim Basinger. Ecco, lo guardavo oziando pigramente quando ho avuto una rivelazione: ci sono degli scatti di Adolfo Valente dove lei è identica. Letteralmente identica a Kim. Inconsapevolmente, decisamente in maniera inconsapevole, ha lo sguardo dell’attrice americana: non sappiamo cosa aggiungere, perché di lei abbiamo detto, raccontato e scritto tutto, superando forse il livello di guardia. Chi ha sfogliato il numero dedicato al Pitti sa di cosa stiamo parlando, chi invece non ha avuto fra le mani l’uscita con il servizio su Adolfo eccolo accontentato. Kim Basinger oppure no, Marylin oppure no, confesso di essere ammaliato oltre ogni immaginazione dalla sua bellezza. Le ho dedicato due copertine, pagine su pagine con titoli tanto mirabolanti quanto veri: spesso mi è parso di cadere nel banale raccontandola come unica. Per qualcuno sa di “sdolcineria cheap”, di frasi trite a buon mercato, di titoli dozzinali, letti e riletti, però l’idea di base rimane: nessuna come lei. Poi ho letto l’articolo di Alex Bilmes su Kate Moss, di cui potete scorrere ampi stralci nelle pagine di questo numero: il più bell’articolo che abbia mai letto su una donna. Avrei voluto essere stato io a scriverlo. Non su Kate, ma sulla ragazza che ammirate qui. Felina. Languida. Angelica. Seducente. Rara e squisita. Glam e terrena. Cool con stile. Forte e vulnerabile. Per come ti guarda, per l’effetto che ha su di te. Mai uguale a se stessa. Fermatemi, senno mi dilungo all’infinito.
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Adolfo Valente Pura Magia
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dolfo Valente, parte seconda. O terza, considerando la pagina accanto, con Giada Ghittino. Ce ne sarà anche una quarta, una quinta e via discorrendo. Il motivo? Basta guardare le sue foto, sanno di tenerezza ed eleganza, di sogno impossibile. Ne riceviamo, di fotografie: decine al dì. Fotografi che si propongono, che sono gentili e tutto ma che hanno un linguaggio professionale strillante, non affine a GOOD LIFE. Donne molto belle, ci mancherebbe, scatti perfetti tecnicamente, pose sexy. Ma non fanno sognare e per noi, ci scusiamo per la ripetizione, il sogno è tutto. Lo abbiamo scritto nell’editoriale, una rivista rispecchia il modo di essere, di vivere dell’editore. Noi di scatti hard ne vediamo troppi, ovunque. Il mondo è inflazionato a tal punto da portare quasi al fallimento prodotti che hanno fatto la storia del giornalismo, per-
fino Playboy è in difficoltà. Forse il mondo è cambiato, anzi decisamente. L’aspetto strano è vedere dei giovani fotografi a insistere con uno stile urlato, volgare. Negli Stati Uniti Steve Shaw ha cambiato la rotta dell’intera industria di settore, portando una bellezza diafana, cool, delicata, ma allo stesso tempo sensuale da far tremare i polsi. Non è un caso che Adolfo sia l’unico italiano ad aver pubblicato su Treats! Magazine. Le foto le abbiamo pubblicate, ricordate? Rosanera Adams, stupende. Ora ecco Daiana e Valentina, così diverse fra di loro, così speciali se fotografate da Adolfo. In breve, il riassunto delle due sedute, ovviamente by Mister Valente: “Daiana: Ci sono modelle che hanno un’attitudine particolare nel posare. Che sono, in una parola, speciali. Sono quelle che non hanno bisogno di atteggiarsi, non devono sforzarsi per assumere determinate pose.
