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A bordo, tecnologia d’avanguardia e cura artigianale per ogni dettaglio. All’interno, design sofisticato e opere d’arte contemporanea. In navigazione, eleganza raffinata e mai gridata. Così Sanlorenzo è riuscito a diventare il secondo costruttore al mondo di grandi yacht. E ora...
IL LUSSO VA A GONFIE VELE Massimo Perotti
LA NUOVA ERA DELL’EXPERIENCE ECONOMY Grandi eventi, emozioni, coinvolgimento, intrattenimento, arte. Lo show per attrarre e affascinare il mercato è iniziato anche in Italia. E già promette bene
Il nordic style che si ispira all’Italia Oksana Tandit
EDITORIALE
Un forte spirito critico contro il pericolo del monopolio dei dati Angela Maria Scullica @AngelaScullica
I
n un mondo che sta diventando sempre più interconnesso e automatizzato come quello attuale, il concetto di democrazia, così come lo conosciamo noi, comincia a vacillare. L’ampio utilizzo delle tecniche di digital marketing per la creazione di consenso a cui si è assistito negli ultimi tempi, i continui feedback richiesti in rete per la costruzione e la presentazione di programmi elettorali, il “facilismo” imperante che permea il dialogo politico sono solo alcuni dei sintomi più evidenti di un cambiamento più profondo che sta allontanando la nostra società dalla capacità di approfondire e comprendere le cause e gli effetti di avvenimenti, azioni, dichiarazioni e fatti. Nel sistema tecnologico e digitale attuale, ottimo e performante sotto molti punti di vista, c’è pochissimo spazio per l’incertezza e l’analisi delle possibili concatenazioni tra fatti anche lontani, tipico dell’arena democratica-politica. Esso infatti risponde a logiche imprenditoriali che hanno nell’intuizione, nella velocità e nell’immediatezza dei risultati il loro fulcro. I sensori, gli smartphone, i dispositivi intelligenti sempre più diffusi studiano e utilizzano i comportamenti degli individui in maniera tale da fornire risposte e proporre soluzioni al momento convincenti che però nel lungo termine potrebbero non rimuovere le cause profonde dei problemi affrontati creando situazioni anche peggiori. Prendiamo ad esempio il drammatico caso del ponte di Genova. È chiaro che in un contesto come il nostro in cui le infrastrutture rischiano di crollare, la risoluzione immediata del problema viene accettata con piacere anche senza andare a fondo delle cause che l’hanno provocato. Ma la logica tecnologica dei feedback, se da un lato produce guadagni di efficienza e aiuta a risolvere una serie di problematiche a livello più alto, non affronta dall’altro le cause che producono le cattive esperienze diventando alla lunga quasi incapace di parlare in un linguaggio che porti a una azione politica realmente efficace. E qui sorgono alcune considerazioni. La prima è che l’ingente raccolta dei nostri dati che sta avvenendo tramite i social network, motori di ricerca e provider come Google,
Amazon ecc. in modo gratuito o a prezzi molto bassi serve a costruire gran parte dei servizi di intelligenza artificiale che ci verranno proposti domani, naturalmente a un costo. La seconda, conseguente alla prima, è che la capacità di generare reddito sarà per lo più in mano ai grandi produttori di tecnologia e servizi di intelligenza artificiale e ai grandi investitori (fondi sovrani ecc.). La terza è che più saremo connessi, più minoranze elitarie esamineranno i nostri comportamenti ed entreranno nelle nostre abitudini di vita. Saranno quindi in grado sviluppare tecniche di convincimento sempre più avanzate. Il rischio infatti, e qui la quarta considerazione, è che i problemi emergenti potrebbero venire risolti non politicamente ma in maniera poliziesca, un po’ come funziona a Dubai. Quindi, se questo è il futuro verso il quale ci stiamo inconsapevolmente dirigendo, tecnologia senza politica e azione poliziesca senza petrolio, è bene affrontarlo in tempo comprendendone a fondo i rischi e la limitazione della libertà individuale che esso comporterebbe. Di fronte a questo pericolo occorre sviluppare e promuovere con forza una adeguata preparazione critica di massa di cui oggi siamo molto carenti. In altre parole per la difesa dei nostri valori democratici diventa urgente impostare programmi di istruzione, formazione, cultura che promuovano una conoscenza diffusa e lo sviluppo di un forte spirito critico. Per questo è necessario alimentare dibattiti costruttivi che portino ad un maggiore impegno collettivo e individuale nella comprensione delle strategie di depoliticizzazione, delle convenienze geopolitiche, di quanto accade nel mondo delle tecnologie e di chi finanzia il business. Ci sono troppi interessi in gioco e se non capiamo questo meccanismo e continuiamo a parlare di internet come una sorta di area magica popolata da nativi digitali restando ancorati al day by day e lasciandoci sedurre dalle azioni di marketing digitale, si rischia di fare la fine dei polli al macello. Il mondo di oggi richiede infatti più che mai da parte di tutti un grande sforzo intellettuale per non lasciarsi travolgere dall’ignoranza che rende schiavi.
