Fuori non c'è nessuno • Dentro c'erano i mobili

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Dentro c’erano i mobili


FUORI NON C’È NESSUNO

A crescere nella bruttezza ci si può sentire incapaci di generare qualcosa di diverso, e alla fine alla bruttezza ci si affeziona, tanto da continuare a cercarla. Piana Tirrenica era un posto brutto. Non c’erano piazze, non c’erano teatri, non c’erano giardini. C’erano le strade, c’erano i comignoli delle fabbriche, c’erano le gru. Non sembrava un luogo nato per le persone, ma per collegare palazzi, capannoni e automobili. A chi le chiedeva cosa ci fosse a Piana Tirrenica, Greta rispondeva il cielo, a Piana Tirrenica c’è il cielo. E con Piana Tirrenica intendeva la cento, e con cento si riferiva a centosessantasette, il numero della legge sull’edilizia popolare che dava il nome al quartiere in cui non aveva scelto di arrivare e da cui era scappata. Talvolta ci tornava di nascosto. Non avrebbe saputo dove altro tornare, se non in quel niente che le era caro per forza. Poteva essere di domenica pomeriggio, di venerdì sera, di sabato. Di solito arrivava da sola e non lo diceva, neanche ai suoi che ancora abitavano lì. Quella volta era un mercoledì, Greta aveva una mattina libera. Guardava il riflesso del suo volto stanco nei vetri dell’autobus che l’avrebbe portata fino alla metro che l’avrebbe condotta alla stazione, dove avrebbe preso il

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treno regionale fino a un’altra stazione dove sarebbe salita su una navetta extraurbana diretta a Piana Tirrenica. Vivere lì era stato come arrivare quando il film è già iniziato, quando sono finite le noccioline ed è rimasto uno sputo di birra. La tangenziale circondava la metropoli come un recinto d’asfalto. Dentro al recinto ci sono quelli che contano, aveva scherzato una volta Michela. Fuori c’erano tutti gli altri. Campi nomadi, centri commerciali, parchi acquatici, fabbriche di sapone e salumi, schede madri e medicine, rivenditori di arredamento e materiali edili, prostitute al telefono, migranti in attesa, rifiuti a cielo aperto, edifici incompleti, case popolari, palazzine in cortina e cemento per chi non poteva permettersi di pagare affitti e mattoni troppo cari. E poi il mare, in fondo a tutto c’era il mare. Devastato, inquinato, deturpato, ma comunque il mare. Si vedeva dal vetro, eccolo là, un nastro celeste anche d’inverno. Greta guardava scorrere la materia fuori, mescolarsi a ottantacinque chilometri orari. I fumi industriali, gli scarti materiali e umani, il degrado degli spazi, gli arbusti ai margini dell’asfalto, quella consistenza così distante dalla realtà rarefatta che si respirava nel cuore della metropoli, negli uffici del centro, nelle aule universitarie, nei palazzi bene in cui era stata invitata a bere prosecchi e masticare aperitivi durante gli anni dell’università. Oltre la tangenziale, dietro la facciata, c’era un altro mondo. Un mondo di cui non si diceva. Quello che ora Greta vedeva dal vetro era la campagna convertita in risorsa industriale e colonia edilizia, riserve naturali mutate in dormitori, punto d’approdo per piccoli nuclei familiari sradicati