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Basta che ti guardino in macchina, così, semplicemente, per quello che sono e come sono, e capisci subito che ti stanno bucando l’obiettivo, che la fotografia ce l’hai, che non ti stanno offrendo solo la loro bellezza – a volte asettica o, peggio, artificiosa – ma stanno dando molto di più: comunicano. Ti parlano. Credo sia una cosa innata. Ecco, Daiana è così. Quando vidi alcune sue fotografie pensai immediatamente che mi sarebbe piaciuto lavorare con lei. Devo dire che lei è stata sin da subito molto gentile: le chances di realizzare un set assieme non erano molte: non abitavamo molto vicino, lei era impegnatissima con gli studi e non appena li avesse terminati sarebbe dovuta partire per Londra. Mi promise che mi avrebbe contattato nel pochissimo lasso di tempo disponibile tra l’ultimo esame e la sua partenza. Non ci feci troppo affidamento: non per mancanza di fiducia, ma perché so bene come vanno queste cose e come gli impegni troppo spesso
ci renda difficile mantenere le promesse, pur contro la nostra volontà (da questo punto di vista io ho perso il conto della quantità di situazioni che dovrei farmi perdonare!). Invece fu di parola: credo che mi contattò addirittura il giorno dopo il termine degli esami e mi diede la sua disponibilità immediata, nonostante, appunto l’imminente partenza. Gliene sono ancora molto grato. A parte la sua bravura come modella, ho anche scoperto che è una persona deliziosa, adorabile. Cosa si può chiedere di più? Abbiamo fotografato in luce naturale, come faccio di solito, sfruttando un paio di raggi del sole di giugno che entravano in una stanza. È uno dei set a cui sono più affezionato e spero solo che un giorno o l’altro, da qualche parte, mi conceda l’occasione di una replica. Poi, Valentina, partecipante alla finalissima di Miss Italia, ex ragazza Donnaventura e indossatrice di calzature per Louis Vuitton:difficile definirla senza spendersi in aggettivi talmente positivi da rischiare di risultare stucchevoli. La prima parola che mi viene in mente è “vulcanica”. Un po’ scontata, magari, ma è la verità. Valentina è tremenda: un concentrato di simpatia, energia, vitalità. Un viso d’angelo che incanta misto ad un’espressione di simpaticissima impertinenza che non può non conquistare qualsiasi fotografo. Con lei sul set è impossibile non ridere, non scambiare battute, tanta è la sua verve. Non sta mai ferma (si fa per dire, perché poi, sul set è bravissima ed ascolta assolutamente tutto quello che le dice il fotografo) ed ha la straordinaria capacità di passare in un attimo da espressioni dolcissime ad altre più determinate, sensuali, maliziose. Un pomeriggio a fare fotografie con lei non può che risultare fantastico”. Come fantastico deve essere stato pure per loro, lavorare con Adolfo.
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Ernie Els
Il vino di Big Easy
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’ l’unico golfista che puoi trovare sulle riviste di cucina, vini, alberghi e affini. Ovviamente è anche un giocatore di prim ordine, vantando major e successi un po’ ovunque. Su Wine Spectator non manca quasi mai. Sarà perché il publisher della rivista, Marvin Shanken, è un suo amico, ammiratore e soprattutto presidente dell’associazione benefica Els for Autism (ne parleremo più avanti). Ma il motivo principale è il vino prodotto da Ernie a Stellenbosch, nella sua Sud Africa: un ottimo Cabernet Sauvignon e un altrettanto squisito Merlot. La zona è spettacolare, con le montagne Helderberg sullo sfondo: però, assicurano gli esperti, ancor più spettacolare il suo Signature (il più premiato rimane il Cabernet Sauvignon 2007). Su Cigar Aficionado la storia si ripete: stesso publisher, Marvin: qui lo spazio dedicato all’associazione è maggiore, anche perché l’evento che si svolge ogni anno a Palm Beach Gardens, in Florida, lo gestiscono loro in quanto partner media nonché giocatori amateur. Poi ovvio, c’è la stampa golfistica che racconta i suoi
