Davide Ludovisi
Il potere dei dati IL DATA JOURNALISM E LE NUOVE FORME DEL COMUNICARE
Libertà è la libertà di dire che due più due fa quattro. Garantito ciò, tutto il resto ne consegue naturalmente. George Orwell, 1984
PREFAZIONE di Guido Romeo*
* Presidente di Diritto di Sapere, ha lanciato la sezione di data journalism di Wired Italia che ha coordinato fino al 2015. Nel 2013 l’inchiesta da lui coordinata #doveticuri, sulla mortalità negli ospedali italiani è stata finalista al Data Journalism Award. È stato insignito del premio Voltolino (2009) per la divulgazione scientifica, dell’Amundsen prize (2008) per il giornalismo sul cambiamento climatico, del Premio Piero Piazzano (2007) per il giornalismo scientifico e del Premio Astra Zeneca (2004) per la comunicazione scientifica. Oggi scrive per Il Sole24Ore e si dedica allo sviluppo di piattaforme di tecnologie civiche.
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Se li torturi abbastanza a lungo, i dati confessano sempre. Poter torturare la propria fonte a piacere è forse uno dei privilegi esclusivi dei data journalist rispetto ai colleghi che utilizzano tecniche più tradizionali (e magari fonti in carne e ossa). Ma non è l’unico. Concettualmente il giornalismo dei dati non è nulla di nuovo. Le sue radici metodologiche hanno origine nel lavoro che valse un premio Pulitzer a Philip Meyer nel 1968. E se glielo chiedete, lo stesso Philip, autore del bellissimo Giornalismo di precisione e padre di tutti i data journalist, vi dirà di essersi inventato ben poco, se non di aver deciso di applicare le tecniche quantitative prese in prestito dalle scienze sociali. La vera fortuna di chi oggi si sta cimentando nel data-journalism non è quindi di essere di fronte a un giornalismo di nuova generazione o diverso da tutto ciò che è venuto prima. Le regole di base sono sempre le stesse: raccontare la realtà con la migliore approssimazione possibile alla verità. Piuttosto, la benedizione del data journalist è avere un campo di lavoro i cui confini sono in evoluzione talmente continua e rapida, con strumenti, idee e approcci che si moltiplicano ogni mese, che spesso c’è una buona dose di confusione su cosa sia data journalism o meno. Questo disordine è la spia di quanto il settore sia in buona salute e stia crescendo. Il vero privilegio del data journalist è perciò proprio questo: vivere in quel pezzetto del giornalismo che sta beneficiando più di ogni altro della digitalizzazione del nostro mondo. Mentre molte parti dell’editoria tradizionale sono, invece, mes-
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se in crisi dall’esplosione del digitale, per chi si nutre di dati questo processo in crescente accelerazione è una benedizione. Ma attenzione, lo stravolgimento del lavoro dei giornalisti e dei modelli industriali e commerciali che lo sostengono non è nuovo: le tecnologie in questo senso hanno sempre avuto un impatto notevole, e non solo quelle dell’informazione come il telegrafo, la radio o la televisione. La prima e più grande rivoluzione è stata forse la ferrovia che ha imposto un’ora standard a tutte le nazioni e dunque aperto le porte ai network di radiogiornali che finalmente potevano essere diffusi su grandi aree e rivolgersi a sempre più ascolatori. L’esplosione dei dati digitali di cui si nutre il data journalism è perciò la cifra della sua contemporaneità, che lo rende coevo di fenomeni come l’internet delle cose e le nuove tecniche di marketing targhettizzato. È in questa prospettiva che emerge appieno il valore del lavoro di Davide Ludovisi, il quale disegna una preziosa mappa delle fondamenta e delle applicazioni del data journalism. Uno sforzo che fa emergere anche alcune delle sfide che ci aspettano nei prossimi anni e delle difficoltà che stiamo vivendo oggi, soprattutto in Italia, dove gli investimenti da parte delle grandi testate, ma anche delle scuole di formazione, sono purtroppo ridicoli non solo in confronto agli Usa, ma anche rispetto a molte altre realtà europee. In un mondo dell’informazione nel quale bot e intelligenze artificiali hanno ormai superato l’umano per la rapidità e l’accuratezza nel diffondere le notizie più immediate come i risultati di borsa o i punteggi sportivi, una sfida del data journalism è certamente diventare un esempio metodologico per la trasparenza e la replicabilità dei suoi processi di lavoro. Un’altra sfida del data è quella di far emergere, grazie all’analisi dei dati, pattern e notizie altrimenti invisibili o troppo ampie per essere raccontate con strumenti più tradizionali. Il tratto co-
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mune di queste due ambizioni è, innegabilmente, anche riacquistare prestigio agli occhi dei lettori e recuperare il terreno perso negli ultimi anni. Ma queste sfide, che potremo dire ‘interne’ al mestiere di chi fa informazione, ne sottendono anche un’altra molto più ambiziosa e dall’esito decisamente più incerto: potrà il data journalism salvare il giornalismo creando nuovi modelli di business con margini più difendibili? Da qualche anno questa è la domanda che, inevitabilmente, emerge in qualsiasi discussione o tavola rotonda sul data journalism. La risposta è ancora da scrivere, e non è affatto detto che sia positiva. Quello che è certo, però, è che chi fa il giornalista oggi e vorrà continuare a farlo con successo nei prossimi decenni non potrà evitare di confrontarsi con il data journalism. Resistere ai dati sarebbe una tortura inutile e troppo lunga.