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N°26 | Set - Ott 2018 |
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Il nordic style che si ispira all’Italia Oksana Tandit
DIRETTORE RESPONSABILE Angela Maria Scullica angela.scullica@lefonti.it REDAZIONE Federica Chiezzi (federica.chiezzi@lefonti.it), REDAZIONE GRAFICA Valentina Russotti SEGRETERIA DI REDAZIONE segreteria@lefonti.it
SCENARI
FINANCE
COLLABORATORI Giulia Andreoli, Vanessa D’Agostino, Piera Anna Franini, Laura Lamarra, Mario Lombardo, Alberto Mazza, Nino Sunseri, Paolo Tomasini, Donatella Zucca
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E intanto la Cina si compra l’Africa
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Europa a un bivio
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Il successo commerciale dell’Europa
RESPONSABILE COMUNICAZIONE E RELAZIONI ESTERNE Claudia Chiari COORDINAMENTO INTERNAZIONALE ( New York, Dubai, Hong Kong, Londra, Singapore...) Alessia Liparoti alessia.liparoti@lefonti.it PROGETTI SPECIALI Alessia Rosa alessia.rosa@lefonti.it INNOVAZIONE E DIGITAL MARKETING Simona Vantaggiato simona.vantaggiato@lefonti.it REDAZIONE E STUDI TELEVISIVI Via Dante 4, 20121 Milano - tel. 02 8738.6306 Per comunicati stampa inviare a: press@lefonti.it
STAMPA Arti Grafiche Fiorin - AGFiorin
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Il lusso va a gonfie vele
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La nuova era dell’experience economy
DISTRIBUZIONE PER L’ITALIA MePe - Distribuzione Editoriale Via Ettore Bugatti, 15 - 20142 Milano
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Il prodotto al centro di un ecosistema
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Nordic style
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Eleganza senza età
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L’arredo bagno segna nuovi record
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Rivoluzione copernicana in ufficio
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Privacy, Pmi di fronte alle nuove regole
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Mondo Nuovo Trend
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MILANO | 7 Giugno 2018
comitato scientifico le fonti (in ordine alfabetico)
MONDO NUOVO
Le politiche di Trump faranno rimpiazzare il dollaro Jeffrey D. Sachs Professore di Sviluppo sostenibile e di Politica e gestione sanitaria alla Columbia University, è direttore del Columbia’s Center per lo Sviluppo sostenibile e del network per le Soluzioni di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite
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el 1965 Valéry Giscard d’Estaing, allora ministro delle Finanze francese, definì i vantaggi di cui beneficiavano gli Stati Uniti per il ruolo del dollaro quale principale valuta di riserva del mondo un «privilegio esorbitante». I vantaggi stanno diminuendo con l’ascesa dell’euro e del renminbi cinese come valute di riserva competitive. Il dollaro guida tutte le altre valute nel garantire le funzionalità delle moneta per le transazioni internazionali. Non è l’unità di conto per il commercio internazionale. È il principale mezzo di scambio per gestire le transazioni internazionali. È il principale bene rifugio per le banche centrali del mondo. La Federal Reserve agisce da prestatore mondiale di ultima istanza. E il dollaro è la principale valuta di finanziamento, essendo la maggiore denominazione per l’indebitamento oltreoceano da parte di aziende e governi. In ciascuna di queste aree il dollaro è ben oltre il peso dell’America nell’economia mondiale. Gli Usa attualmente producono all’incirca il 22% dell’output mondiale misurato a prezzi di mercato, e attorno al 15% a parità di potere d’acquisto. Eppure il dollaro rappresenta più o meno la metà delle fatturazioni transfrontaliere, delle riserve, dei regolamenti, della liquidità e dei finanziamenti. L’euro è il principale concorrente del dollaro, con il renminbi in netto distacco al terzo posto. Gli Usa guadagnano tre importanti benefici economici dal principale ruolo valutario. Il primo è la capacità di contrarre