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Chi è l’altro? Anche nelle democrazie più mature vengono tracciati confini più o meno ideali, si progettano ed erigono muri, si definiscono princìpi identitari e territori nel quale l’altro è sempre un invasore. Nel dibattito politico – sempre più mediatico e sempre meno parlamentare – l’identità viene correlata, a seconda dell’occasione, al credo religioso, al luogo di nascita, alle preferenze sessuali, alla squadra di calcio. Nella propaganda pop la società non può essere pensata nella sua complessità, ma per semplificazioni e categorie. Non si tratta certo di una novità, ma il manicheismo con cui il potere ha costantemente narrato la realtà alle masse ora viene diffuso anche da coloro che in passato erano semplici ascoltatori. Prima dei social network la comunicazione politica e commerciale si muoveva in una sola direzione, oggi è potenzialmente bilaterale. E coloro che in passato erano solo recettori, ora sono al contempo recettori e diffusori di idee, frasi, pensieri, riflessioni, slogan, battute. Dopo aver guardato con diffidenza alle reti sociali, la politica ne ha compresa l’importanza. Gli account dei politici sono stati dati in gestione a società di comunicazione e a social media manager con il compito di creare engagement, costruire una reputation online positiva e, soprattutto, una narrazione di facile comprensione. Prendiamo come esempio, ancora, l’Italia. Il presidente del consiglio Matteo
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Renzi ha scelto Twitter, social meno generalista di Facebook, nel quale la comunicazione è affidata a messaggi di 140 caratteri al massimo. Ai tweet Renzi ha affidato i messaggi di congratulazioni e di cordoglio e le notizie di primo piano sull’attività di governo. Ben diverso invece l’approccio del segretario della Lega Nord, Matteo Salvini, che sull’aggressività dei contenuti pubblicati su Facebook e sull’onnipresenza televisiva ha costruito la propria identità mediatica. Salvini ha privilegiato il social network più generalista, quello che ‘parla alla pancia’, diversamente dal più cerebrale Twitter. Come ai tempi della Lega Nord bossiana, Salvini ha costruito la sua narrazione politica sul tema dell’identità, ma ha eliminato i concetti di Padania, Roma ladrona e Meridione parassitario. Tramontato il progetto federalista – e contestualmente alla perdita di consenso di Silvio Berlusconi – Salvini è riuscito a ricompattare l’elettorato di destra conquistando un consenso crescente anche nel centro e nel sud Italia grazie ai quotidiani attacchi ai nemici esterni (i profughi provenienti dal Nord Africa, i rom e i lupi solitari jihadisti in Europa) e al nemico interno (il Partito Democratico). Senza alcuno scrupolo riguardo alla buona educazione e alla logica della propria comunicazione, Salvini si rivolge dunque ai propri connazionali schierandosi a difesa dei confini italiani, della religione cattolica, degli imprenditori asfissiati dalle tasse, dei lavoratori disoccupati, della ‘famiglia tradizionale’. I temi del federalismo e del separatismo sono stati abbandonati dalla nuova Lega Nord che, puntando a diventare un partito finalmente nazionale, ha rimodellato sull’attuale congiuntura i propri messaggi propagandistici. Sui temi dei flussi migratori, della pressione fiscale, della disoccupazione e della sicurezza Salvini ha adottato uno stile distruttivo, utilizzando l’idea delle “ruspe” che rimuovono fisicamente i problemi, andando evidentemente ben oltre la “rot-