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dalle terre d’origine e pronti, chi più chi meno, a sostituire in qualche modo il prezioso tessuto di relazioni andato perduto nel vento. Ma il confine non era impenetrabile. Molti lo attraversavano ogni giorno, vivevano una dimensione di frontiera pendolando da un mondo all’altro, sforzandosi di farlo con indifferenza per tornare all’invisibilità ogni notte. Era una geografia taciuta in cui le membrane restavano dolorosamente permeabili, il ritratto ordinario di migliaia di pendolari di provincia. Greta era stata una di loro, i suoi anni erano sbadatamente pendolati via. Così, su un piano inclinatissimo la sfera del senso era velocemente precipitata, finché il filo immateriale che la collegava al mondo si era slacciato, e Greta era uscita dai binari, si era persa, e brancolava senza poter nemmeno intravedere dove avrebbe finito per poggiare i piedi, come potrebbe accadere a un bivalve sul fondale torbido smosso da una violenta mareggiata. Questo, dentro. Fuori, tra acceleratori e suonerie, clacson e nastri scorrevoli, tutto procedeva come al solito, senza destare sospetti. Greta continuava a indossare il suo corpo come s’indossa una giacca, per l’occasione. Senza una reale direzione, attraversava sorridendo corridoi e scale mobili, col timore di poter essere improvvisamente travolta e schiacciata da qualcosa di incalcolabile, o di poter precipitare in una crepa e restarne inghiottita in pochi attimi. E alla fine era accaduto. Uno scarpone aveva ceduto, la caviglia si era piegata, il corpo si era sbilanciato tutto a destra e Greta era rotolata giù per le scale atterrando nel reparto falegnameria. Aveva sbattuto forte il bacino, le ginocchia,

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le spalle, poi di nuovo il bacino. Una brutta distorsione alla caviglia, avevano diagnosticato i medici, e quello era rimasto, e dolore, anche, alla schiena. Avrebbe zoppicato almeno per qualche settimana. Adesso viaggiava accompagnata da un paio di stampelle. Sulla provinciale, davanti al Worldmobilia, c’era uno striscione grande, bianco, stropicciato e spiegato sul guardrail. Sopra, in rosso, c’era scritto ASSEMBLEA PERMANENTE H24. C’era gente nel parcheggio, guanti, cappotti e fumo di cibo cotto e di bocche appena schiuse. Greta aveva chiesto di scendere alla prossima e si era fatta un pezzo di strada, stampella dietro stampella, con le automobili a smuoverle l’aria dietro al collo. Poggiando appena la punta del piede destro si muoveva asimmetrica. Da lontano aveva riconosciuto le sagome dei genitori di Michela. Rosaria e Gianni lavoravano lì da quando l’azienda si chiamava Centro Internazionale del Mobile Spa e i dipendenti andavano in giro con i camici bianchi e i cataloghi delle stoffe sotto braccio. Si erano trasferiti lì negli anni Ottanta, dopo essere stati assunti. Nel parcheggio del mobilificio, le avevano spiegato. Da mesi lo stipendio non arrivava per l’ennesima gestione fallimentare tra quelle che si erano alternate nel corso degli anni. Con gli altri colleghi avevano deciso di occupare lo stabile e indire un’assemblea permanente. Rivendicavano ciò che sarebbe spettato loro di diritto. Rosaria e Gianni non erano tipi da occupazione, non di quelli che si erano fatti gli anni Settanta in piazza o nei movimenti. Rosaria e Gianni erano tra quelli che avevano preferito impiegare


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il tempo e le energie per costruirsi qualcosa di sicuro: due buoni stipendi, una famiglia unita, la carta da parati entro cui avevano allevato Michela e Francesca come due bambine disabili, da proteggere. Ora se ne stavano in quel parcheggio un po’ in disparte e a disagio, non sapendo bene come sostenere troppo a lungo una conversazione. Per quel che serve, dicevano riferendosi a quella battaglia. E con gli occhi di chi è devoto alla rassegnazione lo ripetevano. Per quel che serve. Per quel che serve, aveva risposto Michela a sua madre quel giorno di tanti anni prima, dopo aver urtato con la ruota davanti della bici il mobiletto all’ingresso, uno di quelli di cui non si capisce bene la funzione a parte quella di intralciare il passaggio. Michela, l’aveva rimproverata Rosaria, guarda che mica è un albergo qui. Entri, esci, fai come ti pare. E togli quella gonna che è troppo corta per andare in bicicletta. Certe volte mi chiedo di chi sei figlia. Greta aspettava sul pianerottolo rigirandosi in tasca il lucidalabbra nuovo, quello trasparente al gusto di ciliegia. Aspettava Michela con la fretta di vederselo brillare sulle labbra. Erano appena rientrate dalla palestra. Poso la bici e andiamo a farci questo secondo buco all’orecchio, aveva promesso Michela. E quando era tornata, sbattendosi dietro la porta, aveva giurato che avrebbe imparato a fare il flic. E alla fine l’aveva imparato davvero. Prendeva la rincorsa sul grande tatami, partendo dall’angolo a sinistra. Greta la guardava appoggiata al muro della palestra, volteggiare sulla punta delle mani e poi librare il corpo nel vuoto. Brava, gridava. E Michela passava alla trave. Spalmava