debiti all’estero in dollari. Quando un governo si indebita in una valuta estera può andare in bancarotta; cosa che non succede quando si indebita nella propria valuta. Un secondo vantaggio risiede nell’attività delle banche: gli Usa, e più precisamente Wall Street, raccolgono reddito dalla vendita di servizi bancari al resto del mondo. Un terzo vantaggio riguarda il controllo della regolamentazione: gli Usa o gestiscono direttamente o co-gestiscono i sistemi di regolamenti più importanti del mondo. Eppure, questi vantaggi dipendono dalla fornitura da parte degli Usa di servizi monetari di alta qualità al mondo. Il dollaro è ampiamente utilizzato perché è stata l’unità di conto, il mezzo di scambio e il bene rifugio più conveniente, a basso costo e più sicuro. Ma non è insostituibile. La gestione monetaria dell’America ha vacillato gravemente negli anni, e il malgoverno di Trump potrebbe accelerare la fine della predominanza del dollaro. La malgestione fiscale e monetaria dell’America ha già portato al crollo del sistema di cambio ancorato al dollaro, quello di Bretton Woods, nell’agosto del 1971, quando l’amministrazione Nixon sospese la convertibilità del dollaro in oro. Ne seguì da un decennio di elevata inflazione negli Usa e in Europa, e poi una
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brusca e dispendiosa disinflazione negli Usa all’inizio degli anni Ottanta. La turbolenza del dollaro è stato un fattore determinante nel motivare l’Europa a imbarcarsi sulla strada verso l’unificazione monetaria nel 1993, culminata nel lancio dell’euro nel 1999. In modo analogo, l’inadeguata gestione da parte dell’America della crisi finanziaria asiatica nel 1997 ha contribuito a convincere la Cina ad avviare l’internazionalizzazione del renminbi. La crisi finanziaria del 2008, iniziata a Wall Street e rapidamente trasmessa al mondo a fronte del prosciugamento della liquidità interbancaria, di nuovo allontanò il mondo dal dollaro per spingerlo verso valute competitive. Ora le assurde guerre commerciali e le politiche sanzionatorie di Trump quasi certamente rafforzeranno il trend. La Guerra commerciale è un tentativo del tutto incoerente e disarticolato di bloccare l’ascesa economica della Cina tentando di soffocare le esportazioni del paese e l’accesso alla tecnologia occidentale. Se però è vero che da un lato i dazi e le barriere commerciali non tariffarie possono contenere la crescita della Cina nel breve termine, dall’altro non riusciranno a modificare in modo decisivo la sua traiettoria al rialzo a lungo termine. E non faranno che rafforzare la determinazione della Cina a fuggire dalla continua dipendenza parziale dalle finanze e dal commercio americano. Il ritiro di Trump dall’accordo nucleare sull’Iran e la reimposizione di sanzioni potrebbero rivelarsi consequenziali nel compromettere il ruolo internazionale del dollaro. Il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha votato all’unanimità per sostenere l’accordo nucleare e rilanciare le relazioni economiche con l’Iran. Altri paesi, guidati dalla Cina e dall’Ue, cercheranno ora attivamente altre strade per eludere le sanzioni americane, soprattutto aggirando il sistema di pagamenti con dollari. Ad esempio, il ministro degli Esteri tedesco, Heiko Maas, ha recentemente dichiarato l’interesse della Germania nel creare un sistema di pagamenti europeo indipendente dagli Stati Uniti. Sinora, gli imprenditori americani si sono schierati dalla parte di Trump, che li ha inondati di sgravi fiscali per le aziende e deregolamentazione. Malgrado i deficit di budget alle stelle, il dollaro resta forte nel breve termine, mentre gli sgravi fiscali hanno alimentato i consumi americani e spinto al rialzo i tassi di interesse, che a loro volta importano capitale dall’estero. Eppure, nel giro di pochi anni le dissolute politiche fiscali di Trump e le inesorabili politiche commerciali e sanzionatorie mineranno l’economia dell’America e il ruolo del dollaro nella finanza globale. Quanto tempo passerà prima che le imprese e i governi del mondo si rivolgano a Shanghai invece che a Wall Street per proporre i bond in renminbi?
