GOOD LIFE

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Good

Andrea

BERTON Fra Como e New York

Foto: Fabio Bozzani


PERÙ

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Editoriale Life is now

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anto siete innamorati, da uno a dieci? Se u la risposta è cento, se vivete ossessionati da un instancabile appetito di sensazioni, allora questo numero fa per voi. Perché vi sussurra dove portarla a cena in unposto vacanziero, colorato e frizzante, romantico e dove, ovviamente, si mangia divinamente. Basta la breve introduzione per far proiettare, vivere, sentire, scatenare e far scattare un esplosione di ricordi, sguardi, parole ed emozioni miste alle frasi diventate cult con il passare del tempo. “Torneresti qui? Si, mille volte”.“Take me somewhere nice”. “Miagolare per il piacere”, “Perché mangiare è godere” ,“Immagina, puoi”, “schiena arcuata”, “Food is art” e via discorrendo. E’ la clip, il trailer del mio mondo costruito su misura in base ai valori personali, un mondo che cerco di trasmetterlo e di proporlo anche a voi. Good Life è il mio biglietto da visita, perché una rivista è l’espressione fedele della personalità e dei valori di un editore, così come un ristorante dice tutto sul proprietario e il piatto racconta appieno la vita di uno chef. E’ un mondo semplice, fatto di pochi principi, concetti puri ma davvero fondamentali: tanta leggerezza, mai argomenti negativi e pagine buie, solo felicità all’ennesima potenza, solo colori e luoghi indimenticabili. Personaggi ambiziosi, nati con la voglia di stupire e vincere, di essere i migliori, gente brillante che insegue la qualità a ogni costo e posti incantevoli, piatti e luoghi che ti possano lasciare quell’effetto shock. E poi c’è quel passaggio di un articolo di Tyler Brulè, il fondatore di Monocle, dove raccontava che la carta, le riviste non spariranno, semmai diventeranno aspirazionali, con gli acquirenti felici e contenti di esibirle. Il giornalista canadese continua con un’immagine, una polaroid che mi ha fatto sobbalzare: “Avete fatto caso, in spiaggia? Sul lettino, sullo sdraio di ognuno c’è sempre una rivista e quasi mai un’ipad. Ci sono sempre delle pagine che si alzano e si muovono lentamente, come le foglie, quando c’è la brezza”. E’ un momento che abbiamo tutti davanti agli occhi: uno sdraio abbandonato momentaneamente per un tuffo

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nell’acqua turchese e il fruscio leggero delle pagine che si sente appena. Ecco, ho immaginato tutto questo: voi sulla sabbia bianchissima, rilassati e sognanti, guardando lei, raffinata e sorridente, che si sposta i capelli con dei gesti lenti come carezze. Vi ho immaginati osservando la calma dell’oceano, pensando a dove portarla a cena, oppure leggere la rivista in una caffetteria chic, in un posto silenzioso e nascosto, conosciuto solo da voi. Il numero estivo richiede ancor di più il tocco magico, per questo abbiamo chiesto ad alcuni chef quali sono i posti più belli dove hanno cucinato, assaggiato e goduto. Vi auguro di passare le vacanze con una donna splendida, che possa far diventare la vostra vita e le vostre giornate estive indimenticabile, una donna coinvolgente anche a tavola, che ama scoprire dei nuovi piatti e delle nuove culture gastronomiche. Una rivista da sfogliare. Un mondo da conquistare. Una donna da amare. Life is now.

Avete fatto caso, in spiaggia? Sul lettino, sullo sdraio di ognuno c’è sempre una rivista e quasi mai un’ipad


L’alta ristorazione non lascia nulla al caso.

Il prestigio a tavola si rivela nella qualità dell’offerta. Dettagli, ingredienti, persone: nessuna scelta è casuale, nessuna alternativa è banale. L’acqua dell’alta ristorazione è Lauretana, la garanzia di eccellenza nel bicchiere.

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Good Il fagottino ripieno di pecorino, con accanto la tartare di gamberi di Mazara è di una delicatezza vibrante, pare creato appositamente per una donna elegante, raffinata e sorridente che se lo gusta con gesti lenti e sognanti in una bella serata fresca e con la luna

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Andrea Berton I posti più belli dove ho lavorato?

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Wicky Priyan

Al primo posto metto Il Sereno: vista straordinaria, atmosfera elegante, moderna, tante vetrate, in più abbiamo appena conquistato la stella. Poi Borgo Egnazia e Cristallo a Cortina, con una menzione speciale per il Palace di Milano Maritima.

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Andrea Berton

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“Ti faccio vedere la mia vita”. Con il suo italiano un po’ incerto Wicky

scorre le immagini ed i filmati dei viaggi in Giappone, viaggi sempre a scopo gastronomico. Gli piace un sacco scattare e farsi fotografare mentre assaggia prelibatezze, ancor di più farsi immortalare assieme e accanto ai suoi maestri. Ti fa vedere tutto questo con una fierezza commovente, difficile da raccontare.

Innocenti Evasioni L’atmosfera era straordinaria, così leggera e piacevole, informale, l’esatto

contrario di tante altre situazioni stellate, rigide e impostate a tal punto da farti venire l’ansia solo all’idea che qualcosa potesse andare storto.

Wicky Priyan

Innocenti Evasioni

Terrazza Triennale Il fagottino ripieno di pecorino, con accanto la tartare di gamberi di Mazara è scenico, di una delicatezza vibrante, pare creato appositamente per una donna elegante, raffinata e sorridente che se lo gusta con gesti lenti e sognanti in una bella serata fresca e con la luna.

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Il nuovo trend Adeguarsi, per favore I menù infiniti dei ristoranti che propongono di tutto di più fanno venire l’orticaria. Venti pizze, trenta primi, venticinque secondi: poteva andare bene 20 anni fa

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ristoranti di una volta, quelli che proponevano carne-pesce-pizza-aragostapasta, stanno scomparendo. Hanno ancora un senso al mare e nei quartieri popolari (nel senso buono della parola), ma come filosofia non piacciono e non tirano più. I motivi sono tanti. Per prima cosa, la gente si è resa conto che nessun ristorante potrà mai eccellere sia con la carne sia con il pesce e il resto: nessuno può essere specializzato in più direzioni, non si può fare tutto da dieci e lode. Poi piace molto di più andare, appunto, nei ristoranti specializzati: chi vuole la carne va dove fanno solo quello, idem per la pizza e il pesce, per gli hamburger pure: c’è più attenzione al dettaglio perché uno si concentra in una sola direzione e cerca di primeggiare sul mercato. Infine, i menù infiniti dei ristoranti che propongono di tutto di più fanno venire l’orticaria. Venti pizze, trenta primi, venticinque secondi: poteva andare bene 20 anni fa e può ancora funzionare con i turisti tedeschi, oppure a Lignano Sabbiadoro e Rimini, Misano Adriatico e Cattolica (quando si va con le famiglie è tutto diverso). Stanno scomparendo anche perché i ristoratori stessi si sono resi conto che è una follia tenere nelle celle tante materie prime: si finisce per buttare tanta merce e in cucina c’è il caos più totale. Morale, vince chi ha un menù snello, molto snello: cinque antipasti, cinque primi e cinque secondi, ma straordinari. E’ segno di grande senso imprenditoriale e di serietà, di praticità e capacità di capire il cliente. Che apprezza e torna.

Equilibri e minoranze

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celiaci sono 190.000, ovvero due stadi pieni e stop. Il 0,3 della popolazione. 0,3!!!! Eppure a sfogliare le riviste di ricette e non solo ti pare di averne nei dintorni un celiaco su tre commensali. Cosa vogliamo dire? Che diamo troppa importanza a situazioni che valgono 0,3 invece di mettere e concentrare tutte le nostre forze per il restante 99,7, che, ovviamente, rappresenta il 99,7 del fatturato, dei lettori e via dicendo. Certo, un celiaco ha tutto il diritto di mangiare molto bene, come tutti gli altri: ci mancherebbe. Però è spropositato, e di tanto, lo spazio dedicato al, ripetiamo, 0,3 della popolazione. In compenso, ed è qui l’ingiustizia e la follia, non vediamo dedicato il 99,7 dello spazio e delle ricette alla gente che ama mangiare in maniera golosa, goduriosa, grassa e ghiotta. Siamo milioni di golosi ma i benpensanti (si,sono arrivati pure qui) ci schifano e fra un po’ ci emargineranno. Come sempre un certo mondo prende la direzione sbagliata, concentrandosi sul 0,3 invece dei piaceri della stragrande maggioranza.


Andrea Berton Fra Como e New York

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Un posto dove mi piacerebbe aprire domani mattina? A New York, in un grattacielo che domina la città

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hef, le andrebbe di raccontare le sue vacanze gastronomiche lavorative e non, le sue mete preferite?”. “Si, certo. Però prima assaggi il nuovo menù”. Eccoci qui a divagare piacevolmente, in maniera stellata e divina. Breve descrizione delle emozioni vissute nel suo regno: l’insalata di granchio fa togliere il fiato. Si mangia a mò di tacos, rotolando la foglia e poi morsicando in maniera casareccia. E’ un piatto elegante e procelloso, poco bertoniano come forma, per questo ti sorprende e lo apprezzi ancor di più. Sulla tartare di pomodorino crudo abbiamo fatto una sola annotazione sul taccuino: “Madonna santa”. Inutile aggiungere altro, se non la freschezza spaventosa (si può dire freschezza spaventosa?) del piatto. Il calamaro semplicemente cantava, la carbonara a modo suo ti caricava a mille, la sogliola ti rilassava come un tramonto. La seconda stella tarda ad arrivare ed è incomprensibile, le sensazioni invece si susseguono e ti avvolgono come una sinfonia. Quello che ci piace è la sua continua ricerca della perfezione, nei piatti come nel ristorante stesso, in cucina come in sala: vive per migliorare, lo fa con una costanza ammirevole e una determinazione feroce. Ovviamente piace al mondo intero, in tanti lo vogliono e lo richiedono come chef, chi in maniera spot e occasionale, chi in modo permanente, proponendogli una collaborazione continuativa. L’ultimo in ordino cronologico è il colosso Club Med: per la nuova apertura di Cefalù hanno puntato forte su di lui, “arruolandolo” per il ristorante gourmet. Pochi piatti, di chiara matrice siciliana, prendiamo per esempio il maialino di Nebrodi a bassa temperatura, altre novità arriveranno a breve, perché per quasi tutto il mese di agosto lo chef sarà lì e ne vedremo delle belle. Per il resto dell’anno in cucina ci starà il suo fido Matteo Prandi e c’è da stare tranquilli, perché è difficile che Berton possa sbagliare sous chef e collaboratori. E ora torniamo all’argomento iniziale, ovvero le sue vacanze gastronomiche passate e future, ideali e possibili. Prima, una breve postilla: il progetto AkB dell’azienda Arrital ha ottenuto la Menzione d’Oro, entrando a far parte della collezione Compasso d’Oro Adi. Va da sé che lo chef ha contribuito a ciò, visto che da due anni collabora con loro. Seconda postilla: Lorenzo Sica, il maitre del ristorante, ha lasciato il ristorante dopo quattro anni e mezzo. “Non è mai mancato, mai”, dice lo chef. “Ha un senso del dovere innato, straordinario. E’

venuto a lavorare perfino con il braccio rotto”. “E’ solo un arrivederci”, risponde Lorenzo. Intanto lo sostituirà Gianluca Lo Serra, di ritorno da Londra. - Partiamo dal podio dei posti più belli dove ha lavorato. - Al primo posto metto Il Sereno, se non altro perché è il mio ristorante, sul lago di Como: vista straordinaria, atmosfera elegante, moderna, tante vetrate, in più abbiamo appena conquistato la stella. E’ ideale per una cena romanticissima, anzi, per più di una, non ti basta mai. Poi metterei il Borgo Egnazia, incantevole, non per nulla è stato eletto il miglior albergo al mondo due anni addietro. Terzo, Cristallo a Cortina e una menzione speciale per il Palace di Milano Maritima. Ovviamente le Maldive sono fuori concorso, non possono competere, troppo particolari, uniche: ci ho lavorato per due anni di fila, a Capodanno, al Diamonds Athuruga: impareggiabile. - Cucinare in un posto prettamente vacanziero comporta dei cambiamenti? - Diciamo che la clientela arriva più tranquilla e rilassata, di conseguenza anche più interessata e coinvolta. Si vivono le giornate e i pasti in maniera diversa, più spensierata. Per quello che riguarda gli chef, si ha l’occasione di farsi conoscere da persone che altrimenti faticherebbero raggiungerti. - Come filosofia, si cucina in maniera diversa nel proprio locale rispetto alle trasferte? - Si e no, nel senso che pare ovvio si debba studiare un piatto in base alle materie prime del posto, però la tua filosofia resta la stessa. Certo, si deve essere flessibili, sapersi adattare ad una cucina magari più piccola, oppure più grande, dipende dai casi. - Le è mai capitato di inventare una ricetta trovandosi in trasferta, traendo ispirazione dal posto? - Si, in Puglia: guardandomi in giro mi sono reso conto di essere attorniato da ulivi: da qui a creare il brodo, appunto, d’olive, il passo è stato breve. - Dove le piacerebbe lavorare, per un breve intervallo di tempo? - Sicuramente in Australia e in Alta Badia, in qualche rifugio. - Un posto dove invece aprirebbe domani mattina? - A New York, in un grattacielo che domina la città. - Come sarà l’estate di Andrea Berton? - Lavorerò come sempre: prima al Forte Village, poi al Club Med e al Palace di Milano Maritima, con brevi incursioni sul lago di Como, a Il Sereno. Posso aggiungere qualcosa? - Prego. - Non parlo quasi mai dei miei ragazzi e forse dovrei farlo: oltre a ringraziare Lorenzo Sica mi piacerebbe soffermarmi su Luca Bertè, il sommelier. Ha iniziato con un semplice rimborso spese, in quanto stagista. Dal suo primo giorno qui si è dimostrato un pilastro del ristorante, lavorando tanto, bene e soprattutto in silenzio. Ci intendiamo alla perfezione senza nemmeno parlarci, sa il fatto suo, si è integrato subito, è un piacere vederlo lavorare e averlo con noi. Qui al ristorante Berton è tutto un piacere. Un immenso piacere.

