Jacob Bronowski, L'identità dell'uomo - estratto

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Jacob

BRONOWSKI

l’identità dell’uomo

Esiste una mappa dei sentimenti? Edizioni di Comunità


Ognuno può suonare senza timore e senza esitazione la nostra campana. Essa ha voce soltanto per un mondo libero, materialmente più fascinoso e spiritualmente più elevato. Suona soltanto per la parte migliore di noi stessi, vibra ogni qualvolta è in gioco il diritto contro la violenza, il debole contro il potente, l’intelligenza contro la forza, il coraggio contro la rassegnazione, la povertà contro l’egoismo, la saggezza e la sapienza contro la fretta e l’improvvisazione, la verità contro l’errore, l’amore contro l’indifferenza.


Indice

Prefazione 11 1 2 3 4

Macchina o individuo? La macchina della natura La conoscenza dell’Io La mente in azione

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Capitolo 1

Macchina o individuo?

Il titolo di questo saggio pone una questione che è decisiva ai fini di un’indagine sull’identità dell’uomo. Per darle una risposta, e per condurre la mia ricerca, prendo come punto di partenza un’asserzione non meno decisiva e fondamentale, e cioè che l’uomo è parte della natura. È un’affermazione semplice, e a prima vista abbastanza innocente e neutrale. Quasi tutti gli uomini colti la accettano, oggi: i lettori della Bibbia come pure gli agnostici, quelli che la domenica amano andare a spasso e gli assidui frequentatori di musei. Nella seconda metà del XX secolo, sembra del tutto ovvio dire che l’uomo è parte della natura nello stesso modo in cui lo è una pietra, un cactus o un cammello. Con quanta facilità ci vengono in mente queste tre categorie, che nell’infanzia rappresentavano per noi i regni animale, vegetale e minerale, per dare una visione completa dell’universo! Eppure questa innocua affermazione contiene la carica esplosiva che nel nostro secolo ha fatto saltare la fiducia in se stesso dell’uomo occidentale. Infatti, affermare che l’uomo è parte della natura significa negare — almeno in parte — la sua unicità. Questa è la segreta preoccupazione che ci tormenta e ci fa tacere; è l’eterna eresia per la quale già nel Seicento ci furono uo-


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mini che andarono al rogo. A Giordano Bruno fu chiesto, ma invano, di abiurare la sua folle convinzione che la Terra su cui viviamo non è l’unico mondo, e che noi non siamo le uniche creature elette nella molteplicità dei mondi. Era tutta una stravaganza del Rinascimento che, non amando far fare all’uomo né la parte del padrone né quella dello schiavo del destino, voleva farlo vivere semplicemente nell’infinita completezza della natura, dove fosse libero di essere padrone e schiavo insieme. Ma non riuscì - e ancor oggi il problema è aperto - ad averla vinta sui sospetti dell’uomo che vuol salvaguardare il senso della propria condizione immortale. L’uomo ha bisogno di credere che fin dalla nascita è stato plasmato in una matrice soprannaturale: più grande della vita, o almeno più grande della natura. L’affermazione che l’uomo è parte della natura - animale, vegetale e minerale - continua dunque a mantenere il suo eterno sapore di eresia, anche se l’eresia ha cambiato forma da un secolo all’altro. Tre sono state nella storia le forme più memorabili che essa ha assunto, e ai loro tempi si trattò di eresie non semplicemente religiose ma addirittura intellettuali, giacché rappresentarono un oltraggio sia alla rivelazione che al senso comune. Due di queste eresie sono diventate oggi così familiari che non offendono più nessuno; i grandi della scienza le hanno sostenute e imposte, e a esse non c’è bisogno che io dedichi più di qualche riga. La terza eresia, invece, è ancora motivo di angoscia per noi, e costituisce, in sostanza, l’argomento di questo libro. La prima eresia fu quella di Bruno e sosteneva che il nostro mondo non è un’eccezione: tutto ciò che esiste nell’universo è fatto della stessa materia, dovunque. I