SCENARI MONDO
E INTANTO LA CINA SI COMPRA L’AFRICA Mentre negli Usa il presidente Trump rischia sempre più seriamente l’impeachment, l’Onu denuncia il genocidio dei Rohingya in Myanmar e accusa il Nobel per la pace Aung San Suu Kyi, l’ex nunzio apostolico a Washington chiede le dimissioni del papa, e la posizione del premier britannico Theresa May si fa sempre più debole in vista della Brexit, Pechino promette agli stati africani 60 miliardi di dollari in cambio di risorse e materie prime strategiche. E avanza a passi di gigante nel continente nero Mario Lombardo
L’
estate dei saldi finisce in agosto, o almeno così si credeva. Finché nei primi giorni di settembre, a Pechino, si è aperto il Forum on ChinaAfrica Cooperation e alla Cina sono bastati una sessantina di miliardi di dollari per comperarsi un intero continente, l’Africa. A un prezzo davvero scontato, che rappresenta la somma prevista nel piano di investimenti in cooperazione e strutture che dovrebbe disegnare il nuovo volto del continente nero, mentre in cambio la Cina avrà cantieri per le industrie nazionali, basi per le truppe, costruirà nuovi porti e ferrovie, senza sottovalutare il peso dei tanti paesi africani alleati nella sfida politica con gli Stati Uniti. Questi ultimi in un recente passato hanno provato a influenzare la politica africana con l’intervento della Cia su partiti e uomini politici, a sovvertire i governi con l’impiego delle Special Forces, così come alla
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fine degli anni Sessanta avevano provato a colonizzare il continente sotto il profilo religioso con l’improvvido proselitismo dei bambini di Dio: Ma l’amministrazione Trump sembra considerare veramente l’Africa come un “non luogo” dimenticato da Dio e dagli uomini, così come il presidente americano l’ha dipinta in uno dei suoi innumerevoli tweet notturni. Tanto che sembra molto tardivo, se non inutile, il tentativo di screditare gli aiuti cinesi definendoli estremamente pericolosi per le economie nazionali. Secondo l’americana John Hopkins University, questi aiuti costituiscono in realtà un debito difficile da onorare, con la conseguenza che i paesi coinvolti saranno costretti a cedere alla Cina il controllo delle infrastrutture, come è già avvenuto in Sri Lanka e in Pakistan. In aggiunta a Gibuti, dove imprese cinesi hanno costruito il porto, il 77% del debito
estero è nelle mani della Cina che lì ha stabilito la sua prima base militare all’estero; Congo e Zambia sono indebitate per 7 miliardi ciascuno; di poco meno è il debito di Camerun ed Etiopia; e anche la Tanzania si troverà nei guai se darà il via alla costruzione dell’avveniristico porto di Bagamoyo, che affaccia sull’Oceano Indiano. Costo previsto: 10 miliardi di dollari. Tutto vero. Ma il presidente Xi Jinping ai rappresentanti di oltre 50 stati africani presenti nella Sala del Popolo di Pechino ha promesso 15 miliardi di prestiti e aiuti a interesse zero; 20 miliardi in linee di credito; 10 di un fondo per lo sviluppo; cinque per il commercio e altri 10 da imprese private. Difficile resistere a un simile fiume di dollari anche perché la Cina, al contrario dei paesi occi-
