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DIETER SCHULZ
PERCORSI SPECIALI Quale importanza hanno i bambini diversamente abili per la biografia dei loro genitori?
PERCORSI SPECIALI
La disabilità di un bambino costituisce sempre un fatto determinante nella vita dei suoi genitori. In questo libro Dieter Schulz dà dei consigli su come si possa cercare una via per sé e per il proprio bambino, una vita insieme nella famiglia. Porre chiaramente delle domande serve a fare il primo passo dal semplice agire per necessità esteriori alla cosciente gestione personale della quotidianità, a trovare soluzioni per i problemi pratici, a conquistare la fiducia nel proprio sentire e nel giudizio su ciò che è la cosa giusta per il bambino e per se stessi. È un libro che, senza minimizzare le difficoltà da affrontare, può dare coraggio e forza per accettare e imparare a capire il proprio destino legato a quello particolare del proprio bambino.
DIETER SCHULZ
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DIETER SCHULZ
PERCORSI SPECIALI Quale importanza hanno i bambini diversamente abili per la biografia dei loro genitori?
2012 Editrice Novalis Milano
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In merito al libro: All’inizio le difficoltà e i nuovi impegni che incombono sui genitori, quando si evidenzia che il loro bambino è portatore di una disabilità, possono sembrare insuperabili. Come possiamo aiutare nostro figlio? Qual’è la terapia più corretta? Dove trovare la forza per sopportare tutto ciò? Come ottenere un aiuto esterno? Su queste e su molte altre domande Dieter Schulz, basandosi sulla sua esperienza nell’ambito della Pedagogia Curativa, dà consigli ai genitori. Tutti gli aspetti citati, che si riferiscono in primo luogo all’ambito puramente fisico, non sono pensabili senza una partecipazione della componente animico-spirituale. Qui risiede l’elemento portante. Ed è nell’ambito animico-spirituale che si trovano i problemi reali ma anche le concrete possibilità e richieste evolutive. Si tratta non solo di dominare e di ‘sopportare’ nella pratica ciò che è stato imposto dal destino, bensì di sperimentarlo come qualcosa di sensato nella propria biografia e in quella del bambino. Quali siano le vie che, passando per più di una crisi, possano con-
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durre ad accettare veramente a livello animico il bambino e a riconoscerne sempre maggiormente l’individualità, viene riferito qui anche direttamente da genitori in base alle loro esperienze. Un elemento importante è costituito dai momenti di riflessione che in questo libro vengono stimolati da citazioni, poesie e l’osservazione di un quadro.
In merito all’autore: Dieter Schulz, nato nel 1955, ha compiuto la sua formazione di pedagogo curativo presso il Seminario Camphill di Pedagogia Curativa a Überlingen sul Lago di Costanza. Ulteriore formazione in chirofonetica, in lavoro biografico e come supervisore. È stato attivo per anni nell’ambito di scuole, strutture di assistenza e in Istituti di Pedagogia Curativa. Dal 1985 segue pazienti privatamente nel proprio ambulatorio. Docente e consulente, tiene corsi e conferenze anche in Italia. Sposato con 4 figli adulti.
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I Il percorso dei genitori Istantanea Cambio di scena La Signora S. racconta: Michele Crisi e caos Per un momento di riflessione: “Chi nulla sa del fine...”, poesia di Christian Morgenstern Come andrà avanti? Agire Per un momento di riflessione “Gradini”, poesia di Hermann Hesse Cercare di comprendere la propria biografia L’inventario della propria vita L’aspetto pratico: pianificare l’uso del tempo I genitori di Marina raccontano: quando le esigenze lo richiedono, la forza aumenta. La questione della forza Per un momento di riflessione: l’osservazione di un quadro di Raffaello Dall’accettazione all’integrazione L’angelo Il bambino al centro La domanda sul senso La Signora W. Per un momento di riflessione: “Prima si poteva pensare: la sfortuna è una punizione...”, Emil Bock Rapportarsi con il complesso di colpa
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II Il percorso del bambino Immagine Individualità e corpo Il mondo prenatale Individualità e disabilità Arrivare eppure non esserci Thomas L’asinello, una fiaba dei fratelli Grimm Le fiabe come immagini di verità
III Il percorso comune La Signora M. racconta: Inga Incontri Genitori che aiutano genitori Affidamento a un centro di assistenza chance per un nuovo inizio Conclusione Note Indicazioni bibliografiche
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Introduzione L’idea di questo libro è nata lavorando con dei genitori, in particolare con delle mamme di bambini con disabilità, disturbi dello sviluppo o con un comportamento tale da spingere gli adulti ai limiti della sopportazione. Chi ha a che fare con i bambini viene inevitabilmente messo a confronto con i propri limiti animici e fisici. In questo libro si parla del riconoscimento e dell’accettazione di questi limiti e di come lavorare su di essi poiché ciò rappresenta un aspetto essenziale in relazione al significato che ha un bambino diversamente abile nella biografia dei suoi genitori. Confrontarsi con tale questione produce un duplice effetto positivo. Da un lato offre ai genitori la possibilità di trasformare il peso cronico delle aspettative normali, che provengono principalmente dall’ambiente circostante, in un sostegno attivo adatto al loro figlio e a loro stessi. L’eliminazione della pressione e del conflitto che deriva dal dover spingere il bambino il più possibile verso la cosiddetta normalità, determina un processo di distensione in tutta la famiglia e questo ci conduce al secondo aspetto della questione. Nella mia esperienza il bambino con disabilità può essere aiutato o si lascia aiutare solo quando la madre e il padre dispongono realmente della forza necessaria per questo compito. La forza è spesso un grosso problema per i genitori: da dove prenderla? Ho cercato di affrontare la questione della forza o forse, si potrebbe dire meglio, ho cercato di far luce sulle capacità insite in questa forza portante dal punto di vista fisico, animico e spirituale. Tre coppie di genitori raccontano le proprie esperienze con i figli e di ciò sono loro molto riconoscente. I contenuti di questo mio libro si basano sull’Antroposofia di Rudolf Steiner per come sono in grado di intenderla. Essa è anche alla base della mio lavoro nell’ambito della Pedagogia Curativa. L’Antroposofìa può aiutare a conseguire conoscenze sull’essenza spirituale dell’uomo e sulla sua relazione con il mondo che permettono di comprendere diversamente o in modo nuovo, in 6
