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Bar Cultura dell’acqua, anche in tazzina
from BARtù 11 12 2020
by Edifis
Cultura dell’acqua, anche in tazzina
Gianenrico Zaniol, coffee expert e brand ambassador di BRITA spiega i segreti per un espresso perfetto, grazie al concetto di Acqualità
Fare cultura dell’“Acqualità” nel tempo di un caffè? Con BRITA si può! Con i “Discorsi da caffè”, i segreti di una delle bevande più amate ad ogni angolo dell’orbe terracqueo vengono raccontati nel tempo di un espresso da Gianenrico Zaniol, coffee expert e ambassador Brita. In un momento complesso e delicato per tutti gli operatori del settore, BRITA sente il dovere di scendere in campo per schierarsi al loro fianco continuando a fare “cultura dell’acqua”, vale a dire sottolineando l’importanza di scegliere sempre e comunque qualità, sicurezza e sostenibilità. Come? Attraverso “Discorsi da caffè”, il nuovo format in cui Gianenrico Zaniol, coffee expert e barista brand ambassador di BRITA, approfondisce in brevi episodi un aspetto ogni volta diverso legato al caffè in termini di preparazione, consigli utili, consumo, tendenze.
Una chiacchierata informale in cui l’esperto parlerà, nel tempo di un espresso, di numerosi segreti che ruotano intorno al mondo del caffè: - Le 4 cose da sapere per degustare il caffè like a pro; - Il caffè più prezioso del mondo; - Il coffee pairing, ovvero: non solo caffè e brioche; - Gli ingredienti nel tuo caffè che non
vedi; - Il caffè del futuro; - L’espresso italiano, secondo gli stranieri; - Coffee&Mixology; - Quanto conta l’acqua nel caffè che bevi?
Minimo comun denominatore di queste “pillole” dedicate al caffè sono sicuramente i vantaggi derivanti dall’utilizzo di acqua filtrata BRITA e l’importanza di garantire sempre “Acqualità”, ossia Acqua Certificata di Qualità Libera da impurità Igienica Trattata su misura e Attenta all’ambiente. Tematica che è possibile approfondire con le soluzioni di filtrazione su misura per ogni necessità individuale a questo link:
https://www.brita.it/acqualita-bar-caffetterie
Per non perdere invece i Discorsi da caffè by BRITA, basta sintonizzarsi sui canali social dell’azienda:
https://www.facebook.com/BRITA.Italia https://www.instagram.com/brita.italia/
Les Collectioneurs, gli chef si danno da fare
Delivery e take away tornano ad essere soluzioni a portata di mano. Si spera solo temporaneamente
Per continuare a vivere l’esperienza gastronomica delle table les Collectionneurs, gli chef della community italiana hanno ideato originali proposte gourmet da gustare nella riservatezza delle proprie case grazie ai servizi di delivery e di take away. Esempi di creatività culinaria, piatti della tradizione e specialità regionali s’intrecciano in inediti menu messi a punto per allietare le tavole di casa e conquistare i palati più esigenti anche tra le mura domestiche.
Lombardia
Bu:r a Milano – Lo chef Eugenio Boer e la compagna Carlotta Perilli, responsabile di sala, deliziano le tavole dei milanesi con [bu:r] a casa, un originale format di ‘Gastronomia 4.0’. L’offerta del menu spazia dalle paste fresche, a piatti di carne come il bollito, le costine laccate o il vitello tonnato, a delizie come la focaccia nera, i mondeghili e i macaron di piccione. Il servizio di delivery e di asporto è attivo dal venerdì alla domenica solo per cena.
Morelli a Milano e Pomiroeu a Seregno - Sono due le opportunità ‘d’asporto’ Enrico Marmo che lo chef Giancarlo Morelli propone per gustare le sue specialità nella privacy della propria abitazione. Per stuzzicare i palati, anche quelli più esigenti, lo chef Morelli ha messo a punto differenti proposte di ‘menu takeaway’ che prevedono un’ampia scelta di piatti, dagli appetizer ai dolci, dai sapori più tradizionali a quelli più contemporanei. Il servizio take away è disponibile tutti i giorni a pranzo e cena.
Piemonte
È dalle le colline e dei vigneti delle Langhe, Patrimonio mondiale dell’Unesco, che circondano l’Osteria dell’Arborina Relais che lo chef Enrico Marmo trae ispirazione per la sua cucina gourmet-piemontese proponendo anche in un’inedita versione ‘Home experience’. La tavola di casa diventa così il punto di incontro di alcune specialità che lo chef Marmo ha selezionato per essere gustate in convivialità. Il servizio delivery e take away sono disponibili dal venerdì alla domenica solo per la cena.
Emilia Romagna
Ca’ Matilde a Rubbianino di Quattro Castella - È nella quiete della campagna che circonda Reggio Emilia che lo chef Andrea Incerti Vezzani dà vita al suo ‘laboratorio alimentare’, una cucina creativa contemporanea che rende omaggio alla tradizione culinaria reggiana. Ingredien-
Andrea Incerti Vezzani ti del territorio e dell’orto della tenuta caratterizzano ogni percorso degustazione. I servizi di delivery e take away sono disponibili dal martedì alla domenica. Antica Corte Pallavicina a Polesine Parmense – Tra le mura cinquecentesche dell’antico relais nel cuore della Bassa Parmense, sono custodite le bontà che lo chef Massimo Spigaroli e il fratello Luciano, hanno selezionato per imbandire le tavole meneghine. Dai salumi di propria produzione (con oltre 150 anni storia) tra i quali spiccano il rinomato culatello di Zibello, il salame ‘Spigarolino’, che grazie al servizio di consegna a domicilio, riempiranno le case dei milanesi di sapori e profumi irresistibili.
Campania
L’eccellenza della cultura gastronomica campana interpretata dallo chef Gianlu-
ca D’Agostino, da ben dieci anni ai for-
Massimo Spigaroli
Gianluca D’Agostino
nelli del Ristorante Veritas di Napoli, diventa una cucina espressa da gustare a casa. Lo chef D’Agostino ha racchiuso in un ricco menu alcuni piatti signature come la linguina con friarielli, tartufo nero e baccalà e il pollo arrosto con salsa di papaccelle e club sandwich. I servizi di delivery e take away sono disponibili dal martedì al sabato solo per cena. •
Exé, quando la coppia migliora l’offerta
Paolo e Francesca sono gli executive chef di questo ristorante nel modenese, che punta su menù a filiera corta
Spesso, quando si consiglia un ristorante, se ne riassume la qualità usando con una certa sufficienza la consolidata ma generica formula “è una sicurezza”. Dirlo dell’EXÉ di Fiorano Modenese (MO) significa però non solo esprimere convintamente una valutazione sull’eccellenza della sua cucina ma anche riconoscerne lo straordinario impegno nel rispetto delle norme imposte da un momento storico complicato. Struttura contemporanea concepita secondo i criteri necessari a garantire il massimo della serenità a chi si siede a tavola, il biglietto da visita culinario dello storico Hotel Executive ambisce innanzitutto a essere una sofisticata esperienza del gusto che soddisfa le papille più esigenti e favorisce il relax, grazie anche agli spazi importanti e a un impianto per il trattamento dell’aria con filtrazione elettrostatica che consente di ridurre i batteri del 95%. Nel loro regno, incastonato in un edificio interessato da un totale rinnovamento in senso avanguardistico, gli Chef Paolo Balboni e Francesca Simoni rielaborano la tradizione della leggendaria cucina italiana semplicemente esaltandone le caratteristiche con una buona dose di fantasia applicata a ingredienti di primissima scelta. Con oltre 400 etichette accuratamente selezionate da chi può mettere in campo autorevolezza e mestiere, la cantina è poi un trionfo dell’enologia che consente di scegliere in ogni momento l’abbinamento perfetto con i piatti di un menu ricchissimo e raffinato, specchio di una tradizione attualizzata nel massimo rispetto delle radici. Perché, come ha già avuto modo di dire il general manager Francesco Corradi, «in un ristorante si deve mangiare bene. E in questo non siamo secondi a nessuno». Identikit di due grandi Chef Per portare in tavola l’autentica eccellenza condensata in un concetto di cucina e ospitalità che si basa sulla qualità senza compromessi delle cose semplici, il ristorante EXÉ si affida a un’eccezionale coppia di chef, capaci di lasciare la loro impronta sul menù e ricordi indelebili nella memoria dei sapori dei clienti. Vera e propria trottola della cucina, la personal Chef Francesca Simoni ama raccontare di avere “tirato” la sua prima sfoglia a 8 anni e di essere guidata principalmente dall’Amore e dalla Pas-