dentali, finora non si è mai interessata della politica interna dei paesi da lei “aiutati” e questo atteggiamento tranquillizza molto gli uomini di stato africani. Da Oriente tuttavia arrivano anche segnali di incertezza perché a fine agosto lo yuan cinese ha perso il 2,52% sul dollaro e anche il renminbi, la moneta di scambio, è ribassata. È vero che la Cina ha tali e tante riserve valutarie che, se volesse, potrebbe difendere la propria moneta da qualsiasi speculazione, ma è la politica dei dazi americana che determina queste contrazioni valutarie, perché le importazioni cinesi sotto tiro valgono qualcosa come 200 miliardi di dollari, la metà del totale di quanto i cinesi vendono in America e questo patrimonio è in balia dei tassi doganali varati dall’amministrazione Trump. Da cui nasce il paradosso per cui, se si indebolisce il reminbi, i prodotti cinesi verranno a costare di meno, diventando ancor più competitivi, e gli Usa dovranno inventare ancora qualcos’altro per proteggere i propri. L’estate appena finita è stata anche resa difficile da incendi, crolli, inondazioni, oltre che dagli scandali. Negli Stati Uniti solo la debolezza del partito democratico ha finora permesso a Donald Trump di evitare l’impeachement dopo che alcuni dei suoi ex collaboratori hanno ammesso di aver tacitato a suon di dollari le donne da lui frequentate, mentre The Donald ha sempre negato questi rapporti. Sul presidente americano, che ora accusa Google di volerlo screditare mettendo in rete su di lui solo notizie negative, pende poi sempre la minaccia del Russiagate, l’intreccio perverso con hacker e faccendieri russi che durante la campagna presidenziale hanno cercato di ostacolare Hillary Clinton per favorire la corsa
di Trump verso la Casa Bianca. E c’è una talpa alla corte del presidente, che ne rivela la vanità e l’incompetenza ai media: secondo le voci si tratterebbe addirittura di Mike Pence, il vicepresidente. Al di là di tutto questo l’economia americana è in crescita costante e quella che è stata chiamata Trumponomics ha effetti davvero positivi: sul Pil, che nel secondo trimestre del 2018 è in crescita del 4,2%, miglior dato degli ultimi quattro anni; sui profitti delle imprese, che salgono al 16% per effetto della riforma fiscale; sul salario dei lavoratori alla componentistica dell’auto che è stato concordato a 16 dollari l’ora. Il superdollaro voluto da Trump che sembra pensare anche a altre barriere doganali, sta però provocando una serie di effetti negativi, a catena: il peso argentino è in crisi così come il rand in Sudafrica, la lira turca perde terreno come il real brasiliano, mentre i bitcoin crollano e persino l’oro si è indebolito. Nel mirino dei media, oltre a Trump, è però finita anche la Chiesa, e non per opere di misericordia, ma per le accuse di pedofilia e violenze su minori. Non è una novità: sia Benedetto XVI sia papa Francesco hanno più volte denunciato gli orrori commessi, in tutto il mondo e da sempre. Ma ora sono stati un rapporto (Spootlight) di 1.400 pagine che dopo due anni di indagini in Pennsylvania fa i nomi di 301 preti pedofili e di almeno mille vittime accertate, e le parole di un prelato a portare agli onori delle cronache i delitti sessuali prima negati o taciuti per omertà o ancora nascosti pro bono pacis. L’ex nunzio apostolico a Washington, l’arcivescovo Carlo Maria Viganò, accusa Francesco di aver taciuto dei rapporti tra il cardinale americano Theodor Edgar McCarrick e alcuni seminaristi, e ne chiede le dimis-
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di tutto il mondo sempre più deserte: in Canada, nello stato del Quebec, più di 500 edifici prima riservati al culto sono stati secolarizzati e destinati a altro uso: la grande maggioranza di quel patrimonio immobiliare sarà trasformata in palestre.