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modo approfondito o ampliato, l’essenza della disabilità e dell’individuo che vive con questa disabilità. Lo stesso Rudolf Steiner ha ripetutamente esortato a non accogliere le sue asserzioni per imposizione autoritaria o semplicemente per fede bensì a verificarle con il pensiero. Nel libro “L’Iniziazione - Come si conseguono conoscenze dei mondi superiori?” 1 Rudolf Steiner, fra le altre cose, illustra in modo ampio e dettagliato come un individuo possa giungere a delle affermazioni concrete e differenziate sull’elemento spirituale. Ogni uomo, se lo vuole, è in grado di percorrere il cammino interiore che vi è descritto e giungerà alle stesse asserzioni. Ma anche coloro che non desiderano ancora arrivare a queste conoscenze, e ciò riguarda sicuramente la maggior parte degli individui, possono far entrare le affermazioni dell’Antroposofìa nella propria vita e lasciarle agire nella pratica così come avviene da decenni con successo nella medicina antroposofica, nella pedagogia Waldorf, nella pedagogia curativa, nell’agricoltura biodinamica e in altri ambiti della vita. Da questo punto di vista l’Antroposofia non è una filosofia fra tante ma la Scienza dello Spirito legata alla vita che è aperta a tutti gli uomini liberi indipendentemente a quale religione o concezione del mondo appartengano. In alcuni punti mi riferisco direttamente a Rudolf Steiner e riporto per esempio cosa ha detto in merito alla vita prenatale. Nell’ambito di questo libro non è però possibile analizzare in modo esaustivo queste affermazioni che si basano su conoscenze dello sviluppo dell’uomo e del mondo dal punto di vista della Scienza dello Spirito. Le indicazioni bibliografiche alla fine del libro danno la possibilità di approfondire quanto viene qui presentato.
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Rudolf Steiner, L’Iniziazione - Come si conseguono conoscenze dei mondi superiori? O.O. 10 Editrice Antroposofica -Milano, 1991 7
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I IL PERCORSO DEI GENITORI
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Istantanea Lucia urla. Ogni giorno. È così dalla sua nascita, sette anni fa. Gli esperti parlano di sintomatologia autistica. In questo momento grida perché è arrabbiata. Non sa parlare. Vuole più succo d’arancia. La madre glielo nega. Da tre anni Lucia beve solo succo d’arancia. Niente altro. Accetta che sia leggermente diluito con acqua ma si mette a gridare se l’acqua nel succo è troppa. I fratelli escono dalla stanza, rimane solo la madre. Alla fine le dà ancora un bicchiere di succo anche se sa che sarebbe meglio non farlo. E ritorna la quiete. Finalmente. Fino alla prossima crisi forse fra due minuti o, con un briciolo di fortuna, fra due ore. Dipende. Dipende molto dall’atmosfera che si respira in famiglia e soprattutto dallo stato d’animo della Signora M. Nei momenti di crisi, tanto più riesce a mantenersi calma, priva di emotività e vigile nei confronti di Lucia, tanto prima la figlia si lascia calmare. Se la collera prende il sopravvento Lucia strillerà ancora più forte. Se anche la Signora M. grida, regna il caos. Non serve a niente. La situazione può solo peggiorare. Ma dove prendere la forza per reagire nel modo giusto? E da dove prendere in generale la forza per continuare a sopportare questa vita?
Cambio di scena Ogni mercoledì la Signora M. accompagna Lucia alla terapia. Prima dell’inserimento nella scuola materna veniva una terapista a casa. Ora la Signora M. deve prendere la macchina, deve percorrere ventisette chilometri. In media ha tre appuntamenti a settimana tra la visita dal medico e la fisioterapia. Oggi sono venuti anche i due fratelli rispettivamente di cinque e tre anni. La signora 10
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M. non ha trovato nessuno che potesse occuparsi di loro due in sua assenza. L’ora inizia con la domanda: “Come va?” La Signora M. conosce la domanda e ogni volta ha difficoltà a rispondere. In realtà avrebbe bisogno di due o tre ore da sola senza i bambini per poter rispondere come va. Il tempo non c’è. Sa che fra 45 minuti tocca al prossimo paziente. Quindi contrae lievemente le spalle e dice; “Oh, grazie, va bene”. E intanto ammonisce con lo sguardo i fratelli di Lucia che nell’ambulatorio si fiondano sullo scaffale dei giocattoli. Non può intervenire attivamente perché deve sempre tenere Lucia per mano. Se non lo facesse anche Lucia si fionderebbe sullo scaffale. In un secondo nella stanza regnerebbe il caos e questo lei non lo vuole. Il terapista la prega di accomodarsi nella sala d’attesa insieme ai due fratellini in modo da poter lavorare con Lucia. Alla fine dell’ora le dà consigli su ciò che si potrebbe o meglio si dovrebbe fare a casa con Lucia. La Signora M. sa che dovrebbe fare molto con Lucia oltre che per gli altri figli, per i lavori di casa e le varie scadenze. Soffre di sensi di colpa perché crede di fare troppo poco. Sulla via del ritorno uno dei fratellini si sente male, deve vomitare. La Signora M. si accosta con la macchina, cerca di calmarlo e intanto ripulisce come può con un paio di fazzoletti di carta. Lucia non capisce perché la mamma si sia fermata nella piazzola di sosta dell’autostrada. I camion fanno tanto rumore. Lucia urla. Quando la Signora M. rientra a casa con i bambini trova un messaggio del marito sulla segreteria telefonica: dice che oggi farà tardi. La somma delle impressioni delle ore appena trascorse le ripropone per un momento, come succede spesso, la domanda: Perché? Perché proprio io? A che scopo?