Il Sereno

In vacanza lavorerò come sempre: prima al Forte Village, poi al Club Med e al Palace di Milano Maritima, con brevi incursioni a Il Sereno No 7


Anthony Bourdain Il successo, all’improvviso

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anno tutti detto la loro su Anthony Bourdain, d’altronde era prevedibile e ovvio. E’ accaduto quando scomparve Marchesi, poi andò alla stessa maniera con Bocuse. Accadrà sempre quando scomparirà uno chef famoso. Il punto è proprio questo: Bourdain non era uno chef famoso. Zero stelle, un passato fra cucine terribili e ristoranti improponibili. Il fatto che i quotidiani istituzionali abbiano pubblicato in prima pagina la notizia della sua scomparsa con una foto neanche piccola la dice lunga su come oggi la ristorazione sia uno dei pochi, pochissimi settori di attività che possano vantare un interesse generale e totale. Il mondo degli chef e della cucina “tira” sempre di più, vedere Bourdain laddove solitamente trovi le noiose e mai lette questioni della politica e affini fa una certa impressione (positiva). E’ questa la grande notizia, sfortunatamente venuta a gala per un tragico episodio (tranquilli, non entriamo nei dettagli). Bourdain ha cambiato le carte in tavola, mai prima si era creato tanto interesse attorno ad un cuoco e al suo mondo. Confessiamo di aver visto prima la serie tv, dove Bourdain veniva interpretato da Bradley Cooper. In Italia lo davano su Real Time, nel 2011: l’attore usciva da un periodo nero, si era appena ripulito. Guardavamo perfino le repliche, c’era qualcosa di magnetico nelle immagini e nelle storie: era tutto scanzonato e divertente, leggero e piacevolissimo. Sarà un caso, però anni dopo fu sempre lui l’attore che interpretò il miglior film realizzato sull’alta ristorazione, Il sapore del successo. Non divaghiamo, però. Il primo libro di Anthony poteva essere anche l’ultimo, lo aveva ammesso lui stesso: non si sarebbe mai aspettato un successo del genere. Se (ri) leggete le prime pagine, era quasi sicuro di aver compiuto un suicidio: “Naturalmente può darsi che questo libro determini la mia fine nel settore. Ci saranno storie dell’orrore. Terribili ubriacature, droghe, scopate nella dispensa, rivelazioni poco piacevoli circa il modo nel quale

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vengono maneggiate le vivande e consuetudini molto diffuse nell’ambiente ma per niente salutari. Disquisizioni sulle ragioni per cui non dovete ordinare il pesce di lunedì, per cui coloro che preferiscono la carne ben cotta si beccano gli scarti di cucina e la frittata di frutti di mare non è la scelta ideale per il brunch non mi renderanno di certo più popolare presso i miei eventuali possibili datori di lavoro futuri. La mia aperta avversione nei confronti dei vegetariani, di quelli che vogliono sempre la salsa a parte, degli intolleranti al lattosio e della cucina di quella specie di Ewok di nome Emeril Lagasse non mi aiuteranno ad avere un mio show personale su Food Netwoork”. Eppure andò diversamente. Il libro ebbe un successo planetario: pubblicato nel 2000, arrivò ovunque. Noi abbiamo letto una copia dell’ottava ristampa, datata 2011. Seguirono altri capolavori e tanti programmi tv. Ha creato, magari involontariamente, un genere tv, quello della street food e della cucina locale. Di lui ci piacevano certe espressioni e dei termini che ti prendevano alla sprovvista. Nella pagina accanto, alcune frasi cult che ci accompagnano e ci accompagneranno sempre.

Il primo libro di Anthony poteva essere anche l’ultimo, lo aveva ammesso lui stesso: non si sarebbe mai aspettato un successo del genere


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omattina vai sulla sedia elettrica. Ti legano, schiacciano il bottone e ti lasciano a friggerti il culo finché gli occhi non ti schizzano fuori come pop corn. Hai un ultimo pasto a disposizione. Cosa scegli di mangiare?” Pensate bene, è una domanda ficcante, anche se ovviamente nessuno si sogna la sedia elettrica. Però lo stile di Bourdain è questo e ci è sempre piaciuto molto. L’estratto del libro “Il viaggio di un cuoco” lo abbiamo scelto e ve lo proponiamo perché ci pare davvero un grande articolo, come d’altronde la maggior parte dei suoi lavori. “Gli chef amano considerarsi alchimisti e alcuni di loro, specie i francesi, vantano una lunga e gloriosa tradizione nell’arte di trasformare il piombo in oro. Non sono forse piombo un’umile spalla, uno stinco o un pezzo di budello? E non sono oro puro lo stufato di manzo provenzale o l’ossobuco, quando ogni dettaglio di sapore e consistenza è stato trattato da mani competenti? E’ una magia per la persona che mangia, ma anche per il cuoco che vede entrare nel forno un pezzo di carne cruda e fibrosa, immerso nel vino rosso, e qualche ora dopo lo vede uscire trasformato, ammantato da una salsa densa e vellutata. Del resto la comprensione di questo processo ha portato i cuochi francesi (e italiani) ai vertici della cucina classica. Ed è per questo che li amiamo, anche quando li odiamo. Poche persone sane di mente apprezzano la musica pop francese – o i francesi in generale – eppure loro sanno come utilizzare le zampe, il muso, le interiora, la pelle, ogni scarto di verdura, la testa di pesce e le ossa. Perché sono cresciuti sentendosi ripetere all’infinito “Usate tutto (e usatelo bene)”. Qual è la ragione? Perché loro sì e noi no? La risposta, per molti versi, si trova oggi in altre parti del mondo, per esempio in Vietnam, in Portogallo, in Messico o in Marocco: semplicemente perché erano costretti a farlo. Nella Francia del diciottesimo e diciannovesimo secolo, come ancora oggi in molti paesi del mondo, non si dava alternativa. Era necessario utilizzare anche le parti più disgustose. Dovevano assolutamente inventarsi qualcosa da fare con la testa di vitello, le zampe di maiale, le lumache, il pane raffermo, tutti i tagli e gli scarti, altrimenti sarebbero andati in rovina, sarebbero morti di fame, e non avrebbero potuto permettersi le cose buone nelle occasioni speciali. Salse, marinate, stufati, charcuterie, l’invenzione delle polpette di carne e di pesce, della salsiccia, del prosciutto affumicato, del pesce sotto sale, del confit, rappresentavano strategie, erano il risultato della necessità e di una incessante sperimentazione. Coq au vin? Un grosso pennuto dalla fibra dura, marinato nel vino rosso e brasato fino a renderlo masticabile. Pot au feu? Lingue, code, ossa bollite insieme a umili tuberi. Paté? Rimasugli, scarti e grasso tritati, insaporiti e decorati perché a qualcuno potesse venire voglia di metterli in bocca. Confit de canard? Non ho un frigorifero, tanto meno un freezer e queste maledette cosce d’anatra stanno andando a male. Per anni i francesi si sono affannati con astuzia e arguzia per trovare il modo di rendere godibile tutto ciò che brucava, strisciava, nuotava o zampettava e qualunque cosa spuntasse dalla terra, marcisse sulla vigna o si nascondesse sotto al letame. E hanno compiuto autentiche magie. Anche molto tempo dopo l’arrivo dei frigoriferi, mentre gli americani si ostinavano a mangiare candidi petti di pollo gonfiato avvolti nella plastica e negavano perfino l’esistenza di cosce e interiora, convinti che le uniche parti “buone” del manzo fossero il controfiletto, il filetto e la costata e che tutto il resto fosse hamburger, i francesi hanno continuato a comportarsi come se nulla fosse. Avevano imparato a valorizzare i loro piedini e i loro musetti. Avevano trovato qualcosa da amare in ogni boccone – purché ben preparato e apprezzavano quello che in passato era il cibo dei poveri”.

Il viaggio di un cuoco Gli chef amano considerarsi alchimisti e alcuni di loro, specie i francesi, vantano una lunga e gloriosa tradizione nell’arte di trasformare il piombo in oro. Non sono forse piombo un’umile spalla, uno stinco o un pezzo di budello?

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Wicky Priyan Da Kyoto a Berton

Un piatto di Stephan Pantel

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i faccio vedere la mia vita”. Con il suo italiano un po’ incerto Wicky scorre le immagini ed i filmati dei viaggi in Giappone, viaggi sempre a scopo gastronomico. Gli piace un sacco scattare e farsi fotografare mentre assaggia prelibatezze, ancor di più farsi immortalare assieme e accanto ai suoi maestri. Ti fa vedere tutto questo con una fierezza commovente, difficile da raccontare. “Lui? E’ come un papà per me”. “Quest’altro? E’ Kaneki Kan”. Ristoranti e posti nascosti, nel suo iphone sono custoditi tanti “segreti” gastronomici. Alcuni ti vengono svelati, molti altri no. Di sicuro non ti annoi ascoltandolo e guardando i piatti, quasi tutti kaiseki. Ci è rimasto impresso un brodo di orzo dolce, così come una specie di omelette a cubetti. E ora viaggiamo assieme a lui, fra le stradine di Kyoto e Tokyo. - Wicky, tutte le volte che hai un po’ di tempo libero prendi l’aereo, vai in Giappone, fai il giro dei ristoranti e poi torni: questo lo si sa da anni. La domanda è, come scegli le tue mete?

- Semplice: vado nei ristoranti storici, quasi mai in quelli nuovi. Vado dove posso imparare, vado dai miei maestri. Alla mia età e al mio livello conta solo poter frequentare i locali con una grande storia alle spalle. - Più o meno, in Giappone quanti ristoranti storici ci sarebbero da frequentare? - Un migliaio solo a Kyoto. In quelli più importanti non si trova mai posto, pur conoscendo chef e patron. Però confesso, spesso mi è capitato che aprissero le porte soltanto per me, la domenica. In dieci giorni frequento venti ristoranti, uno a pranzo el’altro a sera, poi riprendo l’aereo e torno in Italia. A dire il vero quasi tutti gli chef si comportano allo stesso modo: da me arrivano tanti cuochi giapponesi, dopo fanno una capatina a Parigi, una tappa a Londra e ripartono. - Ci sveli una delle tue mete preferite? - Il nome non lo posso dire, però fidatevi, è una esperienza straordinaria (ndr: ci fa vedere le foto e onestamente ha ragione, è tutto un incanto, dal posto ai piatti). Tre ore da Kyoto, piena montagna, fanno cucina kaiseki di montagna e di fiume, il loro shabu shabu di orzo è favoloso. Puoi anche pernottare, venti stanze in mezzo al nulla, semplicemente fantastico. Un nome invece lo faccio, Ryoriya, sempre a Kyoto: lo chef é francese, si chiama Stephan Pantel e propone cucina kaiseki con influenze del suo paese. Strepitoso. - In Italia invece, dove ti piace passare qualche giorno di vacanza? - Io sono un uomo del sud, per cui mi viene naturale andare a Napoli, oppure in Sicilia. Ho tanti amici, cucinano per me a casa loro poi mi fermo per la notte. - Quando sei al mare scegli un ristorante con bella vista, oppure sei immune all’aspetto scenografico? - Solitamente nei posti belli si mangia male. E io non concepisco mangiare male. - Un ristorante a Milano dove hai cenato di recente? - Sono stato molto bene da Alberto Tasinato, a L’Alchimia. Torno volentieri da Andrea Berton: il suo menù dei brodi è un magnifico esempio di cucina kaiseki all’italiana.

Torno volentieri da Andrea Berton: il suo menù dei brodi è un magnifico esempio di cucina kaiseki all’italiana No 10


La prova di Gordon Quanto mi pagherei?

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ell’edizione americana di Masterchef, ovviamente e giustamente più impostata sul business che non sui sentimenti, c’è una prova a dir poco geniale. Nelle fasi finali della competizione Gordon Ramsay invita alcuni giornalisti e dei suoi amici chef per dare una valutazione in soldi ai piatti dei concorrenti. Esempio: un concorrente presenta un secondo di pesce. I “giurati” devono dire quanto sarebbero disposti a spendere per quel piatto, ovviamente dopo averlo assaggiato. E’ davvero intrigante e molto affascinante, perché si, vanno bene i piatti, le gare, devi lasciare il grembiule e tutto il resto: però alla fin fine la ristorazione è una mera attività commerciale, dove il proprietario acquista la merce e la trasforma con lo scopo di guadagnarci. Pare così semplice ed elementare, vero? Eppure accade di rado che lo chef e il proprietario si siedono per metterla giù in questo modo. Spesso abbiamo visto delle materie prime straordinarie impiattate male: tradotto, così facendo viene sminuito il tutto. Un cliente non deve mai uscire con la sensazione di aver pagato troppo per una cena, oppure per un piatto. Stando alla prova di Gordon, l’ideale sarebbe il contrario, ovvero uscire contenti per aver mangiato divinamente spendendo meno di quello che ci si aspettasse. O per lo meno aver pagato il giusto. E’ quasi matematico che se si paga più di quello che l’insieme possa valere, il cliente non tornerà. Sentendosi tradito, cercherà altri ristoranti dove, spera, verrà accontentato in pieno. Probabilmente è la prova più interessante per un ristoratore, perché si tratta di un aspetto basilare e fondamentale, forse più della cottura, oppure di come si sfiletti una sogliola. Può suonare banale, ma non lo è affatto: presi da mille aspetti e dettagli, spesso ci si dimentica di immedesimarsi nel cliente, nel fare bene i conti e di pensare a come incassare di più. Morale: provate a fare questo giochino prima di mettere un piatto nel menù. Cioè, provate a fare il cliente chiedendo a voi stessi: “Pagherei 30 euro per un piatto del genere?”. Avrete delle sorprese, perché spesso risponderete qualcosa del tipo “Mmmmm”. Lo abbiamo visto con i nostri occhi, mentre in punta di piedi cercavamo di spiegare ad alcuni chef che i piatti portati e presentati valevano leggermente meno della cifra trovata sul menù. “Non l’avevamo mai pensata e vista in questa maniera”, la loro risposta. Ci sta, anche se non dovrebbe. D’ora in poi ci auguriamo che le cose verranno viste anche in questa ottica. Intanto, esercitatevi sui piatti che vedete accanto, firmati proprio Gordon.

Provate a fare questo giochino prima di mettere un piatto nel menù. Cioè, provate a immedesimarvi nel cliente chiedendo a voi stessi: “Pagherei 30 euro per un piatto del genere?

Un piatto di Gordon Ramsay

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Ristorante Oro, Venezia

Mario Peserico

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Fra baite e Bocuse

ul Financial Times di ogni fine settimana leggiamo con immenso interesse una rubrica fissa molto asciutta, completamente priva di introduzioni e preamboli: solo domande e riposte, niente fuffa e tanta concretezza. Per la cronaca si tratta di una rubrica letteraria, però il punto è un altro, ovvero l’idea di un dialogo senza fronzoli. Non una parola di troppo,

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mai un concetto slabbrato e sconnesso, mai una divagazione, una autocelebrazione. Stile chirurgico, freddo, deciso. Visto il personaggio che ospitiamo, possiamo assicurarvi che i modi concisi e concreti gli si addicono alla perfezione, d’altronde si tratta di un amministratore delegato, uomo di numeri e rigore. Per di più il suo business è la haute horlogerie, la precisione all’ennesima potenza, il che influisce assai su comportamenti e modi di pensare. Grandissimo intenditore di alta ristorazione, Mario Peserico è un habitué degli stellati e soprattutto è uno dal gusto sicuro, senza esitazioni. Pensiero profondo, veloce e asciutto, come vuole e insegna la rubrica del FT Weekend: ecco le sue risposte. Chiare, immediate, delle sentenze. - I ristoranti più romantici dove ha cenato recentemente? - Oro a Venezia, dove si mangia anche benissimo, soufflé a parte. Poi La Pineta a Marina di Bibbona, mentre fra i ristoranti all’estero scelgo Carme Ruscalleda di Sant Pau, vicino Barcellona e Relais Blu di Rovigno, in Croazia. - Rimanendo al romanticismo, semmai dovesse decidere di aprire un ristorante intimo, come se lo immagina? - Quattro tavoli e un cammino, in una baita di montagna. Per me non c’è gara, la montagna vince Giancarlo Morelli contro il mare.