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bene la magnesia sul palmo delle mani e sotto le piante dei piedi, producendo delle piccole nuvole intorno alla sua figura. Questa è la tua specialità, le diceva l’insegnante, Marisa. Era vero. Un piede, poi l’altro, Michela sgambettava su quel tronco come se non avesse fatto altro nella vita. Adesso ponte, el-là, la spronava Marisa toccandole una natica. Michela si piegava, era un pezzo di gomma calda che si regge sui polsi fasciati. Un piede, poi l’altro. Si rovesciava all’indietro e tornava eretta, le braccia parallele al terreno, i fili di garza annodati attorno alle dita, il mento dritto. Al lobo sinistro aveva ancora la crosta del secondo buco. Spara, aveva detto stringendo gli occhi dopo che l’orefice le aveva puntato la pistola sulla cartilagine. E questa, da dove salta fuori? le aveva domandato Rosaria due settimane dopo in ascensore indicando la pallina d’oro che se ne stava infilzata in quel pezzo di carne. È il mio secondo buco, aveva risposto fiera Michela, pur sapendo che sua madre glie lo aveva vietato categoricamente. Michela, come sta? aveva chiesto a un certo punto Greta, mettendo di lato il morso di panino con la salsiccia scaldata sul fornelletto da campeggio portato da qualcuno per l’occasione. Michela stava bene, e chi l’ammazza, dicevano. A Londra si vive meglio di qua, tutto è meglio di qua. E chi l’ammazza, ripetevano. Era strano vederli per strada, con i cappotti. Greta li aveva sempre visti dentro. Dentro casa, dentro la chiesa, dentro il negozio. Coperti soprattutto dalle pareti. Guardare i loro corpi avvolti di strada e privi di gusci ora le faceva effetto. Le sembravano esili. Le sembrava


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che avessero freddo. Anche i suoi erano stati così, si erano chiusi dentro. Avevano sbattuto la porta e girato la chiave lasciando il mondo dall’altra parte. Fuori faceva sempre troppo freddo o troppo caldo. Fuori poteva piovere da un momento all’altro. Fuori passavano le macchine. Fuori non si poteva giocare. Fuori non c’era niente d’interessante. Fuori non c’era nessuno. Dentro, quello era il luogo in cui bisognava stare. Perché dentro c’era l’affetto, il cibo, il riscaldamento, la televisione. E dentro c’erano i mobili. Mobili che venivano periodicamente spostati, invertiti, avvicinati, distanziati, ristrutturati e infine sostituiti con altri mobili. L’arredamento degli interni era stata un’ossessione costante, per Rosaria come per Gianni, per Alba come per Aldo. Si incontravano la domenica pomeriggio, una settimana dai Rinaldi, l’altra dai Campisi, una dai Campisi, l’altra dai Rinaldi, senza soluzione di continuità in questa alternanza. I cuscini dei divani accuratamente foderati reggevano il peso inconsistente delle loro chiacchiere, le angoliere e i settimanili in stile antico si aprivano per l’estrazione di bottiglie pregiate e servizi di tazzine e bicchieri ricevuti in dono nuziale e tenuti in esposizione per il resto della settimana come cimeli in un museo, larghi tappeti persiani riflettevano la luce di plafoniere e lampadari scelti in seguito a ricerche accurate durante pellegrinaggi finesettimanali lungo le vie dei rivenditori locali. Il punto di snodo dei loro incontri era il tinello, da lì partivano anche le visite guidate dirette alle altre stanze, bagni inclusi, di aggiornamento sulle novità in fatto di mobilio ed elementi d’arredo su cui puntualmente dispensavano reciproche rassicurazioni rispetto