La signora S. racconta: Michele II primo figlio fu una vera gioia e non creò grossi problemi a noi genitori. Lo stesso avvenne con la figlia adottiva, una nipotina. 11
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Con Michele invece nessun sorriso era scontato. Nei primi tre anni ha richiesto una presenza di circa venti ore al giorno. Non si svegliava mai senza piangere e spesso il pianto durava sette ore ininterrottamente. Era una vera sofferenza non essere in grado di aiutarlo realmente. I medici non avevano il coraggio di accettare la loro impotenza e spesso prescrivevano a Michele degli antibiotici e a me dei calmanti. Spesso Michele aveva la febbre a 40° C e richiedeva una totale attenzione anche di notte. Durante il primo ricovero, dopo dieci giorni di febbre oltre i 40° C, un giovane medico si decise finalmente ad affrontare il tema del peso della disabilità chiedendo di quanto aiuto disponessi in casa per la cura e l’assistenza perché in ospedale le tre infermiere che si occupavano di lui erano esauste. Nonostante la difficoltà a ricevere una risposta alle molte domande così spesso formulate, anche solo poterne parlare costituiva di per sé un enorme sollievo. Potevo iniziare con la coscienza meno sporca a guardarmi intorno per cercare aiuto per il nostro bambino e non disperavo più della mia incapacità. A tre anni e mezzo portammo Michele per due mesi in un istituto di riabilitazione pediatrica per una precoce stimolazione infantile. Alla prima nostra visita, dopo tre settimane, come era previsto dai protocolli dell’istituto, Michele non mi riconosceva più. Scoprii di colpo che Michele aveva bisogno di un’assistenza attenta, vigile e amorevole ma che non doveva essere a tutti i costi effettuata solo da me. Dopo circa un’ora cominciò a passare con regolarità dalle ginocchia dell’assistente alle mie. Il fatto che un altro essere umano avesse trovato il modo di accedere a Michele mi liberò da un grande peso. L’accesso al padre non era invece ancora possibile. Qui Michele imparò a dormire tutta la notte e, per la prima volta, a prendere qualcosa in bocca da solo. Trovarlo in soggiorno con una scatola aperta di biscotti al cioccolato, lui e il tappeto completamente impiastricciati, fu una vera gioia. Significava non dover essere più costretti a nutrire Michele con la forza. Mangiare rimase comunque un compito molto faticoso ancora per lungo tempo. Il mio intento era di trasmettere a Michele che mangiare è un qualcosa di piacevole. A questo scopo dovetti but12
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tare a mare tutte le regole di come si sta a tavola. E ciò richiese molta tolleranza e comprensione da parte del fratello maggiore in quanto questo nuovo modo di mangiare non valeva anche per lui. Non appena ebbi la forza di rivolgere più attenzione al mio primogenito lui stesso mi diede molte indicazioni su come lo avrei potuto aiutare nel difficile compito di essere il fratello di Michele. Spesso durante i pasti o durante i momenti di gioco sedevo con un figlio su un ginocchio e uno sull’altro. E allora spiegavo che per questo avevo due ginocchia. In questa fase Michele mangiava un boccone alla volta prendendolo di passaggio mentre girava per tutta casa ma con interesse e gioia nella scelta delle pietanze. Nella seconda fase iniziò a mangiare a tavola insieme a noi e faceva i suoi giri dopo una parte del pasto. Mentre mangiavamo non potevamo ancora raccogliere il cibo che gli era finito sulla sedia o sui pantaloni altrimenti nel giro di pochi secondi con un movimento brusco e violento faceva cadere dal tavolo tutto quanto era alla sua portata. Mangiare comportava per lui una così grande concentrazione e fatica che non ci dovevano essere disturbi provenienti dall’esterno altrimenti smetteva. Da bere Michele accettava solo latte con cacao e sciroppo di lampone. Ovviare alle diverse crisi di Michele richiedeva e richiede tuttora uno sforzo notevole a tutte le persone che lo seguono. Durante i primi anni Michele ed io eravamo così legati che tutte le sue azioni, in particolare rivolte ad altre persone, erano in realtà mie azioni e le reazioni degli altri mi colpivano direttamente nel profondo. Inoltre ritenevo fosse un mio preciso dovere mettermi davanti al mio bambino per proteggerlo. La difficoltà consisteva nel fatto che queste crisi scoppiavano, passavano, poi riprendevano di nuovo apparentemente senza motivo. Esempi: - strappare in pezzettini minuscoli tutto quanto era nel suo raggio di azione o comunque raggiungibile tramite pericolose arrampicate. In un’ora è riuscito a distruggere venti libri per bambini, incluse le copertine; - svuotare tutti i cassetti alla velocità della luce; 13
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- sedersi in mezzo alla strada; - durante la spesa, passando, tirare i capelli o togliere il ciuccio ai bambini più piccoli; - prendere scatolame o altri generi alimentari dagli scaffali e gettarli per terra; - tirare i capelli agli adulti o colpirli; - nei locali, passando accanto ad estranei, mettere la sua mano aperta nel loro piatto, con una certa preferenza per le uova al tegamino, la maionese e la panna; - urtare e far cadere il vassoio dalle mani della cameriera; - regolarmente, ogni due settimane, svuotare il bicchiere del fratello e rovesciargli il piatto pieno. Ho provato di tutto, mi sono rivolta anche a numerosi esperti ma non ho mai ricevuto delle indicazioni concrete che mi aiutassero sostanzialmente. Un mattino ebbi un’intuizione. Ne misi al corrente mio figlio maggiore, che all’epoca aveva circa sette anni. Gli spiegai che oggi avrei cucinato per noi tre in gran quantità in modo che, ogni volta che Michele gli