I ristoranti più romantici? Oro a Venezia, La Pineta a Marina di Bibbona, Carme Ruscalleda di Sant Pau e Relais Blu di Rovigno

- I ristoranti migliori frequentati di recente? - Seta, perché Antonio Guida sorprende sempre con accostamenti straordinari, oltre che inediti, vedi la triglia con il granciporro. Perbellini, dove prendo sempre le stesse cose, perché sublimi: il risotto con gli asparagi selvatici, il guanciale con purè e il mille foglie. Come terzo scelgo il ristorante Accursio di Modica. - Capitolo pizzerie. - Ultimamente le frequento e ne mangio davvero tante, per cui sto diventando un esperto: ne scelgo tre, a cominciare dal Basilico Bianco di Gallarate. Niente di particolare, niente dichiarazioni e pretese gourmet, però superlativa. Stessa valutazione per la pizzeria Montegrigna di Busto Arsizio e la Tric Trac di Legnano, un posto dove il proprietario è il classico one man show. A Napoli invece mi piace molto andare da Mascagni, nel quartiere Vomero. - Tre ristoranti dove ha provato una grossa delusione. - Uliassi, Il Pagliaccio e Antonino Colonna. - Le divise degli chef sono ormai piene di loghi, fra case automobilistiche e maison di orologeria: lei cosa ne pensa? - La divisa da chef dovrebbe rimanere pulita. Noi di Eberhard abbiamo sempre avuto e continuiamo ad avere degli ambassador: per fare qualche nome, prendete Morelli e Sadler. Però piuttosto che far cucire il logo sulla loro divisa preferiamo di vederli indossare un nostro modello. Noi siamo per la classe e la discrezione, l’eleganza non si esibisce. - Se dovesse scegliere un testimonial per la vostra maison, su chi punterebbe? - Sarebbe banale dire Marchesi, per cui scelgo Bocuse, per le sue doti di innovatore. - Le piace la democratizzazione dell’alta cucina, fra programmi televisivi e altre del genere? - Si. Faccio un esempio, sempre legato al mondo dell’alta orologeria: in passato era un mondo di nicchia, per pochi, con il tempo si è allargato ed è un bene. Più se ne parla più aumenta la possibilità di vendere. - Da due anni siete partner della guida Michelin: guardando il loro mondo più da vicino, c’è un aspetto che lo ha colpita? - Il loro rigore, hanno dei valori e non transigono. In più non commentano mai, non danno spiegazioni: le eccellenze si devono comportare proprio così. Rolex, per fare un esempio che conosco ancor più da vicino, ha la stessa filosofia.

Mario Peserico

I migliori ristoranti? Seta, Perbellini e Accursio. Le delusioni? Uliassi, Il Pagliaccio e Antonino Colonna

Paul Bocuse

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Zona Brera, via Fiori Chiari. Gioiellino minimal, essenziale. E’ ideale: atmosfera nordica, tocco italiano

Petrus 1935 Cartolina nordica in Brera

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uori piove, il silenzio è totale. A me piace da morire quando non c’è il minimo rumore nei dintorni. Il paradiso. Confesso, mi sono svegliato ancor più tardi del solito, però con la sua schiena arcuata davanti agli occhi. Nottata rovente, passata a sfiorarla e accarezzarla. Come lei, nessuna. Emozioni infinite. Piove e pioverà per tutto il giorno, per fortuna pure il silenzio continuerà. Quando è così, mi piace nascondermi in qualche posto cool e chic in centro, abbastanza isolato, una specie di rifugio. Eccolo, Petrus 1935. Zona Brera, via Fiori Chiari. Gioiellino minimal, essenziale. E’ ideale: atmosfera nordica, tocco italiano. Pochi coperti, carta snella. So già cosa ordinare ed è una fortuna: non sono molti i posti dove hai ben preciso cosa assaggiare ancor prima di sederti. Accanto a me una coppia di giovani dal gusto sicuro, hanno appena ordinato una scatola di caviale Adamas: l’ho assaggiato l’altra volta, è davvero buono, delicato ed elegante, poco salato e persistente, vellutato. Lo producono nei dintorni di Cremona, all’interno del parco naturale del fiume Tormo. Bella scelta, ragazzi. Pare che l’azienda stia per lanciare un nuovo prodotto, ancor più vibrante. Ordinano una bottiglia di Pensiero infinito della Bricco Maiolica. Intenditori. Giovani, carini e intenditori. Sono innamorati pazzi, lo si capisce subito. Lei sorride sempre, è bellissima. Occhi caldi, capelli lunghi, biondi, leggermente mossi. Lui è perso, lo sarei anche io al suo posto. Freme per riaverla subito a letto. E’ uno di quei momenti quando sesso e cibo si mescolano alla perfezione, d’altronde non ha alcun senso separarle. Chiudo gli occhi e immagino lo scoppiettio delle palline sulle sue labbra felici e socchiuse. Io prendo gli gnocchi con gambero e pistacchio, è un piatto che vi consiglio caldamente: intenso, gustoso, puro, da ordinare tutte le volte che puoi. Nell’attesa mi portato delle acciughe di Lampedusa, dove il patron di Petrus possiede due alberghi. Non esiste piatto più nudo di una acciuga salata. Ci vorrebbe una bollicina, trovo il rosè extra brut millesimato di Sabrina Gozio, patron del Castello di Gussago, piccola azienda in Franciacorta. La giornata inizia a prendere colore, oltre il silenzio. Pian piano arrivano altri clienti. Una coppia di quarantenni. Benestanti e semplici. Lei ha l’aria elegante e civettuola, da gatta

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sensuale, indossa una maglietta bianca e jeans, più una borsa Kelly. Lui, informale e astuto, a occhio fa il broker, oppure l’avvocato d’affari. Iniziano con delle ostriche, qui vanno per la maggiore, la scelta è ampia. Ne ricordo una, carnosissima: Amelie speciales, un sapore puro come il peccato. Mi vengono in mente le parole di Isabel Allende, “le ostriche, queste seducenti lacrime di mare che si prestano a scivolare di bocca in bocca come baci prolungati”. A naso i due abitano nelle vie vicine. Oggi sono fissato, ma ho la sensazione che torneranno a casa e faranno all’amore per tutto il pomeriggio. Mi piace la quiete amorosa che regna al loro tavolo. Non c’è un grande via vai, il tempo non aiuta. Dentro però si sta bene. Il personale è educato e discreto, garbato: sono i nipoti del proprietario. Viso da bravi ragazzi, modi educati: ce ne fossero. Il mio gnocco arriva, è saporito come un bacio. Puro languore. Stuzzicante. Ci sarebbe ancora spazio per un altro piatto: fra le ghiotterie scelgo il cubo di spada. Continuo a guardare pigramente le coppie. Sono felici di trovarsi qui. Io pure. Piove forte, all’interno siamo tipo lost in traslation. Il cubo è tenerissimo e vigoroso allo stesso tempo, va annusato ampiamente, in maniera profonda. I giovani hanno preso delle tartare: molto in linea con il loro modo di essere, leggeri e desiderosi di sensazioni. Lo chef è anche il patron del locale, Nicola Marveggio: complimenti, pochi piatti ma impostati su sapori netti, nitidi e garbati,gli ingredienti sono perfettamente definibili. La porzione è generosa, va gustata senza fretta. Difatti non ne ho. I giovani accanto hanno un gran appetito: spesso i confini tra l’amore e appetito sono talmente labili da confondersi completamente. Chiedono il dolce, un parfait di mandorle caramellate che piacque molto pure a me. Esco e lascio le due coppie ancora lì. Spero che la loro giornata sarà un continuo crescendo. L’intermezzo Petrus è stato di sicuro un gran bel momento.


Lezione di marketing Sito, prezzi, wifi e guide E’ sbagliato mettere online il menu senza i prezzi. Tanto se arrivo al ristorante scopro quanto costa, per cui non ci guadagni nulla. Però se non li metti mi viene il dubbio che mi nascondi qualcosa

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ualche giorno addietro siamo andati alla Cattolica a seguire una lezione di marketing legato al mondo della ristorazione. Non sempre ne vale la pena, anzi, quasi mai, però stavolta il relatore era uno da cento carati, ovvero il direttore commerciale della guida Michelin. Si chiama Andrea Biagini. Abbiamo preso qualche appunto che vi giriamo volentieri, in pratica si tratta di una consulenza prestigiosa e gratuita. Certo, ad alcuni i concetti possono sembrare ovvi, però proprio per questo la gran parte dei ristoratori non lo mette in pratica. Il sito è la versione digitale della vostra attività, del vostro ristorante, per cui deve essere curato nei minimi dettagli e aggiornato: trovare sul sito un menù vecchio è segno di mancanza di professionalità, il che fa pensare anche ad altre mancanze. E’ sbagliato mettere online il menu senza i prezzi. Tanto se arrivo al ristorante scopro quanto costa, per cui non ci guadagni nulla. Però se non li metti mi viene il dubbio che mi nascondi qualcosa e nel dubbio la gran parte della gente decide di non venire. Il wifi. Mettetelo. Perché se un cliente straniero vuole postare le foto del vostro ristorante o mandarle agli amici vi fa un favore, vi fa della pubblicità. Se invece non avete il wifi, allora non posterà e non manderà agli amici le immagini del vostro locale. Di conseguenza, gli amici non verranno da voi quando si troveranno dalle vostre parti. Tripadvisor è utile, perché una piattaforma con dieci milioni di utenti non può essere ignorata o considerata di poco conto. Certo, va interpretato, togliendo i commenti eccessivi, però non potete permettervi di ignorare una piattaforma del genere solo perché qualcuno ha avuto una opinione negativa su di voi: anzi, dovete essere contenti di far parte del mondo Tripadvisor. E’una giuria popolare, come a San Remo: solitamente il pubblico sceglie una canzone diversa rispetto a quella scelta dai così detti esperti. Non si tratta di giusto o sbagliato, bensì di due categorie con strumenti diversi a disposizione: perché le guide sono proprio questo, fotografano la realtà con l’aiuto di persone che hanno gli strumenti necessari per poter valutare un ristorante.

Luca Gardini, sommelier campione del mondo

D’altronde per gli utenti di Tripadvisor non è La Pergola il miglior ristorante di Roma. Nei giorni più fiacchi della settimana si devono trovare delle strategie per consolidare e aumentare le vendite. Per esempio, lunedì è il giorno del bollito, martedì qualcosa di simile e via dicendo. Il sommelier deve farvi provare e scoprire dei vini nuovi. Non è ideale ordinare uno champagne, oppure un vino conosciuto in un ristorante di alto livello, quello lo potete acquistare perfino voi in enoteca. Approfittate della sua preparazione e chiedetegli di sorprendervi, perché non vi serve lui per prendere una bottiglia di Sassicaia, oppure un Dom Perignon. Fattevi impressionare, così lo mettete anche alla prova. Sul diritto di bottiglia esprimo un parere prettamente personale, proprio legato al concetto del sommelier: se io vado a mangiare la carne e so che quel ristorante non ha il vino che io considero ideale per l’abbinamento, ci sta che lo porti da casa. Se invece vado in un ristorante di livello, allora mi aspetto di essere stupito con un vino che non conosco.

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Aggiornare la classifica degli hamburger più gustosi e succosi è diventata impresa ardua, viste le continue aperture: nascono catene, piccoli locali luminosi e chic

Hamburger, my passion

Succosi e gustosi

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a questione è spinosa. Trattasi di hamburger, ovvero la nuova alternativa alla pizza. Certo, nuova mica tanto, saranno almeno cinque, sei anni che i locali che li propongono si sono moltiplicati a dismisura. Prima faticavi assai, era dura trovare dove sederti e gustarti un hamburger come dio comanda: a Torino c’era il MBun, a Milano Mamma Burger. Stop. Ovvio, i McDonalds erano pieni allora e lo sono ancor di più oggi, vivendo un nuovo periodo d’oro. Forse non è un caso che si sono ripresi proprio quando hanno capito che il mercato era ancora desideroso di tanta, tantissima carne, che il loro core business aveva ancora un immenso appeal, così che hanno rinunciato a inseguire persone che preferiscono mangiare insalate e affini. Il loro target di riferimento doveva restare il goloso, la famiglia che ama le salse, i grassi, i gusti veri, pieni, esagerati: niente compromessi, niente nuove strade da percorrere, bensì tornare alle origini. Chi c’è c’è, chi no, amen: scelta vincente, ma non divaghiamo. Aggiornare la classifica degli hamburger più gustosi e succosi è diventata impresa ardua, viste le continue aperture: nascono catene, piccoli locali luminosi e chic che propongono l’hamburger taylor made, sfiziosi da morire. In più, sono molto migliorate le salse, le patatine, la proposta delle birre è ampia ovunque. C’è da scegliere fra eccellenze: difficile trovare degli hamburger grigi e privi di gusto, ormai si è capito che si tratta di un pasto cool e cult, di conseguenza c’è la gara a chi lo crea più gustoso. Piccola aggiunta, seppur ancor da verificare, per ora resta una sensazione (non solo nostra): ultimamente perde terreno la pizza gourmet, non tanto per la pizza in sé quanto per i prezzi ed i discorsi pseudo scientifici sugli impasti. Da sempre un prodotto

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easy e spensierato, sta diventando argomento di litigi e convegni tot al chilo che stufa e annoia sempre di più. L’hamburger invece resta popolare e non impegnativo, filosoficamente parlando. Lo si mangia a tutte le ore, stop. L’unico problema, trovare quello più porcelloso e ghiotto, dove ci si sporca felicemente le mani con delle salse sfiziosissime, dove il pane è croccante, dove la carne è succosa, rosea, intensa. Certo, spesso vai vicino casa, per fortuna gli hamburger di qualità si trovano un po’ ovunque e non devi andare lontano. Essendo noi abitudinari assai, scegliamo quasi sempre lo stesso posto, in Via Bertani, da Valerio Sità, ex sommelier di Claudio Sadler che due anni fa ha aperto un Wave Burger. Carni che ricordano pascoli infiniti, birre australiane leggerissime, patatine sexy e salse barbecue che incendiano i sensi, il tutto con vista su Parco Sempione, a due passi. E gli altri che meritano un premio speciale? Baobab, 202, i sempre strepitosi Trita e Al Mercato, Mystic Burger a Carate Brianza, Fud a Palermo, Blackburger a Napoli, o meglio a Frattamaggiore, Sciuè a Pomigliano, poi Bombas a Cagliari e Bulldog Burger Store a Catania. L’inarrivabile è il Double double animal dell’americano In & Out, con code di mezzora per il drive e il take away. Ma nemmeno dalle nostri parte ce la passiamo male.


