Artemedica n.30

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POSTE ITALIANE S.P.A. - SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE DL 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/2004N.46) ART.1, COMMA I, DCB MILANO

Estate 2013 - Numero 30 - Periodico Trimestrale

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E d i t r i ce N o val i s - w w w. l i b r e r i a n o v a l i s . i t

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NEWSLETTER ANTROPOSOFIA OGGI

La nuova medicina integrata La forza spirituale nell’Opera di Giuseppe Verdi Le malattie psichiatriche Il mondo incantato delle fiabe Architettura organica vivente

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LA NUOVA MEDICINA INTEGRATA UN’ALLEANZA TERAPEUTICA PER LA SALUTE DELL’UOMO A COLLOQUIO CON IL DOTTOR ENZO SORESI

Enzo Soresi

di Bruno Lanata

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ottor Soresi, nel suo libro Guarire con la nuova medicina integrata fa precisi riferimenti alla medicina antroposofica. In particolare, racconta dell’incontro con alcuni medici della scuola steineriana. Come questa conoscenza ha influito sulla sua attività professionale? Nel 1967 entrai al Niguarda come assistente in Anatomia Patologica. Tre anni dopo, avendo conseguito la specialità, mi trasferii al reparto di Pneumologia che, all’epoca, disponeva di un’ottantina di letti, di cui settanta occupati da pazienti affetti da tumore polmonare. Una sera, mentre ero di guardia presso il reparto, sentii bussare alla porta. Mi trovai di fronte un paziente che era stato dimesso alcuni mesi prima. Si trattava di un uomo sulla sessantina, magro, cui avevo diagnosticato un tumore polmonare, inoperabile, delle dimensioni – grosso modo – di un’arancia. Gli avevo proposto di sottoporsi a dei cicli di chemioterapia palliativa, ma lui aveva rifiutato. Ora, mi chiedeva se avevo tempo per confrontare la radiografia che aveva sottobraccio con quella che gli era stata fatta prima di essere dimesso. Affiancai le due lastre sul diafanoscopio: il tumore si era ridotto di oltre il cinquanta per cento. “Ha fatto la chemioterapia?”, chiesi. “No. Assolutamente, no”. E tirò fuori dalla tasca una scatoletta che conteneva fiale di Viscum Quercus cum Hg serie 1. A

fatica, data la sua reticenza, riuscii a farmi indicare il nome del medico che gliele aveva prescritte. Si trattava del professor Buongiorno; un collega che ebbi in seguito occasione di incontrare. All’epoca il professor Buongiorno era un signore âgé, di grande cultura ed esperienza medica, soprattutto in campo omeopatico e fitoterapico. Fissai un appuntamento nel suo studio e, nell’arco di un pomeriggio, il professore mi aprì le porte al mondo della medicina antroposofica. Dopo questo colloquio, presi in cura il paziente che, seguendo la sola terapia col vischio, visse per altri due anni in buone condizioni generali. Cosa per me del tutto insolita se consideriamo che i pazienti affetti da tumore polmonare inoperabile, all’epoca, difficilmente superavano l’anno di vita.


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Secondo lei i principi della medicina allopatica e di quella antroposofica possono convivere all’interno di una stessa terapia? L’esperienza di cui ho precedentemente parlato, mi portò a riflettere in merito a potenziali terapie da integrare al percorso chemioterapico. Spinto anche da motivazioni personali, ebbi modo di approfondire la conoscenza dell’impiego del vischio recandomi dalla professoressa Leroy che dirigeva una clinica steineriana a Basilea. Misi così a fuoco l’attività di questa pianta saprofita capace di sviluppare due azioni terapeutiche: una di carattere anti-proliferativo, che spiegava la riduzione di quel tumore, l’altra di stimolo dell’immunità naturale. D’altra parte, nel mio pluriennale percorso di terapie contro il tumore polmonare avevo avuto anche modo di verificare i vantaggi offerti dall’immuno-terapia con il vaccino antitubercolare. Un vaccino potentemente immunogeno sul quale ho condotto uno studio sotto l’egida dell’Università di Vienna. Si è trattato di uno studio molto complesso, durato un anno, in quanto il vaccino forniva risposte abbastanza aggressive. Al termine della fase sperimentale, avevo avuto modo di constatare come, nel mio gruppo di 128 pazienti, quelli vaccinati col BCG presentavano indubbi vantaggi. Intanto, gli studi di metanalisi, sviluppati negli anni ‘90, avevano evidenziato come la chemioterapia post-chirurgica riduceva addirittura del due per cento la sopravvivenza ai malati. A conferma che la tossicità non favoriva la risposta biologica. Mentre il vaccino BCG presentava un 9% di miglioramento della sopravvivenza.