avrebbe vuotato il piatto, avrei potuto riempirglielo nuovamente. Noi due saremmo rimasti seduti a tavola senza fare caso a lui, indipendentemente da quanto saremmo stati sporchi di cibo noi o il tavolo o di quanto gocciolassimo di sciroppo. Noi due grandi avevamo in mente qualcosa di speciale. Presi la padella per cucinare, preparai dei vestiti puliti e il piano poté iniziare. I piatti erano appena stati riempiti che tutto cominciò a svolgersi come al solito: il piatto rovesciato, lo sciroppo sul tavolo e sui nostri pantaloni e da lì sul pavimento. Nessuna reazione: la conversazione non venne interrotta. Michele stava in piedi tutto sporco di cibo, grondante; andò in soggiorno passando sui tappeti, salì le scale e andò in camera sua. Ero molto calma: pulii l’indispensabile, riempii nuovamente i piatti e mangiammo tranquilli chiacchierando fra noi. Dopo un po’ Michele tornò, si sedette a tavola e mangiò. La crisi era passata e non ricomparve più! L’inserimento in un centro diurno di pedagogia curativa fu molto difficile: la colazione, le medicine contro l’epilessia, il pul14
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mino scolastico, la scuola materna con le sue strutture, di nuovo il pulmino, il pomeriggio a casa. Questi cambiamenti provocarono in lui un fortissimo disorientamento e il conseguente rifiuto a collaborare. Per tre lunghi anni cercammo con tutta la fantasia di cui disponevamo di raggiungere l’integrazione. Non fu possibile. Il medico di famiglia mi consigliò caldamente di metterlo in un collegio, sia per alleggerire il peso in famiglia che per il bene stesso di Michele. Per sei mesi ci dibattemmo nel dubbio e alla fine iscrivemmo Michele in un collegio a tre isolati dalla nostra casa nel cui ufficio lavoravo part-time. Il primo sabato pomeriggio: Michele tornò a casa allegro. Il primo fine settimana: la novità era interessante. Due settimane di vacanza in collegio: Michele aveva trovato il suo primo amico. Purtroppo in seguito il soggiorno in collegio non proseguì in modo altrettanto positivo. Avevo ancora molto da imparare. All’inizio cercavo di trovare ovunque comprensione per Michele: volevo offrire il mio aiuto a 360 gradi. Cercavo di placare le ondate di malumore in arrivo fin quando mi resi conto che Michele sollecitava gli ostacoli di cui aveva bisogno per la sua crescita sociale e spirituale e che io non dovevo sottrarglieli. Abbiamo vissuto un periodo movimentato, fatto di passi in avanti e indietro, di accessi febbrili e di domande, domande, domande... Gli antibiotici non potevano certo essere la soluzione! Finalmente conobbi un medico antroposofo che faceva parte del consiglio direttivo dell’Istituto. Lui comprendeva molti dei miei interrogativi e ci avvicinò alla medicina antroposofìca. I primi raggi di sole cominciarono a rischiarare e a riscaldare la mia anima buia. Cominciai a rivolgermi regolarmente al medico per avere dei consigli. Rapportarsi alle nuove crisi di Michele, che si acuirono con la pubertà, era e continua ad essere molto difficile. Se si sente spaesato e se esistono, chissà dove, dei malumori sul piano animico, graffia con forza chi gli è vicino oppure si aggrappa ai suoi capelli. Tutto questo suscita molte paure, il rifiuto negli altri e tanto dolore ma rende d’altra parte necessario che le persone che 15
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lo circondano si debbano sedere intorno a un tavolo in cerca di soluzioni. Se da un lato Michele, a causa del suo comportamento, si ritrova spesso solo, dall’altro lato mette in relazione persone che altrimenti non avrebbero necessariamente molto da fare insieme. Nel 1989 cominciai ad occuparmi intensamente della Scienza dello Spirito. Mi si aprirono nuovi orizzonti e finalmente, grazie al pensiero della reincarnazione, la disabilità di Michele cominciò ad acquisire un altro significato. Fui in grado di ricominciare a dare una forma alla nostra vita senza che questa venisse determinata dalle frequenti difficoltà di Michele e dalle sue conseguenze. Michele oggi ha 22 anni e vive in un piccolo istituto per adulti. Nulla è stato semplice da gestire! Continuiamo a sederci intorno a un tavolo in cerca di nuove soluzioni. La radiosità di Michele, quando siamo sulla strada giusta, continua ad aiutarci anche a sopportare i momenti difficili. Com’è cambiata la mia vita accompagnando Michele e quali sono stati i progressi più importanti? - Niente è semplicemente ovvio. La vita è in continuo movimento e si modifica sempre un poco grazie a ogni domanda posta, anche se ricevo solo risposte parziali. - Michele è una persona autonoma che desidera e ha bisogno sul suo cammino di diverse persone che lo accompagnino. Il papà, la mamma e il fratello ne fanno certamente parte. - L’energia e la forza non durano in eterno, se non le ricostruisco in modo cosciente attraverso un mio lavoro interiore, attraverso un’attività creativa e artistica. - I pensieri nuovi continuano ad entusiasmarmi e risvegliano nuovi ideali e mete esistenziali che spesso mi aiutano a superare i momenti oscuri e gli abissi. - Posso imparare qualcosa da ogni essere umano e da ogni incontro. - Lo sforzo e il tentativo di ricercare e di imparare ad amare il nucleo essenziale di ogni essere umano arricchisce la mia vita. - Solo la molteplicità e la diversità della natura e dell’uomo rendono la vita così ricca e degna di essere vissuta. - Attraverso l’amore e l’interessamento per il proprio figlio i ge16
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nitori conseguono grandi competenze e capacità di seguire il proprio figlio disabile restando aperti naturalmente ad accogliere i pensieri e gli spunti degli specialisti.
