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La riabilitazione dei “maltrattanti”, liberarsi dalle radici

La riabilitazione dei “maltrattanti”, liberandosi della violenza alle radici

Sette in Veneto, uno per provincia, i Centri per la riabilitazione degli uomini. Nostro mini viaggio iniziando da “Una casa per l’uomo” di Montebelluna.

Fabio Ballan

Le frasi tipiche: “Lo ammetto, ero su di giri, ma è stata lei che mi ha provocato”. “Quella sera avevo bevuto un po’ troppo, ho perso il controllo e mi è partito uno schiaffo. Ma non volevo arrivare a tanto”. “Quando ho visto l’ambulanza venire a soccorrerla mi sono spaventato, ecco perché oggi sono qui”.

Ognuno di questi piccoli racconti rappresenta un frammento del dramma, un istante della violenza esplosa all’interno di una famiglia dove un uomo ha alzato la voce e le mani contro una donna. Sette volte su dieci, lei è la fidanzata o la moglie. I racconti proseguono nel silenzio della stanza, siamo al Centro di cambiamento maschile che fa capo alla cooperativa “Una casa per l’uomo di Montebelluna” in provincia di Treviso.

Qui ogni anno arrivano una sessantina di chiamate con richiesta di aiuto, gli operatori ascoltano e programmano gli ingressi maschili nel percorso di terapia. Riabilitarsi al rispetto e alla gentilezza, imparare il controllo della rabbia, esercitare la capacità di esprimere a parole il proprio punto di vista con toni pacati e civili, implica un duro lavoro che porta diritto alla radice della violenza per provare a liberarsene prima che accada l’irreparabile.

La scia dei femminicidi colpisce il nostro Paese provocando una vittima ogni tre giorni. Il recente rapporto del Viminale aggiornato ad agosto 2022 ha registrato 125 femminicidi nell’ultimo anno, con una tendenza all’aumento rispetto all’anno precedente, le denunce per stalking sono state 15.817 (in lieve calo), gli ammonimenti del questore per violenza domestica ammontano a 3.100. La cronaca restituisce vicende di abusi ripetuti, di denunce talvolta ascoltate e talvolta ignorate, mettendo in rilievo un sistema che non sempre riesce a proteggere le vittime dai loro aggressori, e gli aggressori dal reiterare reati di genere. A volte la pericolosità di questi ultimi viene sottovalutata e non sempre sono attivati percorsi per far uscire l’uomo dalla spirale della sua stessa violenza. Aspetto, quest’ultimo poco indagato, ma cruciale per far fare all’Italia un definitivo passo in avanti nel progresso sociale.

“Il raptus non esiste e la violenza non ammette giustificazioni, noi aiutiamo gli uomini a capirne le origini, a prendere consapevolezza e a comunicare correttamente le loro emozioni, compresa la rabbia, la cui espressione ha una valenza culturale molto forte”, rileva Fabio Ballan counselor del Centro di cambiamento maschile di Montebelluna.

Basti pensare all’espressione “Non fare la femminuccia” pronunciata dagli adulti ai bambini per stimolarli a non mostrare le lacrime, ma la tempra. E poi cliché e pregiudizi che ancora avvolgono il rapporto tra i sessi e impregnano i modelli di riferimento.

“La colpa della violenza è sempre e solo mia”. È quanto gli operatori della struttura montebellunese insegnano a chi entra nel programma terapeutico. Il passo successivo porta i partecipanti a indagare la sfera emotiva e come governarla. Un percorso di riabilitazione che dura un anno e mezzo. Gli ostacoli sono tanti, non tutti ce la fanno ad arrivare fino in fondo, alcuni lasciano.

Eppure, il sistema normativo e istituzionale del nostro Paese promette di investire di più nel recupero dei maltrattanti, incentivando la politica del “doppio intervento”, cioè il lavoro fondamentale svolto dalle case-rifugio e dai servizi di protezione per le donne e i minori, ma anche percorsi strutturati per gli uomini che devono risolvere i comportamenti violenti.

A mettere nero su bianco l’urgenza di incentivare la riabilitazione degli autori degli abusi di genere è anche una relazione prodotta dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio: “In assenza di un intervento di supporto, oltre otto uomini maltrattanti su dieci (cioè l’85%) tornano a commettere violenze contro le donne”.

Tuttavia, nessuno sa esattamente quanti siano in Italia i Centri con questa funzione, perché non esiste un censimento aggiornato, e

questo la dice lunga sulla necessità di investire economicamente e culturalmente sul tema.

Nel Piano strategico nazionale sulla violenza maschile contro le donne 2017-2020 i centri che si occupano di questo non sono stati mappati e non è stato previsto un fondo nazionale per sostenerli, gli unici dati disponibili dell’Istat sono fermi al 2017, quando erano attivi meno di settanta punti di accesso sul territorio nazionale, concentrati perlopiù nel Nord Italia, soprattutto in Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto, mentre alla Toscana spetta il primato di aver visto nascere nel 2009 il CAM, il primo centro in Italia per la presa in carico di uomini autori di comportamenti violenti nell’ambito dei legami sentimentali. Ogni anno il CAM gestisce 1.300 richieste di aiuto.

“Gli uomini arrivano da noi attraverso due canali principali: volontariamente oppure su invio dell’autorità giudiziaria. Nel primo gruppo rientrano coloro che riconoscono di avere un problema con la violenza o ne stanno subendo gli effetti, ad esempio la compagna andata via di casa oppure finita in ospedale per la prima volta dopo gli abusi subiti. Nel secondo gruppo rientrano, invece, gli uomini inviati con un canale “obbligato” su prescrizione del giudice, consiglio degli avvocati, o attraverso i vari patteggiamenti previsti dal Codice Rosso per evitare un lungo processo. Questi ultimi sono aumentati a dismisura e ciò implica che in base alla tipologia di utenza debbano essere differenziati i percorsi perché le ragioni alla base sono differenti ed anche la motivazione personale, rileva Mario De Maglie (foto sotto), psicologo, psicoterapeuta, e vicepresidente Cam. Il sistema di presa in carico sta evolvendo ma permangono delle lacune. “Le leggi attuali prevedono e incentivano giustamente il percorso di recupero dell’uomo maltrattante - continua De Maglie - ma come questo debba essere fatto e con quale risultato conseguito, non è considerato un elemento rilevante pur essendo un’informazione per nulla banale”.

Ogni storia è a sé e ogni iter per liberarsi dalla violenza costituisce un percorso tortuoso e in salita proprio per questo il follow up andrebbe considerato.

“I nostri programmi di trattamento hanno la durata di nove mesi, viene inquadrata la storia personale e la situazione di maltrattamento, dopodiché la persona entra nel gruppo psicoeducativo dove si lavora sulla sessualità maschile, la comunicazione, la genitorialità, l’abuso di sostanze… Durante il periodo di riabilitazione vengono coinvolte anche le compagne per avere un loro feedback”.

Per debellare i reati di genere occorre perseguire un cambio approccio, incentivare i centri di recupero maschile, lavorare sulla condivisione del percorso con tutte le parti in causa e tenere sempre accesa l’attenzione, affinché la violenza non resti un fatto privato che riguarda solo le vittime dimenticandosi dei carnefici.

Valentina Calzavara Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio: “L’85% dei maltrattanti, senza supporto, tornano a usare violenza contro le donne”.

In alto: un momento degli incontri presso il Centro di Montebelluna. Sotto: la sede del CAM.

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