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Il PNRR come opportunità di sviluppo delle reti di terapia del dolore cronico

Silvia Natoli - Università di Roma Tor Vergata - Unità di terapia del dolore

Il dolore cronico è una condizione frequente che rappresenta circa il 20% delle visite mediche ambulatoriali. La definizione di cronicità non ha solo un connotato temporale, in quanto il dolore cronico è un fenomeno che altera lo stato di completo benessere psichico, fisico e sociale dell’uomo che pertanto non è più integrato nel suo ambiente naturale e sociale. Di conseguenza, il dolore cronico è una vera e propria malattia perché compromette lo stato di salute, come definito dall’Organizzazione Mondiale della Salute. Il concetto di dolore-malattia è difficile da cogliere, perché nella nostra esperienza il dolore è il sintomo di “qualcosa che non va”, di una lesione dei tessuti, sia essa evidente o occulta, non una malattia tout court. In realtà, nella maggior parte dei casi (anche se esistono delle eccezioni), il dolore inizialmente si genera da una lesione, ma per motivi non sempre chiari, può persistere oltre il normale tempo di guarigione della lesione stessa. Da un punto di vista neurobiologico, la persistenza del dolore è causata e sostenuta da modificazioni della via nervosa che conduce al nostro cervello l’input nocicettivo. Tali modificazioni, indotte dal dolore stesso, rendono la via nocicettiva più sensibile, per fenomeni ormai ben caratterizzati a livello neurochimico e strutturale. Dati sempre più numerosi, infatti, dimostrano che il cervello di una persona che soffre di dolore cronico (che per convenzione definiamo un dolore persistente o ricorrente che dura da più di 12 settimane) mostra alterazioni adattative morfologiche e funzionali in studi di brain imaging, in alcune regioni che normalmente sono coinvolte nel processamento dello stimolo nocicettivo. L’aspetto interessante è che le aree cerebrali maggiormente coinvolte da queste alterazioni sono le stesse deputate al processamento cognitivo ed emozionale del dolore stesso. Queste alterazioni potrebbero rappresentare la base neuroanatomica su cui si sviluppano una serie di alterazioni psicopatologiche che si riscontrano nel dolore cronico, come ad esempio depressione, ansia, incapacità di affrontare lo stress, affettività negative, aspettative catastrofiche e disturbi del sonno. Diverse invece sono le conseguenze sociali che questo stato di malattia provoca. La disabilità funzionale, l’incapacità lavorativa, il ruolo della persona nella famiglia, sono tutte sfere della socialità che vengono compromesse dallo stato di malattia cronica. In altre parole, nella medicina del dolore, questa situazione di cronicità si sviluppa in un contesto psicosociale predisponente in seguito ad un determinato insulto biologico (che tuttavia non è sempre evidente) e genera essa stessa alterazione della sfera psicologica e sociale dell’individuo. Non a caso, la nuova classificazione internazionale delle malattie dell’OMS (ICD-11) invita a valutare la gravità del dolore in base all’intensità del dolore, al disagio a esso correlato e alla compromissione funzionale che esso genera, sottolineando la complessità nosologica della condizione di dolore cronico. Il sistema ICD11 classifica i disturbi caratterizzati da dolore cronico suddividendoli in 7 gruppi: (1) dolore cronico primario, (2) dolore cronico da cancro, (3) dolore cronico post-traumatico e postchirurgico, (4) dolore cronico neuropatico, (5) cefalea cronica e dolore orofacciale, (6) dolore viscerale cronico e (7) dolore muscoloscheletrico cronico. La conseguenza pratica di questa nuova impostazione induce ad affrontare non solo gli aspetti biologici del dolore, ma anche gli aspetti psicologici e le conseguenze sociali della malattia. Appare chiaro, quindi, che il fulcro del cambiamento culturale nell’ambito del dolore cronico risiede nella rinnovata consapevolezza che il soggetto affetto da questa malattia vada considerato, alla stregua di altri malati cronici, come un soggetto il cui obiettivo