Il mito e l’eredità di Adriano Olivetti
Adriano Olivetti morì improvvisamente la sera del 27 febbraio, venti anni fa, sul treno Milano-Losanna. La prima camera ardente fu composta nella piccola stazione di Aigle. Ai funerali, a Ivrea, partecipò tutta la città. Le terrazze dell’edificio dei servizi sociali, di fronte alla grande fabbrica di vetro, erano gremite di operai silenziosi, commossi, taluno piangente. Quelle terrazze erano state volute dall’«ingegner Adriano», come tutti lo chiamavano, perché vi si potesse assistere alle sfilate del carnevale, che a Ivrea ha una tradizione secolare: servirono, invece, per attendere il furgone funebre che arrivava con la sua salma dopo aver traversato le Alpi ancora nevose. Fu sepolto, come aveva disposto, sotto un breve tumulo di terra e una semplice croce, volto a levante. Dell’immensa folla che seguiva il feretro, tutti sapevano che, in varia misura ma per tutti, si chiudeva in quel giorno un’epoca della loro vita. Che cosa è rimasto, dopo vent’anni, di Adriano Olivetti? L’azienda ha mutato radicalmente caratteristiche, significato, mentalità, uomini; la famiglia Olivetti è stata estromessa dalla gestione e controlla una piccolissima minoranza delle azioni; la casa editrice è poco più di una crisalide; il Movimento Comunità, già fe-
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rito a morte dall’esito sfortunato della prova elettorale del 1958 (ottenne circa 170.000 voti, con i quali riuscì a mandare in Parlamento un solo deputato e nessun senatore), si dissolse rapidamente; la città di Ivrea, da lui difesa giorno per giorno, anche per qualche anno da sindaco, come modello di un’urbanistica sociale rispettosa dei valori estetici, si è rapidamente accresciuta e involgarita come tutte le altre città italiane; sull’Istituto nazionale di urbanistica, di cui egli aveva cercato di fare, con l’aiuto soprattutto di Bruno Zevi, un centro vivo di cultura politica, è sceso il silenzio; le iniziative sociali ed economiche nel Canavese, la Comunità “esemplare” (tra cui l’I-Rur, Istituto per il Rinnovamento urbano e rurale, sorto per attuare un microdecentramento industriale, all’insegna dell’ambiziosa parola d’ordine: “Una fabbrica in ogni valle”), sono state abbandonate; e persino l’Unrra-Casas, l’ente di edilizia popolare cui aveva dato tante energie, a cominciare dal Piano regolatore di Matera, è finito, dopo avere cambiato sigla, nel calderone degli enti inutili, ed è stato soppresso. Mai eredità ideale così ricca fu abbandonata in modo altrettanto totale. A ciò concorrono molte cause: i mutamenti profondi dell’assetto sociale ed economico dell’Italia (dalla emigrazione interna allo Stato imprenditore) che egli non fece in tempo a valutare; l’affermarsi selvaggio della partitocrazia, in diretto contrasto con il suo disegno politico, e l’orrenda demagogia culturale che l’ha accompagnata; e infine la sottile ma accanita impopolarità di cui anche in vita è stato oggetto questo industriale che si diceva socialista, questo ebreo-valdese
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che si diceva cristiano, questo politologo che rifiutava di rendere omaggio alla classe politica, questo ricco condannato a pagare sempre, questo utopista che si affermava da imprenditore di raro e realistico coraggio, questo italiano così europeo. In definitiva, egli è stato l’uomo più sconfitto della sua generazione. E tuttavia siamo ancora qui dopo vent’anni a parlare di lui. E radio, televisione e giornali corrono in questi giorni a interrogare i superstiti di quell’eccezionale gruppo di intellettuali che a ondate successive aveva riunito a lavorare insieme con lui e che gli meritarono il bellissimo elogio di “utopista positivo” da parte di Ferruccio Parri. Resiste un mito Olivetti, o, per gli amici, un mito Adriano. In che consiste questo mito? Qual è l’attualità, o, per usare una parola a lui familiare, la esemplarità della sua vita? Credo che la risposta debba essere duplice. Ci sono ragioni segretamente emotive (che egli non avrebbe apprezzato) e ragioni politiche oggettive. Tra le prime c’è il fascino della sua figura, che misteriosamente chi lo ha incontrato continua a trasmettere: come certi composti metallici, che conservano per secoli e millenni la loro radioattività, così la sua immagine non si scolora nel tempo: i riccioli biondi attorno alla grande testa calva da profeta, gli occhi celesti e penetranti, la sua instancabile ricerca di nuovi ingegni da valorizzare, la forza ideale così intensamente disinteressata da divenire egoistica o, come dicevano, paternalistica, la polivalenza degli interessi (organizzazione industriale, architettura, pubblicità, ingegneria delle istituzioni, cultura religiosa, servizio sociale, de-