1 Cfr. M. Portanova, Dichiarazia, Bur, Milano 2009.
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tamazione” renziana. Qualsiasi forma di progetto politico è diventata superflua: la priorità è assumere una posizione, sostenerla fino allo sfinimento, individuare e attaccare un nemico esterno. Se il Partito Democratico si propone come partito della nazione rivolgendosi dichiaratamente sia all’elettorato di sinistra che a quello di destra, la Lega salviniana avanza a suon di status e di slogan di facile comprensione, e anche questo è pop. La gente non ha abbastanza tempo, voglia e attenzione per l’approfondimento, pertanto la strada scelta dalla politica è quella di galleggiare in superficie, commentando tutto il commentabile, senza mai entrare davvero nel merito: è una sorta di ‘dichiarazia1’, un sistema autoreferenziale che non vuole intervenire sulla realtà, bensì, molto più semplicemente, autoconservarsi. Pur utilizzando gli strumenti digitali del dialogo e della comunicazione bilaterale, la propaganda continua a essere un monologo, com’è sempre stato. Trovati lo strumento e la forma, non resta che riempire la narrazione con i contenuti che l’informazione fornisce in abbondanza tutti i giorni. Per Matteo Salvini eventi come le stragi di Charlie Hebdo e del Museo del Bardo o gli attentati terroristici del 13 novembre 2015 a Parigi e del 22 marzo 2016 a Bruxelles rappresentano delle opportunità per contenuti ‘forti’ e ad alto tasso di condivisione. Non ci sono giorni di tregua, la provocazione deve essere quotidiana, martellante, fino a diventare la ‘verità’, come in Goebbels. Nella nuova propaganda l’identità non viene fissata a priori, ma è il risultato di una sintesi a posteriori. Se nell’auge del suo momento politico Silvio Berlusconi regolava le proprie mosse sulla base dei sondaggi, ora i due Matteo possono verificare l’impatto delle proprie dichiarazioni con i dati forniti dai social network. Proprio come detto in precedenza riguardo agli efferati
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assassinî dello Stato islamico, i messaggi delle varie leadership, oltre che semplici, devono essere abbastanza ‘chiassosi’ da emergere dal rumore di fondo della sovrainformazione. Ci si esprime allora contro i barconi dei migranti, i campi rom, i matrimoni gay, l’aborto, le tasse, la corruzione, i privilegi della politica. Diventa più facile, come in Ossi di seppia di Eugenio Montale, dire “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”, piuttosto che proporre modelli costruttivi. La difesa dell’identità culturale è strumentale alla creazione di consenso, rappresenta un’agevole scorciatoia, una semplificazione. Non c’è nulla di nuovo. Rivolgendosi alle masse, in maniera più o meno esplicita, la propaganda ha sempre fornito modelli identitari molto precisi: la razza ariana del nazismo, l’uomo “marito, padre e soldato” del fascismo, il Wasp (White Anglo-Saxon Protestant) egemone nella cultura statunitense. Fra le manifestazioni più evidenti delle rivendicazioni identitarie vi sono le tensioni separatiste che percorrono l’Europa in contraddizione con gli sforzi per arrivare a una reale integrazione. Dal referendum sull’indipendenza della Scozia a quello della Catalogna, dall’autonomia della Crimea al conflitto fra i due gruppi idiomatici belgi, i fiamminghi di lingua olandese e i valloni di lingua francese, l’Europa, già segnata nel recente passato dalla traumatica disgregazione dell’ex Jugoslavia, continua a dover fare i conti con ambizioni autonomiste sparse. E alle tradizionali rivendicazioni su base etnolinguistica, si sovrappone un nuovo tipo di localismo, insofferente nei confronti dell’Unione Europea e della sua moneta. La crisi economica dei Paesi del Mediterraneo, i diktat della troika e il rompicapo del debito greco hanno visto proliferare i cosiddetti ‘euroscettici’, movimenti o partiti politici ostili all’euro e insofferenti nei confronti delle direttive provenien-