sione per un lavoro che l’ha portata e continua a portarla in giro per il mondo. L’esperienza e l’interesse nella pasticceria emergono in un’esuberante selezione di dolci, in cui - ovviamente in autunno - non può mancare il castagnaccio con spuma di ricotta e sciroppo al rosmarino. Dal 2018 Executive Chef con gestione completa della brigata di cucina, fornitori e personale di sala, Paolo Balboni è arrivato all’EXÉ dopo un percorso che lo ha visto all’opera tra i fornelli di svariate realtà tra Torino, la Romagna e l’Emilia. Convinto sostenitore dello spirito di squadra e del lavoro a testa bassa, è uno specialista della rivisitazione dei piatti della tradizione e può essere considerato un asso della pizza gourmet, con una superlativa conoscenza del forno e una maniacale attenzione agli impasti. Sono questi i due fuoriclasse ai quali è affidato l’onore e l’onere di assicurarsi che la bontà vada sempre in scena. E il risultato è una poetica culinaria che privilegia la stagionalità e accetta di buon grado la fatica, in cambio dello stupore, di ricercare piccoli produttori della filiera corta per promuovere quell’agricoltura sostenibile e rispettosa dell’ambiente sulla quale non può che fondarsi il menu di un monumento alla tipicità e alla biodiversità. Dai paccheri Mancini alle pizze gourmet Le materie utilizzate sono nazionali e a km0, le paste fresche sono fatte in casa, l’offerta di pesce – con straordinaria attenzione dedicata alla fase di abbattimento - è ogni giorno più vasta. Dai passatelli con crema di Parmigiano Reggiano 30 mesi e tartufo nero, fino ai paccheri Mancini con sarde, uvetta, pinoli, zafferano, finocchietto e pan grattato, i primi piatti sono un invito a chiudere gli occhi e a viaggiare con la mente e il palato lungo lo Stivale, per ritrovarsi poi accerchiati da una scelta di secondi che comprende il petto di faraona con crema di patate al timo e asparagi croccanti, la catalana di crostacei o il lobster roll, panino con polpa di aragosta, maionese agli agrumi ed erbette aromatiche. Un capitolo a parte meritano poi le pizze gourmet: gli impasti utilizzano farine antiche macinate a pietra, mentre gli ingredienti per i condimenti sono scelti con estrema cura, dalle bufale campane al Sale Camillone di Cervia, fino alle eccellenze del territorio, come i salumi delle razze di maiale più pregiate. All’EXÉ è quindi possibile sedersi a tavola e mangiare con le mani, ovvero come si mangia una semplice pizza, veri e propri capolavori quali La Cantabrico – come dice il nome stesso, con acciughe del Mar Cantabrico Codesa Serie Oro e Polvere di Cappero di Pantelleria – una San Secondo – con Spalla Cotta dell’Antica Corte Pallavicina – o una semplice Margherita, che qui diventa però Gourmet, in virtù di elementi ricercatissimi nella loro semplicità, come la salsa di pomodoro biologico Petrilli, la mozzarella di bufala e il basilico fresco, il sale marino di Cervia riserva Camillone e l’olio EVO di Brisighella. Insomma, anche uno dei piatti più radicati nella tradizione italiana riacquista qui i contorni di rito e sorpresa, in un contesto dove niente è scontato. •
S.Pellegrino Sapori Ticino Quando si dice evento
di Alberto P. Schieppati
A colloquio con il creatore di una manifestazione internazionale che ha saputo coinvolgere ben 300 stelle Michelin
Un’altra edizione (la quattordicesima) che, nonostante la pandemia e la conseguente emergenza, ha visto l’adesione di grandi chef stellati, che hanno ulteriormente valorizzato l’evento con il loro impegno diretto. La “Svizzera a tavola” ha così dato un segnale forte a tutta la ristorazione (non solo a quella del Canton Ticino), promuovendone valori, visioni e singole professionalità. Ospiti d’onore della kermesse gourmet sono state alcune promesse della gastronomia elvetica, come Silvio Germann, Tobias Funke, Stefan Heilemann, Mitja Birlo, Sven Wassmer, Christian Kuchler, Sebastian Zier, capitanati dal grande Andrè Jaeger da altri grandi maestri. Da morabile ad opera di cuosegnalare la presenza del chi supertalentuosi come grande Paolo Rota, appar- Bernard Fournier, Francetenente alla famiglia Cerea sco Sangalli, Andrea Mug(da Vittorio, a Brusaporto, giano e Andrea Levratto. tre stelle Michelin), fra l’al- Le serate speciali, poi, tro insignito della seconda hanno evidenziato le castella Michelin al ristoran- pacità e il genio di Luca te da Vittorio presso l’Ho- Bellanca, mattatore alla tel Carlton di Sankt Mori- serata dedicata al pesce di tz. Per nove serate si so- lago. Insomma, un evenno susseguiti grandi chef, to internazionale che ci come Dario Renza, Cristian ha ridato il ritmo che solo Moreschi, Mattias Roock, le cose fatte seriamente e Frank Oerthle, Domeni- Dany Stauffacher, con protagonisti di tutto co Ruberto, Claudio Bolli- CEO & Founder Sapori Ticino rispetto sanno regalare. ni, Giuseppe Buono, Davide Asietti, Riccardo Scamarcio e Angelo Quest’anno S.Pellegrino Sapori Ticino Caironi. L’elenco è lungo, e ogni nome ha vissuto la sua quattordicesima edia sua volta nasconde altri chef, membri zione in piena emergenza pandemica. delle brigate di altrettanti ristoranti: im- Eppure, nonostante i timori e le paure possibile non citare poi gli chef ticinesi quotidianamente rimbalzate dai media che hanno dato vita alla gran finale del all’attenzione dell’opinione pubblica, ha 25 ottobre, culminata in una cena me- avuto un successo straordinario.
Qual è il vero motivo di questo consenso?
Caro Alberto per prima cosa ti ringrazio per le tue parole. L’organizzazione del Festival quest’anno è stata complicata a causa della situazione che tutti stiamo vivendo ma posso dirti che portarla a termine è stata una grande soddisfazione. Il nostro obiettivo era quello di mandare un messaggio forte a tutto il mondo della ristorazione e dare visibilità a coloro che in questi mesi hanno faticato e con grande spirito imprenditoriale si sono adattatati e hanno saputo reagire. Per quanto riguarda invece i motivi del successo penso che, complice la voglia di riscoprire le bontà di casa nostra e la voglia di vivere esperienze enogastronomiche, il senso di sicurezza dato ai nostri ospiti ha svolto
Gli Chef ticinesi in posa davanti al Grand Hotel du Lac di Vevey in occasione della trasferta oltre Gottardo negli Swiss Deluxe Hotels
un ruolo fondamentale: la manifestazione si è svolta nell’ottemperanza di tutte le normative vigenti e probabilmente questo ha giocato un ruolo essenziale.
È vero che i grandi chef richiamano da sempre l’attenzione dei gourmet e dei gourmand, ma credo che SPST sia un format ad ampio raggio, molto caratterizzato, che consente di testare le grandi cucine di chef internazionali e, soprattutto, di conoscere personalmente professionisti di altissimo valore. Come ti è venuta questa idea?
L’idea è nata qualche anno fa, come mi piace dire, da “quattro amici al bar”. La base, che ancora oggi è il credo della manifestazione, è promuovere il nostro Cantone attraverso l’enogastronomia grazie alla presenza di Chef di fama internazionale. Da piccolo evento, nel corso degli anni il festival si è evoluto fino a portare 300 stelle Michelin e oltre 3’000 punti GaultMillau, ospitando grandi nomi della cucina mondiale come ad esempio Massimo Bottura, Anand Gaggan e tanti altri, ma una cosa non è mai cambiata: la passione con cui ci poniamo ogni anno. S.Pellegrino Sapori Ticino si rinnova di edizione in edizione grazie a nuovi temi, riuscendo così a stare al passo con i tempi e a coinvolgere un numero sempre maggiore di persone che si vogliono avvicinare al mondo dell’enogastronomia.
Per il prossimo anno, Covid permettendo, come pensate di orientare la manifestazione? A cosa stai pensando, Dany? Come vi muoverete tu e l’ottimo Marco Gagliati, il collaboratore che segue nei dettagli l’organizzazione? Darete la consueta attenzione ai celebrity chef o, anche, darete una attenzione specifica (e conseguente visibilità) ai giovani, i cosiddetti emergenti?
Un occhio di riguardo va sempre dato ai giovani e da anni seguiamo questa linea, sia con eventi dedicati (basti pensare a S.Pellegrino Young Chef o alle serate lounge) che con varie collaborazioni con l’Università della Svizzera Italiana. Anche quest’anno ad esempio, abbiamo coinvolto nelle serate ufficiali le cosiddette “nuove leve” della gastronomia elvetica. I giovani sono il nostro futuro e le loro idee, le loro filosofie sono fonte d’ispirazione anche per chi, come me, ha qualche anno in più di loro.
Una domanda sul pubblico delle cene straordinarie che hai allestito con grande esperienza e sensibilità anche in questa edizione: c’è stata, negli anni, una fidelizzazione dei partecipanti? O ad ogni edizione c’è un “ricambio” di adesioni?
Le cene, al fine di offrire un’esperienza ottimale, hanno un numero limitato di posti che di volta in volta vengono discussi con lo Chef. Vogliamo tutelare al massimo il loro lavoro e quindi evitiamo di metterli in situazioni dove non possano esprimersi al 100% a causa di un numero troppo elevato di ospiti. Basti pensare che alcuni Chef nei loro ristoranti ospitano meno ospiti e venendo al nostro festival si mettono in gioco per un numero maggiore di coperti. Quello che ci rende fieri è che i nostri clienti, se dovessero tardare nelle prenotazioni, solitamente ritornano con tempistiche migliori l’anno successivo. Il ricambio di adesioni è continuo, ma allo stesso tempo possiamo contare su un buon numero di affezionati ed appassionati.
Quali sono stati, se ci sono, gli chef di SPST il cui livello è stato più apprezzato dal pubblico delle serate? O, se preferisci, quali sono le linee di cucina che hanno più colpito nel segno, in questo momento di grandi, cambiamenti e, diciamocelo, di semplificazioni dei menù in chiave di maggiore accessibilità?