Crisi e caos Avere la conferma definitiva che il proprio bambino soffre di una disabilità provoca dolore. Questo dolore viene descritto da molti genitori come un qualcosa che scava dentro, porta con sé un sentimento di impotenza che paralizza. Al dolore si accompagna spesso la paura del futuro per il bambino, per i fratelli, per i genitori. Il dolore cela in sé il lutto: si prende congedo dal desiderio, dall’idea di avere un bambino sano. Alcuni genitori raccontano di essere stati colti da una fortissima compassione per il loro bambino. Altri sperimentano nei confronti del bambino sentimenti di rifiuto, di rabbia e di disperazione. Talvolta le madri e i padri vivono la disabilità del figlio come un impedimento alla loro vita. L’impegno intensivo che il più delle volte il bambino richiede viene descritto come una coercizione e un peso. L’altruismo richiesto forzatamente mette a confronto gli individui con gli strati più oscuri della propria anima. Questo viene riscontrato da molti con spavento e si ingenera un meccanismo altamente conflittuale: cosa provo al riguardo e cosa invece dovrei percepire da questa necessità in base ai miei personali principi morali e alle aspettative del mio ambiente? La disabilità del bambino è sempre una cesura profonda nella vita dei genitori. La vita del sentire si perde nel caos, il pensare, soprattutto all’inizio, non riesce a chiarire la situazione con ordine, ad avere una visione d’insieme. L’agire si orienta in base alle necessità pratiche; diventa dominante il sentimento di aver perso la libertà. In questa fase alcune madri riferiscono di pensieri suicidi, mentre per molti padri il lavoro rappresenta una possibilità di distrarsi o talvolta anche di fuggire. 17
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A tutto ciò si aggiunge l’atteggiamento dell’ambiente circostante che ignora o partecipa al destino del bambino e dei suoi genitori, per esempio, con l’eloquente sguardo nella carrozzina. Una volta una madre disse di aver trovato nel suo ambiente una ‘compassione mortale’ oppure l’atteggiamento del ‘non può esserci ciò che non deve esserci’ che tende a minimizzare la disabilità. In molti casi il bambino, per il semplice fatto di esistere, porta i genitori ad un punto morto determinando una ‘situazione di passaggio dalla cruna dell’ago’ in cui i genitori avrebbero bisogno di sostegno. Spesso la consulenza si limita a consigli concernenti il bambino e i genitori si ritrovano soli con il loro sentimento di non avere vie di scampo. Affrontare la crisi e superare l’impotenza, portare ordine nel caos, sviluppare prospettive, diventare propositivi sono tutti momenti di un processo che non può essere immaginato in modo lineare. I progressi contengono battute di arresto, l’andamento è fatto di avanzamenti e arretramenti e non come una linea ascendente. L’importante è che nella crisi qualcosa si muova comunque. L’impulso, quello più forte, viene dal bambino. Con la sua presenza nascono le domande. Come trovare la giusta terapia per nostro figlio? Come possiamo acquisire sicurezza nel rapporto con il bambino? Non ci sfugge forse qualcosa di importante? Spesso nei primi anni di vita ricorre la domanda straziante: Ma nostro figlio non potrà forse un giorno diventare ‘normale’? Quale sarà il suo futuro? In numerosi colloqui si evidenzia la tristezza e la delusione dei genitori per come viene giudicato in modo errato il loro figlio, anche dagli esperti. Si innesca così lo stress di voler normalizzare il bambino il più possibile. A questo punto è bene che i genitori incontrino un medico, dei terapisti, degli insegnanti o altri genitori che, sulla base della propria esperienza, possano dire loro: non lasciatevi mettere sotto pressione dal pensiero della normalità. Non serve stressarsi perché il proprio bambino non è in grado o non sa ancora fare questo o quello. Il proprio stress, la propria paura, la propria ansia e le proprie preoccupazioni ricadranno interamente 18
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sul bambino. Il bambino è diverso dagli altri e gli deve essere consentito di essere diverso dagli altri. Aspirare alla normalità comporta anche voler mettere delle norme e questo è spaventoso. Non c’è niente di più noioso di un assembramento di cosiddetti uomini normali. Come ci si allarga il cuore quando incontriamo invece un individuo che vive in base a ciò che è! Ovviamente i genitori faranno tutto il possibile, anche dal punto di vista terapeutico, per aiutare il proprio figlio. Ma quando i genitori riusciranno ad accompagnare tutto questo con un atteggiamento interiore di accettazione della disabilità, della diversità del loro figlio, quando si saranno evoluti in tal senso e non si dispereranno più per la loro impotenza, allora avranno costruito una base per il bambino da cui sarà possibile vedere delle prospettive future. Un tale atteggiamento porta ad accettare il destino e rende liberi. Il bambino sarà così autorizzato a percorrere la sua vita godendo del ‘diritto alla disabilità’ (Müller-Wiedemann)2. Abbiamo vissuto negli ultimi anni un crescente ostracismo nei riguardi della disabilità, mi riferisco alla discussione sulla diagnosi prenatale e alla manipolazione genetica di esseri umani portatori di disabilità. Ciò richiede iniziativa. Attivarsi in tal senso è il punto di partenza per imparare a confrontarsi con la crisi.
