La società pornografica • Nella terra di nessuno

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Nelle scene iniziali del film The great dictator di Charlie Chaplin (1940) un piccolo soldato ebreo combatte nelle fila della Tomania con il compito di far funzionare un gigantesco cannone chiamato Grande Berta. L’arma, però, si ribella ai comandi del piccolo militare, lo insegue e sembra essere una cosa viva che non dà tregua al povero soldato, e in questo modo di fronte all’enorme artiglieria, leviatano tecnologico che non risponde più alla volontà del militare, s’innesca il meccanismo comico tipico dei film di Chaplin: l’omino scappa, impacciato e indifeso, di fronte a qualcosa o qualcuno più forte e più potente di lui. Anche in Modern times (1936), nella celebre sequenza in cui l’operaio viene fagocitato dall’enorme macchina, è ancora un inquietante e mostruoso macchinario, una catena di montaggio, a prendere il sopravvento sul povero addetto alla produzione, e come quasi tutti i personaggi di Chaplin è la figura del piccolo uomo, sempre in balia del caso e della necessità, a contraddistinguere la storia e la narrazione cinematografica. La Grande Berta e l’infinita catena di montaggio altro non sono che l’evoluzione tecnologica del poliziotto, del tutore della

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legge e, per estensione, della società capitalistica, che continuamente diffida dei vagabondi e dei miserabili indigenti, riconoscendoli solo come degli elementi estranei, inutili e fastidiosi, degni solo di essere espulsi e perseguitati. Se nei primi lungometraggi lo sprovveduto protagonista dei film di Chaplin deve affrontare un nemico reale, un rappresentante della legge o dell’ordine pubblico, ora l’avversario si è trasformato in un gigantesco marchingegno, capace anche di morte, che non si riesce a controllare e che spaventa per la sua fredda ottusità. Con la comica ed efficace immagine dell’operaio annichilito dalla grande macchina e del piccolo soldato che non riesce a governare l’enorme cannone e che combatte senza sapere dove si trovi il nemico, Charlie Chaplin ci ha fornito una perfetta sintesi della grande alienazione prodotta dalla fabbrica, ma anche della condizione assurda e irrazionale che i soldati e il mondo intero vissero durante la Prima guerra mondiale. In questa direzione l’elemento che collega e unisce inscindibilmente la fabbrica con l’orrore della Grande Guerra è proprio la tecnologia, intesa non più come sinonimo di progresso e di sviluppo, ma come vero e proprio mostro spaventoso, dotato dell’incredibile potere distruttivo delle artiglierie e portatore della morte silenziosa delle armi chimiche. Quella luce, elettrica e accecante, che alla fine del diciannovesimo secolo aveva illuminato le più grandi città europee e battezzato Parigi come Ville lumière si era trasformata nei bagliori infuocati che portavano la morte nei campi di battaglia della Prima guerra mondiale, mentre il mito prometeico della forza e della potenza del progresso affondava insieme al Titanic, nella sua discesa dentro le fredde acque dell’oceano Atlantico.


[...] uno spazio vuoto in cui il nemico è invisibile poiché scompare dietro posizioni disposte lungo vari chilometri; lo sviluppo dell’artiglieria e l’aumento della distanza di tiro conferiscono al combattimento le caratteristiche di una violenza anonima. La morte sembra essere inflitta indirettamente e in maniera generalizzata dalle moderne macchine di guerra1.

1 Cfr. A. Duménil, “I combattimenti”, in La Prima guerra mondiale, a cura di S. Audoin-Rouzeau e J. J. Becker, Einaudi, Torino 2007, p. 213.

