Un Imprenditore Di Idee - Franco Ferrarotti, Giuliana Gemelli - Edizioni di Comunità

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che mi apparivano necessariamente legate al disegno sistematico e agli apparati teorico-concettuali tipici della tradizione europea. Ero dunque in una posizione, se non contraddittoria, certo bivalente. Del resto sono rimasto convinto nel tempo che solo un esame superficiale o guidato da intenti politici immediati avrebbe potuto giustificare la decisione di un’accettazione o di un rifiuto in blocco. I concetti sociologici sono storici o non sono nulla. E vanno quindi elaborati e costruiti a contatto con i problemi degli specifici contesti. Gemelli Del resto questo fu anche l’atteggiamento di Adriano Olivetti nei confronti delle problematiche e dei modelli organizzativi provenienti da oltreoceano: il taylorismo, la produttività e infine anche le logiche economiche del piano Marshall, che criticò senza mezzi termini. In una lettera aperta pubblicata dalla rivista «World» nel giugno del 1953, Adriano Olivetti scriveva infatti: «L’Europa per sollevarsi ha bisogno di nuove idee, non di applicare bene o male quello che è stato fatto in America [...]. Questo è l’importante. Non il tentativo di vendere all’Europa la più recente rivoluzione industriale americana. La diversità della struttura sociale e politica dell’Italia non fu tenuta in considerazione e il piano Marshall è stato attuato attraverso quelle forze - i monopoli e la burocrazia - che avevano creato o accettato il fascismo [...]. La speranza di un ordine nuovo è legata al destino di un’idea. Il mondo moderno ha bisogno di nuovi ideali [...]. La verità non si può limitare in formule parziali, specialistiche o astratte, ma deve dare luogo


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a una sintesi creativa, dove quanto è vivo e vitale della democrazia, del liberalismo e del socialismo si esprime in un linguaggio armonico e moderno». Si riconosce, o, per meglio dire, riconosce in quest’atteggiamento mentale e programmatico uno dei punti forti del suo incontro con Olivetti? Mi racconti come avvenne il vostro incontro e che cosa quell’incontro significò alla luce del suo percorso di ricerca, non solo delle domande che andava maturando nell’ambito della sociologia, ma della sua percezione di che cosa occorresse fare nella società italiana uscita dalla guerra. Ferrarotti Alla prima domanda rispondo in modo lapidario: senza alcun dubbio, in questa citazione dalla lettera di Adriano Olivetti ritrovo, in una variante più pratica e, per così dire politica, lo spirito che guidava i miei passi verso l’esplorazione della cultura del nuovo continente, apertura, curiosità, ma anche una giusta dose di spirito critico nei confronti dei pericoli di una “sociologia standardizzante”. Alla seconda risponderò in modo più discorsivo. Incontrai Olivetti nella tarda estate, gli ultimi giorni di agosto o i primi giorni di settembre del 1948, di ritorno dall’Inghilterra; lo incontrai, e avemmo subito uno scambio di idee anche vivace, ma avevo già anni prima, credo nel 1946-47, scritto una lettera al direttore di «Comunità», quando usciva come settimanale con carta rosa, ed erano due i redattori, Giuseppe Rovero, un professore credo di scuola media, filosofo, di Torino, e Giovanni Cairola, assistente, non a caso, di Abbagnano, morti entrambi precocemente. Ero soprattutto amico


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di Giovanni Cairola, che poi fu con Felice Balbo nel famoso Partito della sinistra cristiana, diretto da Franco Rodano, ma questa è un’altra storia. La mia preoccupazione era sempre quella di mantenere, in questa molteplicità di interessi, una forte coerenza, e la coerenza mi era data da ciò che consideravo fondamentale, l’importanza della ricerca sociale empirica concettualmente orientata, in una società in via di sviluppo, e allora debbo dire, quando lei mi domanda come mai l’America, che allora avevo dato un appuntamento che poi è scattato. Ero convinto che in fondo le ottiche culturali prevalenti in Italia non avrebbero potuto, nel tempo, dar conto dello sviluppo di questo paese. Le ottiche prevalenti erano tre: c’era quella propriamente filosofica, ma si trattava di una filosofia idealistica crociana e gentiliana post-hegeliana incapace di fare i conti con la realtà; se uno legge i libri di filosofia dell’epoca è colpito dal fatto che siano tutti presi dal duetto, per così dire, fra Io e non-Io, fra il soggetto che proietta e riproduce se stesso nell’oggetto e così via, non c’è mai un vero e proprio interesse, un orientamento verso la situazione sociale empirica. Quindi la filosofia andava esclusa; del resto, finita la guerra, è arrivato il marxismo: il marxismo italiano l’ho sempre criticato per essere un marxismo che non faceva ricerche, cioè un marxismo, come disse un marxista, mi pare Lucio Lombardo Radice, imbevuto di idealismo. Lo stesso Gramsci, a cui si possono riconoscere delle attenuanti perché oltretutto era in carcere, nei suoi Quaderni sviluppa un marxismo anche in senso originale, ma che è ancora tutto soggettivistico. Gramsci viene in qualche modo catturato dall’interlocutore