GIUDICATE VOI Alle accuse dell’arcivescovo Carlo Maria Viganò di aver taciuto dei rapporti tra un cardinale americano e alcuni seminaristi, il papa ha risposto: «Giudicate voi»
sioni. Il papa, di ritorno dal viaggio a Dublino di metà agosto, dice alla stampa: «Giudicate voi». e si chiude nel silenzio, ma le polemiche continuano. Perché tacere per decine di anni il sadismo delle suore che gestivano le Magdalene Laundries verso le “impure” ragazze madri irlandesi? Cosa è avvenuto delle 1.259 denunce contro 489 religiosi di 26 diocesi presentate proprio in Irlanda dal 1975 in poi? Come mai si parla delle violenze americane e non di quelle australiane nascose dal cardinale Pell? Il New York Times, a proposito delle denunce di Viganò scrive di «una inaudita dichiarazione di guerra fatta in pubblico per deporre un papa», mentre l’Osservatore romano liquida il tutto come: «Un caso di opposizione interna», ma sul Vaticano si è scatenata una bufera che durerà a lungo. Tra l’altro tra poco andrà sotto processo l’arcivescovo di Lione, Philippe Barbarin, accusato di aver coperto gli abusi che avvenivano nella sua diocesi. Barbarin ha già chiesto scusa, pur negando di essere stato a conoscenza dei crimini, ma una petizione con 100mila firme ne chiede le dimissioni. Si va avanti tra il crollo delle vocazioni religiose e le chiese
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Altro e diverso è lo scandalo che in Myanmar sta travolgendo Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace, e i vertici militari che governano l’ex Birmania. Un rapporto delle Nazioni Unite ha anticipato un’inchiesta che dovrebbe portare i generali davanti a un tribunale internazionale con l’accusa di aver orchestrato un genocidio nei confronti dei Rohingya, etnia di religione musulmana e pertanto perseguitata dai buddhisti. Nello stato di Kakhine, dove vivevano i Rohingya, i militari infatti hanno incendiato villaggi, costretto alla fuga più di 600mila persone che ora vivono in stato di assoluta povertà e ucciso 6.700 Rohingya, in maggioranza donne e bambini mentre per l’Onu Aung San Suu Kyi «non ha fatto nulla per fermare il genocidio». Ed è uno scandalo anche il fatto che 574mila venezuelani (dato Onu) nel 2018 siano stati costretti a lasciare il loro paese per fuggire la dittatura di Nicolàs Maduro (che in un weekend estivo ha svalutato del 95% il bolivar, la moneta di stato), la povertà e la fame. Sono 3mila persone al giorno quelle che attraversano il confine lungo 2mila chilometri con la Colombia, dopo 30 ore di viaggio in auto o di settimane a piedi, zaino in spalla: ma a metà agosto la voce che Ivàn Duque, nuovo presidente colombiano, avrebbe chiuso la frontiera, in due giorni ha provocato un afflusso di 16mila profughi. La Colombia ora ospita circa un milione di espatriati venezuelani, molti dei quali vorrebbero raggiungere l’Equador o il Perù ma spesso ne sono impediti dalla burocrazia,
nonostante gli aiuti della Croce Rossa, dell’Unhcr e dell’Organizzazione mondiale per le migrazioni. Scandalosa è anche l’accoglienza che Benjamin Netanyahu ha riservato al presidente filippino Rodrigo Duterte, in Israele per firmare accordi commerciali, e per acquistare armi. Il quotidiano Haaretz ha criticato la visita di Dutarte al memoriale dello Yad Vashem (per la Shoah) parlandone come di «un ammiratore di Hitler» e accusando Netanyahu di essere «pronto a chiudere gli occhi sulle violazioni dei diritti dell’uomo da parte di dirigenti mondiali sull’altare dei contratti di difesa e di vendita delle armi». Netanyahu ha replicato ricordando che le Filippine sono state fondamentali nella protezione dei profughi ebrei nella Shoah e nel riconoscimento dello stato di Israele nel 1947, quando però Duterte neppure era nato. Gli incendi, fenomeno tipico dell’estate dovuto il più delle volte all’idiozia umana, hanno colpito dovunque. La California brucia da mesi senza sosta; l’Italia è stata incendiata nel Meridione e nelle isole; in Grecia il fuoco ha distrutto la cittadina
GUERRA E PACE Secondo l’Onu, il premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi «non ha fatto nulla per fermare il genocidio» dei Rohingya in Myanmar
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