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La Grande Guerra fu essenzialmente una guerra di trincea, poiché a seguito delle grandi fatiche occorse durante la battaglia della Marna, nel settembre 1914, i soldati si rifugiarono inizialmente all’interno dei crateri prodotti dall’artiglieria pesante al fine di proteggersi dal fuoco nemico, e soprattutto dall’impatto devastante delle mitragliatrici, poi una volta che le buche furono collegate tra loro nacquero le prime linee di trincea. La guerra e i combattimenti furono determinati in modo radicale dalle nuove armi, immensamente più distruttive e letali rispetto a qualsiasi altro materiale bellico del passato. Fino a quel momento l’umanità aveva conosciuto conflitti altrettanto violenti e devastanti, pur tuttavia confinati all’interno di uno spazio delimitato e circoscritto, quello del campo di battaglia che aveva impedito, ad esempio, che venissero coinvolti e uccisi i civili, ma permettendo allo stesso tempo che il nemico fosse ben visibile dall’altra parte dello schieramento. Allo scoppio della Prima guerra mondiale le condizioni del conflitto moderno trasformarono il campo di battaglia in


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I soldati si nascosero nelle trincee e diventarono invisibili, di fatto scomparvero agli occhi del nemico ma, al medesimo tempo, si dissolsero anche ai loro stessi occhi, poiché venne sottratta loro l’immagine ideale del sé; i militi non si videro più come combattenti né tanto meno guerrieri, ma si trasformarono in animali spaventati, subito pronti a cercare riparo sotto terra. Considerando tutta l’enfasi con cui fu accompagnato l’ingresso dell’Italia in guerra, definita come la “sola igiene del mondo2”, oppure l’ampollosa retorica dei vari patriottismi, potremmo veramente avere chiaro quanto fu traumatizzante e angosciante, per i sentimenti dei soldati, il divario tra i sogni di gloria e, dall’altra parte, il conflitto reale che si presentò davanti a loro. La guerra si mostrò immediatamente come uno scontro in cui regnavano la paura e l’orrore per una morte che poteva cogliere in qualsiasi momento, senza preavviso e senza ragione, una guerra in cui il nemico era celato e da cui occorreva nascondersi, che colpiva con armi mostruose, grazie a ordigni dall’enorme potenziale distruttivo, con raffiche di mitragliatrici da cui era impossibile trovare scampo o con i veleni delle armi chimiche. La tecnica, che lo spirito liberalborghese della seconda metà dell’Ottocento aveva desiderato ubbidiente e mite, nonché portatrice di progresso e democrazia, aveva invece mostrato il suo vero volto, ovvero quello di una forza incontrollabile che annienta e distrugge.

2 Cfr. F. T. Marinetti, Il manifesto del Futurismo, ne «Il Giornale dell’Emilia», Bologna, 5 febbraio 1909.


Se si considera quella guerra un processo tecnico, e quindi condotto con grande profondità, si osserverà che questo intervento della tecnica infrange assai più che non la resistenza di questa o quella nazione. I proiettili che le parti avverse si scambiarono su tanti e così diversi fronti si sommano fino a costituire un unico e decisivo fronte. [...] Si spiega così, innanzi tutto, come in ciascuno dei paesi partecipanti al conflitto esistano sia vinti che vincitori. Da qualunque parte ci si volga, il numero di coloro che sono stati infranti da questa

3 Cfr. E. Junger, L’operaio, Guanda, Parma 1991, p. 141. 4 Leggiamo alla voce ‘Guerra’ del Dizionario di antropologia e etnologia a cura di Pierre Bonte e Michel Izard (Presses Universitaires de France, Paris 1991 – ed. it. Einaudi, Torino 2006, p. 417): “Sono gli uomini che fanno la guerra. L’attività guerriera è maschile com’è maschile la caccia e, nelle società pastorali, la custodia del bestiame. In tutte le società, un’ampia parte della popolazio-