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crociano quando parla di marxismo in II materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce e alla fine ne rimane ostaggio. Quindi in fondo l’ottica filosofica per le situazioni socio-economiche importanti nell’Italia in fase di ricostruzione è del tutto inadeguata. C’era però una seconda grande tradizione italiana, la tradizione giuridica giurisprudenziale. Però si trattava pur sempre di un’impostazione che non era basata, come avviene nel mondo anglosassone della common law, sulla legge che si fa attraverso le decisioni del giudice, che non si limita a interpretare la norma ma la costruisce creando il precedente. Qui invece, per non risalire al diritto romano, eravamo in pieno codice napoleonico, cioè l’impostazione giuridica arrivava post-factum, teorizzava il già acquisito, non aveva una capacità predittiva e non aveva neppure una grande capacità analitica. Del resto, basta ricordare i lavori preparatori dell’Assemblea Costituente per la nuova costituzione italiana, basta ricordare i pareri di Piero Calamandrei, andati del tutto disattesi e inascoltati, per capire che in fondo la tradizione giuridica, molto importante, addirittura veneranda, era però come l’albatros di cui parla Baudelaire, «le cui ali da gigante gli impediscono di camminare». Terza tradizione è quella storica e qui giù il cappello, la tradizione storiografica italiana è illustre, ma di che storia stiamo parlando? Qui bisogna fare davvero i conti col crocismo, nel corso di trenta, quarant’anni anche dopo Croce, come è stato riconosciuto da Bobbio, che poi è un post-crociano un po’ come tutti i migliori intellettuali italiani. La lunga, fortunata battaglia condotta da Croce contro la filosofia della storia ha avuto successo. È stata una battaglia


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contro la storia come previsione dello sviluppo sociale e a favore del culto della storia già storica, penetrazione critica e sistemazione dei fatti già avvenuti, interpretazione e giustificazione, per cui non vi può mai essere un dramma, una tragedia puramente negativa, perché nella sequenza logica dello sviluppo storico evidentemente abbiamo sempre dei momenti che sembrano negativi, mentre in realtà sono necessari dialetticamente per tradursi nel momento positivo. Stiamo parlando di una storia di élite. Che cosa significa questo? Significa che si tratta di una storia politica e al più intellettuale. Nulla a che vedere, per esempio, con la storia dei francesi delle «Annales», nulla a che vedere con la storia del quotidiano, nulla a che vedere con la storia della lunga durata alla Braudel; ma solo una storia dei piccoli gruppi elitari che hanno nelle loro mani, si suppone, il destino dell’umanità. Gemelli Quindi una storia che, per così dire, «si chiama fuori dalla problematica delle scienze sociali», che non guarda alle società nel loro complesso, nell’articolarsi di fenomeni di natura diversa e che riduce la complessità del reale a una delle sue componenti, peraltro quella più accessibile e oserei dire più ovvia? Ferrarotti Comunque una storia che arriva dopo, che non vede la storia nel suo farsi, perché le sfugge completamente la quotidianità. Questo va molto bene per una società rurale, artigianale, statica, ma per una società che venga sviluppandosi è necessario, al contrario, poter disporre di uno strumento di autoascolto, di au-