Il potenziamento dell’immunità naturale rappresenta, quindi, l’unico baluardo in grado di controllare la crescita delle cellule tumorali residue. Per questo ai miei pazienti operati di cancro polmonare e con rischio di ricaduta metastatica propongo la terapia con Viscum Quercus cum Hg (serie zero o uno o due a seconda delle condizioni del paziente) sicuro di proteggerli potenziando l’immunità naturale. Anche se da molti anni prescrive il vischio “come terapia integrata nei pazienti affetti da tumore, operati o in trattamento chemioterapico”, nel suo libro confessa di essere costretto “a dire ai malati di non parlarne con l’oncologo ospedaliero che li ha in cura”. Quasi a sottolineare l’ostracismo della medicina ufficiale nei confronti di terapie considerate “stregonesche e assolutamente inutili se non dannose”. D’altra parte, però, si rammarica per la chiusura manifestata dai medici della scuola steineriana nei confronti dei farmaci convenzionali. Quali possono essere i termini di una possibile integrazione? Un’altra occasione di contatto con la medicina antroposofica fu l’incontro, avvenuto sempre negli anni ‘70, con un giovane medico: il dottor Sergio Maria Francardo, che mi chiese di frequentare il reparto di Pneumologia, preoccupandosi di avvertirmi di essere un “medico steineriano”. Ricordando la precedente esperienza fui prontamente disponibile ad una collaborazione. Tutte le mattine, Francardo mi accompagnava nel mio giro di visite ai malati e nella raccolta delle analisi. In genere, mi osser-


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Sergio Maria Francardo

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UN ASPETTO FONDAMENTALE DELLA MEDICINA ANTROPOSOFICA È L’APPROCCIO OLISTICO AL PAZIENTE vava in silenzio. Di tanto in tanto, però, mi forniva indicazioni sul suo punto di vista di medico steineriano. Poi, dopo circa tre mesi, mi disse: “Guarda, Soresi, me ne vado”. Si sentiva troppo distante dal percorso del medico allopatico. Da allora, siamo rimasti buoni amici e ci capita sovente di collaborare. A volte è lui che mi indirizza un paziente con problemi quali versamenti pleurici, altre volte sono io che lo contatto per integrare una terapia steineriana sui miei pazienti oncologici. Un aspetto fondamentale della medicina antroposofica è l’approccio olistico al paziente. Presso la clinica di Basilea i malati sono sollecitati a scrivere la propria biografia, a dipingere, ad ascoltare musica. Si cerca di cogliere l’uomo nella sua complessità. La chiusura nei confronti della medicina allopatica priva però il terapeuta steineriano delle risorse fornite dalla scienza. Certo, all’epoca in cui Steiner aveva sviluppato le proprie teorie la medicina scientifica presentava gravi limiti. Ma oggi è diverso. Se, ad esempio, i medici antroposofi integrassero la cultura dell’antibiotico, del cortisone con le loro conoscenze, ne guadagnerebbero davvero molto. D’altra parte constatiamo come il medico allopatico sia diventato eccessivamente pragmatico: sviluppa protocolli, si avvale di studi statistici. Ma ha perso il gusto della relazione con il paziente. È sempre più orientato verso un mondo di complessità che è ridicolo pensare di poter governare. Bisogna correlarsi, usare di tutto e cercare di fare una buona medicina che non può essere solo scientifica ma anche basata sulla osservazione dei singoli casi clinici. Ricordiamoci, come afferma Edoardo Boncinelli, che la medicina si deve considerare una scienza in progress. Come suggerisce nel suo libro, quindi, una possibilità di contatto risiederebbe nella medicina integrata; in una sorta di alleanza terapeutica?