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La tecnica modificò il lavoro, trasformando il lavoratore in operaio, mentre fu con la Prima guerra mondiale che il combattimento divenne una questione prevalentemente tecnologica e i soldati persero definitivamente i due aspetti che da sempre contribuiscono alla costruzione dell’immagine del Sé: la dignità e l’onore. La tecnica trasformò i soldati in topi e il campo di battaglia in un non luogo, nel quale non fu più possibile misurare la vittoria o la sconfitta, ma dove solo poter vedere la tragica immagine di un numero impressionante di morti, equamente distribuito, che rese impossibile collocare la linea di demarcazione che tradizionalmente separa i vinti dai vincitori. Quello sguardo attonito dei combattenti si focalizzò sempre di più tra gli opposti fronti e le diverse trincee, generando uno spazio intermedio che, da luogo dello scontro e della morte (ma anche della gloria e dell’affermazione virile4), si trasformò in uno spazio neutro,

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decisiva aggressione contro l’esistenza individuale è smisurato3.


ignoto e dalla perversa identità, un luogo storicamente noto come la Terra di nessuno. La guerra di trincea e di posizione tolse ai soldati un’estensione fisica, un’area in cui, fino a quel momento e per tutta la storia dell’umanità, i combattenti si erano riconosciuti e identificati: il campo di battaglia. A tal proposito è opportuno citare Massa e potere di Elias Canetti: La parola tedesca ‘Walstatt’, campo di battaglia, contiene l’antica LA SOCIETÀ PRONOGRAFICA

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radice ‘wal’ che significa “i rimasti sul campo di battaglia”. L’antico scandinavo ‘valr’ significa “le salme sul campo di battaglia”; ‘valhall’ altro non è che “la sede dei guerrieri caduti”. Mediante apofonesi dall’antico-alto-tedesco (althochdeutsch) ‘wal’ è derivata la parola ‘wuol’ che significa ‘sconfitta’. Ma in anglosassone la parola corrispondente, ‘wol’ significa ‘peste’, ‘contagio’. Si tratti di rimasti sul campo, di sconfitta, di peste o di contagio, è comune a tutte queste

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parole l’immagine di un gruppo di morti5.

L’apparizione dei corpi dei nemici uccisi diviene tutt’uno con l’immagine della vittoria, perché “la massa pericolosa di avversari vivi dovrebbe trasformarsi in un gruppo di morti6” e tutto deve essere risolto, infine, all’interno del campo di battaglia. Nello spazio delimitato e circoscritto entro cui poter vedere i morti, perché la vittoria per essere tale doveva essere sempre veduta nel luogo dello scontro. La guerra mondiale negò quello sguardo finale di trionfo o di sconfitta, quella visione che solo il campo di battaglia poteva restituire ne maschile è in qualsiasi momento utilizzabile per assicurare la difesa del gruppo”. 5 Cfr. E. Canetti, Massa e potere, Adelphi, Milano 1981, p. 81. 6 Ivi.


ai soldati. I luoghi dello scontro vennero cancellati e sostituiti dalla Terra di nessuno che si presentò davanti ai loro occhi come uno spazio dai confini indefiniti e che separava i luoghi noti e familiari rispetto a un al di là, oltre il reticolato, in cui regnavano solamente l’oscuro e lo sconcerto. Un numero incredibile di coloro che scrissero della propria esperienza di guerra designa la Terra di nessuno come l’immagine più incombente e ossessionante. Il termine Terra di nessuno riesce a catturare l’essenza dell’esperienza di essere stati inviati oltre i limiti della vita sociale, posti fra il noto e l’ignoto, fra il familiare e il per-

Fu proprio l’inedita condizione del soldato, a cui il nuovo modo di combattere aveva tolto ruolo e dignità, a generare le fantasie e le leggende legate a questa fantasmatica ‘terra di mezzo’. In questo contesto i miti e le fantasie di guerra, come l’esercito dei disertori che vagava senza meta nutrendosi di cadaveri o i fiumi di sangue che si erano formati tra le opposte trincee8, storie per tutta evidenza ingenuamente e palesemente false, documentano e confermano la necessità di una narrazione, sotto molti aspetti consolatoria e liberatoria, che potesse andare a colmare quell’enorme vuoto di spazio

7 Cfr. E. J. Leed, Terra di nessuno. Esperienza bellica e identità personale nella Prima guerra mondiale, Il Mulino, Bologna 1985, p. 26. 8 Cfr. al proposito J. Winter, Il lutto e la memoria. La Grande Guerra nella storia culturale europea, Il Mulino, Bologna 1998.

