TEME 9-10/2021

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terapia del dolore Silvia Natoli - Università di Roma Tor Vergata - Unità di terapia del dolore

Il PNRR come opportunità di sviluppo delle reti di terapia del dolore cronico

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l dolore cronico è una condizione frequente che rappresenta circa il ​​20% delle visite mediche ambulatoriali. La definizione di cronicità non ha solo un connotato temporale, in quanto il dolore cronico è un fenomeno che altera lo stato di completo benessere psichico, fisico e sociale dell’uomo che pertanto non è più integrato nel suo ambiente naturale e sociale. Di conseguenza, il dolore cronico è una vera e propria malattia perché compromette lo stato di salute, come definito dall’Organizzazione Mondiale della Salute. Il concetto di dolore-malattia è difficile da cogliere, perché nella nostra esperienza il dolore è il sintomo di “qualcosa che non va”, di una lesione dei tessuti, sia essa evidente o occulta, non una malattia tout court. In realtà, nella maggior parte dei casi (anche se esistono delle eccezioni), il dolore inizialmente si genera da una lesione, ma per motivi non sempre chiari, può persistere oltre il normale tempo di guarigione della lesione stessa. Da un punto di vista neurobiologico, la persistenza del dolore è causata e sostenuta da modificazioni della via nervosa che conduce al nostro cervello l’input nocicettivo. Tali modificazioni, indotte dal dolore stesso, rendono la via nocicettiva più sensibile, per fenomeni ormai ben caratterizzati a livello neurochimico e strutturale. Dati sempre più numerosi, infatti, dimostrano che il cervello di una persona che soffre di dolore cronico (che per convenzione definiamo un dolore persistente o ricorrente che dura da più di 12 settimane) mostra alterazioni adattative morfologiche e funzionali in studi di brain imaging, in alcune regioni che normalmente sono coinvolte nel processamento dello stimolo nocicettivo. L’aspetto interessante è che le aree cerebrali maggiormente coinvolte da queste alterazioni sono le stesse deputate al processamento cognitivo ed emozionale del dolore stesso. Queste alterazioni potrebbero rappresentare la base neuroanatomica su cui si sviluppano una serie di alterazioni psicopatologiche che si riscontrano nel dolore cronico, come ad esempio depressione, ansia, incapacità di affrontare lo stress, affettività negative, aspettative catastrofiche e disturbi del sonno. Diverse invece sono le conseguenze sociali che questo stato di malattia provoca. La disabilità funzionale, l’incapacità lavorativa, il ruolo della persona

nella famiglia, sono tutte sfere della socialità che vengono compromesse dallo stato di malattia cronica. In altre parole, nella medicina del dolore, questa situazione di cronicità si sviluppa in un contesto psicosociale predisponente in seguito ad un determinato insulto biologico (che tuttavia non è sempre evidente) e genera essa stessa alterazione della sfera psicologica e sociale dell’individuo. Non a caso, la nuova classificazione internazionale delle malattie dell’OMS (ICD-11) invita a valutare la gravità del dolore in base all’intensità del dolore, al disagio a esso correlato e alla compromissione funzionale che esso genera, sottolineando la complessità nosologica della condizione di dolore cronico. Il sistema ICD11 classifica i disturbi caratterizzati da dolore cronico suddividendoli in 7 gruppi: (1) dolore cronico primario, (2) dolore cronico da cancro, (3) dolore cronico post-traumatico e postchirurgico, (4) dolore cronico neuropatico, (5) cefalea cronica e dolore orofacciale, (6) dolore viscerale cronico e (7) dolore muscoloscheletrico cronico. La conseguenza pratica di questa nuova impostazione induce ad affrontare non solo gli aspetti biologici del dolore, ma anche gli aspetti psicologici e le conseguenze sociali della malattia. Appare chiaro, quindi, che il fulcro del cambiamento culturale nell’ambito del dolore cronico risiede nella rinnovata consapevolezza che il soggetto affetto da questa malattia vada considerato, alla stregua di altri malati cronici, come un soggetto il cui obiettivo terapeutico sia il recupero funzionale piuttosto che la “guarigione” dal dolore. Un tale approccio deve diventare uno standard of care, piuttosto che un’eccezione lasciata alla sensibilità del curante. In termini più tecnici, si dovrebbe passare da un approccio biomedico della malattia ad un approccio “biopsicosociale”. Il primo approccio di cura vede il dolore come un processo organico, in cui il medico deve ricercare ed eliminarne la causa. Questo approccio, in passato, ha favorito la stigmatizzazione dei soggetti in cui la causa organica non era evidente per cui il dolore era ritenuto di natura “psicogena”. Infatti, la visione biomedica di malattia presuppone che i processi psicologici e sociali siano in gran parte irrilevanti per i meccanismi biologici che sottendono la malattia e si concentra principalmente sugli squilibri biochimici


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