Quello che occorre è una medicina basata su una grande esperienza clinica supportata da un’apertura mentale non legata a un paradigma. Pensi, ad esempio, al cambiamento che ho dovuto operare nel mio cervello. Io parto da una medicina fortemente scientifica. Quando, nel ’98, ho cessato la mia attività ospedaliera, avevo maturato un percorso esperienziale già molto ricco, con 150 articoli di oncologia polmonare. In questi lavori mi ero prevalentemente occupato di un tumore neuroendocrino, il microcitoma, da cui è nata la mia cultura in neurobiologia. La biologia mi ha aperto la mente a un nuovo approccio all’organismo. Un approccio che ha rimesso in gioco in maniera potente l’effetto placebo. Un meccanismo assolutamente fisiologico, anche se la medicina contemporanea mostra insofferenza nei suoi confronti, quasi si trattasse di una truffa. La risposta placebo è una risposta che tutti noi abbiamo: non è legata a un’isteria, è un momento biologico. Tanto più il medico è antropologo, tanto più è “sciamano”, tanto più è bravo nel gestire la comunicazione terapeutica, tanto più la risposta placebo è valida. Perché la bellezza della medicina risiede nella relazione. Nel farsi carico del malato, delle sue sofferenze, delle sue scelte. Nel mio libro Guarire con la medicina integrata, affronto questi nuovi concetti che in parte Steiner aveva anticipato con un’intuizione geniale. In fondo è molto divertente invecchiare come medico alla luce di un approccio veramente aperto, di un modo diverso di fare medicina. Perché la capacità del medico dovrebbe essere quella di saper sfruttare a 360 gradi tutte le conoscenze a sua disposizione.

PERCHÉ LA BELLEZZA DELLA MEDICINA RISIEDE NELLA RELAZIONE. NEL FARSI CARICO DEL MALATO, DELLE SUE SOFFERENZE, DELLE SUE SCELTE

Enzo Soresi, nato nel 1938, medico specialista in anatomia patologica, malattie dell’apparato respiratorio e oncologia clinica, ha sviluppato tutta la sua carriera presso l’Ospedale di Niguarda Ca’ Granda dove – dal 1990 al 1998 – ha diretto come primario la Divisione di pneumotisiologia. Studioso di oncologia polmonare ha pubblicato sull’argomento oltre 150 articoli comparsi su riviste scientifiche nazionali e internazionali. Attualmente è segretario di Octopus, associazione per le malattie fumocorrelate. Studioso di neurobiologia ha scritto un libro edito dalla UTET (2005) dal titolo “Il cervello anarchico” ed ha recentemente pubblicato insieme a Pierangelo Garzia ed Edoardo Rosati “Guarire con la nuova medicina integrata” per Sperling & Kupfer.


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Beppe Assenza: una vita per la pittura e l'antroposofia

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L’AZIONE TERAPEUTICA DEL PROCESSO CREATIVO

CURARSI CON L’ARTE di Bruno Lanata

Possono musica, pittura o scrittura favorire il processo di guarigione? Oppure, dobbiamo altrimenti ascrivere il lavoro creativo nell’ambito dei corretti stili di vita con finalità rivolte alla prevenzione e al benessere? L’arte e il suo rapporto con la malattia rappresentano un argomento affascinante e carico di risvolti spirituali, al quale Artemedica intende rivolgere un particolare interesse. In questo numero approfondiamo il tema con il dottor Enzo Soresi, medico specialista in anatomia patologica, malattie dell’apparato respiratorio e oncologia clinica, autore del libro Il cervello anarchico, in cui dedica un ampio capitolo ad Arte e creatività. Nel prossimo numero di Artemedica daremo quindi la parola a un medico antroposofo, il dottor Sergio Maria Francardo, per confrontare il suo punto di vista con quello del dottor Soresi.

Enzo Soresi, medico specialista in anatomia patologica, malattie dell’apparato respiratorio e oncologia clinica, ha sviluppato tutta la sua carriera presso l'Ospedale di Niguarda Ca’ Granda dove – dal 1990 al 1998 – ha diretto come primario la Divisione di pneumotisiologia. Studioso di oncologia polmonare ha pubblicato sull’argomento oltre 150 articoli comparsi su riviste scientifiche nazionali e internazionali. Attualmente è segretario di Octopus, associazione per le malattie fumocorrelate. Studioso di neurobiologia ha scritto un libro edito da UTET dal titolo “Il cervello anarchico” (2005) e ha recentemente pubblicato insieme a Pierangelo Garzia ed Edoardo Rosati “Guarire con la nuova medicina integrata” per Sperling & Kupfer. Enzo Soresi