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guatamente definito proprio come marginalizzazione7.

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turbante. L’esperienza di guerra fu un’esperienza di margine, e il mutamento di identità vissuto dal combattente potrebbe essere ade-


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e, quindi, di senso, che si stendeva sotto forma di Terra di nessuno davanti ai soldati. È lo sguardo sul campo di battaglia che determina, delimita e contribuisce a creare la nuova immagine del sé di uomini che, indossata la divisa, si trasformano in soldati. Ma quando la vista viene negata o si riduce alla contemplazione di quella Terra di nessuno, un luogo che afferma e circoscrive il senso di una vita o di una morte, è proprio in quel preciso spazio che si viene a costruire una nuova, inedita, identità personale. Per questa ragione i miti e le fantasie sorti durante la Prima guerra mondiale non si realizzarono tanto nei tentativi di fuga dalla realtà o di evasione in un mondo dove poteva regnare necessariamente solo l’immaginazione9, quanto piuttosto nella necessità da parte dei soldati di ricostruire un significato e un ordine simbolico sostenibile di fronte a una guerra completamente diversa rispetto a qualsiasi altra forma di combattimento mai sperimentata. Lo sguardo di quei soldati, a cui la guerra aveva negato l’identità di combattenti, di quegli uomini a cui la Terra di nessuno aveva generato l’illusione di affidare un senso e un significato alle proprie azioni, quell’atto di vedere fallace finì con il cancellare la facoltà più umana: raccontare quello che stava accadendo loro e, così facendo, poter rielaborare la loro vicenda. Infatti tra gli innumerevoli postumi di guerra dei

9 Scrive René Amaud nel suo Diario (in P. Englund, La bellezza e l’orrore, Einaudi, Torino, 2005): “Quando mi fermavo sulla banchina, scrutando verso la terra di nessuno, mi capitava di credere che i pali della nostra sparuta barriera di filo spinato fossero dei profili dei membri di una pattuglia tedesca, inginocchiati e pronti a lanciarsi in avanti. Fissavo quei pali, li vedevo muoversi, sentivo il fruscio dei cappotti sul terreno e il tintinnio del fodero delle baionette... e allora mi giravo verso il soldato di guardia, e la sua serenità mi confortava. Finché non vedeva niente lui voleva dire che là non c’era niente, nient’altro che le mie inquiete allucinazioni.


combattenti tornati a casa ricorse frequentemente l’afasia, nonché l’impossibilità di trovare le parole per raccontare l’esperienza vissuta durante la guerra. Con la guerra mondiale cominciò a manifestarsi un processo che da allora non si è più arrestato. Non si era visto, alla fine della guerra, che la gente tornava dal fronte ammutolita, non più ricca, ma più povera di esperienza comunicabile? [...] Una generazione che era ancora andata a scuola col tram a cavalli, si trovava, sotto il cielo aperto, un paesaggio in cui nulla era rimasto immutato fuorché le nuvole, e sotto di esse, in un campo magnetico di correnti ed esplosioni mici-

10 Cfr. W. Benjamin, Angelus novus. Saggi e frammenti. Einaudi, Torino 1962, p. 248.

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La Prima guerra mondiale disegnò, su più fronti di combattimento, uno spazio vuoto che i soldati dovettero definire e rielaborare come spazio mentale, mentre fu la perdita di distinzione tra uomini e cose, nell’indefinibile orizzonte della Terra di nessuno, a produrre stati di dissociazione e crisi di identità. Quel vuoto non più definibile come campo di battaglia era divenuto ormai uno spazio assolutamente ignoto, amplificato dall’esplodere delle detonazioni e dimora di interminabili silenzi. Nacque così una condizione umana inedita, del tutto dominata dal senso di impotenza e segnata profondamente dall’impossibilità di controllo sui fatti che accadevano: quella modernità che si era rivelata come un’epifania di bellezza e di progresso nel lusso della Belle Époque, mostrava il volto di orrore indelebilmente disegnato sul corpo dei caduti e

