GOOD LIFE, seduzione pura

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Io, il marito di Sandra

Foto: Fabio Bozzani

Andrea Berton




Editoriale

TASTE OF MILAN IL GRAND PRIX DEL FOOD di Dominique Antognoni

Questa è la storia di una manifestazione geniale, formidabile, creata esclusivamente per i foodies, per il loro piacere spasmodico di sentirsi come in un parco giochi. Piatti stellati a dei prezzi irrisori: assaggi il massimo della ristorazione con il minimo sforzo economico. Con una trentina di euro miagoli per il piacere, gustandoti quattro portate, ovvero un menù degustazione autentico: assaggi un di piatto di Berton, poi passi da Felix Lo Basso e Andrea Aprea e continui con il maialino di Wicky: okei, Wicky San non ha ancora la stella, però il maialino ne vale due ed è ormai un must della manifestazione, un evergreen, come il Wish you were here dei Pink Floyd. Rewind. 19 maggio 2016, ore 19. Sta piovendo, e non poco. Nonostante la temperatura bassa e l’infinita quantità di acqua, fuori dallo spazio fieristico The Mall c’è una fila lunghissima: il motivo è semplice, da lì a pochi minuti inizierà Taste of Milan, la manifestazione gastronomica più amata dagli italiani. Inizio bagnato inizio fortunato, dice il proverbio, confermato poi dai fatti: sono stati quattro giorni pirotecnici, con una affluenza di pubblico che ha superato ogni attesa. Ti sembrava di essere a Monza nei giorni del Gran Premio. Chi ha avuto la fortuna di vivere appieno l’evento ricorda gli occhi felici della gente, la voglia di scoprire i piatti nuovi e di riempirsi di

ghiotterie a dei prezzi super abbordabili. Taste è soprattutto questo, le porte spalancate dell’alta cucina per chi vive con soggezione gli ambienti stellati, temendo una cena intera in un ristorante premiato dalla Michelin, oppure per chi diffida di quel mondo spesso troppo ingessato. La manifestazione aiuta a far sparire le barriere: funziona, eccome. Il contatto diretto con gli chef, rendersi conto che non mordono, che a volte sono perfino simpatici: vi pare poco? Certo, non è l’unico evento di alta gastronomia, ma è quello che avvicina la gente alla haute cuisine. In più non é autoreferenziale, non cercano di insegnarti nulla, non ti guardano dall’alto, non ci sono lezioni e convegni urticanti, non hanno la verità in tasca. Si mangia divinamente, si sogna ad ogni boccone, stop. Il sabato e la domenica c’è più gente che a Gardaland, alcuni piatti si esauriscono in fretta, per il disorientamento degli chef stessi, i quali pur cercando di prevenire, rimangono tutte le volte spiazzati dalle code e dal numero di foodies che vogliono quei piatti e solo quelli. Due anni fa Roberto Conti e Wicky Pryian misero il timbro “sold out” per lo spaghetto cacio pepe e ricci e rispettivamente il maialino cotto a bassa temperatura: è la polaroid del Taste, il momento che più lo rappresenta.

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Sommario

Good Life FOOD IS ART

Andrea Berton IO, MARITO DI SANDRA pag. 06

Lorenzo Cogo PROFETA IN PATRIA pag. 12

Giancarlo Morelli IO, MILANO E IL MAIS pag. 14

Felix Lo Basso PUGLIA, MY LOVE pag. 17

Andrea Aprea IL DIVO pag. 18

Wicky Priyan APPUNTI MILANESI pag. 22

Bob Noto IL GENIO pag. 24

Gianluca Bisol IL CONQUISTATORE pag. 31

Vincenzo Candiano DA RAGUSA CON AMORE pag. 38

Good Life | dominiqueantognoni@yahoo.it


Vita da stagisti NOMA, COPENHAGEN

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n anno addietro avevamo pubblico l’articolo che potrete leggere sotto: ha destato tanto stupore, incredulità, commenti e analisi. Per cui riproponiamo, perché è davvero un documento che possa spiegare e raccontare molto sul ristorante più acclamato e copiato negli ultimi anni. A proposito degli stagisti, da Noma c’è una situazione interessante, che merita essere approfondita. Intanto non vengono retribuiti e fin qui ci sta, vista la fila per entrarci (la puoi sempre mettere al curriculum e fa un certo effetto). Alcuni di loro vengono assunti in seguito ma nei mesi di stage si devono dannare l’anima in un modo folle. Sentite la testimonianza di Anna Lisa Macellaio, sous chef di Luigi Nastri al Settembrini di Roma. E’stata da Noma per due mesi, fra novembre e dicembre del 2015: ne ha da raccontare, anzi, la sua testimonianza è un “documento” a

dir poco straordinario per chi vuole capire come si svolgono le attività nel ristorante più acclamato degli ultimi anni. “Due settimane prima dell’inizio dello stage ho ricevuto una mail di conferma e un file che

La mia sveglia suona alle 5 del mattino. Devo attaccare a lavorare alle 6 e continuare fino alle 23-24, dal martedì al sabato. racconta la filosofia del Noma, quello che avrei dovuto portare in dotazione e quello che mi avrebbero dato loro. Mi hanno avvertito che non sarebbe stato possibile fare foto, abbando-

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nare prima della scadenza prevista lo stage o avere comportamenti inappropriati. Se avessi commesso uno di questi errori, sarebbe scattata la penalizzazione e sarei stata inserita sul famoso libro nero degli stagisti che condividono tutti i grandi ristoranti. Insomma, tolleranza zero”. Ed ecco il suo “diario”. “La mia sveglia suona alle 5 del mattino. Devo attaccare a lavorare alle 6 e continuare fino alle 23-24, dal martedì al sabato. Lo staff al Noma è diviso in 5 sezioni. 1. Am è la sezione di quelli che attaccano alle 5 del mattino e staccano alle 18 del pomeriggio. Si occupano delle centrifughe di frutta e verdura, così come del pranzo e della cena al personale. 2. Snack è la sezione che si occupa dei 20 assaggini iniziali. 3. Section 1 è la sezione che si occupa dei piatti freddi che escono dopo gli assaggini. 4. Section 2 è la sezione dei secondi caldi. 5. Pasticceria. Tutti siamo divisi come se fossimo in una caser-


Ore 22.00. Finito il servizio, di nuovo mega pulizie con svuotamento di tutti i frigoriferi e delle celle del piano superiore. ma. Ognuno è in una sezione e se sei fortunato, come me, ti mandano anche a fare il servizio nella cucina del piano di sotto. Solo così puoi portare i piatti ai tavoli e annullare la distanza tra cucina e sala, uno dei miti del Noma. Il tempo è scandito da un cronoprogramma molto preciso. Dalle ore 6.00 alle ore 8.00. Alla Section 1 prepariamo tutte le guarnizioni e le erbe che vanno nel piatto. Alle 8.00 arriva la spesa e con guanti e cappotto si esce fuori a sistemarla. Anche sotto la neve, se è questo che state pensando, perché il magazzino è esterno. Dalle ore 8.00 alle ore 9.00. Pulizia generale dei piani e del pavimento. Dalle ore 9.15. Mise en place delle preparazioni. Ore 11.30. Di nuovo pulizia generale dei piani, delle pareti e del pavimento. E’ la seconda. Ore 11.45. Briefing nella sala del ristorante dove il maître di sala racconta chi sono gli ospiti del giorno e se tra loro c’è qualche Vip o Friend (come li definiscono) o qualche tavolo con allergie e richieste particolari. Si discute anche del servizio del giorno prima e lo chef non manca mai di fare giuste annotazioni o di motivare lo staff a dare sempre il meglio di se stessi. Dalle ore 11.45 alle ore 11.48. Se sei fortunato hai 3 minuti per mangiare in piedi una scodella di minestra: i primi tavoli arrivano alle ore 12.30 e molte preparazioni sono ancora ineludibilmente da completare. Ore 15.00 circa. Finito il servizio (section 1) se lavori nelle cucine al piano inferiore ti tocca passare almeno un’ora per lucidare e pulire tutto. Se invece lavori nelle cucine di preparazione al piano di sopra continui fino alle 16.30. Quindi di nuovo mega pulizie generali sui piani di lavoro, sulle pareti e per terra. Ore 17. Cena dello staff. Ore 17 .30. Di nuovo preparazione. Ore 18.30. Il briefing della sera. Ore 19.00. Inizia il servizio serale. Ore 22.00. Finito il servizio, di nuovo mega pulizie con svuotamento di tutti i frigoriferi e delle celle del piano superiore. Poi si continua a fare preparazione fino le 23 per il giorno successivo.

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Ore 00.00. Lo staff di cucina si riunisce per organizzare l’attività del giorno seguente. Sempre così, dal martedì al venerdì. Il sabato, poiché la domenica è giorno di chiusura e non c’è bisogno di fare alcune preparazioni c’è più tempo per svolgere le pulizie straordinarie. Si prendono le scale per arrivare al soffitto, si smontano tutti i mobili per disinfettarli e si puliscono anche le prese di corrente per togliere ogni ombra di grasso. La cosa più terribile, almeno sino al disgelo, è la pulizia dei magazzini esterni (sei al freddo). Il giorno della chiusura per le feste natalizie (22 dicembre) siamo rimasti fino alle 3 di notte per completare le pulizie di chiusura attività. Tutti coloro che lavorano al Noma in pianta stabile sono ragazzi molto giovani con età di 23-25 anni. Non reggono più di un anno e poi scoppiano. I ritmi sono pazzeschi, ripeto dalle 6 del mattino fino a mezzanotte e 6 giorni su 7. Perché anche se il lunedì è un giorno di chiusura si va lo stesso al Noma per fare alcune preparazioni. Contate che ci sono solo tre souschef che hanno più di 35 anni: controllano tutti questi giovani e talentuosi capopartita. La verità è che non mi riesco ad immaginare come potrebbe fare il Noma a reggere questi ritmi di produzione senza l’aiuto di noi stagisti”.


Andrea Berton IO, IL MARITO DI SANDRA

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’idea della copertina assieme alla moglie gli appartiene. A noi è piaciuta, però è tutta farina del suo sacco, per restare nell’ambito gastronomico: di meriti non ne abbiamo. A dire il vero, è quasi impossibile vederlo da solo, quando viene invitato ad un evento, oppure ad un convegno: sono sempre insieme perché, come ce lo racconterà più tardi, “con Sandra accanto mi sento più forte”. Se poi avete il suo numero di telefono, saprete che su whats app si presenta così: “Il marito di Sandra”. Come potete ben osservare, perfino il titolo è opera sua. Ci lasciamo guidare con piacere da lui, perché è uno degli chef che più apprezziamo: lavoratore instancabile, ossessionato dal gusto e dall’estetica, insegue la qualità estrema ad ogni costo. Una volta abbiamo letto una frase che più o meno

diceva così: “Lo chef è come un designer che deve progettare una Ferrari potentissima”. Ecco, per noi il ristorante di Andrea Berton è una Ferrari. Per di più, potentissima.

Sono un grandissimo fan di Ferran Adrià: non è solo geniale, lui ha letteralmente rivoluzionato il mondo, ha creato un sistema E’ un posto per gente dal gusto sicuro, la sua cucina è fortemente riconoscibile. Mano salda, rischi ben calcolati, una personalità solida. I piatti sono stimolanti, eleganti, equilibrati, ogni

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ingrediente è perfettamente definibile. “E poi, scrivetelo: nel mio ristorante non ci si sente in soggezione, sfatiamo i luoghi comuni legati al mondo stellato”. Lo scriviamo. Sta per compiere 47 anni, più della metà come protagonista assoluto del mondo dell’alta cucina italiana. Volendo sintetizzare il suo momento attuale, come lo definirebbe? Oserei dire che oggi cucino molto meglio rispetto al passato. Riesco a concentrare meglio i sapori, valorizzo di più le materie prime, sono più attento agli abbinamenti e come base a volte uso un solo ingrediente. Lei ha iniziato a fare il cuoco in un periodo assai folcloristico, c’erano dei piatti sconvolgenti, pieni di aspic e gelatine, coreograficamente a dir poco discutibili. Non era facile cucinare quei piatti, serviva tanta


precisione. L’aspic richiedeva una tecnica mica da ridere, si rischiava diventasse un mattoncino. A me personalmente è servito quel periodo. A guardare oggi le immagini di quei piatti, vien la voglia di piangere. I piatti si sono evoluti, le tecniche anche, i modi di vivere e di mangiare pure. Io ho cercato sempre di mantenere la mia filosofia, mi è stato molto d’aiuto il primo viaggio in Giappone, quando avevo 23 anni: il rigore della cucina nipponica ha molto influito sul mio stile. Le capita mai di riguardare alcune sue ricette del passato e di riproporle? Mi capita assai spesso: riprendo alcuni piatti e li sviluppo, ripresentandoli in chiave più moderna, con le tecniche di oggi. Per esempio il risotto alla pizzaiola: nel 97 lo presentai con pezzettini di olive e pomodoro, era assai rustico, oggi è diverso, più evoluto e cremoso. Guardando indietro, ci sono dei piatti che hanno segnato la sua vita professionale? Dal primo periodo, quello friulano, ricordo con piacere il tiramisù e il risotto ai frutti di mare, così come l’agnello gratinato. La seconda ”tappa”, quella legata al mondo Trussardi, mi ha lasciato impresso il risotto con i gamberi, piatto che mi rappresenta in pieno. Ora invece mi identifico molto nel menù dei brodi. E’ un menù che “resiste” da tre anni, ormai. Piace perché ti spiazza, non ti aspetti tanto sapore e tanto gusto. Ogni brodo viene lavorato in maniera differente, il segreto è scegliere con cura

la materia prima e prestare particolare attenzione all’estrazione. Bisogna trasferire al liquido tutto il gusto dell’elemento solido; solo così può davvero arricchire il piatto, lasciandoci qualcosa di più in bocca. Il brodo può far parte del piatto o rappresentare un elemento distinto, da mangiare subito dopo per intensificare il sapore di quanto appena mangiato e prolungare l’esperienza gustativa. Ma può essere anche portato in scena, versato sulle pietanze direttamente in tavola. Va detto, ci sono serate dove ce lo chiede più dell’ottanta

Oggi riesco a concentrare meglio i sapori, valorizzo di più le materie prime, sono più attento agli abbinamenti per cento della clientela. Esiste un elemento che ha una importanza primordiale nel suo modo di intendere la ristorazione? Ho sempre dato una grande importanza al pane, è un elemento fondamentale, che determina l’andamento di una cena. La qualità eccelsa del pane scatena l’entusiasmo, accende l’appetito, prepara il palato. Ha mai avuto un idolo, un modello, ha mai pen-