Pisacco

L’estate di Asoli I moscardini giganti e leggermente caramellati sono un vero colpo da maestro, una gran bella trovata: piatto accattivante, intrigante, quasi lussurioso, erotico, frivolo, elettrico, tenebroso

Zuppetta di pomodori

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ewind. Ricordate com’era via Solferino prima delle aperture di Pisacco e Dry? Deserta. C’erano un paio di ristoranti, sempre uguali con clientela uguale da decenni. Ogni giorno un dejà vu, stesso menù, rassicurante e senza scossoni, prevedibile, ma d’altronde era quello che volevano le persone che ci pranzavano e cenavano quasi quotidianamente. Poi, all’improvviso, da una parte della strada aprì il bistrot, mentre dall’altra si affacciò l’innovativo bar-pizzeria: come per incanto tutto cambiò. Se ci andate ora a fare una passeggiata troverete una miriade di ristorantini uno accanto all’altro, però i due locali continuano a farla da padrona e ci sentiamo di scommettere che pure nei prossimi anni il trend sarà lo stesso. Nel frattempo Dry ha raddoppiato con un’altra apertura in Via Vittorio Veneto: i risultati sono brillanti pure lì, un centinaio di coperti a pranzo e un via vai incessante durante l’intera giornata. Pisacco invece cambia, sperimenta, pur rimanendo fedele a se stesso: l’ambiente è cool, la gente che lo frequenta è di ottimo livello e trasversale, l’atmosfera intrigante e civettuola, il servizio veloce, gentile e preciso (merito di Alessandro La Cava). Il locale ha fatto breccia fin dal primo giorno, la cucina immediata e diretta di Andrea Berton ha saputo colpire e conquistare per una serie intera di ragioni, in primis il fatto che fino a quel momento la parola bistrot si usava a caso, senza un senso. Per la verità in tanti continuano a considerare che basti un nome per essere chic e riempire il ristorante, ma questo è un altro discorso. Come abbiamo già scritto e ripetuto, l’anno scorso Berton ha portato al Pisacco Andrea Asoli, enfant prodige con una stella conquistata al Venissa: con lui il menù sta diventando più giovanile e “colorato”. Lo chef ha trovato la quadra, riuscendo a coniugare la creatività e la semplicità tipica di un bistrot. C’è ancora qualche ghirigori che si potrebbe evitare, ma sono bazzecole: la strada è ben tracciata. Certo, la sottrazione è un dettaglio non trascurabile, però facilmente attuabile: l’alleggerimento di un piatto non necessita tecniche e idee, è un mero intervento “chirurgico” di pochi istanti. Assaggiando e curiosando, abbiamo scelto qualche proposta presente nel menù estivo: dobbiamo proprio dirlo, ci sono piaciute un mondo. Siete pronti per viaggiare con il palato dell’immaginazione, almeno fino alla vostra prossima visita in Via Solferino? Primo piatto prima emozione forte: la spuma di yogurt salato con granita di gazpacho di barbabietola. E’ lieve, cremoso, vellutato, carezzevole, morbido come la seta, soffice, armonioso, mette allegria, libera la mente, è quasi una

insinuazione. L’equilibrio dei sapori è davvero impeccabile. Vorresti non finisse mai, il corpo straripa di gioia, lo assaggi con gesti lenti e sognanti. Quasi le stelle parole, emozioni e sensazioni per la zuppetta di pomodorini, fresca come un seno giovane. I moscardini giganti e leggermente caramellati sono invece un vero colpo da maestro, una gran bella trovata: piatto accattivante, intrigante, quasi lussurioso, erotico, frivolo, elettrico, tenebroso. In alternativa ordinate il maialino croccante, messo a cuocere in sottovuoto con olio aromatico di erbe con successiva aggiunta della chutney di prugne e di rabarbaro glassato. E’ un piatto semplice, completo e mortale. Il dolce invece impedisce la conversazione, un marshmallow versione semi freddo con il frutto della passione a farla da padrona. Esteticamente intrigante, poi il gusto supera le aspettative già alte. E’ fresco e languido, scenico, il suo ricordo ti accompagna per il resto della serata. E ti prometti di tornare. Presto.

Moscardini giganti

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Il Liberty Chic, cool e creativo

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anni come chef e patron di un ristorante in centro a Milano potrebbe bastare come biglietto da visita. Eppure Andrea Provenzani avrebbe tanto altro da raccontare, se solo lo volesse. Certo, preferisce parlare con i piatti e con il locale pieno, però c’è

un però. Standosene per i fatti suoi perde la gara della vanità, nel senso buono della parola. Non posta immagini, non parla mai del suo Il Liberty, non gradisce questo mondo dove si glorificano gli chef: peccato, perché in tanti scoprirebbero un locale intimo, piacevole, rilassante, dove si mangia in maniera squisita. E’ concreto e creativo, la sua mano è solida e raffinata, propone una cucina semplice e colta allo stesso modo, ispirata e fantasiosa. Ti spiazza sempre con quel tocco da maestro, vedi le seppie, tagliate a mano e non tritate. La differenza è abissale, tritarle richiede un giorno di lavoro ma poi il gusto è straordinario, vellutato e croccante allo stesso tempo. E’ una rivisitazione di un piatto veneto d’antan, seppie con piselli e cipolla: ha “nobilitato” le seppie, tritandole a mano, poi ha aggiunto una salsa a base di wasabi e piselli, poi un tocco di Martini. Piatto di una delicatezza estrema, da assaggiare lentamente, chiudendo gli occhi e sognando il mare, hai la sensazione che lo chef abbia accarezzato le seppie. Da lui si è sempre mangiato in maniera mai banale, per questo chi ci va si lascia nelle sue mani, oppure decide per il menù degustazione. I suoi piatti sono gentili, garbati, carezzevoli, ti regalano la felicità immediata, andare da lui è come godersi il mare d’autunno in una calda giornata di sole. Prendete la sua tarte tatin di pomodorini: salata, potente e passionale, ti colora la giornata, è esplosiva, intrigante, eccitante, ghiotta, amorosa. La stracciatella e il sorbetto al limone completano il piatto, dandogli forza e quell’effetto shock che tanto piace agli amanti di sensazioni forti. E cosa dire delle sue squisite caramelle, i bocconcini magici con all’interno rombo, carciofi bianchi di Salerno alla griglia, poi pinoli, finocchietto e chips, il tutto poggiato su una crema di patate allo zenzero e aglio nero? Ci sarebbe anche l’oliva taggiasca, che fa tanto, ma proprio tanto, per quanto possa sembrarvi strano. E’ tutto così gustoso e frizzante, invitante e coinvolgente, non esiste un solo motivo per non cenare da lui, in via Montegrappa. Con gli amici, la fidanzata, la moglie, l’amante, da soli: è il classico ristorante chic, che propone una cucina creativa non esosa, ma fantasiosa.

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Andrea Provenzani é concreto e creativo, la sua mano è solida e raffinata, propone una cucina semplice e colta allo stesso modo, ispirata e fantasiosa

Seppie con piselli e cipolla


Vi suggeriamo di iniziare con le ostriche e Nutella di mandorla, poi chiudete gli occhi e respirate profondamente per assimilare la fragranza vigorosa del piatto

Il Moro

I

Sicilia, my love

ncursione sfiziosa a Monza, a casa della famiglia Butticè, siciliani passionali e innamorati dell’alta cucina, sensibili alla bellezza e alla bontà, un mondo che conoscono come pochi, visto che sono figli di genitori proprietari di una piccola azienda agricola nell’agrigentino, a Raffadali. Vincenzo in sala, Salvatore cucina, Antonella come sommelier: é gente che insegue la qualità ad ogni costo, che sa il fatto suo. Le proposte sono solide, il menù non ha crepe, non si vola alto senza avere le basi. C’è tanta concretezza abbinata alla voglia di suscitare il desiderio, c’è una buona e giusta tecnica, niente eccessi, quel che basta per sublimare la materia prima, nessuna coreografia fine a se stessa e alcuna tentazione di far prevalere la forma sulla sostanza. Si punta forte sulla cucina del ricordo, un classico che piace sempre e che rilassa, coinvolge, convince. I fratelli Butticè sono uomini di mondo, navigati, esperti, con il senso dei numeri e con la ristorazione nel sangue, vivono per farti star bene, sono orgogliosi del proprio lavoro e intendono guardarti negli occhi sicuri di averti dato il meglio. Dovrebbe essere la regola e invece non lo è, chi punta sul pesce spesso cade sui fondamentali, rovinando la materia prima e allontanando la clientela. Non è un caso che la gente ti chiede spesso “raccomandami un buon ristorante di pesce”, come dire uno di quei posti seri, affidabili, dove spendere il giusto e alzarti soddisfatto: se avete fatto caso non accade mai con i ristoranti che propongono la carne, ma con il pesce sì. Va da sé che altrove non si sentono appagati e contenti, qui invece ci sentiamo di mettere la mano sul fuoco, avendolo provato in prima persona. Bandierina della qualità

da piazzare perché i sapori sono pieni, i piaceri autentici: alcuni piatti regalano la soddisfazione compulsiva, vedi la linguina che raccontiamo sotto, che induce alla lentezza e ti mette in pace con te stesso. Inutile fare l’elenco delle bontà assaggiate, ci soffermiamo su tre soltanto, che poi sarebbero i piatti che ordineremmo ancora nel caso (molto probabile) tornassimo da loro. Vi suggeriamo di iniziare con le ostriche e Nutella di mandorla, poi chiudete gli occhi e respirate profondamente per assimilare la fragranza vigorosa del piatto, così scenico e intenso da regalarti ondate inebriante di desiderio. Continuate con il potage di zucchina trombetta, cozze e crumble di pane, pietanza vellutata ed elegante. La linguina gentile con aglio, olio, peperoncino e tartare di orata è l’asso di cuori del menù, anche se molti clienti con un palato più che affidabile ci sussurrano di un pacchero con pesto di pistacchi e gamberi a dir poco entusiasmante, irripetibile e indimenticabile. Lo proveremo, così come la zuppetta di frutti di mare accompagnata da una granita sapida di limone. Immagina, puoi. Qui fanno sì che il commensale sia rilassato, felice e curioso..

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La Cina in cucina

I conquistatori Hanno fatto il grande salto: non vengono più percepiti come posti cheap dove andare una volta ogni tanto, bensì mete gourmet, solide, affidabili, addirittura trendy

Un piatto di Gong

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Il ristorante Dim Sum

tanno acquistando sempre più ristoranti, questo lo si sa da tempo. All’inizio furono i bar di quartiere, poi pian piano si sono spinti a pizzerie e ristoranti (ricordate la catena Quick Time, una quindicina di anni fa?). Ultimamente sono saliti di livello, e tanto. Della famiglia Liu si potrebbe parlare all’infinito e sempre in maniera esaltante, anche se non sapremmo più cosa aggiungere. Iyo macina utili e riconoscimenti (ha già una stella Michelin, confermatissima per due anni di fila), Gong pare sia a buon punto per lo stesso traguardo (se non adesso l’anno prossimo), Asian Mood scala posizioni su posizioni nella classifica dei ristoranti più ambiti e frequentati. I tre fratelli (Claudio, Giulia e Marco) gestiscono i locali con un piglio imprenditoriale a dir poco sbalorditivo, ma pure questo lo abbiamo già scritto e riscritto. Sono sempre pieni, non c’è mai un posto, soprattutto da Iyo, che due anni fa ha battuto il record di persone “respinte”: 620 in una sera. Non sarà così ogni giorno, però se non prenoti con largo anticipo sei “fritto”. Eccoli porre il rimedio con una seconda apertura, nella zona della Piazza Gae Aulenti. Oltre a loro hanno già fatto scuola Bon Wei e Dim Sum, ristoranti con cucina prettamente cinese, però regionale e sofisticata. Del primo ora se ne parla leggermente meno, ma solo perché i suoi successi sono cosa nota: ai tempi dell’apertura veniva osannato e preso d’assalto, piaceva tanto sia per la proposta gastronomica che per il design, opera dell’architetto Carlo Samarati. Per chi non se lo ricorda, Yike Weng aprì il Bon Wei assieme alla moglie Chiara, dopo l’ennesimo viaggio a Londra: non si capacitavano del perché a Mayfair la cucina cinese fosse così ammirata e riconosciuta (rimasero colpiti dal Mister Cho), mentre in Italia veniva considerata come alternativa al kebab. E’ affollato anche adesso, nulla è cambiato. Ormai fa parte dell’establishment, non viene più considerato un ristorante etnico: questo la dice lunga sul loro lavoro e sul come vengono percepiti. Ecco, il punto è questo, hanno fatto il grande salto: non vengono più percepiti come posti cheap dove andare una volta ogni tanto, bensì mete gourmet, solide, affidabili, addirittura trendy. Ci vanno a cenare imprenditori, magnati, professionisti, ovvero gente che sceglie sempre con cura dove passare il proprio tempo e dove spendere i soldi (perché, va detto, il conto va di pari passo con la qualità). Gli involtini primavera e l’odore di fritto sono un ricordo lontano, sono preistoria. Siamo alla seconda generazione, gente cresciuta qui, con i canoni culturali e gastronomici nostrani. Hanno preso confidenza con la città, si sentono apprezzati e integrati, Paolo Sarpi è tirata a lucido, i ristorantini a base di ravioli sono spettacolari, con cucine a vista. Sono bravi a gestirli, difficilmente si sente di un fallimento. Lavorano sodo e lavorano bene, il servizio è notevole, vedi cameriere pazienti, sorridenti, silenziose, preparate e con dei movimenti felpati. La sensazione è che a breve inizierà una nuova “era”, forse i loro saranno i ristoranti migliori in assoluto, forse uno di loro arriverà a conquistare due stelle Michelin. Perché la città l’hanno conquistata già.

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Endorsment

Posti, ricette, piatti, sensazioni, momenti: il meglio che abbiamo provato di recente, raccontato in breve. Ogni locale che pubblichiamo è un invito ad andarci, un suggerimento e un consiglio spassionato.