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diali, il minuto e fragile corpo dell’uomo10.


dei mutilati dagli ordigni bellici. Quel perimetro di terreno, luogo mentale prima ancora di essere spazio fisico, insegnò all’uomo del Novecento che bellezza e orrore potevano convivere, addirittura coincidere, e trasformarono i soldati in persone che potevano solamente contemplare uno spazio vuoto. L’azione cambiò in muta contemplazione, i soldati divennero semplici spettatori. L’agire, secondo Hannah Arendt, definisce LA SOCIETÀ PRONOGRAFICA

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[...] le modalità in cui gli esseri umani appaiono gli uni agli altri non come oggetti fisici, ma in quanto uomini. [...] una vita senza discorso e senza azione [...] è letteralmente morta per il mondo; ha cessato di essere una vita umana perché non è più vissuta fra gli uomini. [...] L’azione come cominciamento corrisponde al fatto della nascita, se questa è la realizzazione della condizione umana della natalità,

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allora il discorso corrisponde al fatto della distinzione, ed è la realizzazione della condizione umana della pluralità, cioè del vivere come distinto e unico essere tra uguali11.

L’ammutolita visione di un luogo fatto di inazione e desolazione dello sguardo si sovrappose così all’impossibilità della descrizione, del racconto e di una qualsivoglia catarsi, mentre la mancanza dell’azione e della narrazione cancellarono a loro volta l’identità personale dei soldati. Lo sguardo davanti alla Terra di nessuno si trasformò nel solo e unico strumento di conoscenza e di esperienza.

11 Cfr. H. Arendt, Vita activa, Bompiani, Milano 1964, p. 128.


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Occorre quindi spostare il punto di osservazione sull’atto del vedere i vincitori e i vinti, attraverso i corpi dei nemici morti sul campo di battaglia, assegnando allo sguardo il primato nel conferire senso e significato all’essere uomini. In questa prospettiva è possibile stabilire una significativa analogia tra lo sguardo, gelido e immobile, sui gruppi di morti e sulla desolazione della Terra di nessuno e l’immagine che si mostrò all’interno degli schermi televisivi del mondo intero il 2 agosto del 1990, quando una nuova no man’s land si materializzò in un’inquadratura fissa, immutabile e statica, sulle case e sul cielo di Baghdad. Era la visione dei bombardamenti statunitensi contro la capitale irachena, trasmessi dalle televisioni di tutto il mondo in occasione della prima guerra del Golfo. Fu quello l’inizio di una guerra che segnò i confini di un’inedita Terra di nessuno, questa volta confinata dentro le emittenti televisive: uno spazio non più fisico che si esprimeva, si rappresentava come non luogo, ripreso e delimitato dalla cornice virtuale di una videoripresa. Fu evidente, in quell’occasione, che le categorie di azione e discorso di Hanna Arendt venivano impedite, negate radicalmente dallo sguardo davanti allo schermo televisivo, anche se questa volta non furono i soldati a vivere l’impossibilità dell’agire e del raccontare la guerra, bensì fu il mondo intero che si trasformò in spettatore: milioni di uomini annichiliti dalla fissità di un unico punto di vista fermo sullo schermo e, successivamente, impediti dall’assenza di un’informazione obiettiva ed equilibrata che non poteva giungere in alcun modo dai luoghi dello scontro. Infatti, quando scoppiò il primo conflitto nel Golfo persico, gli Stati Uniti non concessero a nessun giornalista di


