La letteratura ai tempi di Adriano Olivetti, di Giuseppe Lupo (estratto)

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VIA JERVIS/10

GIUSEPPE LUPO

LA LETTERATURA AL TEMPO DI ADRIANO OLIVETTI Antonio Barolini Raffaello Brignetti Libero Bigiaretti

Natalia Ginzburg Jacques Maritain Italo Calvino Giovanni Giudici Giacomo Noventa Elio Vittorini Paolo Volponi Leonardo Sinisgalli Geno Pampaloni Lucio Mastronardi Cesare Pavese Giancarlo Buzzi Emmanuel Mounier Ottiero Ottieri Giorgio Soavi Fulvio Longobardi Franco Fortini Alberto Moravia Luciano Bianciardi Goffredo Parise Simone Weil

EDIZIONI DI COMUNITÀ


Ognuno può suonare senza timore e senza esitazione la nostra campana. Essa ha voce soltanto per un mondo libero, materialmente più fascinoso e spiritualmente più elevato. Suona soltanto per la parte migliore di noi stessi, vibra ogni qualvolta è in gioco il diritto contro la violenza, il debole contro il potente, l’intelligenza contro la forza, il coraggio contro la rassegnazione, la povertà contro l’egoismo, la saggezza e la sapienza contro la fretta e l’improvvisazione, la verità contro l’errore, l’amore contro l’indifferenza.


Il sottosuolo dell’olivettismo

1. Il mondo che nasce Nel marzo del 1946, quando incominciava l’avventura della rivista «Comunità» (1946-1992), Ignazio Silone firmava l’editoriale con un titolo tanto suggestivo quanto profetico: Il mondo che nasce. Il periodico olivettiano si candidava a portavoce autorevole di una stagione che avrebbe favorito la ricostruzione morale e civile, prima ancora che economica, del paese; diventava crocevia di esperienze culturali eterogenee, luogo di dibattito attraverso cui mettere a fuoco i principi destinati a nutrire il progetto della fabbrica-Comunità: il dialogo fra cattolicesimo e marxismo, l’elaborazione di una “terza via” alternativa sia al capitalismo occidentale che all’economia sovietica, il riconoscimento di una paternità spirituale in quel cristianesimo dell’inquietudine, che eleggeva a modello il pensiero di Jacques Maritain, di Emmanuel Mounier, di Simone Weil. Il mondo che nasceva dalle macerie interpretava indubbiamente il bisogno di un cambiamento radicale. Aveva tutti i requisiti per individuare proprio nella guerra una profonda linea di demarcazione rispetto all’epoca preesistente: per segnare, come dichiarava Elio Vittorini nell’articolo inaugurale del «Politecnico» (1945-1947), la fine della cultura consolatoria a vantaggio della cultura liberatoria. Ed era il naturale compimento di un’importante fase di ripensamento ideologico, divisa fra proiezioni verso il futuro e rifles-


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sioni sull’identità della polis, avviata già in pieno fascismo da un cenacolo di intellettuali radunati a Milano: un esperto di urbanistica che per qualche anno era stato alla guida del mensile «Casabella» (Edoardo Persico), due poeti (Alfonso Gatto e Leonardo Sinisgalli) esponenti di un ermetismo ispirato alla filosofia di Pitagora e Campanella, un gruppo di artisti (Salvatore Fancello, Costantino Nivola, Marcello Nizzoli, Giovanni Pintori) disposti a percorrere l’azzardo o l’avventura del design industriale. In quella Milano, che si dava appuntamento al Caffè Craja o alle mostre organizzate presso la galleria Il Milione, giungevano le suggestioni europee del razionalismo architettonico e dell’astrattismo, i linguaggi della scienza intersecavano i codici dell’arte e della letteratura, l’Ufficio Tecnico di Pubblicità Olivetti, negli anni in cui la direzione fu affidata a Sinisgalli (dal 1938 fino alla guerra), assumeva la funzione di un’inedita Bauhaus. Il pensiero di Adriano Olivetti pone saldamente le radici in questa cornice, che per un verso rivendica i caratteri di una cultura politecnica (ispirata alla maniera di Leonardo da Vinci) e, per un altro, riafferma il primato della progettualità quale metodo per varcare la stagione degli “astratti furori”. Ne è indizio una serie di interventi, pubblicati su settimanali di interesse letterario come il «Meridiano di Roma», su periodici d’architettura («Quadrante», «Casabella» e «Rassegna di Architettura»), su riviste di settore industriale («Tecnica e Organizzazione» e «Foglio Comunicazioni Interne Olivetti»), su organi di stampa periferici e centrali, dichiaratamente in linea con la politica del regime («La Provincia d’Aosta», «Il Lavoro Fascista», «L’Ordine Corporativo»). L’insieme di questi articoli, che ineriscono prevalentemente a questioni di urbanistica e di organizzazione aziendale e che sono stati riprodotti dall’editore Aragno con il titolo Civitas hominum. Scritti di urbanistica e di industria (2010), solo apparentemen-