successi e anche i periodi bui: fra alti e bassi, Ernie è sulla breccia da vent’anni. E’ ovunque, piace a tutti per quel modo pacato e gentile, per il sorriso e per il suo gioco (spesso) superlativo. Dal 2002 lo guardano con ancora più simpatia per via di suo figlio, Ben. Ad un anno dalla nascita, Ernie e sua moglie Lizl si sono accorti che qualcosa non quadrava: senza andare lunghi con la storia, scoprirono che è autistico. Fu uno choc, nessuno ti prepara a situazioni del genere. Da quel momento hanno capito che piangersi addosso porta a nulla, cercare di capire il perché ancor meno. Contava solo guardare avanti e provare di fare qualcosa di concreto: nasce così il loro progetto, sostenuto dall’intero mondo del golf, che partecipa in massa alla gara benefica. Alla prima hanno raccolto 750.000 dollari ed è andata sempre meglio, dalla seconda in poi. Lo scopo è la continua ricerca e l’apertura di una centro per bambini autistici a Palm Beach: ci vogliono trenta milioni per mettere insieme terapisti, macchinari, insegnanti, libri e altro. La gara si gioca a marzo, in Florida, dove la gran parte dei partecipanti sono dei dilettanti
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molto ben messi dal punto di vista delle fortune personali. In più c’è un torneo, Els for Autism Golf Challenge, che ormai comprende più di 30 gare in giro per gli Stati Uniti, Canada e Gran Bretagna, con finale a Las Vegas. Insomma, un successone. Johann Rupert, presidente del gruppo Richemont, è un suo grande amico nonche sostenitore della causa. Gli è sempre stato accanto, soprattutto nei momenti bui. Perché, golfisticamente e umanamente, ne ha avuti di periodi negativi. Il piccolo Ben, poi gli anni dove non riusciva a giocare come voleva e sapeva: l’anno 2011 il peggiore, idem la prima parte del 2012. Poi all’improvviso il grande colpo, la vittoria a Royal Lytham all’Open Championship, suo primo major dopo otto anni. Racconta, Rupert:”Ci conosciamo da sempre, è una persona molto leale. Mi ha fatto sorridere che dopo l’Open Ernie ha scoperto di avere un sacco di buoni amici, comparsi in maniera miracolosa appena Big Easy ha alzato il trofeo. Non se lo ricordava nemmeno lui, di essere circondato da compgnoni”. Capitolo vini. “Sento dentro di me che in futuro pas-
serò sempre più tempo in mezzo ai vitigni, che vivrò appieno il mondo dei miei Cabernet. Quando arriverò a 50 anni non penso che parteciperò a tutti i tornei del Senior Tour, mi dedicherò alle mie produzioni. Oggi non sono abbastanza presente, non vado quanto vorrei a casa mia, in Sud Africa: viviamo negli States, per fortuna ho un winemaker straordinario, Louis Strydom, è assieme a me dalla prima vendemmia, nel 1999. Stiamo andando forte, siamo già profittevoli, a breve seguirò la politica di Greg Norman, anche lui produttore di vino, lo vende tramite i canali della grande distribuzione. Poi stiamo sviluppando i così detti Els Club, il concept è piaciuto molto a Dubai, dove abbiamo aperto il primo. In seguito ci siamo ripetuti in Sud Africa, dove stiamo per ultimare i lavori. Prossima tappa Malesia, così come per i ristoranti Big Easy, delle steak house dove si beve del buon vino, ti diverti e passi una splendida serata. Proviamo a inserirli anche in qualche albergo”. Tornando al golf, non ha senso riprendere la carriera di Els, è arciconosciuto il suo percorso. Solo qualche flash, per capire il valore del giocatore: intanto il soprannome Big Easy viene dalla stazza (1,90 per 95 chili) e dal
modo di colpire la palla, così come il modo di vivere e di prendere la vita. Ha vinto 19 tornei nella Pga americana, ma la sensazione è che avrebbe potuto e dovuto conquistarne di più se non fosse che nello stesso periodo brillava a mille la stella di Tiger Woods. Nel 2000, finendo secondo all’Us Open e all’Open Championship, entrambe le volte dietro Tiger, ammise senza alcun problema: “Anche se avessi giocato il mio miglior golf non sarei riuscito a batterlo”. E’ comunque riuscito a imporsi in quattro major: per due volte volte all’Us Open (Oakmont, 1994 al playoff contro Loren Roberts e Colin Montgomeriet e nel 1997 a Bethesta, nel Maryland, sempre davanti a Montgomerie) e per due all’Open Championship (2002 a Muirfield dopo il playoff con Stuart Appleby, Steve Elkington e Thomas Levet e 2012 grazie al gentile omaggio di Adam Scott, semplicemente collassato nelle ultime quattro buche ). L’ultimo successo sa di impresa, nessuno credeva potesse capitare, soprattutto dopo le ultime stagioni. Il gioco corto una tragedia, i risultati anche, tanto da vedersi escluso per la prima volta in vent’anni dal Masters: una botta mica da poco, guardare il major di Augusta in tv. Il suo discorso alla fine del torneo fu commovente: “L’aspetto peggiore è guardarti attorno e vedere le facce imbarazzate dei tuoi fan. Li vedevo increduli, come se l’uomo davanti a loro fosse una ombra, l’ombra di