Non mi sento di indicare un’edizione migliore di un’altra perché nello stile, nelle differenze e nei sapori assaggiati, ognuna è stata particolare. Quello che è chiaro è che da alcuni, complice lo sviluppo della gastronomia a livello televisivo e media in generale, tutto quello che prima era riservato alla categoria dei gourmet o gourmand, ora è più facilmente sulla bocca di tutti. Da un punto di vista commerciale è chiaro come questa tendenza abbia giovato in generale alla categoria della ristorazione ma allo stesso tempo ha anche innalzato il livello di conoscenza medio delle persone con il risultato di avere ospiti molti più esperti al tavolo. •
Paolo Trippini, rispetto per un territorio unico
Il giovane chef ha aderito agli Ambasciatori del gusto, per rilanciare l’immagine del Made in Italy nel mondo in questo momento difficile
Primo ed unico chef umbro, Trippini è entrato a far parte della prestigiosa associazione italiana che promuove, sostiene e valorizza nel mondo, il patrimonio agroalimentare ed enogastronomico di eccellenza made in italy. È lo chef umbro Paolo Trippini di Civitella del Lago (Tr), il nuovo Ambasciatore del Gusto Italiano, con il compito e l’onore di rappresentare nel Mondo l’importante panel di eccellenze enogastronomiche ed agroalimentari dell’Italia. E a farsi portavoce del concetto di gusto italiano nella sua pienezza, non poteva che essere lui, già ambasciatore e grande promotore di un territorio - quello umbro - e delle sue biodiversità, chef sensibile e consapevolmente rispettoso della cultura alimentare più tradizionale, ma sempre rivolto ad una visione più innovativa e sinergica del concetto di cibo, inteso come volano per fare rete e sviluppare altri settori come quello culturale, turistico ed economico. «La mia cucina parte dai colori, dai profumi e dai sapori della terra in cui vivo - afferma Paolo Trippini - l’Umbria è in tutti i miei piatti come espressione del mio legame con il territorio, con le sue tradizioni e con le materie prime che lo caratterizzano. Proporre un menù significa per me far percorrere un viaggio multisensoriale tra i paesaggi ed i sentori di questa regione. Lo stesso rispetto e amore per la mia regione, lo stesso viaggio tra le eccellenze ed i valori della cultura alimentare italiana, lo farò mio per dare voce e valorizzare nel Mondo l’Italia virtuosa dell’enogastronomia di qualità». L’Associazione Italiana Ambasciatori del Gusto, presieduta dalla chef Cristina Bowerman e al cui fianco siedono Carlo Petrini (Presidente Onorario) e Paolo Marchi (Vice Presidente), si pone come obbiettivo il rafforzamento dell’identità agroalimentare ed enogastronomica italiana, partendo dal principio fondamentale che attorno al concetto di cibo e di cucina, si intrecciano storia, cultura e tradizione di un Paese. T.S.
I Butticè del Moro reagiscono al lockdown
di Theo Smith
A Monza, una famiglia di grandi professionisti trasforma temporaneamente la propria offerta e si adegua a norme e divieti
La Lombardia è stata fra le prime regioni ad essere dichiarata zona rossa, bloccando di fatto tutte le misure già messe in atto dai ristoratori, come la chiusura entro le 18. Le nuove norme hanno azzerato questa opportunità, costringendo di fatto a una chiusura totale ogni attività di ristorazione. «Ma noi abbiamo trovato il modo di riaprire, nel pieno rispetto della legalità» racconta Vincenzo Butticè. «Avevamo appena inaugurato la nostra Atrattoria, che consideriamo il bistrot del ristorante gourmet Il Moro, attivo dal 1996. Si trova nel centro di Monza, a pochi metri dalla stazione, un’ottima posizione di passaggio. Avevamo ideato una classica trattoria per assaporare i piatti della Sicilia, in un modo più easy e conviviale di quello de Il Moro» incalza Vincenzo. Una nuova attività chiusa dopo così poco tempo è un vero problema imprenditoriale. «Dura è dura, ma non possiamo morire. Ecco che abbiamo subito cambiato destinazione, diventando gastronomia di quartiere in via Vittorio Emanuele, nel centro di Monza. Ci siamo trasformati in un negozio di vicinato con tanti prodotti a km zero e vogliamo diventare un punto di riferimento per i residenti, per fare la spesa ma anche per sentirsi meno soli e alla ricerca prodotti di qualità tutti made in Lombardia. Nella nuova bottega si possono acquistare direttamente piatti pronti, come fossimo una gastronomia, oltre che prenotarli tramite delivery oppure scegliere il pesce fresco, i latte del lodigiano, uova di Parisi, di alta qualità, formaggi locali, tutti prodotti rigorosamente Made in Italy o principalmente Made in Lombardia» racconta Vincenzo Butticè, che comunque spiega che il delivery non può che essere un piccolo introito in un sistema senz’altro più complesso, come quello della gestione di un ristorante, non è certo la soluzione alla chiusura delle attività. «Questa nuova ondata di lockdown ci ha insegnato a essere flessibili, reinterpretando la nostra trattoria siciliana come negozio di quartiere, dove oltre a fermarsi per apprezzare la più autentica ospitalità siciliana, si possono ordinare anche piatti d’asporto e le preparazioni base per riprodurre la Sicilia a casa, questa volta
non ci hanno trovato impreparati. Abbiamo continuato anche con il servizio di delivery e take away dei piatti già disposti nella logica fine dining de Il Moro, già attiva durante il primo lockdown. Oltre a creare una vetrina stabile per tutti i produttori siciliani e lombardi che rispettano la filosofia dell’artigianalità e della filiera corta che contraddistingue il ristorante, a un passo dal ristorante, nella vetrina contigua». Un vero delivery di lusso, con i guanti bianchi: la consegna viene fatta direttamente dalla famiglia del Moro in modo da eliminare qualsiasi problema di contaminazione e con un servizio elegante per tutta la città di Monza, camerieri in giacca e cravatta o ragazzi con la divisa da chef a secondo del ruolo che possano spiegare al momento come rigenerare i piatti e la selezione delle materie prime. Se è direttamente il cliente che effettua il ritiro ha uno sconto del 25% percento sulla totalità dei piatti che sono in carta, riprodu-
cibili per il delivery anche nel ristorante. Sono in vendita in bottega anche le oltre 350 etichette della cantina de Il Moro, per non tenere immobile la cantina e stimolare anche gli ordini alle aziende vitivinicole. «Più lavoriamo e più possiamo far lavorare anche i nostri fornitori, non avete idea di quante realtà ruotano attorno a un ristorante, che è solo l’ultimo gradino di una piramide di produzione davvero a lunga scala. E per avvicinarci ai nostri clienti abbiamo ideato anche una semplice App per gli ordini in delivery e d’asporto disponibile per IOS e Android, ma si può anche chiamare direttamente al 039.32.78.99 , inviare una mail a info@ilmororistorante.it o su WhatsApp al 366.20.75.952, siamo disponibili in ogni modo» conclude Vincenzo Butticè. •
CATEGORIA RISTORANTE – IL CORTEGIANOVia F. Puccinotti 13, Urbino
L’anima del panino: “Come una volta” con animella di vitello affumicata alla brace, cipolla caramellata, pecorino di fossa DOP e olio extra vergine al finocchietto selvatico.
CATEGORIA HOTEL -HOTEL MICHELANGELOPiazza Adua 5, Biella
Panino parmigiana di melanzane in crosta di mandorle: “Come una volta” leggermente svuotato, farcito con parmigiana di melanzane e impanato in una crosta croccante di grissini e mandorle, poi fritto.
Concorso “Come una volta” Panitaly
Abbiamo fatto assaggiare il nostro pane dal sapore della tradizione ai locali di tutta Italia, chiedendo loro di realizzare la miglior ricetta per le categorie carne, pesce, salumi, formaggi o vegan rispettando un food cost massimo di 4,50€.
Tra oltre 600 partecipanti - I vincitori decretati dallo Chef Eugenio Boer
CATEGORIA BAR - PUNTO BARVia W. Tabacchi 19, Modena
Km 0: “Come una volta” con maionese all’aceto balsamico di Modena IGP, prosciutto crudo di
Modena IGP stagionato 24mesi. Cicoria selvatica di campo (Pota), patate di Montese lessate e gratinate al forno. Scaglie di Parmigiano Reggiano 36 mesi e glassa di aceto balsamico.