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sato “avrei voluto rubare quel piatto” ad uno chef? Sono un grandissimo fan di Ferran Adrià: non è solo geniale, lui ha letteralmente rivoluzionato il mondo, ha creato un sistema. L’utilizzo del sifone in cucina è stata una trovata formidabile, ha cambiato le dinamiche del nostro lavoro, modernizzandolo. Tutti gli chef hanno preso qualcosa da lui, inutile negarlo. Come possiamo caratterizzare oggi la sua cucina? La mia filosofia è semplice, diretta, il gusto è primordiale. La lezione numero uno di Ducasse e Marchesi dice che un piatto può essere bello da vedere, moderno, però senza il gusto non hai ottenuto niente. Quando ha aperto il nuovo ristorante, nei dintorni c’era il deserto. E’ ancora convinto di aver fatto la scelta giusta? Il ristorante mi rappresenta totalmente: è nuovo, in un quartiere ordinato, brillante, scintillante, ambizioso. Appena entro mi trovo a mio agio, mi identifico totalmente. Avete appena aperto il secondo Dry, in Via Vittorio Veneto. Il Dry 2, chiamiamolo così, è leggermente diverso rispetto al primo: intanto è aperto a pranzo. Poi offriamo alcuni cocktail analcolici e nel menù si trovano anche delle insalate. E’ venuto davvero bene, sono stracontento: in cucina c’è sempre Simone Lombardi, il nostro punto di riferimento per qualsiasi locale. Dovessimo scegliere, noi andremmo da Pisacco. Pisacco è stato costruito a tavolino, sapevamo


benissimo che sarebbe stato un successone. E’ un progetto esportabile e replicabile (leggere la pagina accanto, ndr). Che momento vive la città meneghina? Milano si trova in un momento straordinario, siamo solo all’inizio di un’epoca. Ci sono ancora tantissime opportunità, si investe molto: a me però piacerebbe aprire in Galleria, un luogo storico. Sul suo profilo what’s app si legge: Andrea Berton, il marito di Sandra”. Non avrei mai pensato di sposarmi, ero convinto che non esistesse la donna ideale. Poi ho incontrato Sandra e fin dal primo istante ho capito che sarebbe diventata mia moglie. Abbiamo le stesse idee, la stessa visione sulla vita e perfino sulla ristorazione, perché Sandra ama assaggiare e analizzare, è la prima a farlo. Mi segue, mi consiglia, decidiamo sempre insieme su tutto. La sua opinione è fondamentale per me, averla vicino mi da una forza incredibile. In che direzione va l’alta ristorazione? Non esiste l’alta ristorazione, ci sono solo la buona e la cattiva cucina. Il ristorante che più lo ha impressionato ultimamente? Senza ombra di dubbio Plaza Athenée di Alain Ducasse a Parigi, ha il miglior servizio in sala al mondo. I camerieri non li vedi nemmeno, non so come fanno. Il direttore, Denis Courtiade, è di

Pisacco è stato costruito a tavolino, sapevamo benissimo che sarebbe stato un successone. E’ un progetto esportabile e replicabile gran lunga il più bravo in assoluto. Poi il menù, impostato sul mondo vegetale e il pesce, è una scelta davvero importante. La pasticceria è sensazionale, soprattutto il suo dolce al cioccolato. E poi, per farvi capire lo spessore di Ducasse: sapeva che sarei arrivato, siccome non poteva essere a Parigi in quel giorno mi ha scritto una lettera, ripeto mi ha scritto una lettera, lui in persona. A mano! Chi altro si comporta così, al giorno d’oggi? Altre menzioni di merito? Simone Tondo, chef e patron del Roseval a Parigi. E poi Villa La Pergola ad Alassio, piatti gustosi e un ambiente straordinario, molto british, old fashion. Abbiamo lasciato alla fine l’albergo Il Sorriso, a Como, dove lei firma la ristorazione. E’ un progetto sontuoso, a me piace molto la ristorazione d’albergo in tutta la sua estensione. Luis Contreras ha investito tanto, l’albergo è un cinque stelle lusso progettato da Patricia Urquiola. A Como cerco di valorizzare il pesce di lago, tipo il lavarello e il persico. Pensate che vengono pescati dal custode della villa, più freschi di così non si può. Suona assai funesto, però possiamo fare un bilancio della sua carriera? Mi sento davvero soddisfatto, consapevole di dove restare con i piedi per terra e di non dare nulla per scontato. Mi metto sempre in discussione, inseguendo la costanza. Forse pare banale, però metterlo in pratica giorno dopo giorno è fondamentale. Le fotografie sono di Fabio Bozzani

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Pisacco

EASY ,CHIC, GOURMET

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uel numero di Esquire lo abbiamo conservato, perché l’articolo di Alex Bilmes è davvero un capolavoro. A dire il vero, scrive sempre in maniera divina. Ci siamo innamorati della sua prosa e dei suoi modi schietti, intriganti e ficcanti quando, in pratica, santificò Kate Moss, nel giorno del suo quarantesimo compleanno. Ma non divaghiamo. L’articolo che ci ha colpiti lo si trova alla pagina 66: citiamo, testualmente: “It’s the hum, the chatter, the clatter, the bustle, the mise en scene, the feeling of the place and the way it makes you feel”. Tradotto, sarebbe più o meno così: “Tu puoi avere le materie prime migliori, la clientela ideale, le posate d’argento, la location perfetta. Però se manca quel ronzio, il trambusto, le vibrazioni, il rumore piacevole della gente, allora hai perso”. The chatter, the clatter, the hum, the bustle: abbiamo trovato tutto questo e molto altro da Pisacco, certo un luogo non nuovo, ma sempre piacevole da morire. Anzi, più ci torniamo, più ci piace: è contemporaneo, moderno, dinamico. A pensar bene, pur non chiamandosi esplicitamente un bistrot, lo è: eccome se lo è, nel senso più positivo della parola.

Pochi piatti, straordinari, intensi, gustosi e golosi, ricchi e abbondanti, assieme a delle prelibatezze varie e vini pregiati, bollicine e tanto altro. Certo, la cucina porta il nome di Andrea Berton, uno dei soci del locale: stare qui a elencare le qualità dello chef friulano sarebbe un esercizio assai semplice e piacevole, ma lo facciamo già

Appena entri ti senti a tuo agio, sembra di essere a New York, oppure a Londra. nelle pagine precedenti. Stavolta ci preme raccontare la poesia del locale, un posto dove ogni giorno trovi la modella e l’architetto, studentesse e professionisti in pensione, giornalisti e ristoratori. Un target trasversale che vuol dire aver fatto centro, aver toccato il cuore di tanta gente, aver trovato la chiave per attrarre e attirare un

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pubblico largo, numeroso, vario. L’atmosfera è rilassata, easy, piacevole, chic, appena entri ti senti a tuo agio, sembra di essere a New York, oppure a Londra. Coinvolgente al massimo, è un mondo a colori di cui vuoi far subito parte: appena assaggi un antipasto sai già che diventerà il tuo locale di riferimento, dove tornerai con gli amici, da solo, con la fidanzata e anche con i genitori. Pisacco regala la felicità immediata (è una espressione che usiamo solo quando un posto ci piacere davvero), ti scioglie: in più, il locale di Via Solferino è ideale per introdurre la gente nel mondo dell’alta gastronomia. Andrea Berton lo sintetizza così: “In un bistrot la cucina deve essere diretta, accessibile, meno lavorata rispetto ad un ristorante tipo il mio. E’ diversa anche l’impostazione, dal confort ai tavoli, il menù deve essere flessibile, semplice, immediato”. Piccolo elenco delle squisitezze: la grigia, il risotto alla milanese con ragù di vitello, le costolette di maialino iberico. Per il resto potete analizzare il menù, lo si trova online. Andateci, ve ne innamorerete subito e di tante cose contemporaneamente.


Ricette stellate NON È IL SOLITO BRODO

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’ il suo primo libro in assoluto: va detto, suona assai strano, nel senso che i suoi ex compagni di avventura, conosciuti e cresciuti da Marchesi, vantano almeno una dozzina di pubblicazioni: Cracco, Knam e Oldani sfornano dei prodotti editoriali che, aggiungiamo, vanno a ruba. Andrea ha preferito aspettare, ha voluto che tutto fosse perfetto: conoscendo la sua ossessione maniacale per il dettaglio e per la precisione, non possiamo che dargli ragione. Per la presentazione del libro ha scelto la miglior moderatrice possibile, Camilla Baresani, probabilmente la scrittrice e giornalista più elegante e autorevole del settore gastronomico. E’ anche la più libera di esprimersi, non avendo e non tollerando vincoli di alcun tipo: sono passati tanti anni, ma l’episodio della cotoletta unta al Gold fa ancora clamore e soprattutto ridere, così come la vendetta di Stefano Dolce e Domenico Gabbana, i quali per ripicca tolsero 700.000 di pubblicità a Il Sole 24, il quotidiano che ospitò l’articolo di Camilla. E’ rispettata come nessun’altra, forse perché ama starsene lontana dal circo della ristorazione, troppo spesso composto da figuri pittoreschi che si autocelebrano e autoinvitano

ovunque: ecco, Berton ha voluto lei, per la presentazione del suo primo libro. Ha puntato in alto, come sempre. Il migliore ha scelto la migliore: certo, sul palco c’erano anche Enrico Bertolini e il sindaco Sala, ma per noi la figura più alta era Camilla. Quello che ha raccontato di Andrea è stato straordinario: “Berton interpreta alla perfezione lo spirito di Milano, la città in cui ha scelto di vivere e investire le proprie energie professionali. E’ tenace, ha spirito imprenditoriale, è innovativo ma non gigioneggia, conosce la tradizione e perciò può permettersi di reinventarne una nuova. Interpreta la cucina contemporanea con fantasia, tecnica ed eleganza. La coerenza del suo stile appare anche nelle scelte personali. Sua moglie Sandra gli assomiglia. Bella, gentile, chic lo sostiene nella sfida a essere, sempre più, parte integrante e anche emblematica del motore innovativo e internazionale di Milano, la città che amiamo, in cui stiamo bene, e che raccoglie il meglio delle energie del paese”. Tornando al libro edito da Mondadori: gli scatti sono realizzati da Marco Scarpa. Nei prossimi numeri ne pubblicheremo alcuni, qui invece abbiamo scelto un piatto che ci è piaciuto davvero tanto: rigatoni con crema di prezzemolo, cozze, vongole e fasolari.

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Lorenzo Cogo PROFETA IN PATRIA

Risotto alla genziana, peperone rosso e amoli

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n anno fa lo abbiamo messo in copertina, a breve faremo il bis: l’uomo, perché ha compiuto 30 anni ed è già un uomo a tutti gli effetti, se lo stramerita. Okei, lo avete capito, Lorenzo Cogo fa parte del nostro club ristretto ed esclusivo dove si entra a fatica ma poi si rimane a vita. E’ un club per pochi eletti, per quelli che vivono intensamente, per chef che si svegliano ossessionati dalla perfezione e per regalare attimi di felicità folle ai propri clienti. Siamo andati da lui a Vicenza, nel suo nuovo tempio, in pieno centro, in Piazza dei Signori, di fronte alla basilica: per la cronaca, è grazie a Lorenzo che la ricchissima città veneta abbia conquistato per la prima volta una stella Michelin. Era il suo sogno essere profeta in patria, a casa sua: ci è riuscito. Voleva un ristorante come quello di Mark Best con la speranza di diventare un giorno come il locale di Heston Blumenthal: la strada è tracciata. Chapeau. Sprizza felicità, lo si vede subito, ma anche tanta stanchezza mista alla voglia di spingere sull’acceleratore, sempre di più. D’altronde, sarebbe strano il contrario: il mondo è ai suoi piedi, gli chef

di primissimo livello lo stimano e lo apprezzano sia in pubblico che in privato, il che è assai raro. Carlo Cracco e Andrea Berton lo visitano spesso e si fermano a cena, a volte scelgono El Coq per degli eventi intimi e compleanni: complimento migliore non potrebbe esistere in un mondo pieno di chef con l’ego alle stelle, incapaci di riconoscere la bravura altrui. Con Lorenzo succede il contrario, c’è la gara a chi se lo coccola di più.

Lorenzo ha tutto quello che serve per diventare un tristellato: il concetto, la mano sicura, la perfezione, la personalità Lorenzo piace a tutti: messa così, è indubbio e anche banale. Però quanti chef godono della stima degli altri? Pochi. E poi, ricordate quando l’anno scorso uscì la notizia della chiusura del suo ristorante, in pratica un semplice trasferimento e null’altro? Il telefo-

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no di Lorenzo squillò all’impazzata, chef di tutto il mondo chiamarono preoccupati per capire cosa stesse succedendo. Il primo fu il tristellato madrileno di Diverxo, David Munoz: a ruota seguirono tantissimi altri. Qualche anno addietro, leggendo uno dei best seller di Donald Trump, ci rimase impresa una frase: “Ci vogliono due secondi per capire chi è un vincente e chi non lo é. I vincenti hanno una luce diversa negli occhi”. Lorenzo fa parte della categoria, lo si percepisce subito: ha l’argento vivo addosso, non riesce a star fermo, crea e inventa in continuazione. Quella luce gli permette di essere un passo davanti agli altri e stupire. Perché sì, i suoi piatti stupiscono in maniera totale, lasciano il segno, assaggi e la mente parte in mille direzioni diverse, ad un certo punto sei invaso da opposte sensazioni. Prendiamo uno dei suoi classici, il risotto alla genziana, con base di peperone rosso: rimani stregato, ogni chicco ti rotola sulla pelle, si scioglie in tutto il corpo, il fuoco comincia vibrare nelle vene, hai voglia di divorare il mondo, oltre che il piatto. Una consistenza cremosa divina, é allo stesso tempo tenebroso e afrodisiaco, peccaminoso e adrenalinico.


Richiede lumi di candele, chiudi gli occhi e respiri profondamente, i profumi ti avvolgono come una sinfonia. Forse il paradiso non esiste, ma è la sensazione che gli si avvicina di più. Ci fermiamo qui con l’esaltazione, sperando di aver reso il concetto. Lorenzo ha tutto quello che serve per diventare un tristellato: il concetto, la mano sicura, la perfezione, la personalità. Anni addietro si auspicava potesse essere il nuovo Massimo Bottura: no, Lorenzo può essere solo Lorenzo Cogo. Ha accumulato una tale esperienza nei suoi primi anni come chef che ora può permettersi di andare a briglie sciolte, scegliendo la direzione che preferisce: Heston Blumenthal, Mark Best, Seiji Yamamoto. Ha una montagna di certezze, a cominciare da Serena, sua musa e braccio destro, ombra e ufficio stampa. Stanno insieme da tre anni, ma è come se lo fossero da sempre e per sempre. Lo segue ovunque, lo protegge: si vede che ci tiene visceralmente ad esserci, ad aiutarlo, nel locale si muove come se fosse casa sua, anzi, è casa sua. A proposito: la struttura è ampia. Garibaldi, al piano terra, è assai impegnativo, nel senso che è aperto quasi 24 ore e di conseguenza ci vuole una presenza continua e totale, un po’ per fare la padrona di casa, un po’ per gestire il tutto. La sera Serena si sposta a El Coq, al primo piano: il ristorante ha visto riconfermarsi la stella, il lavoro è in aumento costante. Non è facile essere ovunque, però lei ci riesce e lo fa con un coinvolgimento commovente: è innamorata, si vede. Tornando a Lorenzo, è uno dei pochi che potrà dare un contributo autentico alla cucina italiana, qualcosa che rimarrà: un po’ come Cracco dieci anni addietro, oppure come Scabin, per non scomodare Bottura e Marchesi.