I

Olio

l rodaggio è finito, le idee sono chiare. Come dicono i francesi, la chiesa è di nuovo al centro del villaggio. Angelo Fusillo ha provato un po’ tutte le strade e le soluzioni prima di arrivare alla perfetta chiusura del cerchio, però ne è valsa la pena. Il nuovo chef è una specie di mosca bianca nel suo settore: non ha un profilo Facebook ne un conto Instagram, ancor meno tatuaggi e vizi. In più vanta un passato di tutto rispetto, fra Aimo e Nadia ed Enoteca Pinchiorri. Fidanzato da sempre con la stessa ragazza, Michele Cobuzzi è tutto cucina, casa e chiesa. E tanta sostanza. Da Olio ha messo subito in chiaro che la coesione e la metodologia del lavoro sono i pilastri indispensabili per arrivare lontano e soprattutto per puntare a quella costanza che tanto manca a molti ristoranti. Inutile aggiungerlo, è pugliese, perché Olio vuole essere la massima rappresentazione di una regione che eccelle come nessuna dal punto di vista delle materie prime. L’azienda dei fratelli Varvara la fa da padrona, con puledri, agnelli, maialini e vittelini squisiti. Sempre presente anche l’olio di Savino Muraglia, bandiera pugliese che sventola fiera anche da Felix Lo Basso. Il pane fatto in casa, la focaccia pure, i taralli idem. E sono di una bontà inimmaginabile.

C

ibo di strada e street food solo la stessa identica cosa. A qualcuno può sembrare che detta in inglese suoni più cool, ma è assolutamente la stessa storia. C’è chi pensa che dirla in inglese possa renderlo più chic e interessante, mentre in italiano c’è il rischio di allontanare la clientela perché suoni in maniera povera e poco attraente. E poi c’è chi ha il coraggio di puntare proprio sull’idea che suonare povero possa essere la chiave del successo. Tony Ingrosso ha “rischiato” e ha vinto. Il suo Puglia in Brera quasi ostenta un mondo povero ed è per questo che piace da morire. La sua

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ultima apertura, “Panini di Strada Macellai in cucina” è uno sballo. Panini con bombette, maiale lucano, prosciutti arrosti, il tutto con un pane favoloso, croccante e delle salse apocalittiche e mirabolanti: la barbesud è fatta con salsa di pomodoro con ‘nduja e miele di acacia, la bergamotta è in pratica una maionese al bergamotto, la pinnata una salsa tonnata con acciuga e capperi. E’ tutto maledettamente semplice e gustoso. Sono dei panini porcosi e indecenti, nel senso che ti sporchi, ti sbrodoli tutto ma sei felice. C’è del porcellismo e va bene così. A naso diventerà un format, un franchising, una catena. Voto 10


Sarah Coghill La mora che piace

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è un immagine che ci ha colpiti più di tutte le altre, seppur altrettanto affascinanti: sulla copertina di Copenhagen Food, rivista di cucina danese, troneggia una mora. Una mora nel senso di frutto, non di donna. Tutto qui, direte? Si, però guardatela: pare viva. L’idea ci è parsa geniale. Da qui ci siamo messi alla scoperta dell’autrice dello scatto, Sarah Coghill, inglese trapiantata in Danimarca. Pubblichiamo solo immagini che hanno un impatto notevole, di fotografi che hanno uno stile ben definito, con una personalità spiccata: questo lo sapete da tempo. Lei fa parte della categoria, non c’è dubbio. C’è della ricerca, un concetto, un’idea portata avanti e migliorata nel tempo, c’è un modo apparentemente semplice e crudo di fotografare la realtà dei piatti. Ricette, ritratti, still life, materie prime, luoghi, copertine: Sarah spazia e attira l’attenzione ad ogni dove, diventando addirittura un modello da seguire e imitare per altri fotografi. La cercano un po’ tutti, dal Washington Post al National Geographic, dal Travel al Lonely Planet. Inutile aggiungerlo, riconoscimenti e premi a non finire: meritatissimi.

C’è della ricerca, un concetto, un’idea portata avanti e migliorata nel tempo, c’è un modo apparentemente semplice e crudo di fotografare la realtà dei piatti No 22


Innocenti Evasioni Come in un film

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mmissione pubblica, che venisse messa agli atti: siamo colpevoli. Per anni si mormorava che a Milano ci fossero due ristoranti a rischio. Rischio di perdere la stella, perché non meritevoli del riconoscimento della Michelin. Uno di loro era Innocenti Evasioni. Si sussurrava non fosse all’altezza. Nessuno aggiungeva altro, nel frattempo la voce girava. E tanto. Fra gli addetti ai lavori, soprattutto: chef, giornalisti e altro. Poi arriva il momento che ti decidi di andare e scoprire se le voci siano fondate oppure no. Anche perché dietro le critiche e le lamentele c’è spesso un mondo losco, scivoloso, che non perdona un mancato invito a cena, uno sconto e via discorrendo. Tradotto, non sempre una critica è trasparente, spesso nasconde dell’altro. La nostra colpa è quella di aver lasciato dire senza controllare. Dunque, eccoci lì un lunedì sera, giornata che solitamente sa di magra. Eppure in Via della Bindellina, zona Viale Certosa, non c’era una sedia vuota. Nemmeno una, pieno al cento per cento. E’ stata la seconda sorpresa della serata, perché la prima fu l’impatto con la sala: bellissima, ti pareva di essere nel mezzo di un set cinematografico, oppure al teatro. L’atmosfera era straordinaria, così leggera e piacevole, informale, l’esatto contrario di tante altre situazioni stellate, rigide e impostate a tal punto da farti venire l’ansia solo all’idea che qualcosa potesse andare storto. Una sala molto accogliente, calda, open space, tavoli rotondi, gradevoli all’occhio. A proposito, avete fatto caso? I tavoli rotondi ti fanno cambiare radicalmente l’umore e la percezione di un locale, diventa tutto zen e rilassante, non a caso le trovi nei ristoranti di alto livello. Passato l’entusiasmo e l’ebbrezza iniziale, si passa alla turbina di sensazioni gastronomiche: chapeau. Il complimento vale anche per la sommelier Lucia Gatti, da anni nella classifica dei migliori del settore: meritatamente. Piccola parentesi: alla fine dell’anno scorso il ristorante ha subito un piccolo grande terremoto: uno dei due chef e soci, Eros Picco, ha lasciato la nave, decidendo di proseguire per conto suo, prendendo altre strade (auguri). Così che al timone è rimasto solo Tommaso Arrigoni, qui dal primo giorno dell’apertura, vent’anni addietro. Nessun sconquasso, nessun cambiamento, la crociera di piacere

va avanti, vivendo un momento d’oro. Lo si capisce dai piatti, coreografici e sostanziosi, intriganti e intelligenti, rischiosi ma non troppo. Due esempi su tutto: lo spaghetto con salsa di peperoni, pomodorini Cherry al forno, olive taggiasche, paprika e sotto una sorprendente battuta di gamberi rossi. Complesso da morire, intenso da svenire, ti porta sul rollercoaster dei gusti, sulle montagne russe. Strepitoso, inaspettato, spiazzante, vale da solo la stella e la visita, la serata e la cena. Un unico momento di delusione, quando il piatto finisce. Ogni forchettata sa di incanto, di meraviglia, ti stordisce. E pensare che inizialmente ti pare un azzardo, mescolare la pasta e la battuta di gamberi: appena arrotoli il tutto, la titubanza svanisce, lasciando spazio allo stupore. Piatto da assaggiare con lentezza, in silenzio assoluto. Superato il dispiacere dell’ultimo boccone, ti chiedi cosa potrebbe arrivarti per salire ancor di più di livello e di intensità. Ti rispondi che no, non si può. E invece, eccolo. Ravioli con bisque di crostacei, fegato di maiale e di vitello e filetti di pomodoro: piatto per gourmet estremi, quelli pronti a buttarsi nel fuoco dei piaceri aggressivi e delle combinazioni diaboliche. Nirvana e nitroglicerina da Innocenti Evasioni. Immagina, puoi.

Spaghetto con salsa di peperoni, pomodorini Cherry al forno, olive taggiasche, paprika e sotto una sorprendente battuta di gamberi rossi: piatto complesso da morire, intenso da svenire, ti porta sul rollercoaster dei gusti, sulle montagne russe No 23


Asina Luna

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Scartando alcuni ristoranti, seppur piacevoli e meritevoli, per la nostra cena immaginaria abbiamo optato per l’Asina Luna a Peschiera Borromeo, pochi minuti da Milano, posto per carnivori feroci ed esigenti, perché solo loro possono apprezzare al massimo le frollature 80 giorni e le carni ricoperte di grasso nobile di vitello. Appena entri rimani a bocca aperta e sognante: la vetrina ben in vista ti fa subito capire che non ti trovi in un posto qualsiasi. I grassi, i colori, i tagli, pare una gioielleria: sei al settimo cielo, anche se non hai ancora assaggiato nemmeno un boccone. Poi ti siedi e diventi presa di un inesprimibile benessere: la scottona prussiana ti fa scendere una lacrima, quella bavarese ancor di più. Vivi una straordinaria aggressione di gusti e potenza, le carni sono esplosioni nucleari capaci di incendiare la mascella di felicità, provi una sorte di soddisfazione compulsiva. Qui le carni non sanno di pascolo e di erba alta, di aria aperta e colline selvagge: no, qui siamo in un’altra dimensione. La presentazione, poi: un sublime gusto estetico, la scottona arriva fumante, rossa, sensuale, invitante, selvaggia, posata lentamente sui piatti.

A cena con Donald

luglio, il giorno dell’America e del suo strepitoso modo di essere, capitalista, ambizioso e tutto il resto. Ci siamo svegliati con una piacevole sensazione, perché avevamo sognato Trump, uno che ha segnato, e tanto, i primi anni del nostro mondo imprenditoriale e aspirazionale. Perché? Semplice, siamo maturati, migliorati e cambiati grazie ai suoi libri, uno su tutti, “Pensa in grande e manda tutti al diavolo”. Se vi volete affacciare alla finestra degli affari, se volete diventare diretti e pragmatici, ve lo consigliamo: è adrenalina pura, man mano che lo leggete aumenta in voi la voglia e la convinzione di poter fare qualsiasi cosa. Un libro per vincenti scritto da un vincente nato. Nello stesso periodo – parliamo di una decina di anni fa- arrivò in tv The Apprentice, reality show di infinita bellezza e sfrontatezza, impostato sul mondo duro e crudo del business: lo ammettiamo senza problemi, abbiamo visto perfino le repliche e le repliche delle repliche. Straordinario. Se non lo si è capito, ci ha ammaliati e conquistati a tal punto da diventare il nostro idolo assoluto (la politica non ci interessa): sognarlo, dunque, ci sta. Per questo ci siamo svegliati con il chiodo fisso di immaginare un ristorante dove invitarlo a cena per il giorno dell’indipendenza. Carne, ovviamente, carne potente, vincente, intensa, per un americano geniale e verace, vulcanico e indomabile, ambizioso e vanitoso: dove l’avremmo portato? Per lui ci vorrebbe un posto con proposte sorprendenti, fuori dagli schemi, non banali.

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I grassi, i colori, i tagli, pare una gioielleria: sei al settimo cielo, anche se non hai ancora assaggiato nemmeno un boccone


Piccola aggiunta sui tavoli: ruspanti e austeri, composti da liste di vecchie imbarcazioni di pesca indonesiane in teak marino, albero delle foreste tropicali. E’ un posto dove tornare più volte, perché è impossibile e inimmaginabile assaggiare tutto in una sola volta, anche se Tiziana Dinoia, proprietaria assieme al marito Riccardo Succi, ti vorrebbe far inebriare con piatti su piatti, dagli antipasti ghiotti ai tagliolini con asparagi, fino ai fagottini di pasta fresca gratinati al forno con crema di zafferano, ripieni di Roquefort e pak-choi. Riccardo, dicevamo: è lui il mastro della griglia. Si vede subito la cura, il dettaglio: la scelta delle carni non è mai frettolosa e banale, si intuisce al volo che il prezzo non è una barriera, nel senso che acquista il meglio e non le più convenienti. Non ci vuole un esperto per rendersi conto che da lui il compromesso non esiste. Già ce lo immaginiamo, Donald: insaziabile, fiero e ingordo, a chiamare gli amici. Oppure a tornare assieme a loro.

Vivi una straordinaria aggressione di gusti e potenza, le carni sono esplosioni nucleari capaci di incendiare la mascella di felicità, provi una sorte di soddisfazione compulsiva

Lomi

La ricetta della nonna La ricetta è quella della mia nonna con un’aggiunta di Alain Ducasse

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a donna elegante mangia ruspante. Soprattutto dopo aver fatto all’amore per tutto il giorno. Se la cena prima deve essere sensuale, come un preambolo amoroso, il pasto dopo si presume debba essere ghiotto, succoso, sostanzioso e procelloso. Ed è così che andò: tacchi alti e abito succinto, sangue infuocato e corpo straripante di gioia e consumato dall’amore, una fame verace e una voglia famelica di cibo semplice e assai selvaggio. Il ristorante di Bleri Dervishi è ideale: i suoi polli un po’ al forno un po’ alla brace sono mortali, le patate idem, la birra ghiacciata anche. E’ tutto meravigliosamente semplice e dannatamente buono. “La ricetta è quella della mia nonna con un’aggiunta di Alain Ducasse”, racconta il 24enne di origini albanesi, cresciuto alla scuola di Terry Giacomello. Il pollo è così tenero da voler piangere. Ogni morso è felicità, senti la pelle soffice e croccante che vibra. Croccante e gustoso fuori, mentre all’interno sembra panna montata. Golosità infinita sui Navigli, provateci.