Paolo Rota, Martin Dalsass Vertici in Engadina
di Arianna Augustoni Il fine dining regna sovrano nei Grigioni. Gli esempi illustri del Carlton e di Talvo
L’Engadina è il luogo più frizzante e glamour della Svizzera, è l’itinerario per una vacanza magica ed emozionante, da vivere in un contesto internazionale. In estate o in inverno le Alpi che circondano questa magnifica valle sono la ragione per vivere un’esperienza all’aria aperta, anche se è molto di più perché, per Hermann Hesse era un “paradiso che si vive solo nei sogni”, mentre Nietzsche, parlando di questo territorio, disse: “Mi sembra di aver trovato la terra promessa”. Il viaggio tra le montagne svizzere inizia a Champfèr al ristorante che porta il mare nelle Alpi: il Talvo di Martin Dalsass. Sulla terrazza il palato si nutre con gli occhi in attesa del menù che è un rincorrersi di sapori. Per l’autunno la cucina propone una selezione di selvaggina, oltre a piatti di pesce di lago e di mare, con abbinamenti stravaganti e accompagnati con verdure di stagione. “Proponiamo una cucina leggera – spiega Martin Dalsass – fatta di prodotti giusti che sanno combinarsi e lasciare inalterato il sapore. In ogni piatto, per ogni ricetta, devono esserci al massimo tre sapori, quello principale e i due secondari. Tutto il resto deve essere percepito dal palato”. Dalsass è un artista, un architetto del gusto e ogni sua idea è piacevolmente avvolgente, rispettosa dei profumi e dei sapori, senza eccessi. Ogni sua scelta pone è un corretto bilanciamento dei sapori, sempre netti, ma leggeri. Ogni piatto ha una propria identità e, ogni ricetta, nella sua semplicità, è un susseguirsi di emozioni e di sensazioni. Da lì a Saint Moritz sono pochi chilometri, ma tutto cambia, tutto diventa un lusso come il ristorante del Carlton Hotel: Da Vittorio St. Moritz. “Attenzione nella ricerca della migliore materia prima stagionale, estro e originalità nella creazione dei piatti, grande rigore e talento nell’esecuzione. Sono questi gli “ingredienti” che decretano la forza della nostra proposta. - spiegano i fratelli Enrico e Bobo Cerea – La filosofia che da sempre ci caratterizza è quella di dare vita a un modello di ristorazione “da esportazione”, capace di modularsi a seconda della location, delle esigenze e del gusto della clientela”. A guidare lo staff di St.Moritz è Paolo Rota, il motore creativo che studia ed elabora le nuove ricette che verranno inserite in carta. Ma l’Engadina è molto di più perché è la meta per una vacanza in montagna, per una sessione di trekking o di sci, ma anche culturale e libera da ogni condizionamento. Tra le attrazioni il Trenino Rosso che da Tirano porta a St. Moritz con tappa a Pontresina, delizioso e raffinato villaggio lontano dalla più glamour St. Moritz. Da qui il viaggio in carrozza verso il ghiacciaio della Val Roseg da cui ammirare i caprioli che si arrampicano sulle rocce. Merita una sosta, per chi decide di fermarsi qui, l’Hotel Kronenhof, una delle location più eleganti con le camere che si affacciano sulla vallata. Nella spa trattamenti personalizzati per riacquistare energia. A completare l’offerta di altissimo livello la cucina servita sia nelle eleganti sale dell’hotel, che nella più caratteristica stube. E, se si hanno a disposizione ancora una manciata di ore, il viaggio in Engadina può terminare con una passeggiata nel paese di Sils Maria, dove ammirare la casa dove abitò Friedrich Nietzsche e una sgambettata verso la Val Fex, dove ammirare un panorama unico che si trasforma in ogni stagione. L’Engadina è davvero un paradiso di una bellezza disarmante che ispira e fa sognare e, magari, anche innamorare. •
Così ti allevo lo storione sostenibile
di Flora Marchetti
Le sorelle Giaveri, a due passi di Treviso, continuano la tradizione di famiglia producendo una vera chicca per gourmet
Caviar Giaveri è uno dei più importanti produttori di caviale italiano sostenibile, azienda top nel mondo. L’impianto di allevamento degli storioni è nei possedimenti ittici della Caviar Giaveri, nel comune di San Bartolomeo di Breda in provincia di Treviso. Le moderne tecnologie di acquacoltura permettono la sostenibilità degli impianti e la salvaguardia di quell’animale meraviglioso che è lo storione. Oggi l’azienda è condotta da Jenny, Giada e Joys Giaveri, 3 giovani imprenditrici che, con grande passione, continuano la tradizione di famiglia a fianco del padre. Infatti, negli anni 80 Rodolfo Giaveri, già con una grande esperienza nell’acquacultura e nell’allevamento di storioni, iniziò la produzione di caviale. Caviar Giaveri alleva dieci diverse specie, il che permette di scegliere tra una ricca varietà di tipi di caviale eco–sostenibile ed è attualmente il parco storioni più vario del mondo, dove gli esemplari vivono in modo molto simile a quello selvatico. Ogni esemplare è accudito e seguito in ogni fase della sua crescita: ogni aspetto è curato minuziosamente per ricreare il miglior habitat garantendo il massimo rispetto per l’equilibrio dell’ecosistema. Gli elevati standard raggiunti, le innovative tecnologie applicate e il vigile controllo di personale esperto, permettono di avere la tracciabilità totale del caviale prodotto e garantire il completo controllo dell’intera filiera. È indispensabile avere amore, passione e pazienza quotidiana, perché servono molti anni per la maturazione dello storione, che comporta un ciclo produttivo estremamente lungo, dai 7 ai 15 anni e oltre per ottenere il caviale, a seconda della specie allevata. L’obiettivo è quello di ottenere un prodotto di elevata qualità ed è questo che ha determinato la scelta di lavorare artigianalmente e di confezionare manualmente il caviale seguendo fedelmente la tradizione. La salatura segue il metodo russo Malossol (poco sale), la selezione delle uova avviene a mano con assoluto rigore e precisione, come il confezionamento. Il tutto in ambiente controllato e certificato. Un processo meticoloso, un rituale che si perpetua per mantenere elevati standard di eccellenza, nel tempo. Nell’ottica del continuo miglioramento, Caviar Giaveri si è infatti certificata in conformità ai più alti standard internazionali, come “IFS FOOD”. Alcuni dei fattori distintivi del caviale Giaveri sono la purezza delle acque, l’approccio naturale, il totale controllo della filiera produttiva, la manifattura italiana, la freschezza in tutte le fasi, il traspor-
to sicuro che avviene attraverso corriere refrigerato oppure corriere espresso selezionato con imballo apposito e glacette in modo da garantire la catena del freddo, entro 24-48 ore il caviale viene recapitato a destinazione. L’azienda distribuisce il proprio caviale grazie alla sua rete selezionata: presso le migliori enoteche, le più raffinate gastronomie, i grandi ristoranti, i negozi da gourmet in Italia e nel mondo. Inoltre, si possono trovare tutte le selezioni di caviale nei formati preferiti nella boutique aziendale e via e-commerce con consegna in 24-48 ore sul sito www. caviargiaveri.com) Caviar Giaveri ha selezionato per gli Chef un caviale di grande impatto visivo e percettivo per le loro creazioni, la linea Haute Cuisine Sélection Chef Deluxe: grossi grani amabili al palato. La sua degustazione permette di iniziare l’esperienza con gli occhi, per poi seguire con un gusto raffinato che persiste in bocca e, allo stesso tempo si rivela un prezioso versatile e semplice ingrediente. Questo caviale di storione bianco risalterà anche nelle preparazioni più facili e veloci. Ha un ciclo di maturazione delle uova di 7 anni. Un’altra importante selezione, è quella del Siberian Classic un MUST di Caviar Giaveri RICONOSCIUTA A LIVELLO INTERNAZIONALE. Sicuramente uno sfizio anche per il palato più esigente, ideale per veri appassionati è apprezzato dai migliori conoscitori perché paragonabile al celebre Osietra. Il caviale Siberian si contraddistingue per la sua amabile consistenza, la sua freschezza e quell’aroma delicato e leggermente iodato. Mentre l’ Osietra Classic , il tradizionale metodo russo “Malossol” che Caviar Giaveri adotta per le sue lavorazioni, non può che esaltare questo caviale, già propriamente prelibato e da sempre apprezzato dagli intenditori più esigenti. Selezionato accuratamente a mano come tutti i prodotti Caviar Giaveri, l’Osietra sopraffino coinvolge tutti i sensi con perfetti grani identici, croccanti, un intenso colore dal bruno dorato e il duraturo gusto di raffinata delizia. Per finire il Beluga Siberian, Il meglio dell’eccellenza italiana. L’esperienza di gustare il sapore unico del caviale Be-
luga, esaltando la vista con le inconfondibili uova di grandi dimensioni, è tra le raffinatezze gastronomiche più esclusive e prelibate. La salatura minima della tradizione russa accompagna il tipico gusto del caviale Beluga. •
Agnello Gallese, qualità fa rima con sostenibilità
Provenienza garantita, allevamenti tradizionali, ambienti naturali e incontaminati. Il Welsh Lamb è la scelta ideale
Nella ultracompetitiva industria delle carni, la filosofia dell’Agnello Gallese si basa su una semplice convinzione: mantenere ciò che promette. Questo principio ha permesso alla carne ovina gallese di essere apprezzata per le sue indiscusse qualità organolettiche e per la sua provenienza garantita (IGP), diventando oggi un marchio riconosciuto a livello mondiale, sinonimo di un comparto dinamico e all’avanguardia. La reputazione e le qualità indiscusse di cui gode oggi l’Agnello Gallese sono il risultato di 2.000 anni di metodi di allevamento tradizionali, di generazioni di esperti del settore e della ricchezza dei pascoli naturali. Grazie alle sue condizioni ideali, il Galles conta circa 11milioni di ovini: non stupisce quindi che questa terra sia conosciuta in tutto il mondo per la sua carne di agnello. Qui si alleva il più alto numero di ovini rispetto a qualsiasi altra regione d’Europa e in nessun altro
Jeff Martin
paese la carne ovina riveste un ruolo così determinante nella cucina, nella cultura e nella società, impiegando migliaia di persone in tutto il Galles. Agnello Gallese IGP: la risposta giusta per la ristorazione. Gli allevatori gallesi non hanno solo beneficiato dell’ambiente naturale del Galles, ma hanno anche saputo migliorare la loro capacità di allevamento e la gestione dei pascoli. Oggi i produttori di Welsh Lamb utilizzano le tecniche di macellazione più innovative e perfezionano regolarmente i tagli di carne fresca per rispondere in modo tempestivo alle più moderne esigenze della ristorazione, sia in termini di assortimento che di confezionamento. Ecco perché l’Agnello Gallese sta diventando sempre più popolare tra gli chef che cercano una carne premium da inserire nei loro menù. Chef e ristoratori apprezzano molto il gusto delicato, la tenerezza, la qualità costante e la versatilità di questo prodotto. Il logo IGP, inoltre, certifica l’origine garantita. “Nonostante la situazione drammatica e imprevedibile legata alla pandemia di Covid-19, il mercato negli scorsi mesi a risposto bene: la GDO ‘tiene’ e si conferma il nostro principale canale di vendita in Italia, le macellerie hanno registrato un +30%, mentre l’horeca è quasi sparito, una situazione che ci aspettavamo visto che il canale ristorazione è stato fra i più colpiti dal lockdown”, afferma Jeff Martin responsabile per il mercato italiano di HCC, l’Ente che promuove le carni rosse gallesi. “Per i prossimi mesi ci aspettiamo di confermare o rafforzare questi numeri poiché la stagione dell’Agnello Gallese è
Sella d’agnello al rosmarino con bottaggio di cavolo verde
proprio l’autunno: è in questi mesi che la carne ovina igp made in Galles esprime il meglio in termini di gusto, tenerezza e sapore. L’Agnello Gallese IGP continua a registrare buone performance in Italia perché i consumatori ne apprezzano le indiscusse qualità organolettiche – tenerezza e gusto delicato – e l’origine garantita (marchio IGP dal 2004)”. L’Italia da anni rappresenta un mercato solido per il commercio di carne ovina gallese. L’atteggiamento dei consumatori è quello di prediligere carne di qualità e dalla tracciabilità garantita e in questo senso quelle gallesi rappresentano una risposta certa. L’Ente di promozione HCC sta inoltre puntando ad offrire un servizio sempre più efficiente ai suoi clienti, a cominciare da una shelf life ancora più lunga dei suoi prodotti. Alcuni tagli dell’Agnello Gallese IGP garantiscono 33 giorni di conservazione, un aspetto determinante per potenziare la competitività del prodotto nel settore e per facilitare la sua gestione da parte degli operatori della ristorazione. Se poi vogliamo parlare di sostenibilità, l’Agnello Gallese è così speciale perché in Galles vengono assecondati i ritmi delle stagioni. Gli ovini crescono in armonia con l’ambiente circostante e si riproducono nei tempi previsti dalla natura: nascono in primavera, quando trovano molta acqua fresca e abbondanti prati rigogliosi che li nutrono in abbondanza. E vivono alimentandosi con il cibo che la natura ha da sempre previsto per loro: erba e acqua. Il lavoro degli allevatori gallesi è indispensabile per la protezione e il mantenimento del paesaggio circostante, come nel caso delle siepi campestri, habitat di molte specie animali: sono proprio i Welsh farmers a prendersene cura e a sostenere il loro ruolo all’interno dell’ecosistema. Per secoli, infatti, gli allevatori gallesi hanno avuto un ruolo centrale nel creare e mantenere il paesaggio rurale esattamente così come oggi lo conosciamo e apprezziamo. “L’impatto che le attività agricole e l’allevamento portano sui cambiamenti climatici è un tema di grande attualità” afferma Jeff Martin, responsabile del mercato italiano per HCC, l’ente di promozione delle carni rosse gallese. “Per questo, oggi più che mai, è importante far sapere ai consumatori che al mondo ci sono diversi sistemi di allevamento che impattano in maniera altrettanto diversa sull’ambiente. In questo senso, il Galles è un luogo vocato per l’allevamento”. •
I DIECI PUNTI CHE FANNO LA DIFFERENZA
1. L’80% dei terreni in Galles non è adatto alle colture, pertanto allevare ovini e bovini è l’unico sistema per convertire terre ‘marginali’ in cibo di qualità.