se stesso”. E’ dura, quando si arriva a tanto. Ernie lo ha ammesso senza imbarazzo alcuno, nello stesso fantastico discorso al Royal Lytham: “non riuscivo a puttare bene, io che per anni avevo vinto proprio grazie al gioco corto. Mi passavano davanti delle immagini choc del tipo io al tramonto che saluto tutti e abbandono il mondo del professionismo”. Brividi. La parte finale del discorso fu dedicata ai ringraziamen-
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ti: in primis, ovviamente la sua famiglia e non sembrava la solita retorica. Poi, la dottoressa Sherylle Calder. Nel suo ambiente, una sommità: esperta in visualization coaching, ti aiuta a mettere a fuoco l’oggetto del lavoro e di insistere. Pare sia un problema abbastanza esteso anche agli altri sport: l’occhio, dare l’importanza a quello che vede l’occhio. Poi crearsi una routine del lavoro. “in due anni tornerai a vincere un major”, gli disse. Dopo sette mesi alzò al cielo la Claret Jug.
Pubbliredazionale
Lugano, mon amour
14.000 metri quadri, un parco ricco di fiori e alberi secolari, giardini curati, il panorama lacustre, appartamenti senior living che vantano arredamenti di lusso e servizi degni di un albergo a cinque stelle, un ristorante gourmet meritevole di almeno una stella Michelin: benvenuti alla Residenza Parco Maraini.
Residenza Parco Maraini Lusso a Lugano
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a terza età può essere una fase della vita ricca di stimoli, di conoscenze e di esperienze a patto di viverla nel posto giusto e con le persone giuste. La Residenza Sanitaria Assistita Parco Maraini è il luogo ideale dove trascorrere molti anni sereni godendo di tutta la sicurezza e l’assistenza che può offrire un team di esperti specializzato nella relazione con gli anziani. I residenti troveranno nel personale altamente specializzato di Parco Maraini le risposte più chiare e precise; e sappiamo quanto sia importante essere informati su ciò che riguarda la propria salute, soprattutto quando si dipende da qualcun altro. Al Parco Maraini al rapporto confidenziale con i residenti si sposa la competenza professionale e il calore di un vero ambiente familiare. Il tutto nella meravigliosa cornice di un parco ricco di fiori e alberi secolari affacciato su uno dei più affascinanti panorami del lago di Lugano: una particolarità unica. La struttura di Parco Maraini è all’avanguardia: può offrire il comfort più completo e la più completa attenzione professionale a una clientela dalle esigenze più diversificate. I clienti non autosufficienti troveranno tutta l’assistenza di cui necessitano 24 ore su 24. Inoltre, negli appartamenti senior living i residenti autosufficienti potranno godere dei comfort di un grande albergo, con in più la sicurezza di una tutela discreta e non invasiva: ogni abitazione è infatti lussuosamente arredata e dispone di un luminoso soggiorno con cucina all’americana, di un ampio balcone vista lago, di tv, telefono e wifi. Inoltre, ogni ospite ha la possibilità di personalizzare il proprio ambiente con i mobili di sua proprietà. Secondo le precise intenzioni del management, diretto negli ultimi due anni dall’Amministratore Delegato Marco Marzorati, Parco Maraini è concepito perché nessuno si debba mai sentire in una struttura sanita-
ria, nonostante il livello dei servizi disponibili, come l’assistenza infermieristica continua, la fisioterapia, un nutrizionista che personalizzerà la dieta di ciascun residente e un articolato programma di animazione che intratterrà gli ospiti quotidianamente. - Proprio al Dott. Marzorati, esperto del settore, chiediamo come vede lo sviluppo dei senior living?
- Dipende dall’area geografica. In Italia ci sono strutture in grado di dare un buon servizio sanitario ma mancano certamente strutture in grado di offrire un servizio alberghiero a cinque stelle mentre vi è una domanda sempre crescente di questa tipologia di offerta. In particolare le cosiddette strutture di “Independent senior Living” esistono ma non in numero adeguato al soddisfacimento della domanda. Operando prevalentemente all’estero ho avuto modo di riscontrare che quest’ultima tipologia di servizio è presente nei principali paesi europei ed è in costante crescita.