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tointerpretazione, di autocoscienza della società mentre si viene facendo, non dopo, e questa per me era la sociologia. La sociologia per me, infatti, resta uno strumento, una scienza di osservazione empirica, però non empiristica, vale a dire empirica, ma concettualmente orientata, che è capace di interpretare e prevedere lo sviluppo, o comunque il movimento storico, mentre lo si sta facendo. Per queste ragioni la sociologia per me era molto importante e in termini culturali occorreva reintrodurla in Italia. Quindi hanno torto, secondo me, quei colleghi che intendono la sociologia arrivata semplicemente con la vittoria americana oppure con le relazioni umane nell’industria. In realtà il ritorno della sociologia in Italia è avvenuto in seguito a un dibattito intellettuale e culturale molto forte, ma perché? Perché gli sviluppi culturali, mentre evidentemente sono condizionati dallo sviluppo della società come dato di fatto, hanno una loro autonomia, per quanto relativa. Pensare che la sociologia italiana sia arrivata in Italia al seguito dei carri armati delle truppe alleate mi sembra una visione di una grossolanità incredibile. Gemelli Eppure qualcosa mancava in Italia, qualcosa che il confronto “mediato” e non grossolanamente imitativo, come dice giustamente lei, con la cultura d’oltreoceano riuscì a stimolare, anche in relazione al crearsi di nuclei intellettuali portatori di forme di “pensiero inquieto”, per nulla subalterno rispetto a modelli culturali venuti da fuori, né tanto meno a ideologie contrabbandate come teorie della società. Negli anni Cinquanta la società italiana era in una situazione di tensione


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trasformatrice. C’era nelle nuove generazioni una forte proiezione verso il cambiamento, che investiva anche il settore della formazione. All’inizio per esempio la proposta di Adriano Olivetti di creare una scuola di alti studi per la formazione dei dirigenti d’azienda e che, nel 1952, si concretizzò nell’IPSOA6 di Torino, ebbe successo tra i giovani laureati delle facoltà non solo di ingegneria e di economia, ma anche di giurisprudenza e seppure, in misura numericamente più contenuta, attirò anche qualche umanista. Poi però l’impatto di un modello formativo del tutto inedito in Italia, che sostituiva le lezioni ex cathedra con la discussione aperta e che oltrepassava i solchi tracciati dalle discipline accademiche risultò irrisorio, per non dire addirittura negativo, visto che i giovani diplomati dell’istituto torinese, divennero una “diaspora”, la cui influenza è stata più di tipo intellettuale che di reale trasformazione sociale. Il modello formativo dell’IPSOA non riuscì, in definitiva, a incidere sulla cultura dell’impresa in Italia, né tanto meno su un sistema che, come lei ha sottolineato molto bene nel suo saggio “Management in Italy”, pubblicato nel lontano 1959, in un volume curato da Harbison e Myers, nel quadro di una ricerca che, se non erro, fu finanziata dalla Fondazione Ford, era basato su un modello di “capitalismo patrimoniale”, al quale corrispondevano tre tipologie: «feudal or authoritarian paternalism [...] manipulative paternalism [...] and democratic or participative paternalism». In particolare lei rilevava che il principio di differenziazione di quelle tipologie non dipendeva dalle competenze e dai profili professionali dei manager, ma dalla «power position of the family in the


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managerial structure». Riferendosi alla seconda tipologia, la più diffusa, lei ha scritto: «More important than productive efficiency is the vital problem of the absolute loyalty of his professional partners. This setting is rarely successful for the professional managers. Professional managers feel that their rise to positions depends on their connection with the family [...] not on performance, efficiency, or merit [...] this results in frustration on the part of professional managers [...] thus the frustrated professional specialist becomes the counterpart of the manipulative capitalism». Questo mi sembra spieghi due cose: le ragioni del sostanziale fallimento dell’IPSOA e la limitatissima presenza in Italia della terza tipologia, alla quale Olivetti apparteneva, quella del «democratic or participative paternalism», in cui anche la struttura proprietaria subisce un processo di differenziazione tra la proprietà come «social status [...] and property as initiative, that is as a functional decision-making power, which by its very nature faces risk and fosters innovation»7. C’è qualcosa che vorrebbe aggiungere a questa analisi che mi sembra sinteticamente esaustiva? Ferrarotti No. Mi limiterei a sottolineare che in Italia mancavano gli strumenti di auto-osservazione. Poi, soprattutto, erano cadute le antiche certezze. Non dimentichiamolo, la gente facilmente oggi lo dimentica, ma nel 1945 questo paese aveva visto crollare il fascismo, alcune certezze fondamentali erano venute meno; la Chiesa era in gran parte compromessa; poi, naturalmente, ha saputo, come ha sempre storicamente saputo, in qualche modo riorientarsi rapidamente, e poi, nessun dubbio che il legame col popolo, la Resi-