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alle incertezze e congratulazioni per le scelte compiute. Subito dopo, le conversazioni si spostavano sulle nuove costruzioni. Cercare una casa più adatta era diventata quasi un’attività costante nel tempo, soprattutto per i genitori di Greta, e soprattutto dopo che a scuola era arrivata Enrica, perché Ettore Curci, suo padre, di mestiere faceva il costruttore, e gestiva un’impresa che a Piana Tirrenica aveva diretto la maggior parte dei lavori nell’edilizia privata. Ogni anno nasceva un complesso residenziale più attraente dei precedenti, pezzi di suolo ospitavano nuovi scavi per nuove fondamenta, il paesaggio mutava rapidamente. Da quando erano arrivati Greta aveva cambiato residenza cinque volte. E aveva visitato ventisette appartamenti, li aveva contati, tutti dentro palazzine appena costruite. Ogni volta, sul pavimento sporco di calce e intonaco, dietro le finestre incellofanate o ancora prive di infissi, nei garage impolverati di bianco, aveva sentito pronunciare la stessa frase: e pensare che l’anno scorso qui era ancora tutta campagna. Ma alla fine vincevano sempre le case che non c’erano ancora, quelle di carta, perché le case di carta costano meno, hanno meno difetti e lasciano spazio ai sogni. Aldo e Alba valutavano attentamente le piantine bidimensionali immaginando muri, luci, modifiche da apportare, disegnando a matita tavoli completi di sedie, piani cottura, lavelli in scala. L’ultimo appartamento come il primo erano stati scelti così, su un foglio squadrato. Che fate? chiedeva Greta. Guardiamo la casa nuova, rispondeva Alba. Greta guardava il disegno ma non riusciva a vederci nessuna casa, solo rettangoli affiancati con segni scritti sopra. Questo


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muro lo togliamo, diceva ogni volta Alba, che voleva un solo ambiente per la cucina e il tinello, ché lei in cucina da sola non ci voleva stare, non sentiva il telegiornale e restava indietro sui discorsi che si facevano a tavola. Poi con la storia degli odori che avrebbero impregnato tutto il muro restava dov’era. La ditta delle buste di plastica aveva l’aspetto di un gigantesco mostro quadrato. Greta poteva vederla sullo sfondo del parcheggio, tra i fabbricati delle aziende farmaceutiche e i comignoli stretti e alti col fumo denso e scuro delle aziende siderurgiche. Greta e Michela erano cresciute inseguendo con lo sguardo il volo dei gabbiani diretti in stormi verso la grande discarica lì vicino. Pochi chilometri oltre, da qualche parte, c’erano anche i depositi abusivi di amianto, raccontavano tutti. Tutti sapevano, ma nessuno conosceva veramente il punto in cui fossero. Ognuno quando c’era vento si limitava a restare in apnea, girare il passo. Tanti anni a respirare questa merda, prima o poi ci verrà qualcosa, stava dicendo Gianni. Come se per la prima volta si rendesse conto del paesaggio intorno. Dietro al pentolame di alluminio Remo prendeva le scodelle e Andrea ci versava la zuppa di legumi. È un secolo che non sento tua sorella, aveva detto Greta andandogli incontro e chiedendo di Enrica. Andrea l’aveva guardata con gli occhi stretti, come a volerla filtrare. Se ne stava dentro una camicia larga di pile a scacchi, coi guanti tagliati sulle prime falangi e una sciarpa intorno al collo. Greta non lo vedeva da quando

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aveva lasciato Piana Tirrenica. Dobbiamo fare qualcosa, qualcosa per cambiare questo paese, proponeva lui. Il lavoro, sì, ma l’esistenza prima. Le condizioni, diceva, le condizioni. L’aria. Quello che sta accadendo ci riguarda tutti, va fatta giustizia, dobbiamo riprenderci le vite, dobbiamo farlo oggi, non domani, incalzava. Ed era chiaro che non avesse la minima idea di come fare. Lo striscione lo aveva realizzato lui. Era passato dalla sede del partito con il lenzuolo e li aveva aiutati con la bomboletta. Poi se n’era andato. Ché lui con il partito non voleva averci troppo a che fare, e si doveva allenare di destri e di sinistri, e andare a suonare. Era un cane sciolto, ci teneva a precisare. Nessuna tessera, nessun eroe. Greta lo scrutava dentro le fessure degli occhi, lungo le labbra, ne seguiva i movimenti lenti delle mani nello spazio, le curve contraddittorie dei discorsi, fino a intravederne l’essenza. Andrea non era uno di quelli che si rifugiano in qualcosa in cui credere, che si riuniscono in circoli per rassicurarsi di parole e formule da ripetere come preghiere. Andrea stava da un’altra parte, non si faceva trovare, era sempre altrove rispetto a dove ti aspettavi. Accanto a lui, Remo aveva salutato con un cenno del capo, abbassando subito lo sguardo, e trascinando le parole nella barba lunga e bianca, col suo fare introverso. Aveva sempre in testa un cappello, d’inverno come d’estate, per via della calvizie in cima al cranio di cui non voleva si sapesse in giro. Anche dopo la pensione non si era tolto la divisa. Le quattro tute da metalmeccanico avevano continuato ad alternarsi intorno al suo corpo gracile e coperto di peli un tempo scurissimi. Quegli involucri significavano la sua presen-