Il ristorante El Coq

Ha una montagna di certezze, a cominciare da Serena, sua musa e braccio destro, ombra e ufficio stampa

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E’ determinato come pochi, sprizza entusiasmo, follia creativa, ha idee e carattere da vendere, ha una visione. Ha il tratto scapigliato del genio cosmopolita, padroneggia i fondamentali, ogni piatto è un dipinto, colpendo tanto il palato quanto la mente. Esci da lui con il corpo inondato di sensazioni, appena fuori prometti a te stesso che tornerai il prima possibile. Per assaggiare i nuovi piatti, per vederlo all’opera, per respirare quell’aria che profuma di successo e ambizione, per una serata romantica, per mille altri motivi.


Io, Milano e il mais GIANCARLO MORELLI

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iciamolo subito: il nuovo ristorante di Giancarlo Morelli è davvero bellissimo. E’ classico, quasi francese, piacerà alle signore dell’alta borghesia, cresciute e abituate alle tovaglie di lino e raso, però piacerà anche alle generazioni che stanno dominando e aggredendo il mondo, meno sensibili al manierismo e più pragmatiche, di sicuro innamorate dall’alta cucina. Insomma, piacerà a tutti e non potrebbe essere diversamente. C’è tanta, tantissima cura nei dettagli (formidabili i bicchieri firmati Zafferano, molto chic le sedie), la luce invade la sala durante il giorno, mentre verso la sera diventa calda, sensuale, intrigante, quasi un preambolo amoroso. La zona, poi: il risto, assieme al bistrot e al bar, si trovano al piano terra dell’hotel Viu, il nuovo cinque stelle della famiglia Viscardi appena aperto nella così detta China Town, un quartiere silenzioso, molto cambiato, quasi austero. L’albergo è tutto vetri, molto moderno, guarda al futuro: di fronte si costruisce ancora, il Ceresio 7 è a due passi, scommettiamo che nell’arco di tre, quattro anni i prezzi saliranno a dismisura. Sarà, anzi lo è già, una zona per gente ambiziosa, che sogna ad occhi aperti un mondo fatto di progetti solidi, imprenditoriali, puliti, pieni di energia positiva e privi di retorica: il profumo dell’ottimismo lo si sente appieno. La fiaba è servita prima ancora dell’arrivo delle

pietanze:a proposito, il menù è sentimentalismo puro, pare una melodia, pochi contrasti e tanta delicatezza, ovvero la colonna sonora della sua vita. Personalità forte, idee e ritmo, ricchezza e mano solida: spicca la capasanta con tartufo nero e crema di aglio dolce, una carezza lenta, deliziosa, interminabile. “Il ristorante é esattamente come lo volevo, la cucina idem: l’ho disegnata io”, racconta con gli occhi da eterno bambino felice, indicandoti con

“Io ho una cultura assai americana, amo le metrature, con tanti locali in uno solo, non volevo limitarmi al solito ristorante” un dito il suo nome sul banco di lavoro. “Fra tutti i miei locali, questo è quello che mi rappresenta di più ed è anche il più impegnativo, ci ho messo l’intera esperienza accumulata negli anni”, continua. Gli spazi sono ampi, il via vai del personale avviene in maniera felpata nel corridoio accanto alla sala. Ti pare di essere in un film, quelli dove tutto

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sembra perfetto, perfin troppo. “Io ho una cultura assai americana, amo le metrature, con tanti locali in uno solo, non volevo limitarmi al solito ristorante, concetto fra l’altro superato”. – Siamo all’inizio dell’intervista, ma si è già capito che da uno a cento lei è contento due cento della nuova apertura. – Direi anche mille. E’ mio dall’inizio alla fine, dal progetto della cucina alla sala, dalla zona bistrot al bar. Volevo un posto ampio, che potesse vivere 18 ore al giorno, dove la gente venisse a leggere il giornale la mattina, oppure ordinare un sandwich, un aperitivo, infine fermarsi a cena. – E’ assai impegnativo. – Lo è, eccome, però io sono fatto così, la ristorazione la vivo in maniera totale, vorrei abbracciare tutti. E’ l’evoluzione del Pomiroeu, il suo prolungamento, la versione metropolitana. – Cosa le piace di più del nuovo ristorante, almeno finora? – La zona, ho scoperto la comunità cinese, straordinaria. – Ci sono delle differenze fra Pomiroeu e Morelli? – A Seregno abbiamo un occhio di riguardo per la clientela che viene da Milano e cerca un cortile, un giardino, mentre qui al Morelli stiamo andando incontro ad una clientela internazionale. Per quello che riguarda la cucina, qui si trovano piatti più sofisticati, al Pomiroeu rimangono invece


quelli classici, il che non vuol dire che alcuni pezzi forti non li proponiamo pure a Milano. – Pomiroeu, Trattoria Trombetta, Morelli: tre mondi diversi. – Massì, uno chef non deve perdere l’occasione di andare incontro alla gente, di provare ad accontentare tutti. – Troviamo un aggettivo per ognuno dei tre. – Pomiroeu è un ristorante saggio, Trombetta una trattoria attuale, Morelli invece è un posto coraggioso. – Manca il Phi Beach, in Sardegna. – E’ semplicemente magico, più che magico. Vent’anni addietro sognavo il circo del food, volevo andare a St. Moritz e portare i cuochi in piazza, a fare i trapezisti del cibo, volevo i fuochi d’artificio. Al Beach ci sono riuscito, è un posto di vacanza dove la gente viene con una luce diversa negli occhi. In più, il ristorante rispecchia l’isola, da una parte la durezza del’entroterra, dall’altra i colori del mare. – Facciamo un passo, anzi, tanti passi indietro: quando ha iniziato, sperava di arrivare a tanto, stella Michelin inclusa? – Ovviamente no. Però l’aspetto che più mi rende felice è poter creare posti di lavoro per i giovani, se non lo facciamo noi, chi altro potrebbe farlo? – Tornando alla stella… – 2009, non immaginate la mia felicità. Da quel giorno ho lavorato ancor di più, con una energia pazzesca, perché la stella era come se mi avesse incentivato. – Agli inizi, ha avuto dei modelli, degli idoli? – Ferruccio Trani, un nome che forse dice poco, però era un gigante, lavorava sulle navi. Poi Alain Ducasse. – In tre parole, come potremmo caratterizzare la

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sua cucina? – Vera, tecnica, che ti ispira. – Nella sua cucina esistono delle materie prime che ama, usa e predilige più delle altre? – Il foie gras di sicuro, poi il mais: sono bergamasco, lo sento mio. – Nessuno è così bravo da saper fare tutto alla perfezione, lei in cosa pensa di eccellere? – Nel fare i risotti e la polenta: non è da tutti saperla preparare bene. – In Italia si fa fatica con la clientela: non rispettato gli orari, prenotano e poi non vengono più: le da fastidio? – Siamo quello che siamo. Un giorno andai da Daniel Humm, a New York: avevo prenotato per sei, alla fine andammo in sette. Humm ci disse che non era possibile, per cui pagai e me ne andai, non potevo accettare che un mio amico venisse tenuto fuori. Ecco, da noi non accadrebbe mai una situazione del genere, siamo latini, nel bene e nel male: in Italia non si rispettato gli orari, non si può fare il doppio turno, però di sicuro da noi la gente si sente bene, è rilassata. In più, penso che noi cuochi abbiamo una grossa responsabilità, dobbiamo far sì che la gente esca di casa la sera, che vada a divertirsi. – Capitolo occhiali: metà rotondi, metà quadrati. – E’ una metafora, la vita a volte è in salita, poi in discesa, in certi momenti tutto quadra, in altri si scivola. – C’è una città dove le piacerebbe aprire un ristorante? – Los Angeles. – Una donna che vorrebbe avere a cena come ospite. – Rita Levi Montalcini. Le avrei preparato un menù a base di pesce e verdure. – Magari cominciando con le capesante appena assaggiate nel suo nuovo ristorante.

Lo staff è imponente, 42 persone. D’altronde un servizio stellato lo esige, un albergo cinque stelle anche. Fila tutto liscio, si muovono in maniera silenziosa e felpata, è uno spettacolo guardarli. Tre nomi spiccano fra gli altri: il bartender Mattia Pastore, già famoso per i suoi cocktail preparati altrove in città (Mandarin, Armani) il fido Livio Pedroncelli (assieme a Giancarlo da 18 anni, sarà lui a gestire le operazioni) e poi Giacomo Morelli, figlio dello chef. Poco più che maggiorenne, si è messo a lavorare sodo, sognando di superare, un giorno, il maestro. La cucina pare uno show room: è gigantesca, più di 200 metri quadri. Gli allestimenti sono firmati Nicola Gallizzi, lo stesso che ha curato il Melià in Piazza Repubblica. Di grande effetto il tavolo dello chef, in pratica un tavolone gigantesco in legno (16 posti).

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Felix Lo Basso PUGLIA, MY LOVE

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a stella, i profumi della sua Puglia, la vista sulla piazza, le finestre a oblò, il riso alla parmigiana, il pane sensuale, l’estetica del ristorante, il terrazzo a picco sulla città. Da dove cominciare? Fate voi, però sappiate che da Felix Lo Basso troverete tutto questo e molto altro: passerete una serata entusiasmante, dove si mischiano romanticismo, passione, design e alta cucina, o meglio dire sana alta cucina: pochi giochetti, tanta voluttà. Il riccio sa di riccio, la triglia sa di triglia, la pasta al pomodoro di pasta al pomodoro: messa così pare una banalità se si considera che parliamo di un ristorante stellato, però pure alla Michelin iniziano a ricredersi, premiando chi sa cucinare per davvero e non chi vende fumo. A dire il vero, Felix è così diretto e immediato che non saprebbe neppure da dove iniziare, nel caso volesse fare il filosofo alle vongole: non gli si addice mettersi in posa e recitare una parte

come invece fanno tanti altri, convinti di essere diventati degli intellettuali raffinati. Il piatto parla, tutto il resto è operetta. Lui preferisce interpretare se stesso, come idolo assoluto ha la sua mamma (“la miglior cuoca del mondo”, ripete sempre), cerca di ottenere il meglio da ogni materia prima e ti trasmette

Il riccio sa di riccio, la triglia sa di triglia, la pasta al pomodoro di pasta al pomodoro la sensazione che il piatto arrivatoti è stato preparato per te e solo per te. A un anno dall’apertura il ristorante va a gonfie vele, soffrendo semmai la capienza assai ridotta, una trentina di posti, quaranta nei mesi estivi:

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fino a quando non si riuscirà a perfezionare la chiusura del terrazzo esterno il numero rimarrà questo. Basso, viste le richieste che fioccano, soprattutto dopo la stella conquistata il 15 di novembre. Dal giorno seguente il telefono iniziò a squillare all’impazzata, tant’è vero che ora diventa un vero e proprio miracolo trovare un tavolo. Si viene per l’atmosfera, per la vista, ma soprattutto per la cucina di Felix: verace, viva, vigorosa. Si viene per il tripudio di profumi che regala in ogni piatto, prendiamo per esempio la pasta al pomodoro del nuovo menù, così simile e allo stesso tempo così diversa dalla precedente: appena la rotoli sulla forchetta ti riempi della sua Puglia, delle sue viscere, ogni morso è felicità, le ondate di pomodoro ti dilatano il corpo, pare un’esplosione di dinamite nel sangue. La divori come lo si fa dai nonni, quando chiedi il bis: è una sensazione straordinaria, che la si vive in un posto straordinario.


Andrea Aprea

Foto: Fabio Bozzani

IL DIVO

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l titolo, “Il divo”, è scherzoso. Scherzoso ma non troppo, perché lo chef, durante lo shooting fotografico, ha chiesto di guardare e riguardare tutti gli scatti, bocciando tanti e premiando alcuni. Le immagini scelte sono in pratica quelle che più sono piaciute ad Andrea: d’altronde, perché non accontentarlo? Un divo durante la seduta fotografica, un gigante in cucina: perché sì, lo si sa, da almeno un paio di anni si sussurra che sarebbe pronto per la seconda stella. I suoi colleghi lo ripetono all’unisono, la clientela idem, la critica pure: manca solo il “timbro” della Michelin. L’ultima volta che siamo andati da lui fu un’esperienza straordinaria, con quel tortello cacio pepe ed erbapepe che sapeva di ingegno e di pura magia: la farcia di pecorino, che al momento della cottura diventa liquido, era puro sballo, intrigo, un’esplosione di gusto impossibile da raccontare, quasi un trucco da prestigiatore. Quella sera Nicola Ultimo, sommelier di Vun e compagno di giochi gourmet di Andrea, ci sussurrò : “Il tortello lo abbinerei ad un Cruara Borgo Giulia Bianco”. Fu perfetto.

Nulla è cambiato, anzi, si va avanti spediti verso la consacrazione: lo chef si avvicina alla quarantina, ovvero l’età della piena maturità, i piatti grondano passione e tecnica, eleganza e gusti nitidi, diretti. Cominciamo il viaggio nel suo mondo partendo dall’uovo alla purgatorio, l’ennesima sua diavoleria che porterà al Taste: “Pochi elementi, tanta semplicità, come sempre. Mi piacciono i piatti

“Sono orgoglioso di essere stato il primo chef ad aver portato la stella Michelin in un albergo meneghino” puliti, con il tempo tendo ad estremizzare ancor di più, è nella logica della vita di uno chef. Composta di cipolla, pane raffermo, essenza di pomodoro e l’uovo: prodotti poveri, ricchezza massima per quello che riguarda il gusto”. Da lui tutti si aspettano la classica cucina napoletana, per il semplice motivo che proviene dalle

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parti della città partenopea, invece lui mette sempre le mani avanti: “Propongo da sempre piatti italiani e contemporanei, ho girato il mondo e lavorato ovunque, non ho avuto nemmeno il tempo di vivere e lavorare a casa mia”. Niente schemi e preconcetti, please. Ora è facile parlare del centro di Milano tirato a lucido, però qualche anno addietro qui c’era solo lui: arrivò al Vun sei anni fa, quando nei pressi potevi trovare solo un altro stellato, Carlo Cracco. “Ora siamo il centro del mondo, non c’è dubbio. Milano è la vetrina dell’Italia, abbiamo il dovere assoluto di portare in alto il nome del paese, l’eccellenza nel piatto è obbligatoria”. La sensazione è che lei si trovi a suo agio, nel suo elemento, qui a Milano. Dirò di più: sono orgoglioso di essere stato il primo chef ad aver portato la stella Michelin in un albergo meneghino. Arrivai nel 2011, mi dissero che volevano il riconoscimento della guida: accontentati fin da subito. Fin dal primo giorno avevo ben chiaro cosa fare e come, diciamo che le esperienze in giro per il mondo mi avevano forgiato e chiarito le idee.