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seguire l’evolversi della guerra sui luoghi dello scontro: tutto ciò che si è potuto sapere e documentare è stato realizzato solamente in un secondo momento e grazie alle testimonianze raccolte al termine dei combattimenti. Paradossalmente le fotografie e le riprese che possediamo di quella guerra12 sono pochissime e quasi tutte di fonte governativa, in quanto raccolte e diffuse dall’esercito americano dopo scrupolosi e accurati controlli rivolti non tanto alla conferma di quello che stava accadendo, quanto piuttosto all’impatto che tali informazioni avrebbero procurato sul mondo intero. Per assurdo quella che è stata definita la prima guerra del mondo divenuto ‘villaggio globale’, grazie alla potenza e alla diffusione dei mass media, è in realtà il conflitto meno documentato da fotografie e filmati. Gli Stati Uniti, memori degli esiti negativi se non addirittura catastrofici della diffusione delle immagini del precedente conflitto combattuto in Vietnam13, non esitarono nel 1990 a impedire ai giornalisti e alle televisioni di tutto il pianeta di raccontare il conflitto mentre era in corso. In questo modo le uniche foto divulgate al termine dello scontro nel Golfo persico furono più o meno tutte uguali e del tutto riconducibili a tre immagini standard: prigionieri iracheni legati e seduti a terra, carri armati e truppe di soldati americani trionfanti, pozzi di petrolio in fiamme sullo sfondo del deserto iracheno. Le fotografie furono selezionate e scelte con cura affinché il mondo potesse farsi un’idea della guerra del tutto conforme a quella desi12 Tra i numerosi i libri che trattano il rapporto tra la Guerra del Golfo e i media ricordiamo qui A. Scurati, Televisioni di guerra. Il conflitto del golfo come evento mediatico e il paradosso dello spettatore totale, Ombre corte editore, Verona 2003; e V. Mathieu, Conflitto e narrazione. Omero, i mass media e il racconto della guerra, Il Mulino, Bologna 2006. 13 Cfr. E. De Angelis, Guerra e mass media, Carrocci, Roma 2007.


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derata dai vincitori. E ancora una volta lo sguardo rimase congelato su una no man’s land trasformatasi per l’occasione in una declinazione virtuale. Jean Baudrillard scrisse tre saggi durante le tre diverse fasi della guerra del Golfo (La guerre du Golfe n’aura pas lieu, gennaio 1991; La guerre du Golfe a-t-elle vraiment lieu?, febbraio 1991; La guerre du Golfe n’a pas eu lieu, marzo 1991): nel primo intervento affermò che la guerra del Golfo era destinata a rimanere virtuale; nel secondo avanzò dubbi, contro ogni evidenza, che la guerra fosse reale; nel terzo rifiutò definitivamente che la guerra avesse mai avuto luogo. La provocazione del filosofo francese consistette nell’affermare che rappresentare una guerra utilizzando gli strumenti e le categorie della simulazione o dell’iperrealtà faceva sì che l’evento si circondasse di una luce virtuale e di un alone di progresso tecnologico, finendo nel contempo col cancellarne tutti gli aspetti reali e concreti. Quando l’aviazione statunitense, insieme alle nazioni coalizzate, iniziò la guerra con il bombardamento notturno di Baghdad, per ore fu possibile vedere solamente il fuoco degli ordigni caduti dal cielo e le scie dei missili traccianti della contraerea. I combattimenti poterono essere osservati solamente grazie a un’inquadratura fissa, immobile, all’interno della quale il mondo dovette ricercare tutte le coordinate di senso di una guerra più simile a un brutto videogame giocato da qualcun altro che a una concreta azione di distruzione e morte. Rinchiusa nello schermo televisivo, in quel momento e in tempo reale, si delineò con chiarezza la Terra di nessuno virtuale e postmoderna: mentre milioni di telespettatori credettero di vedere la guerra in diretta, assistettero in realtà a una contraffazione. Le