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za nel mondo, dicevano agli altri di lui senza che lui dovesse parlarne. Sua moglie, una creatura minuta che restava sempre in casa, alcune volte si lasciava convincere a uscire da quell’appartamento occupato trent’anni prima e composto da una stanza e un bagno. Allora potevi vederli tenersi per mano sui marciapiedi. Era un combattente lui, così amava definirsi. Attivo nel sindacato, iscritto al partito, solidale alle battaglie di tutti, meglio se deboli. Un uomo in tuta, pronto ad aggiustare e rimediare. A Piana Tirrenica aveva lavorato in diverse officine. Nei capannoni aveva passato per anni giornate intere a contatto con macchine e ingranaggi di metallo. A domicilio aveva anche aggiustato caldaie, televisori, apparecchi radio, forni, lavatrici, aspirapolvere, lavastoviglie, frullatori, elettrodomestici di varia forma e natura. La sua era una vocazione, Remo con le macchine ci parlava. Greta e Michela l’avevano conosciuto al liceo. Era stato invitato dal preside come testimone della storia locale. Perché Remo aveva un’abitudine, quella di collezionare la materia che gli altri scartavano, tra cui vecchie pellicole private che filmavano Piana Tirrenica nei suoi primi anni: la costruzione della torretta municipale, la prima nevicata di cui si conservase memoria, i campi agricoli, il mare, gli incontri politici a Piana, il papa a Piana, il duce a Piana, bambini in calzettoni e cosce nude che giocano nei poderi, l’inaugurazione dei grandi stabilimenti industriali, le mogli degli operai che fanno la fila a mensa durante una festa aziendale aperta alle famiglie. Alla fine dell’incontro un gruppo di studenti si era avvicinato per fargli delle domande. Quando era arrivato a Piana? Dove aveva preso le pellicole?

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Chi gliele aveva date? Perché? Le aveva rubate? Remo non amava parlare, si era sentito soltanto di invitarli da lui. E da lui voleva dire nel garage occupato alla cento, dove teneva la sua collezione. La tana di Remo era in fondo a una rampa che dava direttamente sulla strada. Dentro c’era di tutto, compresa una brandina, un tavolino e un fornelletto per pasti frugali. Greta e Michela non erano riuscite ad ascoltare tutte le parole perché erano impegnate a registrare con gli occhi un silenzioso inventario di oggetti che in quel posto convivevano incastrati gli uni accanto agli altri accordandosi per incoerenza. Bambolotti mono occhio sporchi di polvere affiancavano stendini in plastica privi di stecche con sopra impilati cuscini in velluto bruciato da briciole di cenere incandescente e girandole colorate senza tutti i petali. Più a lato, una radio transistor gialla con manopola laterale e una trottola di alluminio sverniciata sovrastavano il monitor di un Commodore sessantaquattro incastrato tra un vaso cinese scheggiato e un mangiadischi portatile quarantacinque giri. Subito sotto, un cubo di Rubik e un servizio incompleto da tè stavano in equilibrio sopra una pila di libri tascabili accantonati vicino a un sapientino con display crepato e a una fila di vinili di Ivan Cattaneo e Ricchi e Poveri. Ancora dopo, nello spazio, solo damigiane in paglia e vetro e damigiane in plastica, ombrelli grandi chiusi e ombrelli chiudibili aperti, suoli per ciambelloni in alluminio, mobiletti in compensato con figurine attaccate ai lati e mensole mancanti, attaccapanni monchi e souvenir, collezioni incomplete di tartarughe mutilate in plastica, palle di