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“Fa piuttosto schifo. Non so bene cosa sia, ma proprio non va”: talvolta ci troviamo preda di una sensazione simile. Può capitarci, soprattutto se non siamo esperti, di fronte a un’opera d’arte, un film, una pietanza, un libro. La medesima sensazione è provocata spesso dal giornalismo, e in particolare da quello nostrano, che forse emerge più di quanto dovrebbe. È pur vero che noi italiani tendiamo a combinare l’esterofilia a un’attitudine all’autocritica (in genere autoassolutoria), tuttavia provando a confrontare l’informazione prodotta dalle grandi testate italiane (quelle online in primis) con quella delle corrispettive inglesi, americane, spagnole, tedesche, francesi, possiamo affermare che il nostro giornalismo non fa una gran figura. Cosa c’è che non va, allora? Come mai l’informazione prodotta nel nostro paese è molte volte un concentrato di approssimazione, commenti inopportuni e scarso rispetto per i lettori, nella disperata e goffa ricerca di un click a ogni costo? Non vanno tante cose, e questo libro non le potrà elencare tutte ma solo suggerirne alcune. O meglio ancora, tenterà di illustrare un approccio un po’ diverso e relativamente nuovo di intendere il giornalismo: il data journalism. Si tratta, in sostanza, di applicare il rigore dell’analisi e della gestione dei dati all’informazione, utilizzando gli strumenti dell’evoluzione tecnologica, potenziando spesso l’interattività con il lettore attraverso il multimedia.
Rileggere quest’ultima frase tutta d’un fiato fa un certo effetto. In realtà, banalizzando un po’, stiamo semplicemente usando un’etichetta, data journalism, per definire un metodo giornalistico particolarmente focalizzato sui recenti cambiamenti tecnologici – derivanti soprattutto da Internet – e che fa largo uso della statistica. Avremo modo di renderci conto, in realtà, di quanto limitanti siano questi tentativi di definizione.
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È quindi il data journalism la soluzione al cattivo giornalismo? No. Tuttavia può rivelarsi utile nel migliorarlo, tanto quanto una penna che scrive bene può essere utile a prendere appunti (se si scrivono idiozie rimarranno comunque tali, ma ci sarà pur sempre bisogno di penne nuove...). Ho voluto realizzare questo libro prima di tutto per capire, e per raccontare ciò che ho capito. Non ha la pretesa di essere esaustivo, ma di offrire un punto di vista esterno di un mondo in costante e rapida evoluzione, contestualizzandolo nell’ambito dell’informazione più in generale, presente e passata (con un pizzico di futuro). Nel fare questo ho intervistato un sacco di gente esperta, che offrirà uno spaccato molto interessante dei vari ambiti che il fenomeno del data journalism va a toccare. Nella prima parte si cercherà di fare un po’ il punto sulle conseguenze che la recente rivoluzione digitale ha portato al mondo del giornalismo, e quali sono le radici di ciò che chiamiamo data journalism. Nella seconda parte affronteremo il grande tema degli open data, cosa rappresentano per la libertà di espressione, anche con l’aiuto di diversi esempi che mostrano come sono stati utilizzati per fare informazione, non necessariamente giornalistica in senso stretto. Nella terza parte daremo un’occhiata a cosa c’è nella
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cassetta degli attrezzi di un data journalist, quali sono gli strumenti e le tecniche più utilizzate, sia per la gestione che per la visualizzazione dei dati. Nella quarta parte vedremo che succede quando il gioco si fa duro: si parlerà di WikiLeaks, di Edward Snowden, e della potenza (nonché dei rischi) delle inchieste di data journalism. Nella penultima parte, la quinta, proveremo a immaginare gli scenari di questo tipo di giornalismo a livello internazionale, anche sulla base di quanto accaduto finora nel mercato editoriale. Infine, nella sesta parte, ci occuperemo di casa nostra, di cosa sta o non sta succedendo in Italia, con diverse – e belle – sorprese.
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