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mocrazia di fabbrica), e anche l’estrema duttilità degli atteggiamenti (era al tempo stesso liberale e dirigista, cioè antiliberale; aveva il senso profetico delle grandi intuizioni e al tempo stesso era un incontentabile perfezionista; impastava insieme il più rigoroso razionalismo e l’attenzione magico-religiosa ai “segni” della vita) sono elementi di grande suggestione, frammenti di una personalità enigmatica e irripetibile, tali da “fare tradizione” e vincere il silenzio del tempo. Le ragioni politiche sono più difficili da spiegare, ma, pur senza entrare nel labirintico disegno dell’Ordine politico delle Comunità (questo è il titolo del suo libro teorico fondamentale), mi proverò a riassumerle. 1) Superamento del capitalismo e del socialismo. È un tema caro tanto al papa quanto all’on. Berlinguer, ed è probabilmente il tema politico di fondo dell’Occidente. Olivetti proponeva una soluzione tecnica generale che investiva alle radici la struttura delle istituzioni dello Stato, discutibile quanto si vuole, ma che si fondava su un’intuizione rispondente a una aspirazione (utopistica?) oggi diffusa: tra marxismo, cristianesimo e liberalismo è impossibile il compromesso ma è possibile il dialogo e la collaborazione dialettica, se, lasciando cadere il contenuto ideologico di lotta per il potere, marxismo, cristianesimo e liberalismo si riducono (o si innalzano) a momenti di cultura pluralista (l’aggettivo è da lui usato largamente sin dagli anni Quaranta). 2) L’industria può e deve darsi dei fini, al di là del profitto. Olivetti prevedeva in prospettiva una gestione delle grandi imprese articolata tra ente locale, istituti culturali e comunità di lavoratori; e il progetto è oggi più
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che mai improponibile anche per la stretta disciplina partitica degli enti locali, per lo sfascio delle università e l’aggressivo centralismo del sindacato, nonché per l’impetuoso individualismo dell’economia sommersa. Ma sembra difficile ipotizzare un ritorno stabile al capitalismo delle società liberiste; ed è fatale che la responsabilità sociale delle industrie debba trovare un assetto istituzionale. 3) Centralità della fabbrica. La parola “centralità” non è olivettiana, ma lo è il concetto, non estraneo alla esperienza torinese di Gramsci e di Gobetti negli anni della sua giovinezza. Nella fabbrica, secondo il suo pensiero, si creano le pulsioni fondamentali del conflitto sociale, e nella fabbrica devono comporsi, in quanto essa è soggetto di responsabilità comunitaria, capitale economica della comunità. In questo senso si giustificava la presenza in fabbrica degli uomini di cultura; che erano per lui “organici” alla nuova società proprio in quanto “non-organici” a nessun tipo di ideologia, essendo per definizione la cultura libertà, ricerca e dialogo, aspirazione alla verità e alla presenza della bellezza. 4) Equilibrio città-campagna. Accanto e in parallelo al pluralismo culturale, per Olivetti era da difendere il pluralismo sociale: egli affermava in teoria, così come applicava in pratica, l’armonia tra valori della civiltà contadina e valori della civiltà industriale. Decentrare le attività industriali e al tempo stesso aiutare il consolidarsi di quelle agricole, legate alla terra, era il suo programma. Era impressionante vedere come, aiutato da una memoria di ferro, e dalla conoscenza di quasi
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tutte le vecchie famiglie del Canavese, si adoperasse ogni giorno perché le assunzioni in fabbrica si conciliassero con la permanenza nelle “cascine” di qualche altro membro della famiglia. 5) Uomo e tecnica. Olivetti vedeva incombenti i pericoli del trionfo della tecnologia: pericoli di disumanizzazione e pericoli di inquinamento. Ma, se oggi avrebbe meritato la tessera d’onore di un “partito verde”, egli era anche convinto che i progetti di “sviluppo zero” o di regressione anti-industriale sono irrealizzabili e reazionari.Tocca alla scienza, alla cultura, alla religione e in definitiva alla politica umanizzare la tecnica senza interrompere il progresso. Torniamo qui al punto iniziale: né il capitalismo liberista, né il socialismo destinato a rimanere ideologia burocratica del potere, sono in grado di risolvere questo problema, cui è legata la sorte della nostra civiltà e dell’umanità intera. Solo una nuova sintesi di programmazione e di democrazia potrà riuscirvi. L’alternativa a questo grandioso ottimismo è la fine di tutto. 6) Condanna della partitocrazia. La condanna di Olivetti non si rifaceva agli argomenti di Guglielmo Giannini, ma semmai a quelli di Simone Weil. Non metteva cioè in discussione la sovranità popolare, ma la rappresentatività dei partiti, espressione ferocemente conservativa di interessi settoriali. I partiti, nati per affermare un’ideologia, non possono non trasformarsi sempre più, per una loro logica inesorabile, in strumenti di potere, sempre più differenziati e particolaristici (correnti, sottocorrenti, criptocorrenti). Essi operano nello Stato non come veicoli della volontà popolare ma