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Foto: Fabio Bozzani


Foto: Fabio Bozzani

Non sono uno che ama vantarsi del suo curriculum, però gli anni passati assieme a Heston Blumenthal e Michel Roux mi sono serviti, eccome. Facciamo un breve rewind, elencando i piatti che hanno fatto sognare la clientela del Vun. La seppia alla diavola, prima di tutto. Poi il riso nord-sud, la diplomatica napoletana, il San Pietro alla Mugnaia. Non da meno il piccione tarasso con ciliegia, la caprese e il maialino cento ore con radicchi di campo, miele e provola affumicata, che fra l’altro porto anche al Taste. Lei è il veterano della manifestazione.

Presente fin dalla prima edizione, tranne quella passata: avevo preso un impegno a New York, prima ancora di sapere le dati del Taste. Lei definisce la propria cucina italiana e contemporanea: messa così, pare qualcosa di elementare, quasi banale, mentre i suoi piatti sono esattamente l’opposto. Diciamo che ho la mia idea sul come far emozionare il cliente: prima conta l’impatto visivo, determinante. Poi viene il gusto. Iniziamo a sognare con gli occhi, solo dopo vengono le papille e il palato.

Maiale nero “100 ore”, radicchio e provola affumicata

Cosa ammira nella cucina dei mostri sacri nostrani? Le infusioni di Enrico Crippa, le cinque consistenze del parmigiano di Massimo Bottura. Milano è diventata la sua città? Assolutamente. Ho comprato casa in una zona centrale, residenziale, mi piace da morire: posso uscire in bicicletta con mia figlia, andare al parco, è una città a misura d’uomo, pur essendo internazionale. E’ una metropoli senza essere una megalopoli. E soprattutto una città piene di stelle.

Seppia alla diavola, patata, rafano e cavolo acidulo

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Andrea Alfieri IL MILANESE DOC

Risotto al pino mugo

E

ntri nel suo ristorante, lo guardi e, ancor prima di sederti a tavola e morsicare le sue diavolerie, hai la certezza di trovarti al posto giusto. L’uomo è rassicurante, il classico cuoco di una volta, bonacione e un po’ burbero, severo ma non troppo. Ora che è tornato dalla sua amatissima Madonna di Campiglio (la stagione invernale è finita, i fasti all’Alpen Suite anche), farete bene ad andare a trovarlo nel suo regno meneghino, Il chiostro di Andrea, gioiellino incantevole in Via San Barnaba, proprio dietro il Tribunale (ok,magari non andate dopo una causa persa). E’ un’esperienza piacevole dove si mescolano l’esercizio tecnico e le basi della cucina, il piatto semplice e quello della ristorazione pretenziosa. Tutto questo a dei prezzi nettamente inferiori rispetto ad alcuni stellati che promettono meraviglie, tranne poi servire delusioni. Andrea Alfieri sa il fatto suo, conosce la gente ed i suoi gusti, le dinamiche e le motivazioni che possano portare un cliente qui o lì: difatti il suo menù è perfetto, ripetiamo, perfetto per quel target trasversale che in tanti inseguono e in pochi conquistano. Ha trovato la sua dimensione ideale, dopo alcune esperienze assai traumatiche, per certi tratti deprimenti: qui si vede che si sente a casa, lo si capisce dai modi rilassati e dal sorriso che lo accompagna quasi sempre. I piatti poi non mentono, anzi, raccontano lo stato d’animo di uno chef e possiamo affermare

Spaghettone monograno Felicetti

senza alcun dubbio che Andrea abbia trovato la sua oasi zen: lo si percepisce dalla leggerezza dei piatti, dai colori, dalle idee. Il ristorante è molto appartato, il silenzio totale (siamo sotto le volte di un convento francescano quattrocentesco): qui sei isolato, ti puoi nascondere, è un luogo ideale per una serata romantica, oppure più semplicemente per una cena tranquillissima e, perché no, per festeggiare

Il chiostro di Andrea

da solo un successo professionale. Con la bella stagione il posto inizia a vivere il suo momento migliore, si può stare fuori ed alcuni piatti diventano ancor più coinvolgenti. Il

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profumo della primavera fa il resto, rallentando il ritmo e aumentando il piacere. Lo chef propone quasi sempre delle mini porzioni, “sgagnini” in milanese stretto, una via di mezzo fra tapas e menu degustazione, altro misto riuscito di alto e basso, un po’ come si usa oggi nella moda, dove si abbina Zara e Dior con dei risultati sorprendenti. Si spazia da un piatto peccaminoso ad uno che sa di tenebre, poi ti trovi davanti un gioco passionale seguito da una ricetta potente, il tutto abbinato specialmente a delle birre artigianali. Una cucina articolata, solida, decisa, senza sbavature ed errori, con un fortissimo accento sulle materie prime settentrionali: selvaggine, trote, funghi, salmerini. Piccolo elenco delle pietanze che abbiamo assaggiato e che vi consigliamo con il cuore in mano, convinti che vi faranno esplodere di gioia: lo spaghettone di monograno Felicetti con cenere di cipolle, crema di nocciole tostate e burro d’alpeggio è un must, un piatto cult, il signature dish di Andrea. Garantiamo che le emozioni saranno violente fin dal primo morso; cromaticamente poi, è intrigante al massimo. Da non perdere assolutamente il ganascino di vitello con parfait di foie gras alle fave di cacao, un giochino strepitoso. Si offenderà di sicuro se non assaggerete il suo risotto mantecato al pino mugo con gel di melograno e trotta iridea marinata: ci sentiamo di dargli ragione, lui rimarrebbe male, però sareste voi i primi a rimetterci.


Wicky Priyan

Foto: Fabio Bozzani

APPUNTI MILANESI

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ono Wicky Priyan, il primo chef al mondo nato in Sri Lanka che oggi riesce a proporre una cucina diversa da quella del suo paese di origine. Difatti, nel mio ristorante milanese troverete piatti che appartengono alla cultura kaiseki, ovvero il livello più alto della tradizione gastronomica nipponica.

Sono arrivato in Italia undici anni fa e confesso che dopo pochi mesi avevo una gran voglia di tornare in Giappone. Andavo a dei colloqui di lavoro e nessuno mi voleva, sostenevano che un cuoco in Sri Lanka non poteva mai e poi mai avere conoscenze di cucina giapponese. Più mi rifiutavano, più cresceva in me la voglia di dimostrare le mie qualità. Un giorno diventerò il numero uno, mi dicevo. Quando finalmente mi hanno preso, hanno deciso di tenermi nascosto, per non disorientare la clientela: al banco, davanti alla gente, dovevano essere solo cuochi giapponesi, probabilmente per poter giustificare i prezzi alti e la purezza della propria filosofia. Fu umiliante, ancor di più perché la gran parte dei piatti erano le mie creazioni. Dopo poco me ne andai, aprendo il mio primo ristorante, in via San Calocero. La mia vita è cambiata da quando mi sono

spostato in Corso Italia: è un luogo storico, sorprendentemente quando sono arrivato non ho trovato alcun ristorante nei dintorni. Era una sfida, a me piacciono un sacco: ora Corso Italia pullula di locali.

dimenticavo: Lanka ha solo 9 anni.

Ho due maestri, Sushi Kan e Kaneki Kan, ognuno di loro è come un padre per me. Sushi mi ha insegnato cos’è importante nella vita e nella cucina: diceva che se uno sbaglia le scelte personali, lo fa anche ai fornelli e con i coltelli. Kaneki invece mi ha insegnato la tradizione.

Finora ho creato più di 1.000 piatti. I miei preferiti? Cinque continenti, fra l’altro Roberto Benigni lo ordina, anzi, lo pretende tutte le volte che viene da me. Poi il maialino cotto a bassa temperatura: per un anno ho cercato la carne ideale, l’ho trovata in Sicilia. Un altro piatto che mi rappresenta tantissimo è il Sushi Kan, un simbolo della cucina kaiseki.

La carne kobe non è facile da cucinare, per via del grasso. Io la preparo a cubetti, concetto tipico della filosofia kaiseki. I miei ristoranti preferiti? Seta, poi Antico Gallo a Gaggiano e Taverna Migliore a Modica. Della cucina milanese apprezzo il risotto alla milanese e l’ossobuco, la sua tenerezza mi commuove. I due piatti sono perfetti insieme, sembrano marito e moglie, non a caso ho creato il maki alla milanese, ovvero una combinazione di entrambi, con evidenti contaminazioni giapponesi. Mia figlia sa preparare sia il risotto che l’ossobuco, ma non penso diventerà una chef: la vedo più come proprietaria di ristoranti. Ah,

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I tre ingredienti che amo di più sono lo yuzu, il cabozo e il sudachi, tutti i tre agrumi tipici del sud del Giappone.

Alcune materie prime le importo dal Giappone, dove le acque dei mari sono più fredde e di conseguenza i sapori sono più intensi: per questo preferisco farmi mandare la ricciola ed i ricci. Il primo grande chef che ho conosciuto a Milano è stato Andrea Berton: ci siamo incontrati in palestra, mi ha invitato a vedere la sua cucina, quando era al Trussardi. Rimasi impressionato dalla sua organizzazione e dal suo baccalà. Con il tempo siamo diventati grandi amici: successivamente poi ho conosciuto Andrea Aprea e Carlo Cracco. Ci frequentiamo spesso, con Carlo addirittura settimanalmente, soprattutto la domenica, quando i nostri ristoranti sono chiusi ”.


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Bob Noto IL GENIO

Ferran Adrià, fotografato da Bob Noto: i due erano grandissimi amici

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ono stato da Adrià per 80 volte, assaggiando 1498 piatti suoi”. L’ultima volta che ci siamo visti ci raccontò preciso e laconico il suo rapporto con la cucina del suo grande amico, per poi mandarci le fotografie del cantiere di Ferran. L’articolo sarebbe dovuto uscire due mesi addietro, poi posticipammo. Volevamo qualcosa di nuovo, sempre sul suo amico spagnolo, volevamo le sue immagini con il ristorante tirato a lucido, non il cantiere. “Allora, le foto?”, avevamo chiesto scherzosamente a Bob pochi giorni prima della sua incredibile scomparsa. “Arrivano”, rispose. Si sa com’è andata. Non staremmo qui a fare un coccodrillo, ci infastidisce l’idea e siamo sicuri che nemmeno a lui piacerebbe. E allora eccoci a pubblicare due foto del cantiere di Ferran e altre del suo repertorio classico. Il caso vuole che a Bob dedicammo quattro pagine esattamente un anno fa, proprio sulle pagine dello speciale Taste: va detto che più le guardiamo, più restiamo incantati. Ci è sempre piaciuto il suo modo semplice, semplicissimo di scattare, con una macchina fotografica d’altri tempi, quasi da amatore domenicale. Si portava dietro uno zainetto da scolaretto, poi una volta arrivato al ristorante tirava fuori una piccola lampadina e una specie di tavoletta bianca per avere una luce uniforme: tutto qui. Iniziava a lavorare con una calma

olimpionica, alternando fotografie e qualche tirata di un toscano, fuori dal locale. Chi non lo ha visto all’opera ed è un semplice ammiratore della fotografia gastronomica può pensare ad una preparazione più solida, a dei macchinari modernissimi e un allestimento da film: invece era tutto così elementare, tutto così semplice e per questo intrigante. Bob era Bob, un gigante per la sua geniale semplicità. I suoi amici di lunga data sostengono che le fotografie erano solo una scusa per bazzicare ancor di più il mondo dei ristoranti: tradotto, per assaggiare. Tentiamo a credere fosse vero. Certo, parte tutto dal suo amore infinito per la cucina, non a caso sul sito trovi una foto con lui che “inforca” uno spaghetto. Un anno fa ci raccontò i suoi inizi: “La fotografia gastronomica è relativamente nuova, come genere. Il primo ad aver dato un senso ai piatti fu Johann Willsberge, che nel 1986 fondò la rivista Gourmet, é stato il mio idolo. Come ho iniziato? Amavo la fotografia fin da ragazzo, poi mi sono appassionato alla cucina: facendo uno più uno, eccomi a scattare il food. Evidente che oggi c’è una maggior attenzione per l’architettura del piatto, però va ricordato che già alla fine degli anni settanta Gualtiero Marchesi creava il suo riso foglia d’oro. Dieci anni fa ho realizzato per la casa editrice Cucina e Vini un libro che vende tanto ancora oggi, si intitola Sei. Avevo scelto, appunto,

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sei cuochi che secondo noi sarebbero diventati famosi e posso vantarmi di aver visto giusto: Carlo Cracco, Paolo Lo Priore, Davide Scabin, Moreno Cedroni, Massimo Bottura, Enrico Crippa. A quei tempi fu quasi un libro all’avanguardia. In assoluto, i piatti più difficili da fotografare sono i risotti e le zuppe, mentre mi esalto tantissimo scattare gli spaghetti: hanno qualcosa di perverso, di proibito, quasi di trasgressivo. Fra i colleghi tenete d’occhio Sergio Coimbra, tecnicamente il migliore e la francese Amelie Lombard”. Alessandra Meldolesi, sua grandissima fan e amica (vera), lo ricorda così: “Ferran Adrià lo considerava una specie di Doppelgaenger, al punto da chiedergli di testare con lui le sperimentazioni del Taller di elBulli: questo sì, questo no. Da quando aveva messo in bocca quella granita al pomodoro (credo), dietro le quinte della cucina di ricerca mondiale era rimasto in veste di regista: geniale fotografo autodidatta, che il piatto lo capiva quindi sapeva interpretarlo visivamente, ma soprattutto lucida e ludica intelligenza della cucina d’avanguardia, capace di intuirne e valutarne gli sviluppi grazie a un fortissimo istinto. Ed è con lui, dopo la chiusura dello stesso elBulli, la morte di Juli Soler e la trasformazione del Noma, che tutta un’epoca sembra chiudersi: ruggente e bellissima. Il tempo in cui ogni cosa sembrava possibile, non solo a tavola”.


Gualtiero Marchesi, Dripping

Fermentazioni, Massimo Bottura

Fermentazioni, Fabrizio Gallo

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Fermentazioni, Carlo Cracco

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Don Juan

PASION ARGENTINA

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a sua bocca arroventata, il profumo unico dell’asado che si scioglie sulle labbra socchiuse, piene di fuoco. Il fascino del posto, l’atmosfera carica di erotismo, il colore violento delle pareti, quel rosso sangue che ti infiamma subito. E poi la carne, fragrante, ricca, morbida, aggressiva, potente, eccitante. Ci sono luoghi che, per dei motivi sentimentali e non solo, ti rimangono impressi e avranno sempre la priorità nella tua personalissima graduatoria. Chiudi gli occhi e senti il crepitare del fuoco, senti il piacere come cresce dentro di te, un desiderio incandescente. Benvenuti, anzi, bentornati a Don Juan, il primo ristorante di carne argentina aperto in Italia ( maggio del 2000), un luogo dove regna il piacere e dove ti lasci invadere dal languore, perché dalla patron Marlene all’asador Rodrigo tutti vivono per farti sentire al settimo cielo. Un luogo dove catturare le emozioni, prima che cercarle, perché sì, viviamo ossessionati da un instancabile appetito di sensazioni e, sarà un caso, le troviamo ad ogni passo, da Don Juan ancor di più. Accade perché, probabilmente, abbiamo la giusta predisposizione d’animo per accoglierle: in più,

nulla è casuale, leggere per credere. Capita che nell’arco di due minuti Giada Ghittino, per tre volte copertina di Good Life, ci manda una foto dalla Thailandia: In Italia erano le una di notte, da lei sorgeva il sole e prima di fare colazione andò a nuotare nella piscina a picco sul mare, con la montagna sacra davanti. Passano alcune secondi ed ecco l’immagine ricevuta da New York, da Chang Lee e il suo Momofuku: un piatto demenziale, paradiso allo

Don Juan è un miraggio, un incantesimo, un mondo sensuale e pieno di vita stato puro, carne tagliata e presentata in una maniera sublime. Per chi non lo sapesse, l’uomo ha tre stelle ed è il primo e forse l’unico che riesce a creare una cucina newyorkese. Si, avete letto bene: in una metropoli senza tradizioni culinarie, lui è riuscito a codificarne una. Da New York alla cucina di Rodrigo il passo è stato breve, tempo di un what’s app ed ecco arrivare la carne proprio come nella foto: esteticamente un trionfo.