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gomma, biglie di vetro. Quel posto era un purgatorio per le cose che nessuno desiderava avere tra i piedi per un giorno ancora. Greta si era fatta riempire la scodella di zuppa. Come stai, gli aveva chiesto. Allora Remo aveva fatto due passi di lato per accendersi una sigaretta. Bene, io sto sempre bene, aveva biascicato con il filtro tra le labbra. Non c’è mai troppo da dire davanti a quel che ci si vuole sentir dire. Remo aveva coperto con una mano la fiammella dell’accendino e si erano scambiati un sorriso stretto negli occhi arrossati. Non lo vedeva dal liceo. Greta gli aveva chiesto se passava ancora tutto quel tempo nella tana. Non posso entrarci, è piena. Aveva risposto lui. La situazione era diventata ingestibile, le aveva spiegato. C’era sempre più roba ai margini dei cassonetti: sedie, sanitari, divani, materassi, borse, elettrodomestici, ancora buoni ma passati di moda, dispositivi nuovi già inutilizzabili. Oggi si progetta l’invecchiamento precoce degli oggetti, diceva Remo, e aspirava larghe boccate di fumo. Sembrava contento di vederla, di essere ascoltato. L’inceneritore, diceva, è lì che vogliono spedire tutto. Le marce non sono servite, siamo sempre troppo pochi. Remo non ci stava, aveva deciso di fare la sua parte. Col tre ruote caricava la roba ai cassonetti e la portava nel garage. Cercava di rimetterla a nuovo. La puliva, la riparava, la regalava, ma la roba era comunque più veloce del suo buonsenso. E tu? l’aveva interpellata a un certo punto Andrea posandole una mano sulla spalla e facendo cenno con il mento verso le stampelle. Greta gli aveva raccontato

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della caduta. Zoppicava, e avrebbe zoppicato ancora, ma aveva come l’impressione di esserci abituata. Alla fine era entrata per fare pipì. Il negozio le era sembrato subito più piccolo di come se lo ricordava, perché prima dell’adolescenza tutto ti sembra enorme e poi gradualmente si ridimensiona, e perché il mobilificio dove lavorava lei adesso era davvero immenso. Altra generazione, case più piccole, mercato più grande. Tra quelle corsie con Michela avevano giocato alle signore. Significava far finta di avere venticinque o al massimo ventisei anni a testa e invitarsi per vistosi ricevimenti nel reparto sale da pranzo, grandi cene nel reparto cucine, appuntamenti segreti nel padiglione camere da letto. Greta e Michela si muovevano con disinvoltura dentro ai locali del grande magazzino. Lungo le traiettorie di quei corridoi senza finestre imparavano a recitare la vita dei grandi, si allenavano a intuire le leggi sottese ai loro destini. Ci sarebbe stato sempre qualcosa da comprare, sempre qualcosa da vendere. Qualche volta avevano pure fatto i compiti nel reparto camerette. Ce n’era una che a Greta piaceva moltissimo, aveva i letti a castello e dei grandi cassetti a forma di cubo in cui ci si poteva infilare con una torcia a leggere. Le piacevano i nascondigli, poter sbirciare il mondo senza essere guardata, lasciarsi portare per mano dentro le storie, precipitare senza peso nelle vite degli altri, dimenticarsi. Michela invece disegnava simboli con le dita bagnate di succo di limone sopra a fogli bianchi rubati alle stampanti degli uffici. Questo è un alfabeto segreto, confessava passandoci sopra l’ac-


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cendino preso in prestito alla tasca di un cappotto. Poi spegneva le luci e s’illuminava il volto con la fiamma, dal mento in su. Ti ho già detto che parlo al contrario? si rivolgeva a Greta divertita. Oaic aterg emoc iats? Sussurrava avanzando nel buio con le gengive scoperte. Smettila subito, gridava Greta. Poi ridevano fino a non respirare.

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