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seguaci di Aristotele erano di parere diverso. Pensavano che il cielo stellato fosse pieno di qualcos’altro, e più sottile della materia terrestre, che fosse un quinto elemento, la quintessenza. La Chiesa incorporò nella fede cristiana questa credenza del mondo pagano, che andò in frantumi quando Galileo fece a pezzi le sfere celesti individuando le macchie solari e i monti della Luna, e osservando nel 1610 che Giove ha le sue lune che gli girano intorno con la regolarità di un congegno di orologeria (e Galileo propose di usarle come orologio). Passo a passo le leggi della meccanica terrestre giunsero a dominare il cielo, finché non apparve più dubbio che le stelle sono della stessa natura delle pietre, cioè minerali. La seconda eresia attaccò sull’altro fianco i regni animale, vegetale e minerale, asserendo che l’uomo non è unico perché rientra nel primo ordine, e specificando che egli deriva da un ceppo comune, al quale si possono ricondurre anche gli altri animali viventi. Nel 1859 Charles Darwin documentò quest’eresia con tali dettagli, e Thomas Huxley la difese poi con tale energia, che essa è diventata, al pari della prima, un dotto luogo comune. Nessuno di noi mette in dubbio che la risposta a un quesito sull’uomo parte dalla voce “animale”. Ecco dunque fissata la scena per l’atto finale di quest’opera di chiarificazione: non esistono interruzioni nella continuità della natura. A un polo della sua traiettoria, la stella è stata collegata alla pietra; all’altro, l’uomo è stato situato tra gli animali. Ora non rimane che tirare fra questi due poli un’unica catena che passa attraverso minerali, vegetali, animali, e lungo la quale la natura si identifica con le sue creature. Una linea ininterrotta corre dalla pietra al cactus al cammello, senza che du-


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rante il suo percorso si verifichi un salto soprannaturale. Non c’è stato bisogno di nessun particolare atto di creazione, di nessuna scintilla vitale perché la materia inanimata si trasformasse in esseri viventi. Sia l’una che gli altri sono composti degli stessi atomi, sistemati, soltanto, in un ordine diverso. Questa è la terza e moderna forma dell’eterna eresia. Perché non sembri che abbia abusato del termine eresia, citerò le dovute fonti. Fu John Tyndall che durante una conferenza tenuta a Belfast nel 1874, mentre era presidente della British Association for the Advancement of Science, espresse davanti a un uditorio silenzioso e sbigottito la convinzione che non c’è alcuna differenza di genere tra la materia inanimata e quella vivente. Egli ammise di non avere prove sperimentali e di non poter illustrare in concreto il passaggio dagli atomi inanimati alla loro organizzazione vivente. Respinse decisamente la falsa prova della generazione spontanea che andava allora di moda, affermando che non sarebbe ricorso a essa per sostenere la sua tesi. Eppure disse: Convinto, come sono, della continuità della natura, non posso arrestarmi all’improvviso là dove i microscopi cessano di servire. A questo punto la visione della mente integra autorevolmente quella dell’occhio. Per una necessità generata e giustificata dalla scienza, valico i limiti della prova sperimentale, e in quella Materia che noi, nella nostra ignoranza delle sue energie latenti, e nonostante la nostra professata riverenza per il suo Creatore, abbiamo finora coperto di obbrobrio, discerno la promessa e la potenzialità di tutta la Vita terrestre.


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Quattro giorni dopo, il 23 agosto 1874, un mercante londinese presentò al ministero dell’Interno una petizione perché Tyndall venisse perseguito per empietà, in base a una legge del XVII secolo. Le sue affermazioni sembravano blasfeme non solo alle persone religiose ma anche a coloro che da tempo non credevano più che l’uomo avesse avuto la vita attraverso un atto divino di creazione. Pure questi ultimi avevano bisogno di credere che la vita, così tenue e delicata, così tenera e transeunte, si differenziasse grazie a qualche scintilla vitale dalla polvere che l’ha generata e a cui ritorna. Fino a oggi scettici e filosofi, oltre che i fedeli di ogni confessione, hanno ardentemente desiderato credere che ci voglia qualcosa al di fuori dei processi naturali della fisica per accendere la materia e farla vivere. Non condivido quest’ansia di trovare un’entità al di sopra della materia che infonda vita in qualche inattesa configurazione di atomi. A dire il vero, penso che sia tutto un imbroglio di filosofi. Certo, l’uomo è meraviglioso, e così pure la vita; ma entrambi sono meravigliosi in maniera diversa. Mi sembra un ben misero baratto per la dignità dell’uomo detronizzato il cercar rifugio nel miracolo della vita. Se c’è qualcosa che rende l’uomo unico, non è certo la divina scintilla della vita, o l’élan vital che tanto estasiava Henri Bergson. L’uomo è superiore agli altri animali non perché è vivo come essi sono vivi, ma perché ha una vita diversa dalla loro. Che cos’è che tanto ci urta nell’affermazione che gli esseri viventi sono fatti degli stessi atomi delle cose inanimate, e retti dalle stesse leggi fisiche? Possiamo anche sostenere che le nostre difficoltà sono tutte di ordine intellettuale, e che l’unico problema che ci preoccupa sia