- Cosa ne pensa del fenomeno degli expatriates pensionati europei di cui spesso si parla?
Marzo Marzorati
Lusso e confort in un parco secolare sul lago. Vivere a pieno la terza età alla Residenza Parco Maraini di Lugano.
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- Non è un fenomeno nuovo, tuttavia è un fenomeno destinato a crescere. In Italia, la nazione ove vi sono certamente maggiori vincoli di natura affettiva ad allontanarsi dai propri cari, l’Inps conta già più di 400.000 pensionati espatriati. Nei paesi anglosassoni il fenomeno è ovviamente di ben altre dimensioni. La tendenza è verso paesi caldi con un basso costo della vita. In quest’ambito il Marocco è diventata una delle mete più appetibili, non ultimo per il fatto che ha attuato una politica fiscale incentivante per i pensionati riservando loro una imposizione sui redditi da pensione estremamente bassa. - Come si posiziona la presenza di alta tecnologia in questo ambito? Vantaggi? Avete o state già usando al Parco Maraini di Lugano dei sistemi di monitoraggio particolari?
- Le innovazioni tecnologiche hanno portato numerosi vantaggi anche in questo settore. Esistono sempre più strumenti che permettono un costante monitoraggio della salute degli anziani, agendo in maniera non invasiva. Per esempio, sensori wireless posizionati all’interno delle camere o degli appartamenti che in caso di ca-
dute, malori o movimenti anomali provvedono a dare automaticamente l’allarme permettendo un rapido e tempestivo intervento da parte degli operatori sanitari. Non dimentichiamoci inoltre che la diffusione di massa di metodi di comunicazione digitale, ha generato dei risvolti molto importanti anche nell’ambito del senior
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living. Basti pensare alla possibilità, per chi decide di trasferirsi in strutture lontane dalle proprie residenze, di potersi mettere in comunicazione a bassissimi costi sia con i propri cari, sia con dei medici specializzati,attraverso per esempio l’utilizzo di Skype piuttosto che altre applicazioni Web.
Alessia Moro Rising star
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erito dei social, magia della rete. Facebook serve per scoprire delle bellezze che, altrimenti, sarebbe difficile conoscere. Alessia l’abbiamo notata subito, in uno scatto di Alberto Buzzanca, fra l’altro uno dei pochi scatti a colori del fotografo padovano: eccola, l’immagine. Guardatela, Alessia: sprigiona una tale energia, assieme ad un eleganza e delicatezza difficilmente rincontrabili altrove. Ha iniziato vincendo un concorso a casa sua, a Udine:
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una sfilata in abito da sposa e poi il boom, con richieste a raffica dai fotografi e dalle aziende. “Mi piace da morire Kate Moss”, ci racconta, “perché pur non essendo alta ha saputo vendersi, commercialmente, come nessuna. E poi Bar Refaeli, è di una bellezza tale da non stancarti mai”. Come darle torto. Gioca a calcetto e a biliardino, va pazza per gli abiti di Gianni Molaro, il cinema e per cucinare i dolci: in più è romantica, forse troppo. Ma senza sognare in grande non si va da nessuna parte.
Emily
Ratajkowski
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seno nudo. E in tanga. La prima apparizione pubblica di Emily ha avuto l’effetto di una scossa elettrica. Forse lo avete visto il video girato per la traccia del cantante Robin Thicke, Blurred Lines: un delirio, lo confermano i numeri, 206 milioni di visite online. Se il New York Times si è scomodato a intervistarla, potete immaginare che non stiamo esagerando. In tanti si sono chiesti quale sia stata la reazione della moglie di Robin, l’attrice Paula Patton: fu lui a chiamare in diretta ad una trasmissione tv e a calmare le acque, cercando di far passare tutto come normalità. Ecco, Emily è qualsiasi cosa tranne che la moscia normalità. Se ne sono accorti anche i lettori di Esquire, eleggendola la donna più bella dell’anno: il 64,6 per cento ha votato lei. Woman of the year, non male per una 22enne. Per la cronaca dietro di lei si sono piazzate Jennifer Lawrence e Kate Upton.