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centinaia di informazioni e notizie che provenivano dall’Iraq erano selezionate e corredate da immagini spettacolari, che contribuirono a creare il medesimo effetto di smarrimento e stupore che si ottiene quando vi è un’eccessiva ridondanza della comunicazione, alla stregua di una bulimica sequenza di messaggi che non producono informazione, ma naufragano alla deriva di in un’unica inquadratura. La visione di quella guerra, nello schermo verdognolo che si illuminava a tratti, scandito dal ritmo metronomico delle detonazioni, fu la visione di un programma televisivo estremamente tecnologizzato, finanche rassicurante per la sua distanza virtuale, ma assai differente dal volto tragico che hanno tutte le guerre. A quel punto fu evidente come la Terra di nessuno si fosse presentata nuovamente come lo spazio in cui si rielaborano le paure e le angosce, ma questa volta con la sostanziale differenza di aver prodotto un radicale mutamento dell’identità degli individui. Durante la Prima guerra mondiale i combattenti si trasformarono in spettatori, muti osservatori di quella indefinita terra di mezzo, mentre nella moderna no man’s land ridotta a inquadratura del video fu lo spettatore stesso a sentirsi liberato dal peso del combattimento, anche se di fatto era anch’esso coinvolto in quella guerra. La guerra del Golfo fu descritta come “un’operazione di polizia internazionale” e nessuna dichiarazione di guerra fu mai prodotta o dichiarata. In quell’occasione i mass media cominciarono a utilizzare espressioni come ‘bombe intelligenti’ o ‘guerra chirurgica’ per descrivere gli scontri, con l’evidente fine di sostituire i termini bellici con parole e aggettivi meno cruenti e più edulcorati. Il risultato fu proprio


14 Cfr. E. J. Hobsbawn, Il secolo breve (1914-1991), Rizzoli, Milano 2006. 15 La prima Guerra del Golfo si concluse il 28 febbraio 1991.

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una sensazione di distanza estrema rispetto ai combattimenti e alla morte, come se quella guerra non ci riguardasse e fosse destinata solo a rimanere virtuale, assumendo di fatto i connotati di un videogame, peraltro illustrato con una grafica scadente. Eppure con tutta evidenza quella Terra di nessuno televisiva fu altrettanto reale rispetto ai campi e ai terreni che si frapposero tra le opposte trincee nel 1914, perché nel 1990 il mondo aveva già accettato il virtuale come nuovo codice di rappresentazione della realtà. Le rispettive e diverse terre di nessuno sono state entrambe esperienze di un vuoto: come annullamento dello spazio del campo di battaglia durante la Grande Guerra, e come impossibilità dello sguardo di vedere altro, e dunque di trovare un senso, quando scoppiò la prima Guerra del Golfo. Non a caso lo storico Eric J. Hobsbawn collocò il secolo breve14 proprio tra l’inizio della Prima guerra mondiale, il 28 giugno 1914, e il discorso di Francois Mitterand del 28 giugno 199115, quando l’allora presidente della Repubblica francese invocò una pace duratura da una martoriata Sarajevo. I confini del tempo intercorso tra le due Terre di nessuno (il 1914 e il 1991), come uno iato, segnarono proprio la trasformazione radicale, sotto molti aspetti irreversibile, dell’identità umana che dalle peculiarità di azione e discorso si mutò in una sorta di passività dello sguardo provocata da una persistente lontananza con lo svolgersi reale dei fatti. Se quei settantasette anni di Novecento furono caratterizzati


esclusivamente da combattimenti e conflitti, poiché si combatté davvero sotto ogni forma e aspetto, dalle trincee di fango alla bomba atomica, dalla Guerra Fredda alla propaganda ideologica dei mass media, solo alla fine di quel secolo breve ci si rese davvero conto come non fosse più possibile ricostruire la realtà attraverso l’esperienza diretta, giacché ogni modello di informazione e di comunicazione aveva assunto il definitivo volto della manipolazione del pensiero e della propaganda. LA SOCIETÀ PRONOGRAFICA

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