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semplicemente come ciò possa avvenire. Ma il nostro disagio ha radici più profonde, e sta nella sensazione che, se la danza degli atomi del nostro corpo non è diversa dallo schema della stella e della pietra, ne consegue per noi una perdita di personalità, una negazione dello spirito nell’idea che abbiamo dell’individuo umano. Questo l’aveva già intuito molto tempo fa, nel 1736, il grande vescovo Butler nella sua Analogy of Religion, e John Tyndall, onesto fino allo scrupolo, incluse meticolosamente nella sua blasfema conferenza una versione moderna dei dubbi del vescovo: I vostri atomi individualmente sono senza sensazioni, e tanto più senza intelligenza. Cercate dunque, mi sia lecito chiedervelo, di affrontare questo problema. Prendete i vostri atomi inanimati di idrogeno, i vostri atomi inanimati di ossigeno, i vostri atomi inanimati di carbonio, i vostri atomi inanimati di azoto, i vostri atomi inanimati di fosforo, e tutti gli altri atomi, senza vita come pallini di piombo, di cui si compone il cervello. Immaginateli separati e insensibili; osservateli mentre si uniscono l’un l’altro a formare tutte le combinazioni immaginabili. Questo, come processo puramente meccanico, la mente lo può vedere. Ma potete voi vedere, o sognare, o in qualche modo immaginare, come da un tale atto meccanico, da tali atomi senza vita, possano nascere sensazioni, pensieri, emozioni? Potreste mai derivare Omero da un tintinnio di dadi, o il calcolo differenziale dall’urto di palle da biliardo?

Siamo saltati qui, con un solo passo, al di là del cactus e del cammello, fino alla mente dell’uomo. Ecco dove sta


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il fulcro delle nostre paure: che risulti che l’uomo come specie, che noi come esseri pensanti, non siamo che un meccanismo di atomi. Solo a parole rendiamo omaggio alla scintilla vitale che anima l’ameba e il baco del formaggio; ma quel che in realtà difendiamo è l’esigenza umana di avere un complesso di volontà, di pensieri e di emozioni, di avere cioè una mente. Qui sta l’essenza del problema, antico e pur così moderno, che ferisce il nostro amor proprio. Ogni epoca lo ha espresso in maniera diversa: è stato chiamato ora problema dell’anima, ora del libero arbitrio, ora del rapporto anima-corpo. Oggi ci si presenta sotto la nuova metafora che abbiamo innocentemente coniato per definire il più terribile degli automi della nostra epoca: il cervello elettronico. Quel che ora ci chiediamo è come il cervello dell’uomo, se è pieno di circuiti elettrici, possa differenziarsi da un cervello elettronico. Nella sua forma generale il problema non è, naturalmente, nuovo. Descartes sosteneva che gli animali sono macchine, gli uomini no; e allo stesso congresso di Belfast del 1874 cui abbiamo appena accennato, Thomas Huxley peggiorò la già grave posizione del suo amico Tyndall tenendo una conferenza su L’ipotesi che gli animali siano automi, e per buona misura estese il titolo fino a includere tra gli animali anche l’uomo. Ma oggi possiamo lasciar da parte queste congetture generali per il fatto che quel che sappiamo sulle macchine conferisce una nuova prospettiva, un nuovo e più preciso senso alla questione: fino a che punto il cervello è una macchina automatica? Non posso però passare all’esame di questo freddo quesito senza una cordiale parola di commiato da Tyn-


Jacob Bronowski, L’identità dell’uomo © 2017 Comunità Editrice, Roma/Ivrea

1a edizione italiana © 1968 Edizioni di Comunità Titolo originale The Identity of Man © Rita Bronowski Trust La presente edizione riprende la traduzione originale di Maria Lucioni ISBN 978-88-98220-79-3 Redazione: Angela Ricci Impaginazione e ebook: Studio Akhu Progetto grafico: BeccoGiallo Lab

Edizioni di Comunità è un’iniziativa in collaborazione con la Fondazione Adriano Olivetti www.fondazioneadrianolivetti.it Direzione editoriale: Beniamino de’ Liguori Carino

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