terapeutico sia il recupero funzionale piuttosto che la “guarigione” dal dolore. Un tale approccio deve diventare uno standard of care, piuttosto che un’eccezione lasciata alla sensibilità del curante. In termini più tecnici, si dovrebbe passare da un approccio biomedico della malattia ad un approccio “biopsicosociale”. Il primo approccio di cura vede il dolore come un processo organico, in cui il medico deve ricercare ed eliminarne la causa. Questo approccio, in passato, ha favorito la stigmatizzazione dei soggetti in cui la causa organica non era evidente per cui il dolore era ritenuto di natura “psicogena”. Infatti, la visione biomedica di malattia presuppone che i processi psicologici e sociali siano in gran parte irrilevanti per i meccanismi biologici che sottendono la malattia e si concentra principalmente sugli squilibri biochimici

e neurofisiologici. L’ascesa della medicina psicosomatica ha in qualche modo frenato questa visione strettamente biologica e ha rivelato le importanti connessioni tra fattori biologici e psicosociali. Già negli anni ‘50 iniziarono ad apparire nella letteratura scientifica studi che esaminavano il legame tra il crollo dell’omeostasi e lo stress; da questo filone nasceva Il modello biopsicosociale di malattia, che è stato proposto per la prima volta nel 1977 da G. Engel e J. Romano. Il modello biopsicosociale valuta la “persona intera” integrata, con la mente e il corpo e riflette lo sviluppo della malattia attraverso la complessa interazione di fattori biologici, psicologici e sociali. Applicato al dolore, presuppone che la determinante biologica, danni a tessuti o nervi, possa avviare l’input nocicettivo al cervello la cui elaborazione comprende anche le esperienze personali ed il contesto sociale in cui si sviluppa l’esperienza, e quindi influenza la percezione del proprio stato di malattia ed i conseguenti comportamenti. Queste valutazioni sono ulteriormente influenzate dalle convinzioni che ogni persona ha acquisito nel corso della propria vita. Quindi, una persona può ignorare il dolore e continuare a lavorare e rimanere fisicamente e socialmente attiva, oppure può ritirarsi da queste attività e avere un “ruolo di individuo malato”. E’ intuibile che le convinzioni sul dolore sono condizionate dalla famiglia e dagli amici che possono indirizzare una risposta sana e reattiva o un ruolo di individuo malato. L’applicazione del modello biopsicosociale alla medicina del dolore prevede un approccio olistico che imponga una valutazione multidisciplinare che si applica al trattamento di tutte le condizioni croniche. Ciò crea la necessità di creare programmi interdisciplinari di gestione del dolore che abbiano la caratteristica della duttilità, per adattarsi alla diversità propria di ciascun paziente durante il processo di valutazione-trattamento. Infatti, anche in considerazione della natura “emozionale” del dolore stesso, lo sviluppo del fenotipo della “malattia dolore cronico” nel contesto bio-psicosociale fa sì che ci sia una estrema variabilità di presentazione clinica. Infatti, è intuibile che differenze individuali nella natura delle interazioni biologiche, psicologiche e sociali determinino l’unicità dei sintomi presentati dai singoli pazienti. Di conseguenza, lo sviluppo di un piano di gestione coordinato ed efficace su misura per le esigenze specifiche della

persona con dolore cronico richiede una valutazione clinica che rifletta le conseguenze multidimensionali del dolore cronico sulla vita della persona. Programmi di gestione interdisciplinare del dolore che prevedano la presa in carico delle sfere biologiche, sociali e psicologiche del problema, si sono dimostrati efficaci sia in termini di esito che in termini di costi. Gli esperti del settore concordano che l’incorporazione del modello biopsicosociale di trattamento in fase precoce possa essere la miglior strategia disponibile per personalizzare la terapia sulle necessità del singolo paziente al fine di migliorare la qualità di vita e garantire il recupero funzionale. Un approccio multimodale e interdisciplinare è stato previsto, nel nostro paese, anche a livello normativo. Con la legge 38/2010, infatti, si sanciva il diritto del cittadino ad accedere alle cure palliative e alla terapia del dolore. Essa annoverava tra le finalità lo sviluppo di un adeguato sostegno Un approccio multimodale sanitario e socio-assistenziale ai malati affetti da dolore cronico, e interdisciplinare è stato garantendo l’equità nell’accesso previsto, nel nostro paese, all’assistenza, la qualità delle cure e la loro appropriatezza anche a livello normativo. riguardo alle specifiche esigenze. Nella legge si individuava la