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a sempre l’arte occupa un posto significativo quale medium in grado di sostenere l’uomo, consentendogli di ristabilire uno stato armonico spirituale e sollevandolo dal peso della materia e dai limiti della quotidianità. È stato forse partendo da questo presupposto che, un secolo fa, Rudolf Steiner aveva individuato come l’azione che le varie attività artistiche esercitano sulla sfera vitale e psichica dell’uomo potesse essere utilizzata a fini terapeutici. Aveva quindi evidenziato, da un punto di vista medico, le connessioni che si riscontrano tra il lavoro artistico e i processi fisiologici e patologici dell’uomo, inducendo a studiare e verificare le possibilità offerte dalla pittura, dalla scultura, dalla musica, dall’arte della parola e dalle attività artigianali. In tempi più recenti anche la medicina convenzionale ha mostrato una sempre maggiore propensione nel coinvolgere i malati in attività a carattere artisticocreativo, scelta di cui appaiono sempre più evidenti i benefici effetti.1 Ma quali sono i presupposti che caratterizzano la terapia artistica? Nel percorso di cura, l’attività artistica de-


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ve essere considerata come un mero supporto “occupazionale”, una forma di sostegno al paziente per aiutarlo ad affrontare e superare lo stress legato all'iter terapeutico, oppure costituisce una componente essenziale della terapia, è essa stessa terapia rivolta contro la causa del male o, comunque, capace di combattere i sintomi della malattia? Già da queste prime premesse appare quanto l’argomento si riveli carico di interessanti spunti di ricerca e dibattito. Dottor Soresi, vorrei iniziare questo nostro colloquio sulle terapie artistiche facendo riferimento alla frase di Antifonte – riportata con grande evidenza nel retro di copertina del suo libro Il cervello anarchico – in cui il filosofo greco del V secolo a.C. sostiene che “in tutti gli uomini è la mente che dirige il corpo verso la salute o verso la malattia, come verso tutto il resto". La mente può veramente farci ammalare ma anche condurci sulla strada della guarigione? Per capire meglio quanto asserito da Antifonte occorre fare riferimento al processo di costruzione biologica del cervello umano, di quest’organo così delicato e fondamentale nel nostro stare al mondo. Un processo che avviene nel tempo: dal terzo mese di gravidanza fino ai due anni e mezzo di vita il cervello è in fase accrescitiva. Mentre tutti gli organi sono già definiti alla nascita, il cervello continua il suo processo evolutivo anche durante i primi anni di vita. Quando nasciamo il cervello pesa circa 700 grammi e deve raggiungere all’incirca il peso di un chilo e quattrocento. Per arrivare a una completa definizione dell’organo, questa lunga fase di accrescimento prevede il suicidio neuronale: ossia il 50 per cento dei neuroni si devono suicidare con un meccanismo detto di apoptosi che, nel momento in cui nasciamo, è ancora in atto. Questo suicidio cellulare è strettamente correlato ai segnali interni ed esterni all’organismo. Nel contempo si svolge anche la migrazione delle cellule nervose residue, destinate a subire un posizionamento corretto e specializzato. Si pensi alla vista e, in generale, alla definizione neuronale specifica dei sensi. Il processo di costruzione culmina con la mielinizzazione delle sinapsi. Occorre poi tenere conto anche della sfera emotiva. Qui entriamo nell'ultimo atto. In sostanza, tutto questo complesso iter di sviluppo è strettamente correlato con l’ambiente in cui viene allevato il neonato. È in questa fase che noi costruiamo il nostro agire nel mondo. E se in questo mondo interattivo con l’ambiente si genera un disagio psichico, allora il processo creativo può essere interpretato come un atto compensatorio di quel disagio. Possiamo in questo individuare una prima chiave interpretativa che identifica la funzione terapeutica della creatività dell’artista? Come sostiene Mauro Mancia nel suo saggio Sentire le parole, nell’ambito di una memoria implicita “che si ri-

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ferisce alle prime esperienze infantili, per cui non è né cosciente, né verbalizzata, dunque preverbale e simbolica” sussiste la possibilità di un ricordo che è “in grado di agire anche a lunga distanza di tempo, diventando l’artefice di potenzialità espressive, creative ma anche psicogene, di difficile controllo”. Quindi, “la creatività umana appare come un ri-creare collegato alla memoria implicita (e quindi all'inconscio non rimosso) la quale non è passibile di ricordo, ma può essere rappresentata nell'attività creativa”. Nel tentativo dell’organismo di ristabilire l’equilibrio perduto, la cui mancanza è sinonimo di malattia, l’arte occupa un posto importante in quanto è uno dei mezzi per aiutare l’uomo a ristabilire l’armonia. In questo senso, dottor Soresi, quali ritiene siano le fondamentali differenze fra processo di produzione artistico-creativa vero e proprio e le attività inerenti la terapia artistica? Personalmente non ho un’esperienza diretta per quanto riguarda l’utilizzo delle terapie artistiche. Certo l'atto creativo come compensatorio di un disagio psichico che nasce da una pulsione della memoria implicita apre tutto un mondo di autoterapia dell'artista. Dicendo questo faccio riferimento all’esperienza personale vissuta al fianco di mia moglie. La sua sofferenza l’ha portata, piano piano, a sublimare in un racconto pittorico una situazione totalmente emozionale. Da sempre dipingeva, dipingere era la sua ragione di vita. Vivendo accanto a lei mi resi conto come, in quel caso, la creatività fosse compensatoria di un disagio psichico. Era rimasta, bambina, orfana di padre e, con la madre, il conflitto era costante per la sua ribellione alla vita borghese. In quegli anni disegni e quadri erano rigorosamente figurativi e fu con il progredire della malattia che la vidi giorno per giorno passare dall'arte figurativa all'arte informale. Le sue esperienze di malata venivano tradotte in rac-