2. A differenza di altre parti del mondo, in Galles gli allevamenti sono tutti estensivi; qui ovini e bovini sono allevati su pascoli verdi e rigogliosi grazie alle piogge abbondanti.
3. I terreni catturano il carbonio dall’atmosfera. Pertanto, grazie al lavoro di gestione e di mantenimento dei pascoli, gli allevatori contribuiscono in modo positivo a mitigare i cambiamenti climatici.
4. L’impatto ambientale dell’allevamento ovino e bovino in Galles è lontano dai numeri che vengono solitamente riportati sui media e minore rispetto ad altri settori, quali i trasporti, l’industria, l’energia.
5. L’agricoltura in Gran Bretagna è responsabile solo del 10% delle emissioni totali, con gli allevamenti che raggiungono poco meno della metà (dati DEFRA).
6. Dal 1990, in Gran Bretagna le emissioni legate all’agricoltura sono scese del 16%, mentre la produzione è salita (dati DEFRA).
7. Il 60% dei terreni in Gran Bretagna sono terreni erbosi, non adatti per alcun utilizzo se non per l’allevamento (questo numero in Galles arriva all’80%).
8. Queste terre catturano e trattengono il carbonio dall’atmosfera, garantendo un habitat per la fauna e aiutando la biodiversità.
9. Più del 90% del cibo di cui si nutrono ovini e bovini in Galles è naturale. Per il resto si tratta di sottoprodotti vegetali e grano prodotti dai contadini locali.
10. L’agricoltura gallese utilizza solo l’1,5% delle risorse idriche di altri sistemi in tutto il mondo. I dati globali indicano fino a 15.000 litri di acqua per produrre 1 kg di carne di manzo: in Galles se ne usano solo 220 perché circa l’80% dell’acqua è piovana.
Michelin, Oldani fa il bis ma tanti chiudono i battenti
Dopo tanti mesi plumbei in questo anno stregato arrivano le stelle a rischiarare un po’ il cielo della ristorazione italiana. L’edizione 2021 della Guida Michelin distribuisce 26 nuovi macaron lungo lo Stivale. In sintesi: raddoppiano tre chef, Oldani, Metullio e de Santis, ma non ci sono nuovi tristellati. La stella verde del nuovo premio sostenibilità va a 13 cuochi, compresi Bottura e Susigan. La crisi ha fatto tante, troppe vittime: sono 19 i locali che hanno chiuso nel 2020, tra loro il Combal.Zero di Davide Scabin. Fa rumore, infine, l’assenza delle donne tra i 29 nuovi riconoscimenti. In tutto sono 371 i ristoranti stellati dell’edizione 2021 (3 in meno del 2020): 11 tristellati, 37 bistellati e 323 con una stella. Nel 2020 erano 328 i locali con un macaron, 35 con 2 e 11 con 3. Presentata da Milano in streaming alla presenza – da remoto – del direttore internazionale delle Guide, Gwendall Poullenec, l’edizione numero 66 della Rossa quest’anno toglie 1 stella a 11 cuochi, tra i quali c’è Marc Lanteri per il Castello di Grinzane (TO), mentre sono 26 quelli che se la aggiudicano, di cui 6 nella regione
Un’immagine della presentazione della guida 2020, lo scorso novembre 2019 più in ascesa, la Toscana. Nessuna novità tra i triblasonati: i “magnifici 11” del 2020 conservano il proprio bottino (in termini di soddisfazione professionale certo, e di lustro e notorietà supplementare, bien sure) e non vedono approdare nessun altro collega nell’Olimpo. Guadagnano la seconda stella invece Oldani con il suo D’O a San Pietro all’Olmo, frazione di Cornaredo (MI), che si merita anche il riconoscimento per la sostenibilità; Rocco de Santis del ristorante Santa Elisabetta di Firenze e Matteo Metullio dell’Harry’s Piccolo di Trieste. Accanto ai 3 nuovi bistelleti, 26 cuochi si vedono assegnare la prima stella: nessuno di essi è donna. E l’altra metà del cielo (Mao dixit) non fa neanche capolino tra i premi speciali, destinati a giovani e sommelier. Per trovare le uniche due rappresentanti del gentil sesso occorre andare all’elenco dei 13 chef che per la prima volta ricevono una stella sì, ma verde. “Amarum in fundo”, va registrato l’exploit di una categoria che mai, sull’onda della crescita senza sosta della ristorazione a tutti i livelli negli ultimi anni, prima dello tsunami mondiale provocato dal Coronavirus si poteva sospettare avrebbe raggiungere numeri da – triste – primato: sono stati 19 i ristoranti che, causa principale gli effetti della pandemia, hanno abbassato la saracinesca. Erano stati 9 nell’edizione 2020 della Guida, 6 nel 2019 e 4 nel 2018. Tra i riconoscimenti speciali, quello per il sommelier è andato a Matteo Circella del ristorante La Brinca (GE); per il servizio di sala a Christian Rainer del Peter Brunel ad Arco (TN); per il giovane chef a Antonio Ziantoni del ristorante Zia di Roma. Il premio per lo chef mentore va a Niko Romito del Reale a Castel di Sangro (AQ). •
Pandoro artigianale, interpreti di valore
di Camilla Rocca
Un giro che parte dal Veneto, ma questo pane d’oro è fatto in tutta Italia
I migliori pandori dell’anno, una selezione che ha previsto un lungo periodo di assaggi, negli anni. Una sfida impari quella tra il Golia panettone e il piccolo Davide pandoro, dato che il fratello maggiore meneghino è sempre stato più conosciuto del dolce veronese, anche all’estero. Eppure il pandoro lo mangiavano già nell’antica Roma: Plinio il Vecchio lo cita nel I secolo d.C. Mentre il panettone artigianale normalmente ha dei tempi dilatati di lievitazione, anche 2-3 giorni, il pandoro richiede massimo 36 ore di lievitazione; i sapori del primo sono perlopiù fruttati, del secondo vanigliati. Di solito il pandoro è ama-
Igino Massari to da chi non ama i canditi. Ma la ricetta del pandoro sembra cadere nell’oblio fino ai primi del Novecento quando Domenico Melegatti deposita all’ufficio brevetti un dolce morbido a forma di stella a otto punte realizzato dal pittore veronese Angelo Dall’Oca Bianca: era il 1894. Secondo altri invece il pandoro non sarebbe altro che l’evoluzione del tradizionale nadalin che fu inventato nel 1200 per festeggiare il primo Natale in cui i signori Della Scala presero il potere della città. Partiamo con la tradizione, ovvero con i migliori pandori di Verona prima, del Veneto poi, da dove è originario il pandoro.