Con la legge 38/2010, figura del medico di medicina infatti, si sanciva il diritto generale quale parte integrante della rete assistenziale che si del cittadino ad accedere sarebbe dovuta sviluppare per alle cure palliative e alla garantire al paziente una continuità assistenziale ininterrotta. terapia del dolore Inoltre venivano individuate le altre figure professionali necessarie nel network coinvolto nel trattamento, tra cui i medici specialisti in anestesia e rianimazione, geriatria, neurologia, oncologia, radioterapia, pediatria, oltre agli infermieri, agli psicologi e agli assistenti sociali, lasciando aperti spazi per il coinvolgimento di altre figure professionali ritenute essenziali. Questa legge, prima in Europa ed estremamente innovativa, si è scontrata con il nostro sistema sanitario che, in molte regioni, si è dimostrato inadeguato a supportare ed implementare un percorso diagnostico-terapeutico con le caratteristiche di multi-disciplinarietà e che, esulando dal modello biomedico, permettesse lo sviluppo del modello biopsicosociale di trattamento. Gli ostacoli incontrati sono fondamentalmente di natura strutturale-organizzativa, sia a livello intra-ospedaliero sia, e soprattutto, su base inter-ospedaliera e territoriale, dove la comunicazione tra i nodi della rete è carente, se non del tutto assente e non è adeguatamente aggiornata da

un punto di vista tecnologico. Basti pensare alle difficoltà che si incontrano per indirizzare un paziente ad un consulto da altri specialisti, alle indagini diagnostiche o nella gestione del follow-up. Questa carenza, con ampia variabilità tra le regioni, determina ritardi di presa in carico del paziente, perdita al follow-up, incapacità di interazione con gli specialisti della rete e mancanza di integrazione tra il territorio, ospedale e medicina generale. Inoltre, vi sono evidenti disparità territoriali nell’erogazione dei servizi, in particolare in termini di assistenza sul territorio; non esiste un’adeguata integrazione tra servizi ospedalieri, servizi territoriali e servizi sociali; i tempi di attesa restano elevati per l’erogazione di alcune prestazioni. Il tutto si traduce nella scarsa capacità di conseguire sinergie nella definizione delle strategie di risposta alle necessità sanitarie. Restano poi da dirimere criticità di tipo assistenziale nell’ambito specifico del dolore, perché l’accesso alle terapie fisiche-riabilitative e psicologiche non è garantito per la patologia “dolore cronico”. La pandemia da Covid-19 ha reso palesi i limiti organizzativi e tecnologici del nostro servizio sanitario evidenziando, d’altro canto, la rilevanza macro-economica dei servizi sanitari pubblici. In quest’anno di pandemia, abbiamo rivalutato il valore universale della salute e la sua natura di bene pubblico fondamentale, ma anche la necessità di supportare lo sviluppo del Servizio Sanitario Nazionale (SSN), i cui esiti sanitari, nonostante l’impreparazione ad un evento di tale portata, si sono rilevati adeguati a fronte di una spesa sanitaria sul Pil inferiore rispetto alla media UE. Dover far fronte a un evento pandemico che ha catalizzato le risorse sanitarie, tuttavia, ha reso necessario sacrificare l’assistenza sanitaria “routinaria”, specie in quegli ambiti, come quello del dolore cronico, in cui erano già ampiamente evidenti le carenze organizzative-strutturali summenzionate. Infatti, la pandemia ha reso ancora più evidenti quegli aspetti critici, che in prospettiva, potrebbero