Giovane, giovanissima ma con le idee molto chiare: “Voglio diventare un brand”. Nata a Londra, vive a Los Angeles da quando i suoi, madre professoressa e padre pittore, si sono trasferiti 17 anni addietro. Il primo colpo lo realizza posando per la rivista Treats, magazine erotico che le ha dato la popolarità, tant’è che Robin Thicke la scopre proprio così, vedendola sulla copertina (vi consigliamo anche la rivista, favolosa, la potete sfogliare online all’indirizzo www.treatsmagazine.com). L’anno scorso, Emily ha scattato per l’edizione americana di GQ, regalando ai lettori un seno da sogno. La risposta è sì, tutto naturale. Una quarta naturale. Nelle ultime settimane pare abbia fatto breccia nel cuore di Karl Lagerfeld e di Carine Roitfeld: una nuova copertina, si sussurra, la starebbe aspettando. Il suo agente, Evan Hainey, che ha contribuito al lancio di Lindsay Lohan, sa di avere una “Ferrari” fra le mani, per questo
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ha aspettato la grande occasione, non voleva bruciarla in piccoli ruoli. Eccola, quindi, la chance da non perdere: chi non ha ancora avuto la fortuna di ammirarla nel video, nei cataloghi di moda oppure su GQ, potrà vederla al cinema. Difatti a breve uscirà il film di David Fincher, Gone Girl, dove la vedrete accanto a Ben Affleck, e vai a sapere se poi l’attore interverrà, pure lui come il cantante, in diretta in qualche trasmissione tv. Chiudiamo con l’ultima affermazione di Emily: “Non mi imbarazza posare nuda, però, al cinema vorrei essere ricordata come un personaggio dal carattere forte, in una storia d’amore intensa, piuttosto che apparire come la ragazza della porta accanto”. Tranquilla, nessun rischio, accanto non abbiamo ragazze del genere. Mai avute, purtroppo. A proposito: se la cercate su Twitter cercate EmRata, annovera quasi 200.000 follower.
Macao
Meglio di Las Vegas
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l futuro è qui, nella ex colonia portoghese, lungo la costa meridionale della Cina, nuova meta per giocatori d’azzardo e amanti di affari vari. Splende, splende magnificamente Macau con i suoi palazzi da fantascienza: come Las Vegas, molto più di Las Vegas, tanto da far diventare la città americana la versione in miniatura della metropoli asiatica. Oggi è una delle città più ricche del mondo, con ricavi che aumentano a dei ritmi fuori da ogni immaginazione: più 57 per cento rispetto all’anno prima, 3.09 miliardi di dollari spesi al mese, il doppio rispetto a Las Vegas. E pensare che sono dieci anni la situazione era agli antipodi, c’era il monopolio dei casino del magnate Stanley Ho, durato niente meno che una quarantina d’anni. La gran parte dei turisti arriva in motonave: da Hong Kong, dista soltanto sessanta chilometri: il traffico marittimo è incessante, ci sono navi da 1000 persone che partono ogni 20 minuti. Il motivo è uno soltanto, il gioco d’azzardo viene addirittura incoraggiato, mentre nella Cina, dove ci sono ancora i comunisti al potere, è proibito. Non a caso il 95 per cento dei giocatori sia asiatico: qui tutto è permesso, altrove un po’ meno. Già all’uscita dell’imbarcadero accade l’impensabile, orde di pullman, minivan con omini che sbraitano e strillano in tutte le lingue con lo scopo di portarti nel loro casinò. Ci sono perfino degli elicotteri che atterrano sul tetto dei grattacieli: cosa non si fa per portare clienti. Fare l’elenco dei più maestosi è impresa ardua: fioccano gli aggettivi per le costruzioni sontuose come il Sands, Casa Real, Pharaohs Palace, The Galaxy, Lisboa Hotel. Tanti altri apriranno a