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Le due situazioni sono collegate che di più non si può: “sabrosa come un beso”, ricordate, le parole calienti che usammo qualche tempo fa? E’ la traduzione in spagnolo dell’espressione “saporita come un bacio”: accadde una sera da Don Juan, eravamo assieme a lei, la modella italoargentina. Stava morsicando la carne succulenta portata da Rodrigo: assaggiò con dei gesti lenti che sembrarono carezze, morse voluttuosamente e poi sussurrò la frase che riscaldò ancor di più l’atmosfera. Ecco, per noi Don Juan è un miraggio, un incantesimo, un mondo sensuale e pieno di vita, l’unico ristorante dove abbiamo visto la gente aspettare senza lamentarsi. Ci è capitato più di una volta di vedere almeno una dozzina di persone all’ingresso, perfino nei fine settimana, ad attendere che si liberasse un tavolo: pur avendo prenotato non hanno mai dato in escandescenza, anzi, stavano parlottando tranquilli e felici con un bicchiere di sangria, offerto ovviamente dalla casa. E’ uno di quei posti dove torni sempre, con qualsiasi tipo di compagna, in più lo consigli agli amici e perfino ai nemici. Perché pure loro meritano di mangiare bene.


Magia e perdizione LOVSTER, MON AMOUR

Linguine all’astice, il piatto più richiesto

E

’ come fare all’amore con la donna dei sogni. Ogni forchettata ti porta in paradiso, è tutto così intenso da sentirti appagato oltre ogni immaginazione. Già il nome, Lovster, sa di perdizione e magia, crea aspettative e ti porta a sognare: poi, una volta varcato l’ingresso, tutto si amplifica. E’ un trionfo delle emozioni, un luogo che regala la felicità immediata, le sensazioni si ammassano una sull’altra, ti sembra la prima volta che assaggi un astice. Le linguine all’astice pungolano il desiderio amoroso, ti fanno fantasticare al dopo cena, a dei giochi erotici, chiudi gli occhi e respiri profondamente, assimilando la fragranza vigorosa dell’astice che arriva direttamente dal Maine, a meno di 48 ore dalla cattura. Ancor più intenso il fondo così detto americano, probabilmente il più violento mai assaggiato, ricco di personalità, elettrico, potente, ec-

citante: il capogiro è assicurato. Provatelo, vi rimarrà impresso a lungo, è preparato facendo bollire duecento teste di astice, viene servito con i ravioli capesante e gamberoni: semplicemente devastante, spasmodico, incendiario.

Le linguine all’astice pungolano il desiderio amoroso, ti fanno fantasticare al dopo cena, a dei giochi erotici Non c’è dubbio, l’uomo ha capito tutto e in fretta: questo è l’affare del secolo, piatti formidabili a 25 euro, atmosfera formale e quel ronzio piacevole attorno.

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L’uomo, dicevamo: si chiama Massimo Turturro, un passato di gran successo nel mondo pubblicitario (Volvo e Procter, fra i suoi clienti top). Facendo un passo ancor più indietro, negli anni novanta era un venditore di frutta all’ingrosso, di conseguenza conosce bene la materia. E’ uno schietto, diretto, che sa il fatto suo, lo si intuisce dallo sguardo e dal tatuaggio ben in vista sull’avambraccio: “La mia ricchezza è la mia libertà”. “L’idea di aprire un ristorante del genere mi è venuta andando a New York, al Red Lovster. Per la verità, ho preso ispirazione da un famoso locale londinese, Burger and Lobster. Volevo un posto aspirazionale e trasversale”, ci racconta. Va detto subito: ci è riuscito appieno. All’ora di pranzo, ore 13,06, i cento posti sono esauriti. A cena, scegliete voi il giorno, tanto non fa differenza, idem. “E’ come volevo io”, continua Massimo. “Dopo


quasi due anni posso finalmente ammettere di essere contento e di aver intrapreso la strada giusta, sono molto confidente che si possa espandere, ormai è un brand, imminente una seconda apertura. Forse non dovrei dirlo, però stanno iniziando a copiarmi, seppur con risultati risibili: altro segno tangibile che ho fatto centro. Lo dico senza voler fare il fenomeno, solo io riesco ad avere gli astici direttamente dal Maine. Ci vado di persona almeno due volte l’anno, lì la natura è incredibile, in pratica il bosco entra nell’oceano, ci sono 400 chilometri di costa”. Arde in lui la voglia di stupire, di esagerare con i profumi e le sorprese: linguine all’astice ne trovi quasi ovunque, in una maniera assai scarna e poco succulenta. Qui è un tripudio di sensazioni e vi possiamo assicurare che le parole non riescono a raccontare l’intensità del piatto: neppure le immagini che vi presentiamo. “E’ al primo posto fra i piatti più richiesti, seguono la catalana e il lobster a vapore, oppure alla brace. Mi piace fare della ricerca, qui. L’astice al curry e quello con crema di cocco e riso bianco sono dei piatti sperimentali. Il lobster roll è un classico, però è difficile trovarne uno simile al nostro, perché ricchissimo. Come abbinamenti ho preferito delle birre artigianali, soprattutto la Leffe: quella bruna mi pare perfetta per quello che proponiamo. Poi abbiamo dei vini delle cantine Antinori, così come dei Franciacorta”. La verità è che potresti bere anche acqua tiepida di rubinetto. Usciresti comunque con una voglia pazza di tornare al più presto.

Il ristorante si trova in Via Caretto, a Milano

La stella di Lecce ALESSANDRA CIVILLA

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ualche settimane fa andammo ad un evento spettacolare, al Palazzo Clerici: affreschi favolosi, atmosfere d’altri tempi, bollicine e bella gente. Regnava la raffinatezza, venivi conquistato dal piacere, tutto era di un sublime gusto estetico.

La serata era dedicata alle donne chef, con la Michelin che svelava il nome della vincitrice dell’anno, ovvero Caterina Ceraudo. Per noi la chef donna con la C maiuscola e la D gigantesca é una sola, Alessandra Civilla. E’ lei la vincitrice, anno dopo anno: ci piace da

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morire come cuoca e ancor più come donna, lo ammettiamo: sprizza bellezza mediterranea, è solare e intensa come poche. Andate da lei a Lecce, al ristorante Alex, in pieno centro, e vedrete che abbiamo ragione da vendere.


Restaurant Man MASSIMO MINUTELLI

U

n anno addietro, cercando di trovare una frase che riuscisse a rendere ed esprimere al meglio le emozioni vissute a La Griglia, abbiamo optato per un breve paragrafo firmato Anthony Bourdain. Suonava più o meno così: “E’ l’affare del secolo, sono dei momenti impagabili, è come fare sesso al volante di una Aston Martin con due escort da cinquemila dollari a notte”. Troppo forte, come messaggio? Non proprio: andate da lui, in Via Tocqueville a Milano, oppure a Lucca, fuori dalle mura, e poi ne riparliamo. Perché Massimo Minutelli è riuscito laddove in tanti non hanno nemmeno tentato, ovvero portare in Italia le carni più gustose, preziose e costose, fra l’altro è stato il primo a importare il Kobe. Risultato? Se pensate di conoscere bene il mondo della carne e poi provate i prodotti scelti da Massimo vorrete solo piangere sulla tragedia che è stata la vostra vita. Non si trova mai un posto libero, Milano o Lucca che sia. Ricordiamo una serata della scorsa estate, un sabato a Lucca dove c’era il concerto di Marco Mengoni e in più la gente iniziava a preferire le spiagge alla città: nonostante tutto, La Griglia

era al completo. Rimanemmo a bocca aperta, per non dire dei nostri compagni di viaggio, i quali appena assaggiato il panino con pastrami e pan de cristal davano evidenti segni di incredulità mista ad un piacere mai provato prima. Non sono gli unici ad aver vissuto momenti di autentico nirvana, morsicando lentamente le sue carni succose provenienti dall’Australia e dagli

Ti tremano i polsi per l’intensità e il profumo del maialino iberico, della rubia gallega e della ribeye australiana Stati Uniti, Giappone e Spagna. E’ una meta per carnivori di alto livello, per conaisseurs, per amanti e intenditori, per fan accaniti ed esperti: da lui ti tremano i polsi per l’intensità e il profumo del maialino iberico, della rubia gallega (la carne del gladiatore, sa di forza ancestrale) o della ribeye australiana.

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Tutto merito di Massimo, il classico restaurant man, istrionico e preparato, generoso con i clienti, concentrato sulla qualità ai massimi livelli: vive per stupirti e farti felice, non sbaglia un colpo, difatti la clientela apprezza e torna spesso, portando altri amici e conoscenti. Nel giro di tre anni è riuscito a costruire e consolidare una realtà straordinaria, con numeri e fatturati impressionanti: i dati non mentono mai, la sala piena conferma la brillantezza del suo lavoro. Una media di coperti che raramente tocca meno di 80 unità con dei picchi che vanno oltre i 120, più una quantità notevole di prenotazioni rifiutate per via della mancanza di posti liberi: è un colosso. La sensazione netta è che la gente non torna solo per la proposta in sé, bensì per lo spettacolo offerto da Massimo, sempre alla ricerca feroce del piatto perfetto e sempre con il chiodo fisso di far sentire l’ospite in paradiso. Sa suscitare il desiderio con le sue carni piene di potenza e di energia sessuale. Si entra con delle grandi aspettative, si esce con la convinzione di aver vissuto una serata oltre le attese, seppur alte: cosa desiderare di più?


Gianluca Bisol IL CONQUISTATORE

“E

’ stato il mio 35imo Vinitaly. Fra l’altro, quasi sempre festeggio il compleanno nella settimana della manifestazione. In più, ho la stessa età della kermese, 51. Siamo indissolubilmente legati, io e la fiera di Verona”. Gianluca Bisol è di buonumore, come sempre. E, come sempre, ha tutti i motivi per esserlo: “Lunedì, al Vinitaly, gestivo sei appuntamenti nello stesso tempo, saltellando da un tavolo all’altro, dovendo parlare in tre lingue diverse, contemporaneamente. In più, si sono avvicinati al nostro mondo clienti provenienti da paesi assai piccoli, alcuni senza grossa esperienza e tradizione vinicola: Perù, Filippine, Ghana, Camerun, Serbia, Albania, Lituania. Il prosecco di alta qualità ha conquistato tutti, queste sono le prove”. Tornando al Vinitaly: “Agli inizi mi sentivo un pioniere, il prosecco era un vino quasi regionale, al nostro stand venivano solo ristoratori e visitatori veneti, oppure lombardi, ora lo si beve ovunque nel mondo. I nostri mercati migliori sono l’Inghilterra, poi gli Stati Uniti e la Cina,

in quarta posizione si trova la Francia ed è una bella soddisfazione, visto che ci snobbavano fino a poco tempo addietro. C’è stato un incremento del cento per cento l’anno scorso e il trend di quest’anno ci porta al 160 per cento in più, nel paese transalpino. Ora mi vorrei concentrare

I nostri mercati migliori sono l’Inghilterra, poi gli Stati Uniti e la Cina, in quarta posizione si trova la Francia sul mercato cinese, un mondo assai particolare perché lì hanno la cultura del vino francese. Per anni hanno importato e bevuto solo champagne, solo di recente hanno cominciato ad apprezzare anche lo spumante nostrano. La loro cucina si sposa benissimo con il prosecco, il fatto

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che il numero di benestanti aumenta ogni anno di cinque milioni ci fa ben sperare. In un ristorante di Shanghai, Mercato, mi hanno servito un branzino al sale buonissimo, abbinandolo ad un nostro prosecco: niente da dire, dieci e lode”. Suona e pare tutto grandioso, però in Italia senti ancora alcuni ristoratori parlare di prosecchino, il che è assai svilente, per tacere sui bicchierini bassi e tozzi, da trattoria: “Non è proprio così, dobbiamo ricordare che alla base il prosecco è un vino popolare, c’è spazio per tutte le proposte. E poi il termine prosecchino è intimo, non lo trovo offensivo, quante volte non sentiamo dire champagnino? Sui bicchiere invece io chiedo la massima attenzione, non a caso abbiamo creato dei bicchieri molto eleganti. Certo, i prosecchi Bisol vengono venduti nelle enoteche e wine bar, dove c’è la cultura del vino, lì il problema non esiste. Anzi, il prosecco al calice va alla grandissima, alcuni vengono a costare anche 10 euro al bicchiere, soprattutto il nostro Cartizze. Sono soddisfazioni immense”. Adesso avete capito perché Gianluca Bisol è di buonumore?