essere aggravati dall’accresciuta domanda di cure derivante dalle tendenze demografiche, epidemiologiche e sociali in atto. Infatti, stiamo assistendo a un processo di invecchiamento della popolazione italiana e, parallelamente, all’incremento della prevalenza di malattie croniche, che riguarda circa il di 40% della stessa. Pertanto è necessario un piano di rinnovamento e di rafforzamento della capacità del SSN di fornire servizi adeguati ad affrontare il cambiamento in atto. La sostenibilità del nostro servizio sanitario, messa a dura prova dalla pandemia, e l’andamento deludente della produttività del nostro paese hanno evidenziato l’incapacità di cogliere, anche in ambito sanitario, le molte opportunità legate alla rivoluzione digitale. L’Unione Europea ha risposto alla crisi pandemica con il Next Generation EU, un programma che prevede investimenti e riforme per accelerare la transizione ecologica e digitale, migliorare la formazione sul lavoro, conseguire una maggiore equità di genere, territoriale e generazionale. Di fatto, quindi, la pandemia ha generato per l’Italia l’incredibile opportunità di utilizzare fondi europei per colmare il gap tecnologico e favorire lo sviluppo in diversi settori strategici, incluso il settore sanitario, mediante investimenti e riforme. L’Italia ha proposto alla comunità europea il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) per illustrare come intende gestire i fondi di Next generation EU. Il piano è stato realizzato seguendo le linee guida emanate dalla commissione europea e si articola su tre assi principali: digitalizzazione e innovazione, transizione ecologica e inclusione sociale. Esso suddivide i settori di intervento in 6 missioni. La salute è rappresentata dalla missione 6, la quale si articola in due componenti: 1.Reti di prossimità, strutture intermedie e telemedicina per l’assistenza sanitaria territoriale, 2.Innovazione, ricerca e digitalizzazione del servizio sanitario nazionale. Andando ad analizzare lo sviluppo della componente 1, gli interventi di questa componente intendono rafforzare le prestazioni erogate sul territorio grazie al potenziamento e alla creazione di strutture e presidi territoriali, come le Case della Comunità e gli Ospedali di Comunità, il rafforzamento dell’assistenza domiciliare, lo sviluppo della telemedicina e una più efficace integrazione tra i servizi socio-sanitari. L’attuazione della riforma intende perseguire una nuova strategia sanitaria, sostenuta dalla definizione di un adeguato assetto istituzionale e organizzativo, che consenta al Paese di conseguire standard qualitativi di cura adeguati, in linea con i migliori paesi europei e che consideri, sempre più, il SSN come parte di un più ampio sistema di welfare comunitario. Il progetto di realizzare la Casa della Comunità ha l’obiettivo di riorganizzare e potenziare i servizi offerti sul territorio migliorandone la qualità. La Casa della Comunità diventerà lo strumento attraverso cui coordinare tutti i servizi offerti, in particolare ai malati cronici. Essa sarà una struttura fisica in cui opererà un team multidisciplinare di medici di medicina generale, pediatri di libera scelta, medici specialistici, infermieri, altri professionisti della salute e potrà ospitare anche assistenti sociali, la cui presenza rafforzerà il ruolo dei servizi sociali territoriali e una loro maggiore integrazione con la componente sanitaria assistenziale. Una struttura del genere, nell’ambito del dolore cronico, rappresenta un modo ottimale per favorire quell’approccio biopsicosociale di trattamento che ha dimostrato efficacia clinica ed efficienza economica. È ovvio che la rete dei professionisti coinvolti debba essere