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Solo i benestanti potranno permettersi di condurre una vita vegetariana

Lo chef assieme alla sua brigata

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L'interno del ristorante

Come mi definisco? Diciamo che sono un cuoco della terra, faccio una cucina vegetale integrale, onesta e piena di dignità

Chiodi Latini La prima volta

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lla fine è successo. E’ stato difficile, per certi versi addirittura drammatico, però ce l’abbiamo fatta. Non l’avremmo mai immaginato, nemmeno sotto tortura. E’ stata la nostra prima volta. Ora, a esperienza compiuta, non possiamo dire di sentirci meglio, però neanche tanto peggio. Forse perché il proprietario è un brav’uomo, il che non era affatto scontato, anzi: temevamo il contrario, visto l’argomento. I fatti. Abbiamo mangiato in un ristorante vegetariano. E’ stata la nostra seconda volta: la precedente fu traumatica, da Joia. Fu uno spettacolo poco simpatico in un posto buio e per nulla accogliente: l’atmosfera era cupa, le vibrazioni negative riempivano il locale triste. Ti pareva di assistere ad una specie di messa nera, fu inquietante. Poi ammettiamolo, Leemann non ci sa fare con la gente, è troppo preso da se stesso, con quel viso da giudice supremo, convinto che la propria opinione sia legge. Usciti dal suo ristorante assai malridotto abbiamo premuto il tasto delete, cancellando il tutto dalla nostra mente. Rimosso. Per sempre. Stavolta siamo andati da Chiodi Latini, a Torino. Una via silenziosa, per piemontesi doc e sabaudi veri. Il locale è piccolo, molto. Il primo impatto è piacevole. Rimane la diffidenza, non tanto nei confronti del patron, quanto per un mondo troppo militante per badare alla gentilezza, troppo intossicato dall’ideologia per ricordarsi di ridere e di godersela. Godersela, figuriamoci. Diciamolo, uno come Antonio Chiodi Latini (si, è il suo cognome) potrebbe contribuire a rasserenare gli animi e far cambiare l’idea su tanti aspetti. E’ garbato, educato, pacato, sorride: non ce lo aspettavamo, abituati come siamo a vedere i vegetariani urlare, sdottorare, sempre corrucciati, invasati e comicamente convinti di avere il peso dell’umanità sulle spalle. E soprattutto, non ha l’anima stanca, come gli altri. E’ allegro, un po’ filosofo e un po’ cantastorie, un po’ scienziato e un po’ nonno saggio. Lo sa pure lui, ammette senza problemi che la cattiveria e il livore, così come l’incompetenza di alcuni urlatori veg fa solo dei danni. Ha scelto un’altra strada, la sua, non sa dove porterà però intanto se la spassa, vive benissimo una seconda giovinezza. La prima è stata piena di successi, non a caso fu nominato Cavaliere

del lavoro. Ha avuto delle aziende, scritto libri, fatto il docente: poi ha mollato tutto per mettersi ai fornelli e inseguire un qualcosa che non gli è ancora molto chiaro. Sa che non cambierà il mondo, non lo desidera nemmeno, cerca solo di divertirsi e di dire la sua. E’ un affabulatore, mescola l’alto e il basso, il divino e il profano, tocca corde sensibili. “Solo i benestanti potranno permettersi di condurre una vita vegetariana”, afferma. “Per tanti anni ho mangiato la carne, e tanta. Mio padre produceva formaggi, io dormivo con il guanciale di vitello sotto il cuscino. Mi sono fermato otto anni fa, non ero più soddisfatto di come vivevo, mi sentivo appesantito. Fra latte, formaggi e bistecche il cuore non si riposava mai. Ho cominciato a leggere, a informarmi sui legumi, le farine integrali, ora eccomi qui, non ho mai più avuto la febbre e sono dimagrito 30 chili. Ora ho due mulini, uno per i celiaci. Purtroppo la gente ha perso il contatto con la terra, gli orientali vogliono vivere come gli occidentali, è tutto sotto sopra. Come mi definisco? Diciamo che sono un cuoco della terra, faccio una cucina vegetale integrale, onesta e piena di dignità, lei sa che lo spinaccio di qualità costa 14 euro al chilo? Certo, lo prendo dalla contadina, però è così bello vedere le verdure, sono sempre diverse”. Non riusciamo ad immaginarci la sua clientela, che tipo di persone sono. Antonio va avanti, con quella parlatina a voce bassa e con il capello alla Gavroche. “Qui da me la sera arrivano anche i carnivori (ndr: ci permettiamo di dubitare) . All’ora di pranzo invece vedi quasi solo donne, diciamo il 90 per cento”. Ok, però la gente non teme discorsi infiniti, appiccicosi, sfiancanti e tediosi? “Figuriamoci, non me lo sogno nemmeno di disturbare i clienti”. E’ già tanto. Ci guardiamo in giro, donne silenziose che mangiano in maniera ancor più silenziosa. Allegria, poca. Certo, essendo la nostra prima volta ci sentiamo come in un convento, Chiodi Latini forse lo è, non abbiamo alcuna familiarità con posti del genere, che poi dovrebbero essere dei locali come gli altri e invece non lo sono. Non c’è quel ronzio piacevole della gente felice di trovarsi lì, ma chi lo sa, i posti che amiamo noi sono più spensierati e goderecci, di sicuro la carne trasmette un’altra energia, la differenza è così evidente. Noi viviamo in un mondo a colori, pure Antonio cerca di crearlo: la differenza sta fra la gente che riempie i “nostri” locali ed i suoi. Ci siamo dilungati e non abbiamo speso una parola sui piatti. Forse ci siamo concentrati troppo sulle parole di Antonio. Non ci sentiamo di dare un giudizio netto per un semplice motivo: non abbiamo sentito alcun brivido.. Siamo per il saliscendi di gusti, per le scintille di piacere, per la roulette dei sapori, per i contrasti elettrici, per la seduzione nel piatto. Qui vigono altri criteri, oppure siamo noi troppo concentrati e tarati per vivere delle emozioni forti. Intanto abbiamo vissuto un paio di ore divertenti. Non diventeremo vegetariani, però un altro caffè con Antonio lo berremmo volentieri.

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Aurora Marchesani

Cover girl

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una storia che parte da assai lontano. Per quello che riguarda Aurora, è iniziato tutto forse prima ancora che nascesse. Mettersi in pose sensuali senza nulla addosso è il suo modo di essere, il suo sogno quotidiano, il suo biglietto da visita. Se una giornata avesse 100 ore, lei vorrebbe farsi fotografare per 120. Se la fotografa si chiama Monica Cordiviola, anche 150. Di cognome fa Marchesani, ma se potesse lo cambierebbe in Playboy. E’ nata per essere una coniglietta: essere e non fare, perché lei si sente il (non) vestito della maison americana cucito addosso, non interpretta una parte: no, lei vive così. E’ già stata per due volte sulle copertine di Playboy, senza contare altri innumerevoli servizi all’interno. A proposito di biglietti da visita, un dicembre di qualche anno addietro si presentò al nostro appuntamento con la sua prima cover, nuda nudissima: eravamo assieme ad altre persone e lei, con un sorriso grande come una casa, disse: “Buongiorno, io sono questa qui”, tirando fuori dalla borsa il numero appena stampato. Certo, il mondo è pieno di modelle, molte di loro incredibilmente belle e affascinanti, eleganti e raffinate, sexy e indimenticabili, ma per noi copertina vuol dire lei e soltanto lei. Dovevate vederla, mentre scattava in cucina: appena si trova davanti una macchina fotografica si trasforma, sprizza bellezza infinita e sensualità selvaggia da tutti i porri. E’ camaleontica, irresistibile, una gatta, una pantera e anche una leonessa, perché ruggisce, è grintosa, ti trascina. Aurora, dunque. Poi ci sarebbe Monica Cordiviola, la fotografa dark. Oggi nessuno ricorda la copertina di giugno 2013, la prima

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di Good Life nuova versione, ovvero impostata sulla ristorazione e moda. Per quell’occasione fotografò Stella di plastica (il nome d’arte della modella) nella cucina di casa sua, a Carrara. Nel numero precedente abbiamo ripubblicato lo scatto (se volete lo trovate online, sulla piattaforma issuu, eccola: https://issuu.com/dominiqueantognoni/ docs/good_life_taste_felix). Dopo Stella seguirono Andrea Berton, Carlo Cracco, Roberto Conti e Felix LoBasso: ora si torna alle “origini”. Ovviamente le fotografie più belle non si possono pubblicare, troppo osè per alcuni ipocriti e bacchettoni (ma solo in pubblico), non ha senso scatenare discussioni sterili. Difficile sapere dove ci porterà tutto questo, ma non divaghiamo: c’è ancora speranza, noi continuiamo a vivere nel nostro mondo, fatto di bellezza ed emozioni, ovvero l’esatto opposto della direzione comicamente imposta dal pensiero unico, che ci vieta di vivere allegramente. E poi c’è Angelo Inglese, colui che nell’arco di un paio di anni ha realizzato camicie su misura per Donald Trump, Sharon Stone, Francis Ford Coppola e famiglia, poi le giacche da chef di Cracco, Cogo, Lo Basso, Wicky, Conti e addirittura Gualtiero Marchesi, prima che ci lasciasse. L’ultima creata per Cracco è di un cotone leggerissimo, da camicia estiva, un 220 per chi se ne intende. Qui si chiude il cerchio: la moda che “annusa” l’andazzo e va verso gli chef, capendo che sono loro i nuovi divi, anche dal punto di vista estetico. E noi, come ben potete vedere, ci siamo adattati a meraviglia, anzi, nel giugno 2013 avevamo anticipato le tendenze.


Il fagottino ripieno di pecorino, con accanto la tartare di gamberi di Mazara è di una delicatezza vibrante, pare creato appositamente per una donna elegante, raffinata e sorridente che se lo gusta con gesti lenti e sognanti in una bella serata fresca e con la luna

Terrazza Triennale

e frivolezze, risate e confort: qui le trova, eccome. Impossibile trovare un posto all’ora di cena, salvo prenotazione: la gran parte desidera un tavolo fuori, perché ti pare davvero di essere al Central Park, con la differenza che nel verde newyorkese non troverai mai un piatto come il fagottino ripieno di pecorino, con accanto la tartare di gamberi di Mazara: è scenico, di una delicatezza vibrante, talmente buono che il suo profumo ti accompagna per gran parte della cena. Sapori pieni che sbocciano sul palato, ogni morso è felicità pura, regala scintille di piacere, pare creato appositamente per una donna elegante, raffinata e sorridente che se lo gusta con gesti lenti e sognanti in una bella serata fresca e con la luna. Si, è un piatto da donna, così come il tonno “legato” alla caponata può essere considerato maschile, perché corposo, robusto, forte, complesso. Vi suggeriamo altri due piatti armoniosi come una sinfonia: la spigola marinata con lime e peperoncino, con piccoli bocconcini di avocado accanto e il sesamo nero, poi la crema tiepida di burrata, ostriche (Amelie, per la cronaca), caviale e cipolla agrodolce. Salite qui e cercate di catturare i piaceri, è da lì che viene il brivido.

Bistronomia d’autore

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estaurant with a view, era il titolo di una rubrica sul Financial Times. Leggevamo con un pizzico di invidia, perché Milano non poteva competere, per ovvi motivi: manca il mare e ancor di più gli spazi aperti, l’orizzonte è ovunque distante pochi metri. Poi arrivò il ristorante di Felix Lo Basso sui tetti della Galleria e prese piede l’avventura di Stefano Cerveni alla Triennale. Certo, uno spazio ristorativo c’era anche prima, però il livello era appena soddisfacente, nulla di così coinvolgente da meritare appieno il disturbo. Mancava il tassello più importante, ovvero il menù che potesse andare di pari passo con la vista: eccoci, siamo diventati clienti fissi e affezionati. Diciamolo subito, si mangia meravigliosamente, Stefano ha trovato in Matteo Ferrario il braccio destro perfetto: lo sa e gli lascia tutta la libertà del mondo. Le idee sono sue (di Matteo), la mano anche: è riuscito a far diventare la Terrazza Triennale un bistrot d’autore e non era affatto facile. La sua mano è gentile, armonica, melodica, garbata: in più è calmo, rassicurante, sorridente, si muove senza scatti nervosi. Ha entusiasmo, i piedi per terra, si rende conto di avere di fronte una clientela esigente, perché il quartiere è abitato da gente che pretende, e tanto. E’ il classico ritrovo della Milano bene, un po’ come lo era Bulgari all’ora dell’aperitivo e della colazione. Stessa gente benestante che pretende il massimo, anche se a volte con modi snob e antipatici. Certo, arriva anche gente solare e frizzante, desiderosa di emozioni

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Venissa vista dall'alto

Venissa vista dall'alto

Matteo Bisol Venissa, mon amour I mesi migliori per passare un weekend qui, oppure una mini vacanza? Maggio, giugno, settembre e ottobre L'interno del ristorante

Un angolo di Buran

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e non è la vacanza ideale poco ci manca. O forse è così fiabesca da non poter nemmeno competere con le altre mete, destinazioni e località. Già tre anni addietro, leggendo e pubblicando le parole di Camilla Baresani, sognavamo ad occhi aperti. “Venissa è il sogno di ogni scrittore. Puoi prendere il vaporetto, andare a Venezia e stare nel mezzo alla baraonda e al jet set, però quando torni sull’isola sei in un mondo intimista, romantico, che aiuta la concentrazione e la creatività. Un po’ come da Cipriani a Torcello, ma con un tocco di naturalezza rurale. Gianluca ha unito il culto del paesaggio a quello del cibo e del vino. Quasi tutto quello che viene servito nel ristorante è prodotto nei magnifici orti di Venissa, coltivati da pensionati dell’isola adiacente, Burano, oppure viene pescato in laguna. Il progetto di Bisol, costoso e non so quanto redditizio (il reddito non si fa con poche stanze raffinate e con una cucina da gourmet, semplice e molto ricercata), è da vero visionario”. Non sapremmo cosa poter aggiungere e difatti preferiamo metterci in disparte, lasciando la scena a Matteo Bisol, figlio di Gianluca, patron dell’azienda vinicola che porta lo stesso nome da ben quindici generazioni. Matteo è il factotum, direttore generale e uomo immagine, un po’ come lo è suo padre con l’azienda di famiglia. E’ serio, preparato, un gran lavoratore, sensibile, educato. Parla in maniera garbata, a voce bassa. E’ rilassante ascoltarlo ed è soprattutto fantastico immaginare gli scenari, come se leggessimo un libro leggero, uno di quei racconti ricchi di aggettivi, tipo Rosamunde Pilchner, la regina dei romanzi sentimentali ambientati nelle isole britanniche. “In pratica non mi sposterei mai da qui, ci faccio perfino le vacanze. Immaginatevi di svegliarvi a Burano, nel silenzio più assoluto, in una delle nostre case trasformate in albergo. Apri le finestre e guardi la laguna, sempre uguale ma così diversa ogni mattina. Dopo la colazione ti sposti a Lido, meno di un’ora con il vaporetto, oppure parti per Punta Sabbioni, trenta minuti soltanto. Torni nel tardo pomeriggio, quando la luce inizia a calare e magari incontri anche qualche pescatore che ti porta in giro con il bragazzo, come si chiama la loro barca. A bordo apri una bottiglia di prosecco, ovviamente Bisol, scendi a Torcello, visiti la cattedrale e sali a piedi fino al campanile. Di ritorno, l’aperitivo al Cipriani è imperdibile. Ecco, all’ora dell’aperitivo, o la sera tardi illuminata dai lampadari, Burano è qualcosa di davvero unico e indimenticabile, perché a quell’ora i turisti se ne sono andati e regna il silenzio assoluto, non ci sono macchine e nemmeno rumori. Visti da fuori, gli edifici sono tutti identici, il nostro è in pratica un albergo nascosto, esci e hai la sensazione di avere il pescatore come vicino di casa, ti senti un vero buranello. Non esiste un altro posto come questo, credetemi. A proposito, abbiamo introdotto un servizio navetta dalla stazione di Venezia, per cui non devi prendere i vaporetti affollati, oppure il water taxi fino a Mazzorbo. Assicuriamo tutto noi, senza alcun costo: chi viene a trovarci paga solo il menù degustazione di sette portate e il giro nei vitigni con degustazione annessa, sono 175 euro tutto compreso, ovviamente anche il viaggio di ritorno verso la stazione. Pensate che di solito solo il water taxi ti costa 140 euro per una sola corsa: il vantaggio per il cliente è notevole. Nessun stress, solo relax, perché Venissa è molto armoniosa e discreta. Il menù, poi: Francesco Brutto cambia i piatti in continuazione, segue le stagioni però spesso abbiamo delle novità ogni settimana. Per esempio adesso, che siamo nel bel periodo del diradamento, si fa la selezione di grappoli: con quelli tagliati ha creato un piatto straordinario, mettendo mazzancolle crude, pomodorini del nostro orto e acini di uva molto verde che altrimenti sarebbero stati buttati. Ora produciamo anche una nostra birra, Venusa, fermentata con il santorico, una artemisia di laguna che aggiunge un tocco amaro. Insomma, oltre alla vacanza, all’alta ristorazione e alle degustazioni facciamo tornare la voglia di lavorare la terra, l’agricoltura sta vivendo un periodo d’oro, un vero rinascimento come non si viveva da quel tremendo 1996, quando l’acqua alta distrusse tutto, dai frutteti ai vigneti. I mesi migliori per passare un weekend qui, oppure una mini vacanza? Maggio, giugno, settembre e ottobre”. Così parlò Matteo.