Quechua

Foto: Antonio Ficai

PERÙ, MILANO

I

n principio fu Gaston Acurio e la sua frase, “ceviche is the new sushi”. Poi seguì Virgilio Martinez, diventato l’idolo delle donne, nonché presenza fissa fra i 50

best. Successivamente, nell’arco di pochi anni, la scuola peruviana scalò posizioni e soprattutto scatenò curiosità, appetiti e voglia di viaggiare con il palato dell’immaginazione. Oggi il pesce crudo marinato con coriandolo, lime e cipolla è diventato quasi banale, lo si trova ovunque: cinque anni addietro nessuno sapeva cosa fosse. L’istituto Cordon Bleu, la cucina Nikkei, il festival Mistura, poi chef come Pedro Schiaffino, famoso per cucinare il piranha, Javier Wong, il vero padre della cucina peruviana e del ceviche, Rafael Osterling, che propone un polpo alla griglia leggendario: il paese sud americano sta sfornando talenti e tendenze ad una velocità impensabile e con una costanza invidiabile. Chi non ha la possibilità di andare subito da Martinez a Londra e ancor meno programmare una vacanza gastronomica a Lima, può tranquillamente varcare la porta del primo ristorante peruviano gourmet in Italia, Quechua, in Via Meda

al 29. Rafael Rodriguez Sanchez ha aperto una vera bomboniera, un locale che gronda passione e profumi sud americani. “La mia cucina? Divertente, saporita, originale”, racconta sorridente. I suoi inizi sanno di fiaba per bambini: “Mia madre in Perù faceva servizio di cucina a domicilio e io talvolta le davo una mano con le preparazioni. Un giorno, avevo 14 anni, un vassoio di fette di arrosto che portavo in mano mi è scivolato sul tavolo, andando a finire su della marmellata di prugne. Per paura che mia madre, che era molto severa, si arrabbiasse, mi sono dato da fare per pulire ogni traccia del misfatto. Ma una delle fette di arrosto si è talmente impregnata di marmellata che ho dovuto mangiarla. L’abbinamento della carne salata con la prugna mi ha mandato in estasi. Da lì è nata la mia passione per la cucina”. “Noi, gli chef peruviani, abbiamo una specie di missione, portare le nostre eccellenze in giro per il mondo, siamo gli ambasciatori del nostro paese, dobbiamo diffondere una cultura. Abbiamo dei prodotti unici, basta pensare ai 3.000 tipi di patate”. Forse proprio per questo il ristorante pare un percorso culturale, una full immersion nel mon-

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do peruviano. “Abbiamo aperto a metà febbraio, proprio il 14: tutto pieno, un successone. L’età media dei nostri clienti è assai bassa, va dai 26 fino ai 35, a volte 40. E’ gente curiosa, la gran parte conosce il nostro paese, ci è già stata”. Il posto piace, al primo impatto e non solo. E’ molto curato, caldo, mentre la mano di Rafael non tradisce. Puoi scegliere fra menù degustazione e “a la carte”, è tutto un rollercoaster di contrasti e colori. Ovviamente pronti via si inizia con il ceviche, “avendo la ricciola come base”, perché così deve essere, ci spiega lo chef. “In Perù utilizziamo spesso anche il rombo, oppure la cernia”. Il piatto che più ci ha portato a sognare è stato il tiradito di gamberi: contrasti, tecniche, colori, gusti. Ha tutto. C’è spazio anche per un omaggio all’Italia, i ravioli di patate ripieni di gallina e con un brodo di carne delizioso. La più grande soddisfazione finora? “Un cliente, dopo aver divorato il roll di capesante, ha messo il dito nel piatto e, con quello che era rimasto della salsa, ha scritto grazie”. Lo capiamo.


La passionaria ELISA DILAVANZO

“V

initaly è la quarta fiera del 2017, stiamo andando alla grande, il Fior d’Arancio è stato protagonista. Abbiamo lavorato tantissimo, in quattro giorni di fiera non sono riuscita ad allontanarmi nemmeno un attimo dallo stand. Va detto che ho martellato tutti, compresi i miei amici, invitandoli a venire da me appena entrati in fiera: li volevo freschi. Sono stata perentoria, dicendo loro che non accetto di essere visitata per ultima, bensì per prima. Scherzi a parte, il nostro Bianco Infinito ha ricevuto il più alto riconoscimento, 5 stars, mentre il Fior d’Arancio è stato valutato con 91 punti”. Vittorie dopo vittorie, successi dopo successi. “Sono stracontenta, è stata la mia terza partecipazione, ora non ho un attimo libero e tutti vengono a chiedere il Fior d’Arancio, arrivano preparati, sanno chi siamo. Se ricordo la prima edizione impallidisco: non si avvicinava

anima viva. Il mio vino piace perché è fatto con una uva versatile, eclettica. In tanti lo considerano da donna, ma sono luoghi comuni: pensate che il nostro moscato giallo sta fra i primi dieci vini al mondo secondo l’enologa Elin McCoy. Nell’articolo che ha scritto per Bloomberg, include il Metodo Classico Millesimato 2014 fra gli absolute standout e badate che ha degustato più di 4.000 prodotti, compresi alcuni con dei costi altissimi”. A sentir parlare Elisa Dilavanzo , factotum dell’azienda Maeli, ti senti toccato, anzi, investito da una scossa: è adrenalinica, instancabile, quando non viaggia la trovi sempre fra vigneti e cantina, verificando di persona se le foglie fossero ok, se ci sono delle minacce ed altro. “Trovo un grande potenziale in un vitigno come il Moscato Giallo, qui chiamato Fior d’Arancio e in un terreno di origine vulcanica, ricco di trachite, calcare e argilla, che nel vigneto si

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mescolano alla marna e al limo, di qui il nome Maeli”, racconta. “Mi sento davvero la paladina di questo vino, suona strano detta da una persona come me che arriva da Rovigo, l’unica città dove non si produce vino assieme a Belluno. Ci vuole tanta passione e un amore viscerale per i Colli Euganei, mi fa male quando sento ancora dei luoghi comuni che vogliono vedere i nostri prodotti come scadenti, da damigiana. Siamo un territorio straordinario, pieno di risorse, abbiamo le terme e l’enogastronomia, il parco naturale, il borgo Arquà Petrarca è stato eletto il più bello d’Italia: siamo il top del top”. Va avanti il suo progetto legato ai cocktail d’autore, mentre dal 6 al 7 di maggio tornerà Vulcanei, l’appuntamento internazionale con i vini vulcanici, stavolta a Monticelli di Monselice: è la donna ovunque. Chapeau.


Donald Trump IL MIGLIORE

P

er anni, a cominciare dal 2004, abbiamo esaltato con spasmodico entusiasmo le qualità imprenditoriale di Donald Trump. In più, ogni numero di Golf Life prima e di Good Life poi era pieno di pagine con estratti dei suoi libri, veri manuali per businessman e non solo. Perché Donald è questo: parla di affari meglio di un così detto esperto, sa di televisione più di un direttore generale e di psicologia più di uno strizzacervelli sapientino . Piccolo estratto dal libro Think Big and kick ass: “Quello che sognate é quello che farete. Se non sognate neppure di fare grandi cose non farete mai nulla di importante. Quali sono i grandi sogni che vi eccitano e vi fanno star bene? Dedicate del tempo a coltivare grandi sogni”.

bisogno per non rinunciare mai. Fate questo sperimento: mettete da parte per un attimo ogni considerazione razionale. Cominciate a sognare a occhi aperti su ciò che

“Senza passione la vita si immiserisce. La passione vi dà quella forza interiore di cui avete

E’ arguto, diretto, sprezzante e soprattutto ha ragione sempre. Zero fronzoli, tutta sostanza.

“Quello che sognate é quello che farete. Se non sognate neppure di fare grandi cose non farete mai nulla di importante” amate veramente fare. Se poteste fare una cosa nella vita, che cosa sarebbe?”

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Fatti, non parole. All’inizio stava con i democratici e ci piaceva lo stesso, anche perché un businessman non fa politica, bensì soldi: per cui nessuno può accusarci di tifare uno che dice quel che pensa, ammesso e non concesso fosse un difetto. Non divaghiamo, però: è dal 2004 che riempiamo le pagine con le sue imprese, soprattutto quelle immobiliari e real estate, per non dire dei suoi successi nel mondo del golf. Conosciamo a memoria le sue aperture, i suoi campi più spettacolari: ne ha 18 in giro per il mondo, da Los Angeles a Dubai, da Palm Beach ad Aberdeen, da Miami a New York. L’uomo è un visionario e ha un’ambizione feroce, li costruisce con l’unico scopo di farli diventare i più belli e anche i più apprezzati dalla critica. Qualche anno addietro sognava che uno dei suoi percorsi, il Bedminster, potesse ospitare l’Us Open: alcuni risero, ora forse si devono


ricredere. Chi ci ha giocato non ha dubbi: è stato pensato e costruito proprio per organizzare un major. Arriveremo. L’ultimo in ordine cronologico è stato il Trump International Golf Links, in terra scozzese, un quarto d’ora dall’aeroporto di Aberdeen: ci teneva tanto, visto che sua madre, Mary MacLeod nacque qui, a Stornoway. Un investimento da due miliardi, un progetto maestoso, 18 buche e poi un resort da 450 stanze, 950 case di vacanza, 36 ville e 500 appartamenti in vendita a partire da 827.000 dollari. Roba da grandi. Fra le altre genialate ricordiamo un torneo al Raffles, nelle Isole delle Granadine, campo appena diventato di sua proprietà: il torneo si chiamava Trump Milion Dollar Invitational, competizione 54 buche medal senza handicap della durata di tre giorni. I dieci con lo score più basso approdarono alla finale, trasmessa in diretta dalla ESPN: giocarono un play off di nove buche dove ad ognuna veniva eliminato un giocatore, fino a che rimasero solo due che lottarono per il premio di un milione. Un successo formidabile, un’idea fantastica: con un milione di dollari si è fatto una promozione e ha avuto un tornaconto dieci volte superiore. Una specie di The Apprentice applicato al mondo del golf: magistrale. Tutto quello che tocca diventa oro, è il Re Mida del golf e non solo: prendiamo l’ex Ocean Trails, che stava fallendo. Una storia che ha dell’incredibile: la buca 18, proprio mentre si stavano ultimando i lavori, ha subito un danno tremendo per via di un terremoto. In pratica, la terra è semplicemente sparita, andata nel nulla, nell’oceano. I proprietari avevano già investito una ventina di milioni per rimetterlo a posto, ma poi hanno dovuto dichiarare fallimento. Donald è subentrato, mettendo sul tavolo cento milioni e, ovviamente, da lì a breve il golf club diventò una macchina da soldi. Sa manovrare il danaro, anche nei casi dove arriva da altre parti: a Palos Verde ha costruito grazie ai prestiti di

banche e assicurazioni. Da quando è diventato presidente si parla molto del Mar-a-Lago, a Palm Beach, in Florida: in pratica è la seconda Casa Bianca, qui Donald viene negli weekend e ospita anche presidenti, vedi il giapponese Abe. La stampa storce il naso, come sempre: non apprezza che Trump incontri personalità nel club di sua proprietà. “Nella storia è spesso capitato di vedere presidenti golfisti, ma in quanto soci e non patron”, obbietta il livoroso New York Times, senza pudore alcuna. Dunque cosa dovrebbe fare il neo presidente, andare a giocare altrove, quando ne possiede una ventina

Da quando è diventato presidente si parla molto del Mar-a-Lago, a Palm Beach, in Florida: in pratica è la seconda Casa Bianca di campi? Al giornalone non va giù nemmeno che i soci possano parlare comodamente e liberamente con lui nella club house. Tradotto, gente più importante (importante in che senso?) dei soci sta fuori e non riesce a incontrare il presidente alla Casa Bianca, chi invece ha pagato i 200.000 dollari per la quota a Mar-aLago può farlo. “E’ la commercializzazione della presidenza”, scrivono istericamente. “Pagare per poter parlare con il presidente non ha precedenti”, continuano. Forse c’è un briciolo di verità, se non fosse che il veleno della stampa abbia superato ogni limite. Trump risponde con la stessa moneta: i giornalisti non possono entrare nel club (è un circolo privato, stop), non si fanno visite guidate e niente di niente. Immaginate la loro frustrazione, ma quanto si

diverte il “nostro”. A onor di cronaca, una volta ha permesso loro di dare una sbirciatina, per poi lasciarli nella così detta sala stampa: sorpresa, le finestre erano oscurate. Così che non fu verso di vedere Donald, nemmeno Jared Kushner e Stephen Bannon, ormai di casa. Trump 1, stampa 0, per l’ennesima volta. “E’ un posto dove si incontrano le persone più ricche e influenti, nessun lobbysta può vantare un tale novero di contatti”, racconta stizzito il quotidiano che più odia il presidente eletto ( il NYT sta diventando patetico e lo diciamo con cognizione di causa, visto che lo sfogliamo ogni dì). Poi supera se stesso: “Da quando Trump ha dato sfogo al suo razzismo e all’intolleranza, alcuni soci si sono risentiti”. Certo, come no: sarà per questo che sono ancora membri del circolo. Attualmente il club conta 500 soci: per diventarlo dovresti essere introdotto, non basta presentarsi e pagare i 200.000, sarebbe troppo facile sborsare e avere la possibilità di incontrare, seppur per qualche secondo, il presidente (che poi è solo una speranza, non è detto che accada). A proposito: la quota di iscrizione è stata ritoccata il giorno dopo l’elezione: gli affari prima di tutto. Ovviamente si tratta di un numero chiuso, si possono accettare dai 20 ai 40 nuovi membri l’anno, non di più. Certo, i vari banchieri e imprenditori, costruttori e Ceo non guardano la somma, i miliardari tipo Thomas Peterffy nemmeno, il petroliere William Koch neppure. Ci sono anche un bel po’ di senatori, amici storici di Donald, vedi George Norcross, poi Bruce Toll, un magnate delle costruzioni e anche gente che ha contribuito alla sua campagna elettorale: Brian Burns, Christopher Ruddy. Tutta gente che ha scelto Mar-a-Lago prima che Donald diventasse presidente. Lo apprezzavano come imprenditore, si fidavano di lui, abitavano dei pressi: ognuno aveva scelto il club per i suoi motivi. Tutti validi, ora più che mai. Turnberry, la buca 9

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Passerini

LUOGHI CON UN’ANIMA

Il tiramisù di Salvatore De Riso

“S

e potesse scegliere una sola donna fra le più belle e famose, chi vorrebbe varcasse l’ingresso della sua pasticceria?”. “Julia Roberts”. Il primo incontro con Salvatore De Riso fu così, esplosivo e sognante. Accadde sei mesi addietro, quando fummo scelti nella giuria del Gambero Rosso, per eleggere il miglior bar d’Italia. Fra i 25 finalisti spiccava lui, maestro pasticciere e soprattutto patron di una realtà commerciale che è quasi un impero, di sicuro una istituzione sulla Costiera Amalfitana. Portò una quantità infinita di dolci e torte salate, una specie di Disneyland gourmet, fu impossibile assaggiare l’intera proposta. Guardavi le sue proposte e diventavi compulsivo, per poi pensare: se uno porta tutto questo in trasferta, chissà cosa succede a casa sua. Difatti, succede che Sal De Riso sia diventata una tappa obbligata per i vacanzieri che invadono la costiera, a prescindere da nazionalità ed età. In più, il locale è nuovo, pieno di colori e profumi, appena entri ti pare di sognare, per tacere sulla vista mozzafiato, a picco sul golfo. Una storia italiana, locale e internazionale allo stesso tempo, la classica favola artigianale che fa venire appositamente turisti e gourmet da tutto

il mondo. Certo, essere sulla Costiera aiuta, e non poco: sei lì in vacanza, con l’unico scopo di riempirti e inebriarti di bontà, piaceri e bellezza, vai lì con l’animo predisposto, pieno di aspettative e di sogni. A Milano si sogna meno e si bada tanto al sodo, però sulla qualità non si transige, anzi: difatti i prodotti di Salvatore vanno a ruba in pieno

Sal De Riso lo trovi a Londra da Harrods, a Parigi nelle gallerie Lafayette: a Milano invece da Passerini centro, da Passerini, pasticceria storica situata in Via Spadari, una delle strade più intime e bohemiene della città. Non c’è profumo di mare e limoni, c’è invece quello dei soldi e della potenza meneghina, perché il luogo è strategico, trovandosi di fronte a Peck e al ristorante di Carlo Cracco, con la Borsa

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a due passi: così si spiega l’altissimo livello del servizio e dei prodotti proposti dal patron Leone e la moglie Angela. Piccola parentesi: Sal De Riso lo trovi a Londra da Harrods, a Parigi nelle gallerie Lafayette: a Milano invece qui da Passerini, come dire che un prodotto del genere merita una vetrina di formidabile importanza. Difatti il via vai è continuo e piacevole, impressiona il numero dei clienti che vedi verso le undici, solitamente un’orario poco movimentato: qui invece c’è da sgomitare per un espresso come se ci trovassimo alla stazione centrale. Piace molto il brusio della gente dell’alta finanza e delle donne milanesi di una volta, piace il servizio veloce ed efficace: nulla da eccepire, ci sanno fare. Ultimamente Passerini si sta evolvendo, anzi, sta diventando anche altro, ovvero enoteca di alto livello: funziona. Oltre alle meraviglie amalfitane trovi anche i dolci del campione del mondo Luigi Biasetto, il caffè Illy è la solita garanzia, lo champagne Pommery é di casa (la sede della maison si trova proprio di fronte), così come le bollicine Ferrari. Tante eccellenze messe assieme per una clientela che esige il massimo, da sempre: la ricetta è semplice, metterla in pratica non tanto.