2 Hans Müller-Wiedemann, Menschenbild und Menschenbildung, Stuttgart 1994.
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Per un momento di riflessione: Wer vom Ziel nicht weiß, kann den Weg nicht haben, wird im selben Kreis all sein Leben traben; kommt am Ende hin, wo er hergerückt, hat der Menge Sinn nur noch mehr zerstückt. Wer vom Ziel nichts kennt, kann’s doch heut erfahren; wenn es ihn nur brennt nach dem Göttlich-Wahren; wenn in Eitelkeit er nicht ganz versunken und vom Wein der Zeit nicht bis oben trunken. Denn zu fragen ist nach den stillen Dingen, und zu wagen ist, will man Licht erringen: Wer nicht suchen kann, wie nur je ein Freier, bleibt im Trugesbann siebenfacher Schleier. Christian Morgenstern
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Chi nulla sa del fine non può trovar la via, in cerchio sempre uguale tutta la vita andrà; infine giungerà da dove era partito, il senso dell’insieme sarà più frammentato. Chi non conosce il fine, scoprirlo or potrà; ma sol se molto brama la divina verità, se non sprofonderà nella fatuità del tutto, e se del tempo il vino non lo ubriacherà. Bisogna ricercare le cose silenziose, bisogna poi rischiare per giungere alla luce; e chi non sa cercare, come solo un amante fa, rimane ammaliato nel settuplice velo ingannatore. Christian Morgenstern
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Come andrà avanti? Molti genitori vivono questa prima fase di orientamento come particolarmente difficile. Non sempre si delinea in modo chiaro quale sia la via migliore per il singolo bambino. Domande, insicurezze, dubbi, perplessità caratterizzano la situazione. Proverò ora a descrivere com’è possibile crearsi un giudizio da soli. Spesso viene richiesto il parere di numerosi esperti. La diagnosi medica è, di regola, inequivocabile ma, per quanto riguarda la prassi terapeutica, non di rado vengono espressi suggerimenti diversi. E qui si inizia a valutare, a soppesare. Ad esempio è assolutamente necessaria questa speciale fisioterapia che ci è stata proposta con urgenza o possiamo scegliere un diverso metodo consigliatoci caldamente da altri come assolutamente sensato? E cosa succede se si decide per un metodo meno drastico ma in seguito viene da chiedersi se l’altra terapia consigliata non si sarebbe rivelata decisamente migliore? A volte i genitori si sentono messi sotto pressione dagli specialisti e sono terribilmente lacerati fra il consiglio ricevuto, razionalmente condivisibile, e il proprio sentire che vi si oppone. Nel suo libro, Non esistono bambini ‘difficili’ 3, Henning Köhler ha espresso al riguardo delle idee fondamentali che desidero citare: “Dalla generale disistima della competenza ‘esclusivamente genitoriale’ si è passati da tempo ormai ad una disistima di se stessi di buona parte dei diretti interessati. E questo produce, per necessità di cose, insicurezze e atteggiamenti errati derivanti da sentimenti di inadeguatezza che a sua volta la pedagocrazia sembra legittimare. Come può essere spezzato questo circolo vizioso? Può suonare fuorviante ai lettori impreparati quando dico che i genitori devono ritornare consapevoli della dignità del loro essere genitori prendendo dimestichezza con il pensiero che un bam-
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Hennig Köhler, Non esistono bambini ‘difficili’. Per una trasformazione del pensiero pedagogico, Natura e Cultura Edizioni, 2008.
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bino non ruzzola per caso in questa o in quella casa bensì si affida a quei genitori che ha scelto.” (Tornerò a parlare della scelta dei genitori da parte del bambino nel capitolo “II mondo prenatale”. Dieter Schulz) “Da questo punto di vista le madri e i padri sono incontestabilmente i primari responsabili educativi e (a seconda della possibilità) i più qualificati accompagnatori nella vita dei loro bambini e dovrebbero accettare solamente il giudizio di quegli educatori corresponsabili o di quelle persone aggiuntive consultate che riconoscono loro questo privilegio”. Per questa prima fase di orientamento considero essenziali le seguenti esperienze che possono contribuire alla formazione di un proprio giudizio e di una maggiore sicurezza nei confronti del bambino e del ‘mondo degli specialisti’. A questo proposito è necessario avere ben chiaro che, in ogni singolo caso di disturbo dello sviluppo o disabilità, vi sono due aspetti diagnostici fondamentali. Da un lato abbiamo l’aspetto medico che si riferisce, in senso classico, esclusivamente al corpo fisico. Si deve mirare in ogni caso ad avere una diagnosi il più esatta possibile, anche se al riguardo si dovrebbe fare attenzione a quanto gli accertamenti proposti siano significativi per il trattamento terapeutico del bambino o non servano piuttosto a scopi statistici o di ricerca. La medicina, in generale, cerca, con farmaci e varie terapie, di far sì che il corpo fisico possa diventare un supporto migliore o uno strumento più idoneo per l’individualità. L’altro aspetto è quello della pedagogia curativa e riguarda il problema di come avviene l’interazione tra l’essere animico-spirituale e quello fisico. Il compito consiste nel portare incontro al bambino esercizi e metodiche della pedagogia curativa adattate alle esigenze individuali che diano un impulso al suo essere animicospirituale per aiutarlo a confrontarsi progressivamente con gli ostacoli posti dal suo corpo attraverso la malattia o con altri disturbi riguardanti il processo di incarnazione. Se si considera esclusivamente il corpo fisico dell’essere umano una diagnosi medica può apparire senza speranza. Questa assenza di speranza viene descritta ripetutamente dai genitori come un giu23