I migliori pandori del Veneto
A i Dolci della Regina, pasticceria all’interno dello storico hotel Regina Adelaide di Garda (Vr), racconta del “Pandoro della Regina” ha diverse fase di lievitazioni, l’ultima di una durata di 14 ore ed è realizzato con burro di centrifuga e uova fresche e la ricetta è quella della padrona di casa, con una smisurata passione per i dolci, Annalisa Tedeschi. Alla pasticceria Lorenzetti di San Giovanni Lupatoto (Vr), il pandoro viene prodotto, insieme alla sua variante del nadalin, dal 1970. Il pasticcere Daniele Lorenzetti oltre alla versione classica il consiglio è di provare la veneziana al Recioto, una variante tra pandoro e panettone tipicamente veneta. Anche gli chef veronesi si stanno cimentando del pandoro: è il caso del due stelle Michelin Giancarlo Perbellini, che nasce proprio nella storica pasticceria Perbellini a Isola Rizza e lo chef Michele Iaconeta, del ristorante Casa degli Spiriti, che si affaccia sul lago di Garda. Una piccola produzione limitata per gli amanti del pandoro. Uno tra i migliori pandori nella terra della Serenissima è quello di Loison dal 1938: a Costabissara Dario Loison ha realizzato nella sua pasticceria anche un museo dedicato ai lievitati. Oltre al classico ha puntato su golose rivisitazioni come il pandoro al cioccolato, al caramello salato e allo zabaione, tra l’altro in splendide confezioni disegnate con gusto dalla moglie Sonia.
I migliori pandori del resto d’Italia
Era il 1968 quando Lino Follador si trasferì con la moglie Angela a Prata di Por-
denone dove aprì un piccolo forno. Una produzione limitata con materie prime selezionate provenienti da fornitori di fiducia, un rapporto stretto con i clienti, e poi le consegne a domicilio insieme al piccolo Antonio che, sin da bambino, respirava il profumo di lievito e farina, restando affascinato dalla magica trasformazione degli ingredienti in prodotti fragranti e genuini. Il pandoro è realizzato con farina riposata 60 giorni, burro di latteria, vaniglia Bourbon e uova fresche, sprigiona un irresistibile aroma di burro e vaniglia. Come non citare il pandoro di Pasticceria Veneto di Iginio Massari classico e con una bella rivisitazione: il pandoro- sfoglia, ancora più soffice e leggero. Arriva per tutti gli amanti del pandoro ma che stanno a Milano, dei rinnegati insomma, secondo la tradizione, il Pandoro del Giargiana ovvero creato dal Milanese Imbruttito in collaborazione con lo storico Vergani, in versione small da 100gr o normale da 750gr (si sa i milanesi a volte prediligono le mini porzioni). Arriva per tutti gli amanti del pandoro ma che stanno a Milano, dei rinnegati insomma, secondo la tradizione, il Pandoro del Giargiana ovvero creato dal Milanese Imbruttito in collaborazione con lo storico Vergani, in versione small da 100gr o normale da 750gr (si sa i milanesi a volte prediligono le mini porzioni). A Milano anche lo chef Claudio Sadler propone il suo pandoro, semplicemente classico, come vuole essere la sua cucina, contemporea e classica: “Non credo che la situazione ci permetterà di riaprire a Natale e quindi ho voluto lanciarmi in questo nuovo progetto: se siamo tutti chiusi a casa vorrei mandare in tutta Italia il mio pandoro” racconta. Una coppia che rende felici i propri clienti: sono Marta Boccanera e Felice Venanzi della pasticceria Gruè di Roma che hanno portato il pandoro nella capitale dopo essere stati alla corte di Iginio Massari. “Un dolce – ci racconta Felice – è qualcosa che deve emozionare prima alla vista, conquistare il palato al primo morso e, una volta assaporato, arrivare al cuore. La tecnica serve a questo: a rendere semplice e immediato al gusto ciò che è frutto di ore e ore di lavoro e preparazioni. La pasticceria è vera arte: per avere l’attenzione del pubblico, richiede tutta la tua attenzione e le tue energie”. E anche l’Antico Forno Roscioli quest’anno farà il suo pandoro, come perderselo nella gastronomia più famosa di Roma? Il forno in via dei Chiavari è sicuramente il modo per vedere la magica produzione, ma possono essere anche ordinati e ricevuti direttamente a casa. All’interno troviamo
Pierluigi Roscioli miele all’arancia Thun (che dà un grande profumo al prodotto finale), la vaniglia di Thaiti e il burro francese.
I migliori pandori del sud Italia
Alfonso Pepe, mastro pasticcere salernitano di Minori, in costiera amalfitana, ci ha lasciato da poco ma regala ancora il suo sapere a tutta Italia. Il suo pandoro, lievitato per 36 ore, è morbido e delicato, dal profumo di burro di cacao, dando un tocco agrumato al classico. Dall’antica pasticceria De Vivo di Pompei si può acquistare anche il classico pandoro, 36 ore di lievitazione per gustare un dolce della tradizione tra gli scavi romani e il santuario di Pompei. Anche in Sicilia il pandoro ha fatto breccia nel cuore di un pasticcere: è Di Stefano di Raffadali, che però lo ha reinterpretato in chiave tutta siciliana, arricchito con il cioccolato siciliano in polvere, oltre a quella tradizionale. •
A Montepulciano, un esempio di stile
Una coppia di professionisti, nonostante la pandemia, resiste e rinnova la propria offerta di cucina
Montepulciano è un’antichissima e fiorente cittadina in terra di Siena, dove all’interno delle sue antiche mura sopravvivono, non solo lo spirito eroico e battagliero dei grandi guerrieri del passato, ma anche la cortesia cavalleresca dei gentiluomini toscani, nobili sia per antica progenie che per le buone azioni compiute in difesa del prossimo. Cortesia che si riscontra anche oggi nell’ospitalità turistica grazie a due giovani coniugi, Mattia Putzulu e sua moglie Monica Ceregatti, titolari del ristorante L’Altro Cantuccio, nuovi e validi ‘messaggeri’ dell’offerta culinaria del terzo millennio in una location ricca di storia. Ospitato nella parte più bassa di Montepulciano, nei locali che furono granaio e cantine del quattrocentesco Palazzo Bucelli, nobile residenza di Pietro Bucelli, antiquario poliziano vissuto tra il XVII e il XVIII secolo, il ristorante è frutto di un accurato restauro con elementi che sanno di Toscana autentica intercalati da arredi e decori delicati e moderni. All’ingresso del ristorante il bancone del bar ricorda le tipiche osterie toscane con una boiserie che mette in bella mostra diverse etichette del Vino Nobile di Montepulciano, mentre nella sala principale un antico caminetto fa da contrappunto a tavoli realizzati in pietra lavica e sedie Kartell. A completare lo spazio de L’Altro Cantuccio la taverna, un ambiente più intimo con soffitto a botte e pochi coperti.
Monica e Mattia
In questa accogliente location Mattia e Monica hanno dato vita, poco più di un lustro fa, ad un locale apertamente moderno, con necessari richiami alla cucina tradizionale ed extra moenia, dividendosi i compiti nella gestione del ristorante, lui in cucina e lei in sala ad accogliere i clienti ed informarli sulle etichette presenti nella loro curata carta dei vini. «Sono sempre stato appassionato di cucina, ma ho dovuto studiare molto – esordisce lo chef patron Mattia - ho frequentato un’importante accademia a Roma, che mi ha dato solide basi, poi sono tornato a Montepulciano per aprire assieme a mia moglie la nostra attività». Non a caso nella proposta culinaria vi sono due menu degustazione: ‘Tradizionalità moderna’ e ‘Toscana in viaggio’, uniti ad una variegata ed interessante ‘à la carte’, con i suoi immancabili ‘Ravioli di piccione, petto scottato, riduzione di sangiovese, polvere di burro e salvia’. «Adoro il piccione e qui lo presento lavorato in due cotture e consistenze – prosegue Mattia - l’interno è stufato, mentre il petto è cotto al sangue e poi glassato. E’ il piatto che va per la maggiore da parte dei nostri clienti e per questo motivo sempre presente nella nostra carta fin dall’apertura del locale». Tra le interessanti proposte del menu autunnale, servite in sala da Andrea e Silvia, due giovani e professionali camerieri, la Battuta di Chianina, tuorlo fritto, giardiniera e crescioni, l’Anatra mele, miso, miele e semi, l’Agnello in giro per il
Ravioli di piccione,petto scottato riduzione di sangiovese e polvere di burro e salvia
mondo e il goloso Sottobosco, un dessert a base di cioccolato Valrhona, non solo bello da ‘vedere’, ma indimenticabile. «La carta dei vini è volutamente d’impronta toscana, con in primo piano il Vino Nobile di Montepulciano – ricorda Monica – una carta che stiamo ampliando passo dopo passo con altre regioni italiane e fuori dai nostri confini, con interessanti aziende.». «Cerchiamo di portare avanti a Montepulciano una proposta culinaria mix di tradizione ed innovazione – conclude Mattia – una scelta precisa voluta dal sottoscritto e mia moglie Monica, che ad oggi, nonostante il Covid 19, ci sta dando soddisfazione, sia con i turisti che con la clientela locale». Senza cullarsi dei piacevoli consensi ricevuti, Mattia e Monica volgono sempre il loro sguardo verso le nuove frontiere dell’ospitalità, considerata l’elemento trainante per la ripresa economica della nostra splendida Italia, soprattutto in questo particolare momento. C.Z.