rafforzata per le specifiche necessità del trattamento del dolore e che le figure professionali debbano essere adeguatamente formate sullo specifico ambito di intervento. La Casa della Comunità avrà come nucleo strutturale un’infrastruttura informatica, e fornirà il punto unico di accesso alle prestazioni sanitarie integrando i servizi socio-sanitari. In queste strutture sarà possibile individuare dei percorsi assistenziali specifici per popolazioni specifiche di malati, inclusi gli anziani e i soggetti fragili. Parallelamente allo sviluppo delle Case delle Comunità, il piano prevede investimenti mirati ad aumentare il volume delle prestazioni rese in assistenza domiciliare fino a prendere in carico, entro la metà del 2026, il 10 % della popolazione di età superiore ai 65 anni. Applicato alla medicina del dolore, il potenziamento della rete domiciliare, che prenda in cura anche popolazioni con patologie croniche non necessariamente terminali, ma che compromettono l’autosufficienza, permetterebbe la gestione di pazienti che, nell’organizzazione ospedale-centrica attuale, sono persi al follow-up. I terapisti del dolore non sono sufficienti in termini numerici a raggiungere a domicilio il paziente con dolore cronico, che spesso non si presenta alle visite di controllo a causa di esacerbazione del dolore stesso che comporta ulteriore perdita di funzionalità. E’ chiaro che in quest’ambito sarà necessario identificare un modello condiviso per l’erogazione delle cure domiciliari, coordinandosi con le diverse figure professionali della rete della terapia del dolore e sfruttando al meglio le possibilità offerte dalle nuove tecnologie, come la telemedicina, la domotica, la digitalizzazione. L’implementazione tecnologica nell’ambito del PNRR, prevede esplicitamente di realizzare un sistema informativo in grado di rilevare dati clinici in tempo reale e l’ attivazione di Centrali Operative Territoriali (COT) con la funzione di coordinare i servizi domiciliari con gli altri servizi sanitari, assicurando l’interfaccia con gli ospedali e la rete di emergenza-urgenza. Sarebbe auspicabile anche una interfaccia comune con le strutture territoriali e la medicina generale. Questo punto è fondamentale nella rete del dolore, perché permetterebbe di colmare il gap tra ospedale e territorio, come già previsto dalla legge 38/2010. Nella stessa ottica, si indirizza l’investimento rivolto alla telemedicina. Il Covid-19 ha fatto apprezzare a tutti noi l’utilità dei servizi di telemedicina, un formidabile mezzo per contribuire a ridurre gli attuali divari geografici e territoriali in termini sanitari, migliorare i livelli di efficienza dei sistemi sanitari regionali tramite la promozione dell’assistenza domiciliare e di protocolli di monitoraggio da remoto mediante l’armonizzazione degli standard di cura garantiti dalla tecnologia. Quanto progettato nella componente 1 si integra con la componente 2, che prevede misure atte a consentire il rinnovamento e l’ammodernamento delle strutture tecnologiche e digitali esistenti, il completamento e la diffusione del Fascicolo Sanitario Elettronico, una migliore capacità di erogazione e monitoraggio dei Livelli Essenziali di Assistenza attraverso sistemi informativi più efficaci. Una parte delle risorse, infine sarà destinato a rafforzare le competenze e il capitale umano del SSN anche mediante il potenziamento della formazione del personale. In conclusione, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza è un’occasione imperdibile per riportarci al passo con l’Europa modernizzando l’assistenza fornita dal nostro Sistema Sanitario Nazionale per renderlo sostenibile in termini di Cost-Effectiveness. Per la terapia del dolore cronico l’utilizzo di questi fondi permetterebbe l’applicazione dei principi sanciti dalla legge 38/2010 e lo sviluppi di percorsi terapeutici multidisciplinari che permettano l’integrazione multiprofessionale a garanzia di un approccio che contempli il dominio biologico, psicologico e sociale del paziente al fine di garantire il recupero funzionale, inteso come reintegro sociale e familiare e miglioramento della qualità di vita. Le ripercussioni economiche sulla spesa pubblica sarebbero sostanziali se tale approccio permettesse minori costi sociali per ridotta ospedalizzazione, e maggiore efficienza sul lavoro per migliore ripresa funzionale del soggetto affetto da cronicità. 23

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