All’ora dell’aperitivo, o la sera tardi illuminata dai lampadari, Burano è qualcosa di davvero unico e indimenticabile, perché a quell’ora i turisti se ne sono andati e regna il silenzio assoluto, non ci sono macchine e nemmeno rumori

Matteo Bisol

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Marcus Nilsson

Storie imperfette

Il curriculum è impressionante, pazia dal New York Times al Condè Traveller, da Esquire a Gourmet, dal New Yorker ad Oprah Magazine fino a Vogue e GQ No 32


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l curriculum è impressionante. Spazia dal New York Times al Condè Traveller, da Esquire a Gourmet, dal New Yorker ad Oprah Magazine fino a Vogue, GQ e mille altre pubblicazioni di primo piano. Infinito anche l’elenco dei riconoscimenti ottenuti, faremmo sera se stessimo a elencarli tutti. E’ tutto meritato: l’uomo ha saputo trovare una strada, personalizzare i propri scatti, creare uno stile che lui stesso definisce “brutto”. Ugly stories. Insomma, riesce attirare l’attenzione. Pare facile ma non lo è, perché non accade spesso restare a guardare un’immagine. Ci deve essere qualcosa, l’idea, il tocco magico. Altrimenti passi oltre, senza prestare attenzione. Ci sono tanti fotografi “corretti”, che svolgono il compitino. Zero emozioni, però. Certo, è un discorso valido per quasi tutti gli altri settori di attività: non basta fare il giornalista per trasmettere interesse, non basta chiamarti stilista per regalare emozioni. In cucina puoi fare il tuo molto bene senza entusiasmare: certo, già svolgere la propria attività necessita sforzo e qualità non indifferenti, figuriamoci impressionare, colpire, restare nella mente della gente. Marcus ci ha colpiti subito, come ha colpito gli editori dei vari e famosi magazine per i quali ha lavorato e scatta tuttora. Ha un suo mercato perché ha saputo crearselo. Le sue fotografie sono vive, cariche, colorate, dinamiche. In una parola, “spacca”. Forse lo aiuta il fatto di essere stato un cuoco: ha seguito la scuola di cucina nella nativa Svezia, poi ha lavorato a New York, dal suo connazionale Marcus Samuelsson, a quei tempi chef al Acquavit di New York. Nello stesso tempo ardeva in lui l’interesse per l’arte, così che si è iscritto al La Guardia College, lavorando al ristorante solo negli weekend. Con il tempo ha capito che la vita in cucina non faceva per lui, troppo stress e troppa fatica fisica: ha preferito continuare gli studi di pittura. A 28 anni ha deciso di mollare completamente la ristorazione, iniziando la sua seconda vita. “Può sembrare strano, ma agli inizi non mi sentivo attratto dalla fotografia culinaria. Certo, possedevo una montagna di libri perché mi piaceva informarmi sulle ricette, mi aiutavano a migliorare ed erano fonte di ispirazione. Però preferivo seguire lavori di interior design e moda, altro che scattare piatti. Va detto che a quei tempi la fotografia culinaria era assai deprimente e triste, nulla a che fare con il mondo di oggi. Ad ogni modo, mi piacevano i ritratti, non il food. Pian piano ho cambiato idea avvicinandomi al cibo, innamorandomi delle così dette ugly stories, ovvero quel tipo di piatto non bello e troppo perfetto. Mi piaceva la bruttezza e la spontaneità di alcune situazioni, volevo creare uno shock. Il primo ad avermi dato fiducia fu Richard Ferretti di Gourmet. Cercava un approccio innovativo: voleva solo fotografi senza esperienza nel settore. Mi commissionò un servizio di dieci pagine, pensavo fosse uno scherzo. Ero convinto che non verrebbe mai pubblicato e invece piacque molto. Lì capii che la strada era quella giusta, ovvero uscire dai canoni prevedibili e rassicuranti. Poi andai a Roma in un ristorante tranquillo, nell’ex ghetto ebraico. Quando lasciammo il tavolo era tutto in disordine: bicchieri,

macchie, bocconcini sul piatto. Con la camera digitale scattai veloce con l’intenzione di ricreare l’atmosfera in studio. Invitai alcuni amici a casa e alla fine cambiai leggermente alcuni elementi: il risultato fu spiazzante. Mi piace costruire e creare un’atmosfera, non un piatto super pulito e freddo. Purtroppo sono poche le riviste che si prendono dei rischi, preferiscono essere rassicuranti. Amen. Verso il 2007 ho iniziato a studiare un modo particolare e stravagante per fotografare parti di animali come se fossero still life. Invece di accontentarmi di scattare il piatto finale, mettevo gli ingredienti uno accanto all’altro, le cervella e il rognone, le orecchie e le zampe, il tutto accanto al cognac e ai coltelli, alle spezie e le verdure. Niente ombre, una luce forte, come in una sala operatoria. Insomma, un’atmosfera un po’ sterile, da clinica. Di quel periodo ricordo la fotografia con le orecchie di maiale, che fra l’altro devono essere rasate, esattamente come facciamo noi con la barba. Scelsi una Bic rosa, tanto per distinguermi ancor di più: funzionò. Idealmente preferisco la luce che arriva dal nord, più fredda. Quando scatto fuori aspetto la luce giusta, sempre: altrimenti non si lavora. Devo anche ammettere che sono sempre stato affascinato dai guanti in latex: anni fa in Europa nessuno li utilizzava, mentre negli Stati Uniti li avevano tutti. Oggi pare trendy indossarle, è un modo per dire che si ha la consapevolezza dell’ambiente dove si lavora. E’ cool farti vedere con i guanti, com’è cool imitare il mio genere di fotografia”. Imitare non basta. E poi a noi piace l’originale.

Devo anche ammettere che sono sempre stato affascinato dai guanti in latex: anni fa in Europa nessuno li utilizzava, mentre negli Stati Uniti li avevano tutti

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CARL WARNER

Un mondo No 34


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er 25 lunghi anni ha lavorato, come fotografo, nel mondo della pubblicità. Poi, la virata improvvisa ma decisa verso “food landscape”, una sua trovata, una genialata. La prima “opera” nel 1999, Mushroom Savanna: lo ammette lui stesso, non si sarebbe aspettato un successo del genere. “Camminavo in un supermercato, passavo davanti ad un banco pieno di funghi, mi sono molto piaciuti. Li ho comprati e portati nello studio, ho giocato un po’ con le luci e mi sono sembrati degli alberi giganteschi, se guardati dal basso. Tornato nel negozio, ho comprando altre verdure e generi vari, cercando di comporre una specie di mini mondo. 18 anni dopo eccoci ancora qui, con quasi cento immagini”. Raccontata così pare tutto facile, invece guardate con attenzione: è più dura che finire un puzzle. Ci vuole una pazienza folle, oltre ad un occhio particolare e una visione da genio qual è.”Il cibo, le verdure soprattutto, sono una fonte di ispirazione continua perché materia organica. Non avete idea della varietà di colori, forme e strutture che ci sono nella natura. Dall’altra parte esistono materie prime che perdono brillantezza assai veloce, per cui hai poco tempo a disposizione per organizzare il tutto e fotografare. Le verdure fresche si affievoliscono davanti ai tuoi occhi, in pochi minuti”. Fin da piccolo inseguiva una vita d’artista, anche se a quei tempi non sapeva esattamente che tipo: ma di certo sognava di diventarlo. “Per ore stavo nella mia stanza a disegnare di tutto, dai palazzi alle navi. Suonavo perfino in una band, facevo delle fotografie, insomma spaziavo. L’ispirazione per le mie attuali immagini è venuta quando ho messo insieme i pezzi. Guardavo le tele dei pittori, le analizzavo, mi incuriosiva la profondità che riuscivano di dare ai quadri. Roger Dean e Patrick Woodroffe i miei preferiti, poi ovviamente Dalì, seppur così diverso dai primi due”. Ora lo scopo è di far sorridere la gente e di promuovere un modo di mangiare bene. “Mi piace pensare che il mio lavoro possa essere un volano, un veicolo per il cibo sano, per una educazione nutrizionale, una dieta giusta”. Il suo studio si trova a Londra, a due passi dal Borough Market, probabilmente il più antico mercato della città e non è un modo di dire: pare sia stato costruito ai tempi dei romani. Com’è ovvio che sia, ci va spesso per trarre ispirazione dai vari prodotti, anche perché la luce, rispetto a quella dello studio, è naturale. “Purtroppo non riesco a capire i profumi, il che un po’ mi dispiace. Dall’altra parte è un bene, quando riempiamo la stanza di pesce non subisco l’odore”, scherza. Odore oppure no, gli scatti, i paesaggi sono straordinari.


Purtroppo non riesco a capire i profumi, il che un po’ mi dispiace. Dall’altra parte è un bene, quando riempiamo la stanza di pesce non subisco l’odore

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Guardavo le tele dei pittori, le analizzavo, mi incuriosiva la profondità che riuscivano di dare ai quadri. Roger Dean e Patrick Woodroffe i miei preferiti, poi ovviamente Dalì, seppur così diverso dai primi due

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Il cibo, le verdure soprattutto, sono una fonte di ispirazione continua perchĂŠ materia organica. Non avete idea della varietĂ di colori, forme e strutture che ci sono nella natura

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Mi piace pensare che il mio lavoro possa essere un volano, un veicolo per il cibo sano, per una educazione nutrizionale, una dieta giusta

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Dennis Prescott Mangiare è connettere Stare attorno ad una tavola e mangiare connette le persone, è una delle ultime esperienze da fare con qualcuno

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i siamo innamorati fin da subito dallo slogan “food is art”, mettendolo in bella evidenza nella pagina del sommario, come una specie di sottotitolo della rivista. Una specie di dichiarazione d’intenti, un vanto, un credo, un mantra. Certo, non intendevamo l’arte nel senso greve, appiccicoso, stizzoso e pesante della parola, non era un concetto intellettuale, bensì l’esatto contrario: leggero e sognante, un po’ come quando Messi viene considerato un artista. Ora eccoci a presentarvi un altro tipo di artista, un fotografo gastronomico con un passato nel mondo della musica: si chiama Dennis Prescott, americano, musicista a tempo pieno fino a quando decise che gli sarebbe piaciuto fare altro, sempre puntando e sviluppando la propria creatività. “Non avrei mai immaginato di trovarmi a scattare e scrivere di food, ma ora sono davvero felice, ho trovato un modo fantastico per sprigionare la mia vena artistica”. Viene considerato uno degli influencer più…influenti nel mondo del cibo, non a caso il suo primo libro, “Eat delicious” ha avuto un grande, grandissimo successo. Di sicuro si tratta di uno di quei personaggi che può solo far bene e migliorare l’idea che si ha del settore del food. La sua arma? Le storie e le connections, come ama ripetere. Per lui le ricette e gli scatti sono delle storytelling, perché il cibo riunisce le persone, le mette a stare e a raccontare insieme, a ridere e a parlottare. Canadese di Brunswick, dove le aragoste si mangiavano perfino a colazione, Dennis ha dedicato una buona parte del suo primo libro alle ricette legate, appunto, al mondo del lobster:il suo roll, un classico sulla East Coast, ci fa letteralmente impazzire sia come modo di preparare sia come scatto. E’ seguitissimo: 4000.000 follower su Instagram, una rubrica settimanale su Food and Wine. Il suo stile ti fa realmente ipnotizzare: nel mondo della fotografia

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si chiama tabletop perspective, ovvero scattare dall’alto, stando in pratica piegati sopra il piatto, inquadrando anche le posate e il tavolo stesso. E’ tutto molto cinematografico: tante pietanze, una miriade di materie prime messe insieme sul tavolo, però con un senso. Colori, ricchezza, generosità e soprattutto “connection”. Ha iniziato a fare sul serio nel 2008, quando si trasferì a Nashville,


nel Tennessee, dove si mangia incredibilmente bene. “All’improvviso diventai ossessionato dal mondo della cucina, dopo anni passati a mangiare da McDonalds. Ero diventato compulsivo, stavo ore a cucinare per la band e poi a fotografare, realizzavo una media di dodici piatti al giorno”, racconta. “Poi arrivò l’Instagram e il mio mondo cambiò. Sono innamorato della luce del sole, però non sempre sta dalla tua parte e ti è amico: capita che mentre devi scattare ci sono le nuvole, la pioggia. Come idea, dalle 8.30 fino alle 16.30 la luce naturale è molto consistente, diciamo così. Poi spesso sono costretto a lavorare in uno studio, per via dei macchinari e delle cucine: le fotografie per le aziende sono quasi sempre indoor. Uso la Canon e come lenti mi piace il 35 mm, oppure il 100. Nelle immagini amo i contrasti e tento di dare un senso dark”. I suoi consigli per i novizi e per i coloro che vogliono avvicinarsi al mondo della fotografia foodie possono sembrare semplici e banali, però toccano il cuore del problema, ovvero la passione. Dennis suggerisce di essere autentici, vulnerabili e di fotografare i piatti che si cucinano in famiglia e si degustano insieme. Condividete le foto così come i piatti, pare di dire, perché, lo ripete spesso, “stare attorno ad una tavola e mangiare connette le persone, è una delle ultime esperienze da fare con qualcuno”. L’atmosfera gioviale che si respira attorno alla tavolata è il fulcro della storia, perché, afferma, il food è proprio questo, storytelling. Per lui è l’aspetto più importante, perfino più della qualità delle immagini e delle inquadrature. Gli piace mangiare lentamente e a chilometro zero, difatti il suo slogan è “slow food as a way of life”. “Food should be fun and I don’t think it would have to be precious”. “E ricordate”, conclude, “tutti abbiamo avuto bisogno di tempo per arrivare a certi risultati, agli inizi non eravamo bravi come lo siamo ora. In più, quando componevo musica, si usava dire che devi scrivere cento canzoni prima di indovinare quella giusta. Vale anche per le foto: servono cento scatti per scegliere la foto con la f maiuscola”.

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Ana Dias “Hai delle nuove foto?”. “Certo. E tante. Quante ne vorresti?”. “Tre o quattro” “Ok, te ne mando una dozzina, così scegli”.