Il Bauer Palazzo cambia proprietà
Torna in mani austriache dopo oltre un secolo l’iconico hotel 5 stelle lusso della Laguna
Da quasi 150 anni, l’Hotel Bauer Palazzo è sinonimo di autentica ospitalità ed eleganza veneziana. L’atmosfera senza tempo e la posizione privilegiata direttamente sul Canal Grande, a pochi minuti a piedi da Piazza San Marco e dal Teatro la Fenice, hanno conquistato i viaggiatori di tutto il mondo fin dall’apertura nel 1880. I padroni di casa a quel tempo erano Julius Grünwald, imprenditore austriaco, e la moglie (figlia del signor Bauer), poi nel 1930 l’hotel fu venduto ad Arnaldo Bennati, affermato costruttore navale ligure, che ne curò un importante restauro. Dopo altri passaggi di proprietà, il destino ha voluto che dalla scorsa primavera il ‘Bauer’ tornasse in mani austriache con l’acquisizione da parte di SIGNA Holding, la più grande società immobiliare privata austriaca che detiene e gestisce, in cooperazione con altre imprese, prestigiose strutture alberghiere nei luoghi più belli dell’Europa centrale. Prende così il via un nuovo capitolo della storia dell’iconico hotel veneziano che vede in ‘Bauer Palazzo’ la nuova declinazione in omaggio alle sue due anime: quella urbana e contemporanea, racchiusa nell’ala dell’albergo che guarda la chiesa di San Moisè, e l’altra neogotica veneziana dalla sbalorditiva vista sul Canal Grande. Gli ambienti interni sono un esempio di stile art-dèco ben conservato nel tempo, con arredi d’epoca, pregiati tessuti, scintillanti lampadari in vetro di Murano, immacolati pavimenti in marmo e tipici soffitti in stucco intagliato. Espressione di un lusso tipicamente veneziano sono anche le 137 le camere e le 54 le suite, tutte arredate con mobili antichi e curate nei minimi dettagli per garantire il massimo comfort, e ben quaranta stanze sono dotate di balcone o terrazza da dove poter ammirare la Serenissima in completa privacy. Ventata di novità invece nella proposta gastronomica dell’Hotel Bauer Palazzo. Per offrire agli ospiti e alla clientela esterna un servizio di ristorazione sempre più d’eccellenza e al passo con i tempi è stato chiamato alla guida della cucina lo chef stellato Cristiano Tomei. Con l’entusiasmo e l’estro creativo che lo contraddistinguono, Tomei ha ridisegnato il format culinario del cinque stelle veneziano secondo un approccio d’avanguardia che mira a sorprendere i palati… anche quelli più esigenti. Oggi, il gusto più esclusivo trova quindi espressione al settimo piano del Bauer Palazzo con l’apertura del Settimo Cielo Rooftop Restaurant e la proclamazione del regno creativo ‘lagunare’ di Cristiano Tomei. È qui infatti che lo chef toscano realizza la sua idea di cucina, concreta e di condivisione di sapori e gusti, in cui l’ospite viene accompagnato in un percorso dove ogni piatto è una sorpresa. Nessun menu, ma solo la scelta delle portate, 7 o 9, create su misura per l’ospite. Un’emozione ‘tailor made’ da vivere nell’eleganza della nuova sala ristorante dal design raffinato con avvolgenti sedute in velluto color rosa-cipria, arredi in ottone e maestosi lampadari di vetro di Murano. Il tocco di Tomei è presente anche al ristorante De Pisis posizionato al piano terra e dallo stile più classico, con tre luminose sale interne e un’ampia terraz-
za a livello dell’acqua. Grazie all’incontro con l’expertise del resident chef Dario Parascandolo, e per venire in contro alle esigenze di una clientela internazionale desiderosa di sperimentare la cucina italiana, è stata ideata una proposta di piatti che celebra la tradizione veneziana e mediterranea. Un menu con una gustosa selezione di piatti che cambiano in base alla stagione e alla reperibilità degli ingredienti, ideali sia per un pranzo informale, sia per una cena raffinata. C.Z.
Il Parker’s di Napoli compie 150 anni
di Gualtiero Spotti Una storia lunga, culminata con recenti lavori di restauro e l’affermazione della cucina di Domenico Candela al ristorante George
L’anno in corso non è certo quello durante il quale si potuto dare ampio spazio a celebrazioni e anniversari, ma oggi che siamo verso la fine del 2020 è giusto ricordare una ricorrenza decisamente importante come quella del Grand Hotel Parker’s di Napoli, icona partenopea di stile ed eleganza sin dal lontano 1870. La sua lunga storia inizia verso la fine dell‘800, quando George Parker Bidder III, studioso inglese di biologia marina impegnato alla Stazione Biologica della Real Villa, oggi Villa Comunale, rileva la proprietà dell’ Hotel Tramontano Beau Rivage di cui era ospite abituale. Gli anni della Seconda Guerra Mondiale però cambiano radicalmente le carte in tavola e l’edificio, uscito malconcio dal conflitto, viene acquistato dall’avvocato napoletano Francesco Paolo Avallone che lo riporta all’antico splendore. Anzi, complice il coinvolgimento dell’intera famiglia, nel corso dei decenni (oggi a occuparsene sono Salvatore Avallone con le sorelle Cesira, Bice e Maria Ida), il Grand Hotel Parker’s ha davvero scritto e segnato le pagine più gloriose dell’accoglienza alberghiera in città. I suoi 150 anni, portati benissimo, raccontano sempre di una clientela affezionata che pesca a piene mani anche tra vip e celebrità internazionali e ha sempre saputo appezzare il mondo ovattato e il gusto d’antan dell’albergo. Il luogo, geograficamente parlando, rimane sempre quello, lungo il panoramico Corso Vittorio Emanuele, con Napoli a portata di mano, ma anche un distacco opportuno che consente di vivere preziosi attimi di tranquillità e relax. Perfino quando il traffico cittadino si fa insistente nel corso di alcune ore della giornata. Poi, le ultime stagioni, hanno saputo sprintare con maggior vigore verso una clientela più moderna grazie al restyling che ha toccato molte parti dell’albergo, tra stanz e spazi comuni, ma soprattutto la cucina e la sala del George, il ristorante principale, rinnovata completamente con l’arrivo del cuoco Domenico Candela, sia nei contenuti che nell’arredamento. Un rinnovo cruciale che ha preso il via nel luglio del 2018 con l’inaugurazione del nuovo George in uno scenario fatto di velluti e marmo nero, forse un po’ carico nei toni, a dire il vero, ma sicuramente alleggerito dalla vista grandiosa che dalla terrazza si apre sul Vesuvio e su Capri, unita alla sapienza interpretativa del padrone di casa ai fornelli, che è protagonista nel rappresentare una cucina gustosa e lieve allo stesso tempo. Domenico Candela nel giro di un solo anno ha raccolto la prima
stella Michelin qui al sesto piano dell’hotel, e ha un passato, oltre che un presente, degni della massima attenzione. I suoi trentacinque anni, ancora da compiere, dicono dei trascorsi campani al Quisisana di Capri, del girovagare italico da Enrico Bartolini e Antonio Guida, tra gli altri, ma soprattutto della sosta parigina presso due nomi altisonanti come Le Taillevent, da Alain Solivérès, e al Pavilion Ledoyen con Yannick Alleno. Due passaggi che dicono molto ancora oggi, una volta seduti ai tavoli del George e di fronte al menù,, su come l’impronta francese riesca a marchiare a fuoco vivo chi si trova a spadellare a casa dei mostri sacri della Ville Lumiere. Rimane poi imprescindibile, un volta rientrati nel cuore del golfo di Napoli, la ricerca di un equilibrio che metta d’accordo il mediterraneo con il foie gras e l’alta cucina con il piacere di raccontare le materie prime locali. Magari giocando, strada facendo, con qualche dettaglio di cucina asiatica, o con sapori e spezie che guardano ben più lontano. E’ uno stile quindi ambizioso quello di Candela, che omaggia la città di Napoli nel Raviolo bicolore ripieno di genovese di coniglio ischitano con crema di cipolla bruciata, kefir di bufala e gel di menta, ma si diverte a rappresentare la Francia con l’Astice bretone in due servizi o nella Tarte Tatin di Granny Smith, vaniglia e Calvados che chiude in gloria una cena dai molti risvolti positivi. Non ultimo il piacere di poter osservare in presa diretta ciò che accade nella cucina, che ora domina, a vista, l’intera sala che può accogliere quaranta coperti. Nel frattempo, l’altro indirizzo gastronomico dell’hotel, il Le Muse, ha potenziato il servizio delivery e il cuoco Vincenzo Fioravante propone un menù napoletano basato sulle ricette di Matilde Avallone, madre dei proprietari dell’albergo. Si va dalla Parmigiana di melenzane ai Rigatoni trafilati al bronzo con ragù napoletano, fino al classico Babà al
rum. Con, in più un tocco di genialità tipicamente partenopea. Seguendo la tradizione radicata del caffè, il Grand Hotel Parker’s ha deciso di istituire il “take away sospeso”. Chiunque passi a ritirare un pranzo potrà così lasciarne uno pagato dell’importo che preferisce, oppure pagarne uno o più anche senza passare, ma mandando i soldi con uno qualsiasi dei moderni strumenti di pagamento. Un’offerta che la dice lunga su come il Parker’s sappia stare al passo con i tempi e rimanere una certezza cui affidarsi quando si arriva a Napoli. •
Seiser Alm, l’esempio del Lamm
di Gualtiero Spotti
Foto di Benedetta Bassanelli Completamente ristrutturato, l’hotel di Castelrotto si riposiziona, all’insegna della grande cucina di Marc Oberhofer
L’alpe di Siusi, in Alto Adige, è l’altipiano più grande in Europa e occupa un’area che, a pochi chilometri da Bolzano, offre scorci e paesaggi ineguagliabili senza doversi addentrare a tutti i costi nel cuore delle Dolomiti. Un sogno a portata di mano, insomma, sia nella stagione estiva, che permette di sfruttare appieno il territorio con lunghe passeggiate nella natura o più impegnative escursioni, così come per una serie di eventi culturali e gastronomici, sia nella stagione invernale con la magia delle piste innevate e il fascino delle tradizioni montane. Il luogo che, più di altri, ha fatto parlare di se nell’ultimo anno, e proprio nel cuore dell’alpe, a Castelrotto, è il nuovo Hotel Lamm, che dopo aver vissuto un lungo restyling durato più di un anno e mezzo, ha riaperto i battenti rilanciando l’offerta di accoglienza verso l’alto. Il Lamm nuova versione ha saputo ridisegnare il concetto di lifestyle alpino con un look centrato su un design moderno e pulito ma allo stesso tempo capace di integrarsi perfettamente nel panorama urbano del paese e, più in generale, della valle. Definito casual luxury sin dalla riapertura, lo stile prende in prestito materiali come vetro, legno e pietra, utilizzati per rimodellare gli spazi comuni ma anche molti dei servizi, eccellenti che caratterizzano la struttura. Come nel caso della magnifica spa ospitata all’ultimo piano