breve, aggiungendosi ai 33 già esistenti. Il primo in stile Las Vegas fu il Wynn, nel 2006: quattro anni dopo si è completamente rinnovato e ingrandito, organizzandosi per poter ospitare 1.008 stanze. Per il 2016 si aspetta l’inaugurazione del secondo albergo della catena: sarà probabilmente il più grande in assoluto. Ora il primato lo detiene il Venetian Macao, 540.000 metri quadri di spazio per i giochi, 500 tavole e 2.000 macchine, 3.000 suites con una superficie minima di 750 metri quadri, costato oltre due miliardi e mezzo. E’ così bello e imponente da essere preso d’assalto perfino dai non affezionati alle slot e black jack: pensate che ogni giorno, ripetiamo ogni giorno, viene visitato da 80.000 persone. E’ un ambiente che va bene per le famiglie, una specie di parco di divertimento perfino per i bambini. Chi invece preferisce giocare e basta farebbe meglio recarsi alla così detta City of Dreams, composta da tre alberghi: Grand Hyatt, Hard Rock e Crown Tower. L’ambiente è di gran classe, niente rumori, niente bambini a seguito. Lisboa Hotel vanta due primati: è stato il primo ad essere costruito, nel 1970, dall’allora monopolista Stanley Ho e in più vanta il riconoscimento del building più alto di Macao. Poi annovera dieci ristoranti di cui uno firmato Joel Robuchon, il Dome, al 43imo piano: volendo esagerare fino in fondo chiedete una stanza in alto, la vista della metropoli è a dir poco notevole. Per alloggiare in grande stile potete optare per il Banyan Tree, parte del Galaxy: c’è la spiaggia e perfino le onde finte, un capolavoro del tipo Dubai. Di pari livello il Westin Resort, a venti minuti dal centro, accanto al Macau Golf and Country Club, due passi dal Hac Sa Beach. In perfetto stile coloniale portoghese il Pousada de San Tiago, boutique hotel costruito all’interno di una fortezza del diciassettesimo secolo, una dozzina di suite con vista sul porto. Capitolo cena gourmet: a parte il Dome, di gran lunga il più rinomato, c’è da segnalare The Eight, cucina cantonese al secondo piano del Lisboa. Si mangia portoghese al Fernando ed Espaco Lisboa, mentre al Margaret’s Café e Nata troverete i dolci ed il caffè più buono in un’atmosfera romanticissima (non lontano dal casinò Gran Lisboa). Per la vita notturna c’è solo l’imbarazzo della scelta: dovendone scegliere una quinquina ecco 38 Lounge (al 38imo piano dell’Altira Hotel), Club Lotus, The Macallan Whisky Bar and Lounge (legni scuri, sofa con pelle di Chesterfield), The Cubic Club e Playboy Club Macau, quest’ultimo all’interno del Venetian. Per gli amanti delle follie ci sarebbe il bungee jumping al Macau Tower. La gran parte dei casinò punta soprattutto sulle slot machine e sui baccarat: anche se Macau possiede la propria moneta, la pataca, nei casinò si usano i dollari del Hong Kong. L’aspetto interessante sta nel apprendere che ultimamente si investe di più nei servizi che nel gioco: l’amministratore delegato di Isle of Capri Casinos Virginia McDowell, per esempio, ha dichiarato che preferisce spendere 200.000 dollari nella ristrutturazione di un ristorante piuttosto che nell’acquisto di 10 nuove slot machine, perché molta gente preferirà andare al ristorante. Il centro di Macau, stradine strette e architettura coloniale, è una penisola collegata alle due isole di Taipa e Coloane da ponti che ricordano Miami. Si mangia discretamente, la cucina è un misto fra quella cantonese e la portoghese, non a caso tutti consigliano il baccalà. Vedo persino elicotteri atterrare sul tetto dei grandi casinò-grattacieli: immagino si tratti dei giocatori VIP, anch’essi provenienti da Hong Kong.