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na Dias è così: sempre frizzante, brillante, generosa, immediata. In più è davvero bellissima e anche molto solare: certo, fa la fotografa e non la modella, però aiuta. Crea subito empatia, non come tante che sono al limite della sopportazione, dive spocchiose con l’ego alle stelle. In molti film vengono presentate nel peggior modo possibile, acide e antipatiche, difficili e presuntuose. Lei no, è all’opposto. Fotografa solo donne felici e sensuali, con luci naturali, niente di intimo e soffuso. Sole, sole e ancora sole. Donne splendide, sexy, eccitanti. Non vuole insegnarti nulla, solo immagini da appendere alle pareti. Non è mai scesa a certi compromessi ipocriti, non ha mai voluto essere quello che non è: alcuni fotografi, pur famosi, si sono abbassati al politically correct perdendo la faccia, guadagnando però gli applausi della stampa prevedibile e progressista per interesse. Non facciamo nomi, lasciamoli da parte e concentriamoci su Ana, portoghese di origini e giramondo per vocazione e mestiere. La vedi oggi alle Maldive e domani nella Repubblica Dominicana, poi nel Tibet e il giorno dopo chissà dove. Playboy è il suo “cliente” più importante, perché nonostante la crisi dell’editoria la rivista continua a tenere botta soprattutto in Sud America: Brasile e Filippine vantano ancora un numero di copie impressionante e un budget altrettanto importante. Se la passano bene anche alcune edizioni europee, vedi Russia, Germania e Olanda. Possiamo affermare tranquillamente che Ana abbia contribuito assai al successo delle suddette. E’ ormai una star, una costola del mondo Playboy, non a caso hanno lanciato insieme, su Youtube, un video dove si possono ammirare i backstage dei vari servizi fotografici in giro per il mondo. Confessiamo: è divertente, oltre che rilassante.

Playboy è il suo “cliente” più importante, perché nonostante la crisi dell’editoria la rivista continua a tenere botta soprattutto in Sud America

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In più, Ana è l’art director di Insomnia Magazine, rivista di nudo artistico che spopola e ospita tanti altri fotografi orfani di pubblicazioni dove poter esibire i loro scatti: se avete fatto caso, la comica moralizzazione dei media ha praticamente eliminato il lato sexy della vita. Sarà un caso, ma le vendite sono crollate. Insomma, Ana se la spassa e ci fa divertire con i suoi scatti. Niente discorsi tediosi, niente metoo e altre stravaganze pittoresche. No, lei fotografa e basta. A pensar bene sono le persone come lei quelle che per davvero amano ed esaltano le donne. Perché la bellezza conquista più di un patetico discorso pseudointellettuale, un corpo da dea fa più di un sermone non richiesto. E’ diventata così famosa da avere una sua pagina su Wikipedia, con decine di link: ne vale la pena dare uno sguardo, non tanto per le informazioni sulla sua vita quanto per le immagini che troverete cliccando. E’ sempre pop, lineare, solare, semplice: ci piace per questo. L’unica tortura, dover scegliere solo tre, quattro scatti. Per questo vi invitiamo e vi suggeriamo di seguirla online, come facciamo pure noi: www.anadiasphotography.com. Nelle pagine che state sfogliando ci sono l’olandese Olga Kobzar, Olga del Mar, Kitrysha e Marisa Pappen: piacciono a lei e piacciono a noi. Forever Ana Dias.

Ana è l’art director di Insomnia Magazine, rivista di nudo artistico che spopola e ospita tanti fotografi orfani di pubblicazioni dove poter esibire i loro scatti

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prevedibile, moscio, banale e privo di interesse. E’ un caso recente, quello di un ristorante super lussuoso privo perfino di immagini sul sito. Nessuno sa cosa si mangia, com’è il locale, nulla di nulla. Chi mai potrà provare un minimo di curiosità per un posto del genere? Non hai delle foto intriganti, non scrivi nulla sullo chef, però pensi che si farà la fila per riempire il ristorante. Presunzione? Forse. Mancanza di senso della realtà? Sicuramente. Perché se non ti immedesimi nel cliente, se non ci arrivi a capire che andando di questo passo non ti sceglieranno mai, sei fritto. All’ora delle scelte, alla domanda “Dove andiamo stasera?”, dovresti essere fra quei cinque, sei ristoranti appetibili e intriganti; se non fai parte di questa lista ristretta, perderai sempre. Tutti abbiamo un numero di posti dove ci piace andare e che suggeriamo agli altri. Chi fa parte della lista ha fatto breccia nel nostro cuore e ci ha impressionati, chi no, facile capirlo, non ci ha colpiti. E resterà vuoto.

Risto e media Comunicare a colori

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on per fare quelli che remano contro, anzi. Lo scriviamo per fare un favore ai ristoratori: guardate con occhi diversi quando scegliete un ufficio stampa. La comunicazione è cambiata, per fortuna. E’ un mondo a colori, frizzante, ci sono mille possibilità, strumenti e direzioni da prendere per incuriosire e conquistare gli amanti del buon cibo. Eppure c’è ancora chi si ostina a credere che i ristoranti si riempiono con i comunicati stampa e con l’invito dei giornalisti. Andava bene anni addietro. Ora le gente legge meno i giornali (per forza, sono scritti in maniera prevedibile e con un linguaggio saputello e saccentino, troppo lontano dalle nuove generazioni), di conseguenza si dovrebbero trovare dei nuovi modi per far coinvolgere le persone. Eppure, per dei motivi sconosciuti, la stragrande maggioranza degli uffici stampa va avanti per inerzia, invitando Tizio e Caio sperando che l’articolo pubblicato porti gente. Stop. Nulla di più. Pensano che basti un articolo per riempire il locale e soprattutto per giustificare la fattura, lo stipendio o quello che volete. E’ un po’ poco. Però guai a farlo notare, si inalberano e fanno gli offesi, loro hanno un metodo, una certa esperienza in materia, sanno quello che fanno e i risultati sono sempre apprezzati e apprezzabili: amen. Certo, a noi fa sorridere tutto questo, non ci tocca nemmeno lontanamente. Volendo essere perfidi, ci divertiamo pure: ancora oggi riceviamo (noi come tanti altri) dei comunicati pieni di parole svuotate di qualsiasi senso come location, esclusivo, coccole. Ti viene l’orticaria, eppure loro sono fieri e contenti del proprio lavoro. Si guardano il comunicato stampa con una fierezza che nemmeno avessero scritto Il vecchio e il mare. Nei loro occhi si legge la soddisfazione, come dire “Io si che so come si fa, sono un’esperta del settore, conosco tutti e per questo ho tanti clienti, perché so come si lavora”. E invece è tutto così

C’è ancora chi si ostina a credere che i ristoranti si riempiono con i comunicati stampa e con l’invito dei giornalisti: andava bene anni addietro

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S.T. Dupont Giocatoli per uomini La maison ha come azionista di maggioranza il magnate Dickson Poon, residente a Hong Kong, noto per la sua riservatezza

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yler Brulè, il fondatore della rivista elitaria Monocle, lo dice e lo ripete sempre, come un mantra: “Il mondo dell’editoria sta cambiando, le riviste stanno diventando sempre di più un prodotto premium, aspirazionale. La gente che le acquista é orgogliosa di esibirle”. Ecco, è un discorso che vale anche per tanti altri prodotti premium, prendiamo per esempio gli accendini, i tagliasigari e il resto degli accessori della maison Dupont. Chi li acquista lo fa per gratificarsi, per premiarsi ma anche per vanità, perché davanti agli amici fa sempre un certo effetto mostrare una meraviglia del genere. “Indossare” un accendino Dupont, oppure una penna stilografica racconta molto di una persona, dei suoi gusti e valori. E’ un biglietto da visita che vale più di mille parole. La maison si posiziona alto, altissimo, è alla pari di Hermes e Louis Vuitton, non a caso Karl Lagerfeld collabora con loro per la realizzazione di alcune collezioni e prodotti. Lo stesso Brulè ci pare possa essere il testimonial ideale della maison, per età e modi di interpretare la vita. Probabilmente chi legge Monocle è anche un affezionato del mondo Dupont, perché la nicchia è sempre quella: gente dal gusto sicuro, che si veste su misura, cena nei ristoranti stellati e guida macchine potenti ed eleganti. E poi va detto che per un uomo della sua caratura è assai difficile farsi un regalo, ancor più complicato farglielo: ad uno così, che ha tutto, che vive ad un alto livello, non sai mai cosa potresti regalare per il compleanno e per Natale. Probabilmente neppure lui saprebbe come gratificarsi, spesso succede anche a noi di trovarci in difficoltà nel caso volessimo “festeggiarci”. Come premiarci per un successo nell’ambito lavorativo, a parte una bottiglia di champagne e un buon sigaro? Qualcosa che possa rimanere e farci ricordare anche a distanza di anni il momento? Dupont è un mondo che pare esisti proprio per gente del genere: davvero qualcosa di prezioso, uno di quei oggetti da custodire con cura totale.

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L’azienda, quotata in borsa dal 1996, lo sa e continua a far sognare con dei giocattoli di lusso straordinari realizzati nella fabbrica di Faverges, nel cuore della Francia. La differenza la fanno, come sempre, i dettagli: inserti in lacca, smalti, pietre preziose. La maison ha come azionista di maggioranza il magnate Dickson Poon, residente a Hong Kong, noto per la sua riservatezza. Nel 2005 ha messo la mano al portafoglio, finanziando la ricapitalizzazione (42 milioni che hanno ripianato i debiti): da quel momento c’è stato un continuo crescendo. Molto ha fatto l’arrivo del nuovo amministratore delegato Alain Crevet, ex Givenchy. Ha cambiato leggermente la filosofia del marchio, mettendo sotto contratto otto giovani artisti con l’intento di reinterpretare in chiave moderna lo spirito Dupont. Per fare un solo esempio, la penna President, firmata da Pablo Reinoso, chiamata così in onore di Nicolas Sarkozy, a quei tempi presidente della Francia: ricorda le linee della Classique creata nel 1973, nascondendo nel cappuccio una chiavetta Usb. In pochi lo sanno, ma per decorare una penna Dupont ci vogliono fra 60 e 90 ore di lavoro, dalla realizzazione alla decorazione con lacca di Cina. I numeri danno ragione alle scelte di Crevet: il 57 per cento del fatturato viene dagli accessori per la scrittura, il resto dagli accendini, tagliasigari e soprattutto pelletteria, realizzata nei laboratori di Faverge: alcune sono impreziosite da materiali tecnologici come il carbonio, molto utilizzato per le collezioni di borse da viaggio e valigie. Nel 2012,per festeggiare il 140 anniversario, la maison ha rieditato due borse realizzate su misura per Audrey Hepburn nel 1953 e Humphrey Bogart nel 1947. E’ così che siamo arrivati a sessanta milioni di fatturato nel 2016. Altro dato: nel mercato degli accendini di lusso la Dupont la fa da padrona, con il 70 per cento del totale. In Italia la maison va a gonfie vele, merito anche del nuovo amministratore delegato, Tommaso Concina: i risultati sono da case history, più 37 per cento nel primo semestre dell’anno appena passato, raggiungendo cifre da capogiro, oltre 800.000 euro. “ Oggi la nostra azienda è presente sul territorio nazionale con una distribuzione multichannel che conta oltre 150 punti vendita e l’Italia è il secondo mercato strategico in Europa”, raccontava l’ad in un pomeriggio di fine novembre. Inoltre, dallo scorso mese di agosto è operativa sul nostro sito la piattaforma e-commerce, che sta già dando i primi risultati”, concludeva mentre ci mostrava l’ultima collezione di accendini, penne e tagliasigari. “Le borse stanno diventando un must”, cercava di convincerci mentre noi eravamo letteralmente abbagliati e conquistati dai prodotti per i fumatori. Perché la maison è un punto di riferimento soprattutto per gli amanti di sigari, noi per primi ammiriamo gli accendini appena varchiamo le porte di un negozio. Rimaniamo incollati davanti alle creazioni “laccate”, ne possediamo due e, confessiamo, le custodiamo come un bene prezioso. Avete presente la pubblicità di Patek Philippe? “Un Patek non si possiede mai completamente. Semplicemente, si custodisce. E si tramanda”. Ecco, vale lo stesso discorso per un accendino, penna o tagliasigari della maison Dupont.

“Indossare” un accendino Dupont, oppure una penna stilografica racconta molto di una persona, dei suoi gusti e valori. E’ un biglietto da visita che vale più di mille parole

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Influencer V stampa Vittoria netta

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a storia ha dell’incredibile. Anzi, di più. Avete presente un viaggio stampa. Di solito, torni con i nervi a pezzi: ti trattano come se fossi di loro proprietà. Ti riempiono di discorsi sonnolenti e tu purtroppo devi fingere interesse. In ordine sparso, ti rompono i così detti il patron del resort, il direttore generale, il responsabile marketing, la pr o le pr, lo chef, la direttrice della spa. Difatti non ci andiamo più, ci sentiamo (e siamo) usati e soprattutto torniamo spompati. Se ne approfittano della tua educazione o del fatto che rappresenti un mezzo stampa (di conseguenza devi fingere interesse). In più hanno una così bassa considerazione dei giornalisti da essere sicuri che per una cena (pur buona) e una notte in una camera d’albergo di alto livello tu sei pronto a tutto: andare quattro ore con un pullmino, ascoltare storie non richieste e via di questo passo. C’è invece pensa che ne valga la pena fingere interesse:a pagamento, però. Perché sorpresa sorpresa, le influencer che vengono invitate percepiscono del danaro. Altrimenti non si muovono: il tempo è danaro, quello dei giornalisti invece vale zero. Chiedono pure: quanto pagate per un viaggio stampa? Tradotto, mica penserete che sto due giorni ad ascoltare i vostri sermoni per una cena e un letto, per quello portatevi la stampa. Accade spesso che declinano l’invito: no grazie, il compenso non mi interessa. E’ un mondo fantastico: i giornalisti subiscono i discorsi tediosi a zero (ovvero valgono zero), le influencer invece prendono soldi e di sicuro sono più furbe, scappando dalle liturgie dei vari responsabili (sono tutti lenti nel raccontare, i più lenti sono quelli che dicono vi rubo solo due minuti). E’ assurdo: abusano del tuo tempo con la presunzione di farti pure un favore che ti hanno invitato, sei il loro prigioniero per poi stalkerizzarti sulla data dell’uscita del pezzo. Le influencer invece si muovono solo in cambio di danaro e hanno perfino il pallino della situazione in mano. Certo, per legge i giornalisti non possono percepire soldi per un viaggio del genere e in più si parte dall’idea ipocrita che se un giornale ti manda allora va da sé che l’argomento è di interesse editoriale e che successivamente verrai pagato (sempre molto meno

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dell’influencer, al di là dell’importanza del quotidiano, oppure del periodico). Però resta il concetto base: il giornalista lo convinci con una cena e una notte, per l’influencer devi tirare fuori l’assegno cospicuo, in caso contrario ti danno picche. Giustamente.

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