2 Cfr. S. Latouche, La fine del sogno occidentale, Elèuthera, Milano 2002. 3 Ibid., p. 28.
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ti dall’Europarlamento. Sono innumerevoli: in Italia Lega Nord, Forza Nuova, Fratelli d’Italia e Movimento Cinque Stelle, nel Regno Unito Partito Conservatore e Partito per l’Indipendenza del Regno Unito (Ukip), in Germania Alleanza per la Germania, in Francia Fronte Nazionale e Movimento per la Francia, in Danimarca Movimento di Giugno e Movimento Popolare contro l’Ue, in Islanda Partito dell’Indipendenza e Partito Liberale, in Olanda Partito per la Libertà, in Belgio Interesse Fiammingo, in Grecia Alba Dorata, Partito Comunista, Coalizione della Sinistra Radicale e ancora altri. E questi citati sono solo alcuni dei movimenti che rifiutano in toto o in parte l’integrazione europea. Così anche l’Europa, come gli stranieri, rappresenta l’altro, l’invasore al quale opporsi. Il timore dell’altro e l’insofferenza nei confronti delle ingerenze dell’Europa sono le risposte locali alle pulsioni globaliste che pervadono ogni settore, dalla politica all’intrattenimento, dall’industria all’agricoltura: quella che anni or sono Serge Latouche chiamava “americanizzazione” del mondo2, l’invasione di flussi culturali unilaterali verso il resto del mondo che riversano “immagini, parole, valori morali, norme giuridiche, codici politici, criteri di professionalità3” attraverso i media. È di nuovo il soft power già incontrato in precedenza, quella persuasione morbida che gli Stati Uniti associano all’hard power militare ed economico. Se anche nella società dell’informazione e nel mondo multipolare o non-polare gli Stati Uniti continuano a influenzare alcuni miliardi di persone con i loro valori, lo si deve a una pianificazione strettamente intesa, che trova una perfetta sintesi nelle parole di David Rothkopf, un ex funzionario dell’amministrazione Clinton:
Nell’era dell’informazione, l’obiettivo principale della politica estera degli Stati Uniti deve essere la vittoria nella battaglia dei flussi dell’informazione mondiale, attraverso il dominio delle onde, proprio come una volta la Gran Bretagna regnava sui mari. [...] Rientra nell’interesse economico e politico degli Stati Uniti vigilare che, se il mondo adotta una lingua comune, questa sia l’inglese; se si orienta verso norme comuni in materia di telecomunicazioni, sicurezza e prerogative, queste norme siano americane; se diverse località sono collegate dalla televisione, dalla radio e dalla musica, i programmi siano americani; infine, se vengono elaborati valori comuni, questi siano valori nei quali gli americani si riconoscono4. PROPAGANDA POP
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Si tratta di un testo del 1997 ed è inutile aggiungere che quanto auspicava Rothkopf si è realizzato in modo da superare persino le più rosee aspettative: l’inglese è la lingua più parlata al mondo con 1.300 milioni di parlanti contro i 1.200 milioni parlanti cinese, questo grazie al fatto che per quasi un miliardo di persone è la seconda lingua. Anche le telecomunicazioni, soprattutto grazie allo sviluppo di motori di ricerca e social network, hanno un ‘cuore’ americano. Quanto all’americanizzazione di televisione, radio e musica, non la si scopre certo ora: dagli anni Cinquanta a oggi i modelli culturali a stelle & strisce sono dilagati ben oltre l’Europa occidentale. Per quanto riguarda i valori comuni, l’America continua a rappresentare un modello di democrazia e di libertà, nonostante le numerose contraddizioni di cui si è parlato abbondantemente nei precedenti capitoli. Il nostro è, quindi, un mondo glocal, in cui le rivendicazioni localistiche e le valorizzazioni dei territori e delle peculiarità etnolinguistiche si scontrano con l’espansionismo culturale dei Paesi egemoni 4 Da «Foreign Policy», n. 107, estate 1997, D. Rothkopf, In Praise of Cultural Imperialism.