Andrea Asoli LO CHEF INNAMORATO

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ieccoci con la favola dello chef innamorato perché sì, vedi subito quando capita qualcosa di fantastico nella vita sentimentale

di un cuoco. Arde in lui la voglia di fartelo sapere: la zuppetta di Andrea Asoli, a parte essere quasi bertoniana come concetto, profuma di amore sconfinato, tanto è gustosa e leggera, delicata e saporita. Ti colora la vita. Probabilmente il suo miglior piatto in assoluto: è cromatico, marino e terreno, i contrasti e gli equilibri semplicemente da manuale, il tutto rinfrescato da una brezza al profumo di piselli. Seppioline, crostini, mizu, spugnole: un saliscendi da assaggiare con dei gesti lenti come carezze. Un piatto che va annusato in modo profondo, ampiamente. Se decidi di cenare in un ristorante stellato è perché ti aspetti, quasi esigi di essere sorpreso e conquistato da creazioni simili. E’ indubbio che lo chef arrivato dall’isola di Mazzorbo abbia cambiato marcia: ha innescato la quinta,

è inarrestabile. A quindici mesi dall’arrivo al Chateau Monfort di Milano possiamo dire che ha messo la chiesa al centro del villaggio, per utilizzare una frase cara ad un ex allenatore della sua amatissima Roma. Ormai tutto corre e scorre, i menu diventano

La zuppetta di Andrea Asoli profuma di amore sconfinato, tanto è gus­tosa e leggera, delicata e saporita. Ti colora la vita sempre più corposi, eleganti, ben delineati. La sua è una cucina generosa, viva, vigorosa, ricca di personalità. Sprazzi di laguna, ricordi asiatici, tocchi moderni, tanta sostanza: una cucina con “i

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piedi per terra”, nel senso di concreta e gustosa, senza esercizi tecnici stucchevoli. Nulla da dire, il nuovo menu è sentimentalismo puro, si vede che il suo cuore batte forte. I ravioli al foie gras con brodo di cipolle rosse sono di alto livello, la gallinella invece è la quinta royale, il carrè d’assi: testosterone e gran classe, intuizione e sostanza, colori e freschezza. Ispiri a fondo per goderti la poesia della salsa al granciporro, ti sembra di assorbire gli odori con la pelle. Nota di merito pure per il pane, soprattutto le caramelle croccanti per inguaribili golosi. Fra gli amuse bouche spicca il bignè alla vaccinara con un tocco di foie gras: altra ghiotteria ammiccante. Il ristorante è ormai pieno quasi tutte le sere, il che la dice lunga sull’esigente clientela meneghina: lo scriviamo sempre e ne siamo ogni giorno più convinti, ti gira le spalle se annusa il bluff, ti abbraccia e ti premia se la tua cucina ha stile, classe e sostanza. Siccome qui è pieno..


Vincenzo Candiano DA RAGUSA CON AMORE

A

ssaggiare il piatto iconico di un cuoco è sempre un gran privilegio, ancor più se si tratta di uno chef bistellato e se fra gli ingredienti trovi il riccio e il nero di seppia, ovvero l’esperienza proibita e l’erotismo. Lo si sa, i due elementi sono afrodisiaci, il che significa un ponte gettato tra gola e lussuria. “Lo spaghetto condito dai due elementi è il piatto che la nostra clientela apprezza di più: a me porta con i pensieri alla donna ideale, quella che vorresti avere sempre a letto, mediterranea e intensa”. Vincenzo Candiano potrebbe anche avere ragione nel considerare la sua pasta un cult, se non fosse che il coniglio, la cernia, oppure il guanciale venissero apprezzati allo stesso modo, scatenando pensieri impuri a raffica. I milanesi hanno preso d’assalto il suo temporary restaurant all’Ottagono, nella Galleria Vittorio Emanuele, rimanendo incantati dalla sua mano sicura e la qualità eccelsa, la tecnica sopraffina ed i profumi intensi: potremmo sintetizzare così la sua cucina, anche se lui preferisce definirla “passionale e diretta”. Ama da morire la sua terra (è nato a Donna

Lucata, borgo sul mare che pare una cartolina montalbaniana) e lo si intuisce in ogni piatto: territorio e tradizione a volte sembrano dei concetti superati e banalizzati, ma quando ti trovi davanti le sue creazioni apparentemente semplici cambi idea. E’ come se assaggiassi l’intera isola, una Sicilia piena, rotonda, delicata. La cucina del sud spesso viene identificata come carica,

La mano di Vincenzo è calda, equilibrata, sorniona, la sua é una cucina rilassante ma la mano di Vincenzo è diversa, più calda, equilibrata, sorniona. I profumi sono nitidi, ogni ingrediente perfettamente definibile, è una cucina rilassante. D’altronde due stelle Michelin, confermate e riconfermate da anni, non sono un caso, non possono esserlo: Vincenzo lo dimostra ad ogni piatto, ad ogni morso. Per la cronaca, la prima l’ha conquistata nel 2007, la seconda sei anni dopo: è a La Locanda

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dal 2002, fa ormai parte della famiglia La Rosa, ovvero i patron del ristorante. Tornando allo spaghetto, è un piatto inebriante, che colpisce tanto il palato quanto la mente, un tripudio della gola, chiudi gli occhi e respiri profondamente, assimilando tutti i profumi isolani (il concetto vale pure per la cernia). Il coniglio disossato invece è un perfetto mix di cucina italiana e francese, mentre il guanciale di suino brasato con nero d’Avola e buccia di limone tocca corde profonde ed è di una tenerezza spasmodica (si può dire?), morbido come la seta e sensuale, per quanto possa sembrare folle paragonare il guanciale al raso. Si scioglie al solo contatto con la bocca, il contrasto con il Cuturru, la farina di grano integrale, è strepitoso. Tenerissima la suddetta cernia alla Norma, preparata al vapore, con melanzana fritta e ricotta di pecora. Ci sono ovunque frammenti dell’isola, con un predominio naturale di agrumi, “la base e l’anima della nostra cucina”. Impronta siciliana anche nel dolce chiamato “Valle dell’Irminio”, cremoso al miele di timo selvatico, crumble di mandorle, salsa di latte e


La Locanda Don Serafino

gelato alla carruba, “in pratica una fotografia del nostro territorio”, come ripetono in coro il patron La Rosa e lo chef. Continuando i paragoni fra piatti e donne, Candiano sostiene che il suo dessert porti con l’immaginazione ad una donna con un bel carattere, severa e briosa, noi invece lo assaggiamo e voliamo verso una ragazza snella, sorridente, delicata, con la pelle luminosa e fresca. Punti di vista diversi, opposti, ma il bello del mangiare bene è proprio questo, scatena tensioni e pensieri contrastanti. Squisite le caramelle magiche che si servono

con il caffè, a partire dai impanatigghi, storie meravigliose che arrivano dal passato. Capitolo vini: chapeau. Abbinamenti straordinari, ricercati, piccole aziende e realtà con un futuro raggiante: Etna Rosato Pieradolce, Donna Grazia Gurreri. A proposito dello spaghetto, pensiero fisso che torna e ritorna: Isabelle Allende scriveva che il nero di seppia è così erotico che sarebbe sconveniente servirlo a monache e vedove. Noi pensiamo il contrario: il piatto di Vincenzo farebbe loro solo bene. Un gran bene.

Spaghetto al nero di seppia con ricci di mare

David Gandy

IO, JAMES E GLI SPAGHETTI

L

’intervista sarebbe dovuta durare un quarto d’ora in più. Lui si era messo comodo, sorseggiando un cocktail ad una festa organizzata da uno dei suoi sponsor. Già ci pregustavamo un lungo materiale quando all’improvviso l’ufficio stampa, senza alcun motivo, disse che il tempo fosse scaduto. Pazienza, chi ci rimette è il lettore e, ci permettiamo di dirlo, anche l’azienda che aveva organizzato tutto. Perché se hai tempo per tre domande hai la possibilità di scrivere dieci righe, se invece porti a buon fine l’intervista si ha più spazio a disposizione e di conseguenza puoi anche pubblicare alcune fotografie, magari con David che indossa un certo capo di abbigliamento. E’ l’abc dello stare al mondo. Non c’è verso, le quattro

avvoltoie (si può dire avvoltoie?) dei vari uffici stampa congiunti ti stavano addosso, a mezzo metro di distanza, senza che nessuno avesse chiesto loro di difendere il modello dal mondo intero. Morale? Volevamo parlare con lui di ristorazione e affini, in maniera assai seria e approfondita, visto che è un grande fan del nostro paese e della cucina italiana. Ci siamo riusciti a fare tre domande e di conseguenza abbiamo ricevuto tre risponde, molto gentili. “Il mio piatto preferito? Spaghetti alle vongole. Lo chef che più mi piace? James Oliver. La cucina che amo di più? Quella giapponese, il sushi prima di tutto. Il mio idolo? Paul Newman, per come teneva la sigaretta e per il suo essere maschio”. Fine dell’intervista. Complimenti all’ufficio stampa.

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Immagina, puoi

PREAMBOLI AMOROSI A MILANO

Puglia in Brera

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mmettiamolo, l’attesa di un incontro vale spesso più dell’incontro stesso: sognare il suo arrivo, fantasticare sul profumo e la sua bellezza infinita, tutto fa parte dell’incantesimo. “Per chi cerca un attimo che possa valere una vita”, mai una frase ebbe più senso. E’ il momento più bello, vale almeno per i primi appuntamenti: ci ruba tutti i pensieri, nelle ore e a volte nelle giornate che lo precedono. Come si vestirà? Arriverà raggiante e saltellante, piena di vita oppure indifferente? Ci sorriderà, appena ci vedrà? Le sue labbra sapranno di magia, come le altre volte? Ce lo chiediamo quando abbiamo 18 anni, oppure 29, 45, 55: cambia poco, quando si è innamorati. E poi, immaginare dove portarla: più lei ci lascia senza fiato, più vogliamo che tutto sia entusia-

smante, dall’atmosfera al menù: nulla deve essere lasciato a caso. E qui inizia il meraviglioso viaggio mentale: ogni donna ha le sue aspettative e ambizioni, valori e

La stradina stretta, gli spazi angusti, il via vai della gente, la sensazione di essere in un film sull’Italia anni sessanta ricordi, ognuna è sensibile a dei dettagli diversi. Dove portarla? E soprattutto, dove siamo sicuri che lei si sentirà al settimo cielo, dove si lascerà

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andare, in quale ambiente splenderà di più? Che tipo di piatto la farà entusiasmare? Qui non vogliamo metterla giù in maniera sofisticata, niente ristoranti impegnativi e abiti di sera, ancor meno menù degustazione e situazioni impostate: siamo sull’easy chic sfizioso. Ciak, si gira. Immaginate l’ora di pranzo di un venerdì di fine aprile. Nessuno dei due prova una fame esagerata, se non uno dell’altro, si annuncia un lungo weekend pieno di passione e parole sussurrate, spensieratezza e promesse. Per cui ci vorrebbe un pranzo divino, un solo piatto, delizioso, che pungoli il desiderio amoroso, quasi da lumi di candele. La primavera ti va venire la voglia di passeggiare e di volare, per cui nel nostro film gastronomico scegliamo una zona pedonale. Prima tappa, Puglia in Brera: per fare colpo, provate a prenotare


Le Vrai

Più lei ci lascia senza fiato, più vogliamo che tutto sia entusiasmante, dall’atmosfera al menù: nulla deve essere lasciato a caso.

La pizza all’angus di Garage

Capesante, gambero e polpo marinato da Bento

il tavolino fuori, semplicemente straordinario, chic e intimo da morire. La stradina stretta, gli spazi angusti, il via vai della gente, la sensazione di essere nell’Italia anni sessanta. Poi le pietanze prettamente pugliesi, con quella frisa salentina (quasi bruschetta) stracolma di burrata e acciuga, per non iniziare il discorso sulla purea di fave: spaventosamente vellutato e leggero. Spostiamoci una manciata di passi, al Sushi B, luogo ormai cult per gli amanti dei giardini verticali e della cucina giapponese. Confessiamo che non abbiamo ancora assaggiato i loro cocktail, l’unica nostra visita risale al mese di gennaio, quando di sicuro non eri invogliato a fumarti un sigaro fuori, sorseggiando un drink e aspettando i finger food preparati dallo chef Nobuya Nimori. Però l’anguilla che abbiamo preso faceva davvero tremare i polsi e ci siamo promessi di tornare per

riassaporarla: eravamo di fretta e abbiamo suggerito allo chef di farci sognare con un piatto delicato e succulento, che potesse saziare il nostro appetito di sensazioni. Pochi minuti dopo, eccola: burrosa, gustosa, pareva esalare l’ultimo respiro mentre veniva adagiata sul riso davanti a noi. In attesa, ci portarono una via di mezzo fra una amuse bouche e un antipasto: un sigaro delizioso, avevi la sensazione di gustare il mondo intero, un viaggio esplosivo ed eccitante. Alla nostra “lei” l’anguilla piacerebbe un mondo, magari accompagnata da una bollicina fresca e cremosa. Dalla cucina sensuale di Nobuya passiamo ad un altro piatto intrigante in un luogo spensierato e luminoso, ben curato e gestito, con delle ambizioni assai alte: Bento. Se ti siedi con lei al tavolo vicino alla finestra, vivrai davvero come in un film:

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fuori le persone camminano leggere, mentre tu sei all’interno e la guardi come si gusta lentamente il piatto cult del ristorante di Tunde Pecsvari e Antonio Scognamiglio: capesante, gambero e polpo marinati con lime e barbabietola, poi frutta secca e mela verde. E’ un piatto quasi musicale, che piace molto alle donne delicate. Sulla fiducia e per sentito dire ne esaltiamo un altro: il Gunkan Bento Style, ovvero scampi e pomodoro confit, gambero dolce e spicy avocado, anguilla e mango, astice e tobiko nero, salmone e uova di quaglia, capasanta e mela verde. Altro magic moment al Le Vrai, posto Made in France a cento metri dalla fiera che ospita il Taste e che frequentiamo assai spesso, visto il nostro amore sconfinato per il foie gras preparato al momento e per il pane appena sfornato: delizioso, il tutto. Provate a raccontare in giro che il vostro spuntino preferito sia la baguette calda con una coppa di bollicine e il foie gras, degustato in un bistrot tipicamente francese: sui visi dei vostri amici leggerete meraviglia e sospiri. Portateli, e portate lei: potrebbe svenire per il piacere, voi invece impazzirete vederla come si gusta il tutto con lentezza. Se invece lei fosse innamorata della pizza leggera, gourmet, piena di segreti e sapori, portatela al Garage: okei, abbiamo abbandonato il pieno centro, siamo in Corso Sempione, al civico 42. Letteralmente straordinarie, croccanti e gustose, perfino troppo gustose, addirittura indecenti: le pizze al Garage sono davvero come i preamboli amorosi, vengono preparate tenendo in considerazione tutti i sensi: vista, olfatto, gusto, tatto. Morsi di piacere. Buona continuazione a tutti.