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dizio definitivo cui ci si deve rassegnare. E provoca paralisi, rassegnazione, una situazione di stallo. Il bambino, soprattutto nel caso di una disabilità grave, viene riduttivamente identificato con la sua diagnosi; egli attende una luce che rischiari il buio del suo corpo e glielo renda accessibile. La luce deve provenire dall’ambiente in cui è nato. Quando i genitori sono in grado di comprendere che il bambino è più del suo corpo e che questo ‘più’ invisibile attende solo di essere riconosciuto e sostenuto per poter, in seguito, fare la sua apparizione sviluppando la propria personalità, allora si accenderà un barlume di speranza che progressivamente si intreccerà a delle prospettive scatenando il coraggio di agire. Il pensiero che il bambino sia un’individualità spirituale che sperimenta la cosiddetta disabilità (Behinderung) come un impedimento (Verhinderung) se noi non agiamo, può diventare un aiuto concreto per orientarsi. Nella scelta della terapia gioca sempre un ruolo importante chiedersi: “In che misura questa terapia si rivolge all’essere del nostro bambino, alla sua individualità animico-spirituale?” A tale proposito è essenziale la persona che effettua la terapia e come si configura la sua collaborazione con i genitori. Sono convinto che ogni bambino, indipendentemente dalla gravità della sua disabilità, percepisce perfettamente con quale disposizione interiore un altro essere umano gli si pone innanzi. Proprio per il fatto di non essere saldamente ancorato al suo corpo, il bambino, con le sue ‘antenne’ animiche, vive ancora molto nella periferia e quindi nell’emanazione o atmosfera animica degli altri esseri umani. E a questo non si arriva tramite una comprensione di tipo concettuale o astratto, la qualità percettiva cui mi riferisco è più profonda, più sostanziale e più immediata. Un ulteriore aspetto di questa prima fase di orientamento è più difficile da comprendere rispetto a quanto esposto finora. Richiede la capacità di riuscire a penetrare nel profondo sentire del bambino e a cogliere come percepisce la terapia e cosa prova nei confronti di chi la attua. Naturalmente il bambino mostrerà, attraverso il suo comportamento, come si sente durante la terapia: contento, lieto, triste, adirato, apatico, attivo o riluttante. A volte percepiamo 24
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che il bambino accoglie sì le proposte ma interiormente partecipa in modo distaccato. Nella fase di orientamento può essere di aiuto porsi la domanda: Come sta il bambino dopo l’ora di terapia? È caldo, lo vediamo armonico, attivato, più ‘in sé’, oppure freddo, piagnucoloso, nervoso, esausto e sovraccaricato? E come ci sentiamo noi genitori? Abbiamo la sensazione di essere sulla via giusta con il bambino oppure no? Cosa ci piace e cosa non ci piace? Possiamo porre delle domande con franchezza, possiamo fare delle osservazioni, in breve, ci sentiamo considerati genitori e percepiamo una disponibilità al dialogo? Viviamo l’incontro con il terapista su due piani ben distinti: noi sotto con le nostre domande e con la nostra richiesta di aiuto e il terapista sopra di noi, colui che sa, che impartisce consigli ma che forse è inavvicinabile? Si può trovare un terreno comune? Ci sentiamo solo noi disposti ad imparare o possiamo partire dal presupposto che colui che aiuta dia per scontato che ha da imparare qualcosa da ogni singolo bambino che incontra? In quanto genitori ci riconosce una competenza ovvero ci aiuta a conseguirla? La tecnica o il metodo terapeutico costituiscono sempre un lato della medaglia, si devono padroneggiare bene e in questo caso conta molto percepire la sicurezza dello specialista. L’altro lato è il ‘come’: routine, disbrigo della terapia in serie, forfetizzazione oppure interesse, partecipazione individuale e disponibilità ad apprendere. Percepire una competenza sociale costituisce l’altra metà necessaria per lavorare insieme. E per concludere: fra noi e chi ci aiuta si crea uno spazio per il bambino in cui possano agire le forze risanatrici sulla base di una mutua comprensione dell’umanità, del calore e di un modo di procedere concorde? Più ci saranno questi fattori, tanto più efficace risulterà la terapia stessa.