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te assumono l’aspetto di una scrittura occasionale, com’è tipico di qualsiasi attività pubblicistica; in realtà risulta un corpus compatto, formato da saggi, relazioni per convegni, analisi sociologiche, discorsi, recensioni, in cui è possibile riconoscere, in nuce, alcuni concetti germinali, che avrebbero trovato ampia accoglienza nei volumi del successivo ventennio: da L’ordine politico delle Comunità (1946) e Società Stato Comunità (1952) fino a quel manifesto-testamento che può considerarsi Città dell’uomo (1960). Alla luce di tale prospettiva critica, gli scritti che Olivetti elaborò e diede alle stampe tra il 1933 e il 1943 – da quando prende in mano le redini dell’azienda paterna in qualità di direttore generale fino al crollo del totalitarismo mussoliniano – rappresentano il momento d’abbrivo di quella lunga meditazione etica e politica, che sta a monte dell’utopia comunitaria. Nonostante i prestiti con la realtà del fascismo, la ricchezza delle proposte e la novità degli argomenti conferiscono a questi contributi la funzione di veri e propri incunaboli del pensiero olivettiano. Essi, infatti, fanno da sottosuolo a una certa forma d’utopia, che si manifesta più tardi, al pari dei rapporti sotterranei che Olivetti instaura con il pensiero di Maritain e Mounier, con cui entra in dialogo già nel periodo dell’anteguerra. 2. Tra Le Corbusier e Wright Un primo elemento, che giustifica una sorta di parentela fra i testi olivettiani del periodo compreso tra le due guerre e le iniziative culturali realizzate nei decenni seguenti, è rintracciabile in quel particolare esempio di urbanistica che ispira la Ville radiëuse di Le Corbusier o la Broadacre city di Frank Llyod Wright: due modelli di vita cittadina che, secondo la lezione di Persico, manifestano una certa somiglianza con il rousseauiano ritorno allo “stato di natura” e sono il com-


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pimento di un’idea democratica di convivenza. Non a caso l’immagine fotografica di una città-giardino accompagna l’editoriale di Silone sul numero inaugurale di «Comunità» (quasi a sottolineare la sostanziale somiglianza tra il “mondo che nasce” e il recupero di una nostalgica matrice edenica) e un decennio prima, discutendo di economia corporativa sul «Lavoro Fascista» del 21 marzo 1935, Olivetti auspicava la trasformazione di un tradizionale agglomerato urbano «in città giardino non intesa nel senso borghese di una distesa interminabile di casette individuali, [...] che non permette la concentrazione dello spazio ed annulla la vita sociale, ma la città dai grandi spazi verdi in mezzo a grandi costruzioni piene di terrazze, di luce e di sole»1. Più che soffermarsi sulla somiglianza delle proposte o sulla coincidenza perfino lessicale, bisognerebbe allargare lo sguardo e intuire, nel desiderio di organizzare politicamente ed economicamente una geografia vasta quanto una cittadina (Ivrea) o una piccola regione (la Valle d’Aosta), il bisogno di ripensare al destino umano nelle sue componenti più elementari (la famiglia, il lavoro, il tempo libero), favorendo l’acquisizione ultima e definitiva di quei beni che servono a elevare, dal punto di vista materiale e morale, la vita degli individui. Su «Casabella» del maggio 1936, quando Olivetti si dilunga nel presentare abitazioni «studiate secondo i concetti scientifici della massima luce, del massimo sole» e dotate di «spazi verdi ampissimi di prato e giardini [che] dividono le case», quando ritorna con particolare insistenza sulle carenze igieniche che hanno contrassegnato una certa edilizia popolare, ripercorre la strada di un filantropismo del tutto sui generis, la cui natura si manifesta in un’idea di mondo paritario, almeno nei principi: una civitas hominum – si legge sempre in Architettura al servizio sociale – che «non distingue i quartieri secondo la classe sociale» e dove


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le «ineliminabili differenze economiche non si riflettono sull’aspetto delle case e delle strade, ma sono date soltanto da una o più o meno grande economia di spazio»2. Per quanto possa apparire anacronistica rispetto all’immagine in cui tradizionalmente viene circoscritto il rapporto fra imprenditore e dipendenti, la visione di Olivetti non può prescindere da un’idea di «architettura come espressione di necessità sociale»3. Dunque è una componente ineliminabile quando si prevede di costruire una società futura. La città nuova, infatti, «dovrà annullare l’attuale distinzione fra quartieri di lusso e quartieri popolari, fra case borghesi e case proletarie»4. In virtù di questo assioma sappiamo di trovarci all’interno di un argomento che dall’urbanistica transita facilmente nella politica e Olivetti ha ben chiaro il problema della pianificazione secondo le modalità in cui veniva dibattuto negli anni Trenta: periodo dominato dalla realizzazione dei Piani Regolatori e perciò il più idoneo a individuare il prototipo della città fascista. Buona parte degli scritti redatti negli anni Trenta verte proprio sulla necessità di dotare la Valle d’Aosta di un progetto di sistemazione territoriale, di cui Olivetti stesso è il principale ideatore insieme allo staff di architetti Luigi Figini, Gino Pollini, Luciano Baldessari, Gian Luigi Banfi, Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Enrico Peresutti e Marcello Nizzoli. D’altra parte, il nuovo assetto da dare alla Valle d’Aosta si presenta in forma davvero ambiziosa: capace di risolvere il problema della carenza di alloggi, di colmare le deficienze igienico-sanitarie, di porre le basi per lo sviluppo economico di quella vasta zona geografica, chiamata per motivi naturali a mutare la propria fisionomia da area destinata al pascolo e all’agricoltura a centro turistico estivo e invernale. Tuttavia non è la città fascista che Olivetti ha in mente. Semmai un tipo di societas che egli denomina città corpo-


Giuseppe Lupo, La letteratura al tempo di Adriano Olivetti © 2016 Comunità Editrice, Roma/Ivrea ISBN 978-88-98220-58-8 Redazione: Angela Ricci Impaginazione e ebook: Studio Akhu Progetto grafico: BeccoGiallo Lab

Edizioni di Comunità è un’iniziativa in collaborazione con la Fondazione Adriano Olivetti www.fondazioneadrianolivetti.it Direzione editoriale: Beniamino de’ Liguori Carino

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