Moda e cucina GUSTI E CROMIE

Le calze di Bresciani, “abbinati” sopra allo scorfano di Felix Lo Basso e sotto ai macaron di Pascal Caffet

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’ un giochino che ci piace sempre di più e, va detto, coinvolge assai, destando l’attenzione e l’immaginazione dei lettori. E’ intrigante, sembra una specie di puzzle,

prendi un paio di calze e poi cerchi fra i tanti piatti uno che possa essere quasi identico. A volte si riesce alla perfezione, ti pare che hanno creato il menù dopo aver visto la collezione di un’azienda e viceversa.

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Va anche detto che anni fa una situazione del genere sarebbe stata improbabile: ci si vestita di grigio e blu, qualche volta tornava il nero, oppure il verde scuro. Nessuna fantasia, tanta sobrietà, che spesso non era altro che mancanza


Le calze di Red, “servite” con un piatto di Enrico Bartolini (sopra) e uno di Davide Oldani (sotto)

di coraggio. Oggi è tutto diverso, ci sono giacche una volta considerate eccentriche e calze con mille colori che sono la quotidianità. C’è più libertà e voglia di esprimere la propria personalità, in più stanno scomparendo gli ambienti rigidi dove potevi indossare solo la camicia azzurra che tanto sapeva di ragioniere. Pure la ristorazione è cambiata: se vi volete divertire (si fa per dire) date un’occhiata ai piatti degli anni ottanta: un obbrobrio, la morte della passione: colori tristissimi, una

mise en place ridicola. Terrificanti gelatine, polpettoni, uova sminuzzate: un incubo, per non parlare delle composizioni a forma di porcospino e cespi di lattuga farciti. Per fortuna quei tempi non esistono più e non torneranno mai, i brutti sogni sono finiti. Godiamoci la raffinatezza dei giorni nostri, dove gli chef, così come i creatori di moda puntano sul fattore emotivo, cercando in maniera viscerale di conquistarci. Bresciani e Red sono in prima linea quando si tratta di colori e idee: abbiamo scelto due

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abbinamenti per ognuna di loro. “Il menu” che proponiamo per Bresciani va da un filetto di scorfano firmato Felix Lo Basso ai macaron di Pascal Caffet, pasticciere campione del mondo che ha aperto anche a Milano, in Via San Vittore. Per Red abbiamo virato sul bistellato Enrico Bartolini e uno dei suoi piatto cult, ovvero patata soffice, uova e uovo. Chiusura in bellezza con Davide Oldani e la veluttata di cavolo. La moda è servita.


Tenute Pacelli ZOE, METODO CLASSICO

Laura e Carla Pacelli

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uando è nata mia figlia Zoe nessuno aveva idea di come sarebbe stato il suo carattere, la sua personalità, di quello che sarebbe potuta diventare col passare degli anni, di che bambina sarebbe stata. Allo stesso modo, quando abbiamo imbottigliato la prima annata -la 2012- del nostro metodo classico a base di Riesling, nessuno osava immaginare cosa, dopo 24 mesi sui lieviti e un anno in bottiglia sarebbe nato dalla sboccatura. Certo, con il nostro enologo Fabrizio Zardini, avevamo studiato la vigna, le caratteristiche organolettiche del terreno, avevamo anche, in un certo senso, puntato sul particolarissimo microclima che caratterizza la Tenuta, quasi adagiata su una collina, circondata da una vallata ventilata e protetta da montagne ventose. Un luogo dove il silenzio impressionante è rotto solo dalle folate di un vento impetuoso che scuotono le fronde della quercia secolare accanto al casino di caccia del ‘700. La scelta di allevare Riesling in Calabria, per quanto forse folle, è stata dettata anche dalle fortissime escursioni termiche della zona e dal carattere spiccatamente minerale e calcareo della sua vigna, che si inerpica sulla parte più irta della collina che porta alla cantina

di Tenute Pacelli. Volevamo uno spumante unico, che fosse allo stesso tempo irruente ed elegante, morbido ma con qualche nota speziata che potesse sorprendere l’olfatto, minerale ma che richiamasse, al contempo la maturità dei frutti del sud. Quando mia figlia ha compiuto 3 anni (gli stessi che ci sono voluti per arrivare al

La scelta di allevare Riesling in Calabria, per quanto forse folle, è stata dettata anche dalle fortissime escursioni termiche della zona degorgement dello spumante) il suo carattere era già delineato: briosa, effervescente, impetuosa, mai ferma, ma allo stesso tempo dolcissima e curiosa, socievole e solare. Una bambina che sorprende e che continua a meravigliarmi per la sua incessante evoluzione e per il suo carattere tenace e gioioso. L’altro Zoe, l’altro figlio, il metodo classico

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partorito dalla cantina, è molto simile a lei, in modo particolare nella sua evoluzione, che adesso, dopo un anno e mezzo dalla sua effettiva nascita, dalla sua sboccatura, si è rivelato in perenne crescita. Ricco e fruttato un anno fa, più sobrio ed elegante adesso, in quella che credo sia la sua adolescenza e che l’ha reso più intrigante, più suadente e sottile, meno impetuoso. Le note di idrocarburo al naso -che inconfondibilmente identificano il Rieslingora si fondono leggere con mineralità, freschezza e giusta acidità. In bocca è più strutturato, più morbido e avvolgente, meno impetuoso. La sua maturità che negli spumanti porta all’età perfetta per la degustazione, sta arrivando, mentre la sua anzianità è molto lontana, almeno mi piace pensarlo. Intanto lo osservo evolversi, crescere, risplendere brillante nel calice, come allo stesso modo osservo crescere mia figlia, con una gioia simile, mista a orgoglio, che mi fa ben sperare nel futuro. Un futuro che per la mia Zoe sarà diventare donna, mentre per il nostro spumante sarà la storia della vendemmia 2016, la seconda dello Zoe, perché alcuni vini, come i figli, nascono solo quando sono pronti a risplendere.

di Carla Pacelli



Julia Skalozub SCHIENA ARCUATA

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robabilmente non ha mai fotografato un maschio in vita sua, sicuramente non ha mai scattato una donna vestita. Perché Julia ha sempre voluto solo il nudo, come se fosse la cosa più normale. Difatti lo è, ma dalle sue immagini traspare proprio la naturalezza assoluta del gesto. Si fa un po’ fatica a pubblicare i suoi scatti migliori, non per una questione di pudore, bensì perché il nudo integrale fa un po’ troppo rivista maschile, Playboy o altro: i lettori apprezzerebbero, certo, ma stonerebbe in qualche modo con il resto delle pagine, non con il nostro modo di essere. Siamo i suoi più grandi ammiratori, i primi ad essere dispiaciuti di non poter dedicare una dozzina di pagine ad ogni uscita: per questo vi invitiamo, anzi, vi preghiamo di googlare il suo nome e di estasiarvi. Certo, se chiederete agli chef cosa preferiscono, diranno che sono interessati alle donne e non ai piatti, la schiena arcuata fa sognare più dell’anguilla caramellata. Si, la schiena arcuata, espressione inventata anni fa e poi diventata cult: una fotografia di Julia immortala in maniera ideale l’idea, rendendo il sen-

so della metafora. Per gioco e non solo l’abbiamo spesso abbinata a delle sensazioni vissute a tavola, l’ultima volta con una purea di fave meravigliosa, preparata al Puglia in Brera da Donata Rizzo. Potremmo fare un elenco lunghissimo dei piatti che ci hanno trasmesso una tale sensazione, però non vogliamo divagare. Qui l’argomento sono le immagini di Julia, fotografa ucraina che di base vive a Praga e ultimamente fa il giro del mondo, scattando per una valanga di riviste, da Playboy a scendere. Ha talento da vendere, una energia straordinaria, non è mai banale e ancor meno ripetitiva. Ci sono alcuni fotografi eccellenti che non vanno mai oltre i tre scatti, le pose sono sempre le stesse. Vista una, viste tutte. Straordinarie, ma uguali. Julie è diversa, ironica, irriverente, spazia e ti spiazza, trasmette una sensualità semplicemente oltre ogni immaginazione:in più è donna, solitamente sono gli uomini a fotografare meglio il gentil sesso. Noi stessi “googliamo” spesso il suo nome, oppure andiamo sul suo sito (www.juliasvision.com) e affondiamo nel piacere che ci regala, isolandoci da tutto per una manciata di minuti: è pura magia, provateci.

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Gli scatti in bianco e nero portano subito con il pensiero a Helmuth Newton, con un tocco di femminilità in più. Mai donne nevrotiche, mai situazioni inquietanti: solo piacere, puro piacere. L’ironia della sorte, qui invece pubblichiamo scatti a colori: ci tiene tanto alle fotografie con Lela, cantante ucraina che ha posato per Julia alle Maldive. Viene di rado in Italia, anche perché le riviste qui stanno per sparire e le altre pagano poco (o per nulla). Ci ha provato a mettere radici, poi è scappata verso lidi dove gli editori credono ancora nei loro prodotti e dove il lavoro viene riconosciuto e ricompensato come si deve. Allargando il discorso, le riviste che qui vendevano centinaia di migliaia di copie sono state rase al suolo da direttori hipster o aspiranti tali. Di punto in bianco hanno deciso che il maschio non fosse più interessato al nudo, al piacere femminile: no, secondo loro l’uomo maturo voleva salvare le balene e il pianeta, leggere poesie e mangiare goji, parlare di un saggio impegnato sul commercio solidale. E’ così che sono morte le riviste dove Julia poteva splendere e farci sognare. L’uomo vuole la bellezza totale, non filosofia pe-


sante un tot al chilo: la speranza è che si torni alla normalità, come insegna il Playboy americano. Dopo una pausa assurda di un anno sono tornati sui propri passi. Per le riviste italiane decedute o quasi, è troppo tardi.

Hanno trasformato le riviste per maschi in opuscoli per loser e professori pallidi con la forfora, hanno ridotto i quotidiani a qualcosa di grigio e insulso, tedioso e piatto, senza un sussulto e un parere forte, tranne darla con-

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tro al capitalista, all’imprenditore e al ricco. Le riviste vivevano alla grande quando c’era la voglia di far felice il lettore, quando facevano sognare e non mandavano la gente in depressione. Julia è nata troppo tardi.


Un anno dopo ALESSANDRO BUFFOLINO

La finta caprese

“H

ello, world”. Qualcuno se lo ricorderà: esattamente un anno addietro Alessandro Buffolino “esordiva” al Taste e, in pratica, si presentava in maniera ufficiale al mondo milanese. La clientela meneghina scopriva un ragazzone alto, dal sorriso timido, molto rispettoso, che parlava a bassa voce e che ti colpiva con quella febbre negli occhi tipica dei fuoriclasse. Dopo anni passati in Francia dal leggendario Michel Guerard aveva deciso di fare il grande passo, prendendo le redini dell’Acanto, ristorante impegnativo al massimo. Impegnativo perché parte integrante del mondo Dorchester, già di per sé pretenziosissimo: in più, si tratta di un pezzo di storia milanese, il Principe di Savoia, punto di riferimento per l’ambiente cinque stelle italiano. Una sfida tremenda, in un mondo che sta cambiando in fretta e in una città che vive il suo momento magico, gastronomicamente parlando: aprono ristoranti spettacolari, si sente ovunque il profumo delle stelle Michelin, il livello si è alzato in maniera considerevole e la gente sa apprezzare, eccome. Non puoi sbagliare, non ti è consentito bluffare, ancor meno ingannare: le attese sono tante, chi le delude è fuori dai giochi. Non è il caso di Alessandro, il ragazzo ha le idee chiare: ordine, pulizia, precisione sono i suoi

mantra in cucina, mentre babà, mojito, cacio e pepe i credi culinari. I menù dello chef campano sono elettrici, ricchi, solari, pieni di acrobazie gastronomiche e molto potenti: il capogiro è assicurato. Da buon campano “carica” i piatti, dandoti la scossa. Il suo pacchero all’ossobuco ne è la prova, nonché il suo signature dish: fu il suo biglietto da visita quando si istallò nelle cucine del Principe. Pochi mesi dopo calò gli assi, proponendo la pasta al caviale e spuma di patate: la prima cucchiaiata è un colpo al cuore, la seconda una scossa di

I suoi menù sono elettrici, ricchi, solari, pieni di acrobazie gastronomiche e piatti potenti piacere, la terza languore puro. Certo, sono piatti diversi, uno sposa la tradizione, l’altro la lussuria, però in un ristorante del genere ci vogliono entrambi. I risultati gli danno ragione, i numeri non mentono mai: la media dei coperti tocca vette altissime, si è superata la cinquantina e vi garantiamo che non è poco per un ristorante d’albergo. Fino a pochi anni addietro faticavi all’idea di una cena

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in un posto del genere, sfarzoso e opulento: ti appesantiva, ti toglieva leggerezza. Ecco, all’Acanto sono riusciti a invertire il trend: chapeau. Perché da una parte la cucina di Buffolino è passionale e ispirata, ricca e ghiotta, cromatica e creativa, frizzante, di un irrefrenabile ottimismo. Dall’altra, la sala, il personale, sono da dieci e lode: si muovono come se fossero dei ballerini. E’ davvero piacevole guardare la profonda armonia dei loro gesti: un giorno ci capitò di essere da quelle parti prima dell’apertura e fummo colpiti dall’eleganza del rituale quotidiano. Il sole accarezzava il ristorante, il silenzio era quasi totale, interrotto solo dal suono metallico delle posate e dei bicchieri. Era come negli inizi dei film americani pieni di ottimismo e positività, era come fare all’amore: guardavamo il tutto con una sorte di quieta gratitudine. Tornando allo chef, la finta caprese che porta al Taste è un giochino da prestigiatore, roba da fuoriclasse: calca un po’ l’idea di Heston Blumenthal, già il paragone fa venire i brividi e scatta l’applauso per il coraggio. E poi le tecniche sono un bene comune, un cuoco non deve mai aver timore di prenderle in prestito. Lo confessiamo, abbiamo assaggiato il finto pomodoro e, a onor del vero, ci ha stupiti non poco. Ogni scherzetto vale, si dice a Halloween. Vale anche all’Acanto. E anche al Taste.


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