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Agire In genere avere un figlio disabile significa anche essere costretti ad un notevole dispendio di energia e di tempo per far fronte alla vita quotidiana. Di regola sono le madri che si devono fare in quattro per riuscire a soddisfare i numerosi impegni che sono loro affidati. Gli altri figli reclamano i loro diritti: essere assistiti nei compiti, la riunione dei genitori, la visita dal dentista, le feste di compleanno. Si deve fare tutto. Fra una cosa e l’altra ci sono i ripetuti appuntamenti per la cura del bambino disabile. Se la disabilità riguarda il corpo, ciò comporta un enorme dispendio aggiuntivo di forze per la mamma. Metterlo in macchina, farlo scendere dalla macchina, vestirlo, svestirlo, lavarlo, migliaia di piccoli gesti, con lo stress di non tornare troppo tardi a casa altrimenti la figlia maggiore rimane male se i genitori non sono presenti alla sua rappresentazione scolastica. Resta solo da sperare che il padre non abbia particolari pretese ma che anzi prenda su di sé, per quanto possibile, una parte di questi compiti. Spesso le madri descrivono l’obbligo di adempiere a questa lista quotidiana di doveri come una montagna o un muro contro cui non ce la si può fare. Il sentimento che tutto questo stia diventando troppo e che non riescano più ad affrontarlo può improvvisamente gettarle nel panico oppure, se si cronicizza, trasformarsi in una depressione distruttiva. Svanisce la voglia di vivere, diminuiscono le forze, tutto comincia progressivamente a tingersi di grigio. La routine riempie il quotidiano e l’anima si incaglia. Ai problemi di coppia, alimentati dalla situazione, si aggiungono i sensi di colpa nei confronti degli altri figli che magari si sentono trascurati rispetto al figlio disabile: tutto ciò può trasformare la vita in un incubo. Il sovraccarico ha sicuramente diversi motivi. A mio modo di vedere incidono molto le pretese che la società tacitamente ha nei confronti della madre. Chi non risponde alle aspettative corre il rischio di venir discriminata come una ‘madre snaturata’.4 A questo si aggiungono le pretese che la madre stessa si rivolge e cioè di voler fare tutto ciò che serve a suo figlio. Lo stress che ne deriva non 26
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è sopportabile a lungo e ne soffre non solo la madre ma l’intera famiglia. Affrontare la vita quotidiana sotto questi presupposti significa ridursi solo a reagire passivamente, a funzionare. Ma ci sarà bisogno, prima o poi, di agire veramente, il che significa ritrovare la capacità di iniziativa per modificare la situazione grazie a un proprio impulso ed eventualmente con l’aiuto di altri. Naturalmente è più facile da dire che da fare ma un cambiamento è attuabile. Se le condizioni esterne forse al momento rimangono invariate è possibile operare una trasformazione interiore. Le seguenti domande possono essere di aiuto per chiarire e indicare una direzione: - Da quando la situazione della mia vita si è resa in qualche modo automatica tanto che io riesco solo a reagire passivamente? - Cosa vorrei avere di diverso? Che tipo di aiuto, finanziario o pratico, sarebbe necessario? - Come posso ritrovarmi? Come posso plasmare la mia situazione di vita in modo da potermici identificare di nuovo? - Come posso ritagliarmi degli spazi liberi in cui potermi riposare e ricostruire il corpo, l’anima e lo spirito? - Come vivo il fatto di avere un figlio disabile? Mi sono già sufficientemente confrontata con tutte le domande relative al problema o cerco rifugio nel lavoro, proprio per non affrontare, per esempio, le domande sul senso e sul futuro di tutto ciò? - Quanto sono realistiche le pretese che ho verso me stessa riguardo all’amore, alla dedizione, alla cura e al sostegno da dedicare al mio bambino disabile? - Da chi, nell’ambiente che mi circonda, sento provenire delle aspettative che penso di dover soddisfare? Dai parenti, dai conoscenti, dai medici, dai terapeuti? Perché le devo soddisfare? Nutro dei sensi di colpa? Quali e perché? - Come avverto il mio partner in questa situazione della nostra
4 Il problema di mettere in discussione l’identità delle madri di bambini con disabilità viene affrontato in maniera esaustiva da Monika Jonas nel suo libro Trauer und Autonomie bei Müttern schwerstbehinderter Kinder [Tristezza e autonomia nelle madri di bambini con gravi disabilità], Mainz 1996.
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vita? Riusciamo a parlarne insieme? Come recuperare dello spazio di percezione reciproca per noi? - Come vivono gli altri figli il rapporto con noi genitori e con il fratello disabile? - Cosa devo imparare dalle esperienze fatte? - Quale potrebbe essere il primo passo di una vera azione che si opponga alla passiva reazione che ho attuato finora? Queste domande ci portano avanti nella costruzione della nostra biografia e ci danno una sollecitazione a chiarire, a fare ordine e, soprattutto, a sviluppare delle prospettive.
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Per un momento di riflessione: Stufen Wie jede Blüte welkt und jede Jugend dem Alter weicht, blüht jede Lebensstufe, blüht jede Weisheit auch und jede Tugend zu ihrer Zeit und darf nicht ewig dauern. Es muss das Herz bei jedem Lebensrufe bereit zum Abschied sein und Neubeginne, um sich in Tapferkeit und ohne Trauern in andre, neue Bindungen zu geben. Und jedem Anfang wohnt ein Zauber inne, der uns beschützt und der uns hilft zu leben. Wir sollen heiter Raum um Raum durchschreiten, an keinem wie an einer Heimat hängen, der Weltgeist will nicht fesseln uns und engen, er will uns Stuf’ um Stufe heben, weiten. Kaum sind wir heimisch einem Lebenskreise und traulich eingewohnt, so droht Erschlaffen, Nur wer bereit zu Aufbruch ist und Reise, mag lähmender Gewöhnung sich entraffen. Es wird vielleicht auch noch die Todesstunde uns neuen Räumen jung entgegen senden, des Lebens Ruf an uns wird niemals enden… Wohlan denn, Herz, nimm Abschied und gesunde!
Hermann Hesse
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Gradini Come ogni fior languisce e giovinezza cede a vecchiaia anche la vita in tutti i gradi suoi fiorisce, insieme ad ogni senno e virtù né può durare eterna. Quando la vita chiama, il cuore sia pronto a partire e a ricominciare, per offrirsi sereno e valoroso ad altri, nuovi vincoli e legami. Ogni inizio contiene una magia che ci protegge e a vivere ci aiuta. Dobbiamo attraversare spazi e spazi, senza fermare in alcun d’essi il piede, lo spirto universal non vuol legarci, ma su di grado in grado sollevarci. Appena ci avvezziamo ad una sede rischiamo d’infiacchire nell’ignavia: sol chi è disposto a muoversi e partire vince la consuetudine inceppante. Forse il momento stesso della morte ci farà andare incontro a nuovi spazi: della vita il richiamo non ha fine... Su, cuore mio, congedati e guarisci!
Hermann Hesse (Traduzione di Ervino Pocar)
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