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stenza, i monasteri, tutto questo abbia avuto un grosso peso. L’Italia rischiava però di procedere in maniera tutto sommato cieca. La sociologia, tornata in Italia, pur restando ancora in gran parte “separata”, non essendo stata ampiamente riconosciuta (una nuova scienza per farsi riconoscere ha bisogno di decenni e forse di secoli), tuttavia ha avuto una buona influenza su altre scienze sociali; la psicologia è divenuta anche psicologia sociale, l’etnologia anche antropologia culturale; la stessa storia, che sembrava impervia, oggi in qualche modo si è aperta al dialogo con le altre discipline. Gemelli Su questo avrei qualche riserva: la storiografia italiana in ambito contemporaneistico si è interessata soprattutto alla storia dei partiti politici e dei movimenti sindacali “tradizionali”: lo scarsissimo interesse che l’esperienza olivettiana ha suscitato tra gli storici, se si eccettuano un paio di ottime biografie, mi sembra possa essere interpretata come uno dei rivelatori di questo atteggiamento, cioè di un’apertura alle problematiche delle scienze sociali che ha agito in superficie, ma non in profondità. Magari, avremo occasione di tornare su questo argomento in seguito. Ciò che mi sembra importante rilevare, da quanto ha detto sinora, è il singolare intreccio tra la sua esperienza olivettiana e quella americana: il fatto, cioè, che il suo incontro con l’ambiente intellettuale dell’Università di Chicago, a partire dal quadro che lei ha tracciato adesso, appare niente affatto casuale, direi quasi inevitabile. Dopo un’analisi a largo raggio ritorniamo, dunque, al suo percorso biografico e, completando il quadro della sua esperienza


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americana proseguiamo nel tempo, seguendo il filo del dialogo e della collaborazione con Adriano Olivetti. Ferrarotti Lascio New York e vado a Chicago. La scelta non è casuale, perché Thorstein Veblen aveva lavorato nell’Università di Chicago e a Chicago nel 1899 aveva pubblicato il suo libro più famoso. Lì per qualche tempo era stato redattore del «Quarterly of Political Economy». Non aveva avuto fortuna, non aveva fatto carriera. I suoi rapporti con il cancelliere dell’Università di Chicago, Harper, di cui possiedo tutta la documentazione anche epistolare - che utilizzerò un giorno, se mai scriverò la biografia di Veblen - erano tutti negativi. L’uomo era anche molto difficile, insomma c’erano anche delle variabili soggettive in gioco. Ma non era solo questo. Non potevo certo fermarmi a New York, perché New York è questa... come dire, multiforme, direi quasi meteorica, compresenza di stili di vita e di culture fortemente differenziati, ma non ha il forte pulsare della produzione industriale, che in quegli anni aveva Chicago; era già allora, soprattutto, un mercato finanziario. A Chicago, oltre alla sociologia industriale, c’era l’industria. E non dimentichiamo che se io parto nel 1951 e vado in America ci vado contro la volontà di Adriano Olivetti. Lui mi permette di andare solo per tre mesi, io ci resto quasi tre anni. Ci vado anche perché Adriano era stato atterrato dal primo infarto nel 1950, dopo la nascita della figlia Laura (Lalla). Come suo aiuto personale, per dirla in inglese, come suo personal trouble shooter, non avevo niente da fare e allora decido di andare: ma io non andai in America per Olivetti,


Franco Ferrarotti, Un imprenditore di idee © 2015 Comunità Editrice, Roma/Ivrea 1a edizione: Edizioni di Comunità, Milano 2001 ISBN 978-88-98220-24-3 Edizioni di Comunità è un’iniziativa in collaborazione con la Fondazione Adriano Olivetti www.fondazioneadrianolivetti.it Direzione editoriale: Beniamino de’ Liguori Carino Redazione: Angela Ricci Progetto grafico: BeccoGiallo Lab facebook.com/edizionidicomunita twitter.com/edcomunita www.edizionidicomunita.it info@edizionidicomunita.it Condividiamo la conoscenza: i testi contenuti in questo libro sono rilasciati con licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 4.0 Internazionale <http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/4.0/deed.it> Puoi condividere e diffondere quest’opera riportandone sempre l’origine e senza fini di lucro.


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