dell’edificio, dominata dalla piscina a cielo aperto (e riscaldata a 30 gradi) capace di richiamare alla mente le costruzioni che, in alta montagna, ospitano i fienili, oppure gli spazi dell’area relax, con piacevoli saune e tisane da sorseggiare. Tra le molte novità dell’albergo, non si può perdere, ad esempio, una sosta al bistrò che si affaccia sulla piazza principale di Castelrotto, ma il luogo più esclusivo rimane il ristorante Lampl Stube, inaugurato da un anno ed estensione gastronomica della sala principale chiamata Zum Lampl. In entrambi i casi il padrone di casa è Marc Oberhofer, introverso e deciso cuoco originario della valle (la famiglia possiede l’hotel Ritterhof nella vicina Siusi, dove il cuoco ha mosso i suoi primi passi ai fornelli) che ha creato, complice la dinamica direttrice del Lamm, Verena Gabrielli, uno spazio gourmet più vicino alla sua idea di cucina d’autore. L’ambizione, neanche troppo nascosta, è quella di ricevere soddisfazione dalla guida Michelin e bisogna dire che le qualità qui certo non mancano. Innanzitutto nella piacevole intimità ed esclusività del luogo. La Lampl Stube è, infatti una sala a se stante, composta da soli tre tavoli per un totale di ospiti che non supera mai le dieci unità. Un vero e proprio scrigno di sorprese, ma in chiave moderna visto che il contesto non è quello della classica Stube alpina. Le dimensioni ridotte del luogo, come poi il gusto per un’accoglienza su misura per i pochi ammessi ogni sera al ristorante, creano già in partenza i presupposti giusti per una esperienza da ricordare a lungo. A mettere tutti a proprio agio ci pensa subito l’ottimo maitre e sommelier Robert Beuger che sa muovere la degustazione dei vini e degli abbinamenti con i piatti nella direzione giusta confrontandosi con l’ospite, ma è la cucina a sorprende ancor di più per la capacità di Marc Oberhofer nel saper dosare con grande equilibrio sensazioni locali e intuizioni globali. Come, d’altronde, ricorda il menù una volta aperto e davanti agli occhi. Stay Local or Go Global è la scritta che indirizza le scelte dell’ospite nel percorso degustazione oppure in una sequenza agile di nove portate alla carta. Sostenuto nel dietro le quinte dal sous chef Luigi Iadicicco, Oberhofer dimostra, pur non avendo lasciato troppo spesso la sua area d’origine nel corso della carriera, di avere dalla sua il palato giusto e le idee perfette per offrire sempre buon sensazioni senza mai strafare. Lo dice molto bene la soavità del Rombo selvatico con dashi tirolese, castagna di terra e radice maca (e c’è anche lo sfizio della cresta del gallo), il divertente 3 zuppe in una volta, dove si passa dalla crema di fiori di montagna al consommè con gnocco di midollo e al canederlo di fegato, o del più solido e inevitabile, visto il territorio, Capriolo con cassis e sedano. C’è qua e la tr le pieghe del menù nell’aria qualche francesismo che non stona, ma diverte assai e di più la libertà espressiva che invece porta a reinterpretare lo scampo con avocado, kaluga e ostrica Gillardeau, o lo sfizio quasi esotico del filetto di wagyu, anche se, come ormai in giro per tutto il continente europeo, gli allevamenti della celebre carne di origine giapponese non si contano più e li si incontra praticamente ovunque e sotto casa. Anche la pasticceria e i petit fours di fine pasto dicono in maniera chiara e netta che al Lamm le cose non avvengono per caso. Anche, se vogliamo nei dettagli che portano a rifornirsi puntualmente da produttori locali, nascosti negli angoli più impervi dell’al-
pe di Siusi. Come accade per gli ottimi succhi di frutta di Daniel Fill. Coltivatore di mele al maso Simmele Műller, Daniel e la sua famiglia (il padre è stato uno dei pionieri della coltivazione di mele nella regione), con il machio Delicio negli ultimi anni hanno ricevuto numerosi premi non solo per i succhi delle varietà di mele come le Golden Delicious o le Gala, ma anche per quelli di lamponi, ribes, sambuco e albicocche, tra gli altri, senza dimenticare l’ottimo aceto di mele. Trattamenti naturali e rispetto della materia fanno sempre la differenza. •
Nel cuore dell’Algarve la doppia anima di Domingues
di Gualtiero Spotti La cucina del Grand House di Villa Real stupisce per la versatilità delle proposte: dai poke fino a grandi piatti gourmet
Siamo nell’estrema punta sud-orientale del Portogallo, nella regione dell’Algarve, e nel paese di Vila Real de Santo Antonio, placidamente appoggiato sulle rive del fiume Guadiana che separa il territorio lusitano da quello spagnolo. Vila Real è oggi una località perfettamente integrata nel panorama delle mete turistiche estive fronte Oceano Atlantico, ma tornando indietro nei decenni, e addirittura fino al diciottesimo secolo, era diventata famosa perché proprio qui la famiglia Ramirez aveva inaugurato la prima fabbrica per la produzione di pesce in scatola e, nello specifico, di tonno. Tutti in Portogallo conoscono, ancora oggi, il brand Ramirez, ma pochi forse sanno che nel 1926 la famiglia aveva costruito quello che ai tempi veniva definito come l’unico vero Grand Hotel a sud del fiume Tago (quindi Lisbona compresa), e chiamato senza troppa fantasia Guadiana, proprio come il fiume. Un vero e proprio gioiello in stile Art Nouveau, degno rappresentante di quella “golden era” che ha lasciato segni indelebili in molti alberghi ancora oggi sulla breccia, ma che nel caso specifico del Guadiana ha vissuto di alti e bassi, in alcuni casi legati proprio all’andamento del mercato del pesce in scatola. Oggi, con un’altra tipologia di clientela a fre-
quentare Vila Real e dopo un lungo restyling, l’albergo è rinato in una nuova veste e con un nuovo nome, quello del Grand House, subito balzato agli onori della cronaca portoghese per aver ricevuto la visita del Presidente della Repubblica, ma anche per essere stata l’ultima struttura alberghiera in odine di tempo ad essere entrata a far parte, da quest’anno, della prestigiosa catena Relais&Chateaux in Portogallo. L’Hotel mantiene intatto il fascino di un’epoca antica, anche dopo la ristrutturazione, grazie a interventi mirati e volti a creare un’atmosfera degna di un Ernest Hemingway che potremmo aspettarci di incontrare al banco del bar per un aperitivo glamour o di una Greta Garbo seduta su uno dei comodi divani mentre contempla da lontano le barche che si muovono lungo il fiume. Ma non c’è d indossare a tutti i costi un panama per “scendere” al Grand House. A render più moderna e in linea con le esigenze del viaggiatore contemporaneo la sosta, ci pensano, tra le altre cose, la trasferta al vicino Grand Beach Club o l’offerta gastronomica dell’albergo. Andiamo per ordine. Il Beach Club dista un paio di chilometri dal centro del paese, che si possono coprire a piedi, in bici o con un comodo transfer organizzato dall’hotel. La passeggiata conduce l’ospite quasi alla foce del fiume in un piccola spiaggia con piscina infinity, e dove rilassarsi e approfittare del comfort food proposto nel simpatico ristorante dal look e colori tipicamente marinari. Dunque si approfitta di bagni di sole, bagni in piscina, ma anche di una interessante immersione nei sapori locali che partono proprio dal tonno, il protagonista storico di questo angolo di Algarve cui è dedicato un lungo menù, con un’attenzione particolare rivolta al Muxama accompagnato da coriandolo, olio di oliva, lime e mandorle. Poi, certo, per i meno avventurosi gastronomicamente parlando, vengono sfornate ottime pizze, ma ci sono anche burgers, poke bowl, polipo grigliato, steak, baccalà e tanti altri piatti per una cucina versatile e ammiccante senza voler essere troppo impegnativa. Il lato gourmet lo si incontra invece quando si rientra per l’ora di cena al Grand Salon, nel ristorante ospitato al primo piano dell’hotel. Qui ai fornelli si muove con una certa padronanza il giovane Fabio Silva Domingues , un cuoco che dalla sua ha una lunga esperienza in giro per l’Europa (Lasarte, Can Roca, Miramar e anche Piazza Duomo in Italia) ed è rientrato in Portogallo per raccogliere la sfida del Grand Salon mentre occupava la posizione di sous-chef allo
stellato Social Eating House di Londra. Le prime sensazioni, al netto di un anno complicato per creare una propria linea di cucina, tra chiusure, distanziamenti e vaie limitazioni, sono sicuramente positive. C’è l’idea di fondo di sposare con forza la materia prima locale d’eccellenza a partire dal sale (una risorsa del confinante paese di Castro Marim), passando per il pesce di maggior pregio (il già citato tonno, ma anche il mitico Carabineiro), e arrivando a piatti che rincorrono uno stile internazionale di buon senso e indubbia piacevolezza, tra una Capasanta con mousse di avocado e caviale al limone e una regolare tenderloin con verdure e aceto balsamico. Il resto qui lo fanno l’accoglienza premurosa del giovane staff dell’albergo, la simpatia del cane Grand diventato la mascotte accarezzata coccolata puntualmente da tutti i clienti, ma anche la scoperta di una località piacevole e rilassante, da vivee anche fuori stagione. Ben sapendo che se c’è una regione in Europa che consente di trascorrere inverni piacevoli sotto il profilo climatico è proprio l’Algarve, come sanno bene i golfisti di professioni. •