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Ninetta Sombart, Geburt (Nascita)

conti fatti di composizioni ed emozioni non oggettivabili. Fu vivendo vicino a lei e al progredire della sua malattia che mi resi conto di come l'arte informale permetta all'artista di raccontare le proprie emozioni senza oggettivarle. Vivendo vicino a un’artista e avendone poi conosciuto a fondo molti altri, mi sono reso conto di come la creatività sia spesso per queste persone compensatoria di un loro disagio psichico o come ho detto di un danno biologico primario. Potremmo citare, ad esempio, le opere di alcuni artisti quali Franz Kline, Mark Rothko. Di fronte ai quadri di Francis Bacon, poi, mi sono sempre chiesto da quale magma di inconscio nascesse la sua creatività. Nel percorso di cura, l’attività artistica deve essere considerata come un mero supporto, una forma di sostegno al paziente per aiutarlo ad affrontare e superare lo stress legato all'iter terapeutico, oppure costituisce una componente essenziale della terapia, è essa stessa terapia? Quando pensiamo a un'azione terapeutica del processo creativo, questo può essere inteso come un atto compensatorio di un disagio interiore. Oppure, possiamo inquadrarlo in un contesto del racconto di sé che il malato usa per liberare le emozioni. Ritengo che l’idea di Steiner di impiegare le tecniche artistiche in senso terapeutico possa essere inquadrata in un contesto di carattere emozionale rivolto a ripristinare l’equilibrio dell'individuo. Ogni atto creativo, in senso esplorativo, produce infatti un benessere indotto.

“In sostanza si conferma l'ipotesi che più il nostro pensiero è libero da condizionamenti, meglio è dal punto di vista sia evolutivo sia del benessere individuale. Ad ogni attivazione di nuove mappe cerebrali, infatti, corrisponde la liberazione di neurotrasmettitori che si riversano sul sistema immunitario potenziandone le sue capacità”. Penso si possa, quindi, tranquillamente affermare che se una persona è curiosa, e si ritiene un po’ artista, non fa altro che divertirsi e continuare mantenere il proprio benessere. Una cosa che mi sento sempre di consigliare alle persone anziane.

La terapia artistica sembrerebbe rientrare in quelle azioni proprie ai corretti stili di vita che costituiscono le basi di una strategia di prevenzione, finalizzata al mantenimento di uno stato di salute ottimale. In questo senso, potremmo integrare il consiglio che il dottor Enzo Soresi dà ai lettori a conclusione del suo libro "camminare almeno un'ora al giorno, mangiare in abbondanza frutta e verdura e pesce crudo" con l’avvertenza di dedicare una parte del proprio tempo a una qualche attività artistica. Ponendosi questa come un esercizio attraverso il quale approfondire la conoscenza di se stessi, imparare a conoscere i propri limiti e i propri difetti, e predisporsi a un cambiamento che porta ad aprirsi in modo nuovo nei confronti di se stessi e verso gli altri.2

1 “L’idea dell’arte come terapia è relativamente recente. È tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento che l’arte fa ingresso negli istituti manicomiali, negli ospedali e in diversi centri terapeutici. Dapprima è intesa come pura espressione artistica o come terapia occupazionale; più tardi arriva a rappresentare un mezzo terapeutico vero e proprio. L’idea di introdurre l’arte in situazioni diverse dal suo ambito e orientarla verso la “cura” è ricollegabile alla crisi dell’arte della fine del XIX secolo.” Maria Grazia Giaume, Edup, 2009 2 Citazioni tratte da: Enzo Soresi, Il cervello anarchico , UTET, 2005


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