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come diaframmi. Occupano le istituzioni e le sedi decisionali senza coscienza e responsabilità dei problemi reali, ma in connessione con gli equilibri sempre instabili del loro potere fondato sulla settorialità della loro rappresentanza. Uno Stato partitocratico non è più uno Stato, ma un appalto (l’espressione è mia, il pensiero è suo). Faranno le Regioni, ma anziché sotto il segno dell’autonomia, le Regioni nasceranno come decentramento del potere partitico, e in perfetta opposizione con lo spirito federalistico di uno Stato regionale. Su questo punto la preveggenza di Olivetti è di una chiarezza assoluta. 7) Competenza politica. È l’indicazione più sottile ma anche più ardua del pensiero di Olivetti. Per ovviare ai difetti del suffragio universale, che riempie il Parlamento di incompetenti intercambiabili, e ai difetti delle “Camere dei produttori” in uso nei regimi totalitari, che hanno per esito congiunto tecnocrazia e corporativismo, egli aveva studiato un complesso meccanismo (che si ripeteva partendo dal basso, dal nucleo dello Stato, la Comunità, secondo una sorta di razionale cursus honorum) per cui la rappresentanza politica è affidata a uomini eletti democraticamente ma entro “ordini” politici, corrispondenti alle funzioni essenziali della società e quindi dello Stato: l’economia, l’urbanistica, la sanità, ecc. (e anche la democrazia, garanzia del rispetto della libertà delle istituzioni). In tal modo i partiti si dissolverebbero e le ideologie da essi rappresentate si esprimerebbero in diversificati orientamenti culturali. Ma al tempo stesso Olivetti pensava così di evitare il pericolo del partito unico.
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Il sottotitolo del libro che ho citato è eloquente in proposito: Le garanzie di libertà in uno Stato socialista. Se posso azzardare il paragone, del resto affiorato più volte nel Movimento Comunità, il modello più vicino al progetto olivettiano è il titoismo, un titoismo occidentale, non marxista, e cristiano. 8) Socialismo personalista. È un punto essenziale, che ho lasciato per ultimo perché può illuminare tutti gli altri. Il soggetto sociale, prima che cittadino, operaio, intellettuale, amministratore pubblico, è persona, destinatario e interprete unico, irripetibile, della propria libertà e del proprio destino. C’è nella persona un segno e un valore religioso, che la società non deve limitarsi a rispettare ma deve garantire come primario, o meglio assoluto. E anche questo umanesimo religiosamente concepito, che riallaccia Olivetti alla grande tradizione cristiana, è oggi un punto quasi universalmente riconosciuto. Utopia dunque? Forse; ma lampeggiante di intuizioni luminose e concrete. Il vero punto debole di questa costruzione teorica, per cui molti la considerarono non politica ma metapolitica, è che manca in essa un qualsiasi elemento atto a individuare i modi del trapasso dalla società attuale alla nuova, ciò che si dice il momento leninista del mutamento. Olivetti amava definirsi riformatore, per distinguersi sia dai rivoluzionari sia dai riformisti di tradizione socialdemocratica. Il suo pensiero si colloca in modo originale e innovatore nell’area del socialismo liberale. E forse proprio la mancanza in esso del momento leninista, in
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questa Italia e in questo mondo devastati dal terrorismo, gli aggiunge un’imprevista nota di attualità. Il rifiuto della violenza, sino al punto di non considerarla guardando al futuro, è oggi per molti di noi per metà utopia, per metà speranza. «Il Tempo», 28 febbraio 1980
Geno Pampaloni, Poesia, politica e fiori © 2016 Comunità Editrice, Roma/Ivrea © 1980 Un’idea di democrazia, Edizioni di Comunità ISBN 978-88-98220-46-5 L’editore ringrazia la famiglia Pampaloni per aver gentilmente concesso l’utilizzo del testo Redazione: Angela Ricci Impaginazione e ebook: Studio Akhu Progetto grafico: BeccoGiallo Lab
Edizioni di Comunità è un’iniziativa in collaborazione con la Fondazione Adriano Olivetti www.fondazioneadrianolivetti.it Direzione editoriale: Beniamino de’ Liguori Carino
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