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Club Sandwich Delizia gourmet
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’ un piatto che lo si trova soprattutto nei grandi alberghi, ma non solo. Certo, i cinque stelle non possono farne a meno, ormai il club sandwich è quasi un obbligo, un esigenza primaria, vuoi per la clientela internazionale, gli americani in primis, vuoi perché lo si può servire subito, a tutte le ore, quando magari la cucina è chiusa. E poi va in aiuto agli indecisi, vederlo sul menù è un sollievo. Al Park Hyatt, in pieno centro, stanno addirittura “esagerando”, proponendone quattro tipi diversi. Il classico club sandwich è arciconosciuto e apprezzato in tutto il mondo, non a caso ha vinto per due volte la classifica del migliore in assoluto (per Monocle e Wallpaper, la prima volta nel 2008, l’altra nel 2012). Poi lo chef Andrea Aprea, una stella Michelin con il suo “Vun”, si è sbizzarrito per cinque lunghi mesi prima di offrire alla clientela (dell’albergo e non) i squisiti club sandwich vegetariani (pane al pomodoro, pesto di basilico, provola affumicata, zucchine e melanzane marinate e grigliate), al roastbeef (pane ai cereali, insalata romana, senape e ovviamente il roastbeef), oppure al salmone (pane nero di seppia, ricotta, avocado, salmone e uova di salmone). I costi vanno dai 29 euro al 34, però ne vale la pena, anche per le patate speziate ed i chips, servite in base al club scelto. “Abbiamo pensato a tutti”, racconta Andrea: “agli amanti della carne, del pesce e anche ai vegetariani. Per qualsiasi dei quattro tipi consiglio di abbinare il pasto ad
una birra artigianale, specialmente Isaac Le Baladin per il classico e A.F.O, una birra ad alta fermentazione, per quello al roastbeef ”. Ilaria Bucci, responsabile marketing nonché grande gourmise, aggiunge: “Al bar deliziamo i nostri ospiti con dei cocktail favolosi, delle rivisitazioni dei classici, vedi il Bloody Mary con la grappa, che da noi si chiama Franck Costello. Ecco, con il club sandwich vanno in maniera divina”. Piccola nota: era da 30 anni che il ristorante di un albergo non veniva insignito di una stella Michelin, Andrea, napoletano trapiantato a Milano, ci è riuscito in sette mesi. Complimenti. Idem per Terrazza Baglioni, il lounge bar del Carlton, in Via Senato: 25 euro per il “classico” e anche per la variante light, con pane nero e zucchine grigliate. Da gustarlo magari fuori, all’aperto, nel piccolo giardino, un vero bijou, dove gli amanti dei sigari possono godersi indisturbati un robusto. Al Principe di Savoia lo chef Federico Medei stupisce con la ricetta del club sandwich vegetariano (frittata al basilico, zucchine e melanzane grigliate, pomodori ramati, insalata iceberg, basilico, maionese) servito con chips miste alla paprika, violette e bianche. Ovviamente il classico (30 euro) non è da meno: pane morato (differente per ogni strato, al pomodoro, agli spinaci e bianco), pomodori ramati, insalata iceberg, pollo jaune arrostito, uova bianche fritte, maionese. La chef Sommelier Alessandra Veronesi propone in abbinamento un Franciacorta Rosè Brut Millesimato
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2007 - Le Marchesine: “ha un sapore complesso, fine ed asciutto, secco, caratteristiche che “sgrassano” e puliscono bene il palato dalla piacevole untuosità del club Sandwich”. Applausi anche per la ricetta di Alessio Truddaiu del Bistrot Les Gitanes: “tre fette di pane di grano duro farcite con un impasto di pollo grigliato, maionese, senape, lattuga, pomodoro tagliato sottilissimo, poi su una delle fette il bacon croccante, sull’altra uova sode, poi si chiude tutto con la terza fetta”. “Al Bistrot vendo tanti tipi di bollicine, dei piccoli produttori francesi, ideali per gustare assieme al club sandwich di Alessio”, racconta Valentina Vignali. “Il migliore? Rosé di Champagne De La Renaissance”. Ne prendiamo nota. Una vera Disneyland del gusto alla California Bakery di Via Premuda 44, posto molto chic, un po’ parigino, un po’ londinese, tipo quartieri alti, non a caso Simona Ventura e Belen sono delle clienti fisse e con loro tanti altri avvocati, modelle e architetti: club sandwich con pane fatto in casa, poi sta al cliente scegliere fra quello nero, cinque cereali oppure alla prugna, squisitezza assoluta. Sia il Big Club sia il California costano 12.50, quest’ultimo con il prosciutto al posto del pollo e con foglie di spinaci freschi. Diana Sela ve lo consiglia con il thé, magari un Jasmin Mandarin, oppure con un centrifugato di frutta fresca. Target trasversale, atmosfera informale ed elegante, il club sandwich di altissimo livello: strepitoso.