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e con i progetti di grandi confederazioni. Accanto al progetto per certi versi utopico dell’Unione Europea (messo a nudo dalla crisi greca e dal ‘ponziopilatismo’ nei confronti dell’Italia davanti ai flussi migratori provenienti dal Nord Africa), Vladimir Putin sta tessendo l’Unione economica eurasiatica alla quale hanno aderito, fino a ora, Russia, Bielorussia, Kazakhistan, Armenia e Kirghizistan. Di fatto, a un quarto di secolo dallo smembramento dell’Unione Sovietica, il leader del Cremlino vuole ricostruirne un parziale simulacro, da opporre alla vicina Unione Europea e agli altri ‘pesi massimi’ del nuovo scenario multipolare. Nel mondo arabo il concetto d’identità è rappresentato dalla lingua e dalla religione islamica, non dai confini che sono stati tracciati dagli europei. La contraddizione più evidente nella propaganda del Daesh è proprio quella commistione fra un contenuto fortemente identitario e una forma mutuata dal mainstream occidentale. Come abbiamo spiegato in precedenza, sia i media utilizzati per diffondere i video e i messaggi propagandistici, sia le scelte formali con le quali questi vengono confezionati si rifanno alla televisione occidentale, all’editing degli action movie e dei documentari d’autore e all’estetica dei videogame. La cultura statunitense si propaga viralmente, ma il mondo crea i propri anticorpi e la combatte con gli strumenti che lei stessa gli fornisce. Ci sono anche i numeri a suffragare lo strapotere americano nel mondo: all’inizio di questo decennio il 50% delle esportazioni mondiali di contenuti proveniva dagli Stati Uniti, il 60% dal Nord America (comprendendo cioè Usa, Canada e Messico), l’Unione Europea seguiva con un terzo delle esportazioni e il resto (poco meno del 10%) se lo spartivano tutti gli altri paesi, soprattutto Cina, Hong Kong, Corea del Sud, Russia e Australia. Spiega Frédéric Martel:
La situazione attuale è caratterizzata, nello stesso tempo, da omogeneità ed eterogeneità. Stiamo assistendo a uno sviluppo di un intrattenimento mainstream globale ampiamente americano e alla costituzione di blocchi su scala regionale. Inoltre, le culture nazionali si rafforzano ovunque, anche se l’“altro” referente, l’“altra” cultura, corrispondono sempre di più agli Stati Uniti. Infine, tutto si accelera ed è interconnesso: l’intrattenimento americano è spesso prodotto da multinazionali europee, giapponesi ed indiane, mentre le culture locali sono sempre più spesso coprodotte da Hollywood. I paesi emergenti vogliono affermarsi all’interno di questi scambi e fare concorrenza all’impero5. PROPAGANDA POP
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La globalizzazione e le nuove abitudini dei consumatori di contenuti favorite dal web scompaginano i vecchi equilibri, tracciando nuovi scenari. Gli Stati Uniti, dismessi i panni di unica superpotenza, vestono quelli di potenza chiamata a condividere la supremazia. Il successo di un secolo di instancabile e costoso export, però, resta. L’immaginario globale è stato colonizzato e continua a esserlo, tanto che, in molti casi, ciò che accade in America viene percepito in termini universali. Pensiamo ai 26 milioni di persone che nel giugno 2015 hanno voluto utilizzare il tool Celebrate Pride ponendo un filtro arcobaleno sulla foto del proprio profilo Facebook. Nel giorno in cui la Corte Suprema statunitense ha garantito come diritto costituzionale il matrimonio fra persone dello stesso sesso, non sono stati soltanto gli americani a celebrare l’avvenimento, ma gli utenti dell’intero pianeta. Nei Paesi Bassi i matrimoni gay sono diventati legali nel 2001 e all’esempio olandese hanno fatto seguito Belgio, Canada, Spagna, Sudafrica, Norvegia, Svezia, Islanda, Portogallo, Argentina, Danimarca, Francia, Brasile, Nuova Zelanda, 5 Cfr. F. Martel, Mainstream, Feltrinelli, Milano 2011, p. 400.
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Uruguay, Inghilterra, Galles, Scozia, Lussemburgo, Finlandia, Slovenia, Irlanda. Anche se ventitré Paesi avevano preceduto gli Stati Uniti, la conquista statunitense – condita dall’hashtag #LoveWins del presidente – è diventata nel giro di poche ore una conquista globale. Poco importa che l’ ‘esportazione della democrazia’ nel mondo arabo sia stata un fallimento, che gli ultimi tre lustri di politica estera siano stati contraddistinti da macroscopici errori di valutazione, che la crisi globale sia stata scatenata da un’impunita Wall Street e che tutte le promesse fatte da Obama su ambiente e sviluppo sostenibile siano state puntualmente disattese: l’arsenale mediatico che condivide le posizioni di Washington è in grado di correggere tutti questi errori con la sovraesposizione delle conquiste sociali che portano la firma dell’attuale presidente. Se la cultura americana è diventata egemone quando sulla scena c’erano ‘solamente’ Hollywood, la grande editoria e i colossi del broadcasting televisivo, come si può pensare che questa egemonia regredisca, si blocchi o rallenti proprio ora che i principali social network e motori di ricerca hanno libero accesso alle nostre idee, ai nostri desideri e alle nostre conversazioni più intime?