Sotto il segno del giudizio universale - Adriano Olivetti, la biografia

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Valerio Ochetto

ADRIANO

OLIVETTI LA BIOGRAFIA

Edizioni di ComunitÃ


Indice

Sotto il segno del Giudizio Universale

9

Tempo di speranze e di sentimenti

23

Verso la grande fabbrica

45

«Classifica: sovversivo»

61

Progettare per sopravvivere

81

Cospiratore per la libertà

99

Il mondo che nasce

111

Ritorno a Ivrea

131

La rivoluzione possibile

145

La giornata di Adriano

161

Discesa al sud

177

Capitalismo d’avanguardia

191

La via di Comunità

217

Dies irae

243

La riscossa di Adriano

257

Quel sabato di Carnevale

267

E se fosse come aveva pensato Adriano?

281

Ringraziamenti e nota sulle fonti

286

Indice dei nomi

288


Questa duplice lotta nel campo materiale e nella sfera spirituale è l’impegno più alto e la ragione della mia vita. La luce della verità, usava dirmi mio padre, risplende soltanto negli atti, non nelle parole. Adriano Olivetti


Sotto il segno del Giudizio Universale

Adriano nasce l’11 aprile 1901 al ciabòt, sulla collina di Monte Navale, quasi in vista di Ivrea. Ciabòt in piemontese vuol dire casetta di campagna, e la casa rossa con la tòpia, il pergolato d’uva, ancora oggi ha più un carattere contadino che di villeggiatura, anche se si chiama Villa Emma, dal nome della zia di Adriano. Era la seconda casa degli Olivetti, che in città abitavano in via Palma, oggi via Quattro Martiri, nel centro storico dei “fuochi”, o famiglie ebraiche. Il padre Camillo, ebreo, la madre Luisa, valdese. Più tardi Adriano avrà consapevolezza di cosa significhi discendere da due minoranze storiche, come irrequietudine, come ansia di ricerca, anche se lui vorrà approdare alla solidità, all’universale. Il padre Camillo è uomo che si è fatto da sé, anche se viene da una famiglia benestante di commercianti proprietari terrieri. È rimasto orfano di padre a un anno e la madre, donna di notevole cultura per quei tempi, dopo una prima istruzione impartita direttamente, anche in lingue straniere, lo manda in collegio, dove Camillo sembra soffrire la mancanza degli affetti familiari. A ventitré anni si laurea in ingegneria industriale al Politecnico di Torino con Galileo Ferraris, lo scopritore del campo magnetico ruotante, e a venticinque accompagna il maestro in America all’esposizione universale colombiana di Chicago. Quello che doveva essere un breve viaggio oltreoceano si trasforma in un’avventura dell’ingegno. Camillo percorre in lungo e in largo gli Stati Uniti, con tutti i mezzi, bicicletta compresa, visitando laboratori e fabbriche, parchi nazionali e metropoli, ma soprattutto cercando di capire come gli americani riescano così bene dove gli italiani sono fermi: cioè nel trasformare le scoperte 9


scientifiche in tecnica e nell’applicare la tecnica alla produzione. Alla fine approda a una università che diventerà famosa, ma che allora (1893-94) ha appena aperto, la Stanford in California, e si ferma a insegnare fisica per cinque mesi. Quando torna a Ivrea non perde tempo. A ventisette anni comincia a tirar su un edificio di mattoni rossi nei prati al di là della stazione, sotto la collina di Monte Navale. Con due soci, e una trentina di operai presi fra gli artigiani della zona e preparati da lui stesso con un corso accelerato, si mette a fabbricare strumenti di misurazione elettrica: galvanometri, amperometri, wattometri che in parte ha disegnato di persona e brevettato. Strano personaggio per i benpensanti questo industriale-inventore non ancora trentenne. È sicuramente tra i primi socialisti di Ivrea, e probabilmente di tutto il Canavese, che «non tralascia alcun mezzo per insinuare le sue idee alla classe operaia», come scrivono gli zelanti schedatori della Polizia di Stato di Ivrea. Alle prime voci sui moti del pane a Milano, nel 1898, salta sul treno per arrivare in tempo a partecipare alla rivoluzione, anche se più tardi la definirà “una quarantottata”. E il generale Bava Beccaris in persona, appena ringuainata la spada, si scomoda per chiedere un supplemento di indagine su «Olivetti Ing. Camillo socialista di Ivrea». Camillo, quando incrocia sulla prediletta bicicletta amici della borghesia locale che viaggiano in calesse o carrozza, non manca di ammonirli sull’avvento della sociale, che nel gergo politico dell’epoca significa la repubblica socialisteggiante. È anche il tempo dell’incontro con Luisa Revel. L’episodio è entrato nella leggenda e così è stato raccolto: Camillo che balza giù dall’immancabile bicicletta dalle parti della stazione, si avvicina a Luisa, la saluta e la chiede senz’altro in moglie. I documenti e i ricordi danno una versione un po’ diversa, ma che nulla toglie alla genuinità di quell’incontro. Camillo aveva intravisto Luisa perché nella sua famiglia alloggiava una segretaria della fabbrica di nome Anita. Il giorno della partenza per la 10


rivoluzione di Milano, con la scusa di lasciare degli incarichi ad Anita, Camillo va a salutare Luisa, alla vigilia di quello che si annuncia come il grande giorno. Deluso dalla rivoluzione – sono gli stessi Claudio Treves e Fabrizio Maffi a convincerlo a non mettersi alla testa di duecento uomini bene armati per propagare l’incendio a Torino – Camillo si rivolge ancor più alla sfera personale. L’anno dopo, l’insolita dichiarazione alla stazione ha un seguito ufficiale e Camillo sposa Luisa: un matrimonio d’amore che resisterà tutta una vita, la cui intensità traspare non dai gesti esteriori, ma da poche espressioni appena accennate nelle lettere personali. Per Camillo, Luisa sarà sin dall’inizio, e per sempre, l’immagine della moglie amante, circondata da una corolla di bambini. Una delle più belle descrizioni dell’amore di Camillo è della nipote Erica, che ha tracciato una galleria di ritratti degli Olivetti, tra l’interpretazione astrologica dei temi natali e la raccolta di testimonianze: «Luisa diventerà quella guida che lo aiuterà a decifrare le difficoltà dell’esistenza. C’era in lei qualcosa che lo attraeva in modo singolare, una fame del suo cuore che si accendeva ogni volta che la vedeva, un alito di vento che alimentava il suo pensiero quando la sentiva nominare… La amava nel modo più completo, anche se non sempre l’ha capita fino in fondo». Anche Luisa è nata nel centro storico e i Revel vengono dalle valli valdesi, con un’ascendenza che risale al Duecento. Il padre è pastore valdese ed evangelizzatore itinerante e Luisa, cresciuta in una famiglia numerosa (quattordici figli, molti morti in tenera età) e poi da una zia più agiata, ha avuto una educazione molto austera, diplomandosi maestra al Piccolo Istituto della Divina Provvidenza di Ivrea. Adriano non ha mai amato parlare della sua biografia, a meno che non coincidesse con la storia della fabbrica. Pudore per il privato, scarso interesse per la storia di un animo proiettato verso il futuro e le costruzioni non contingenti. L’adolescenza, la giovinezza, sono i periodi apparentemente meno densi di riferimenti. 11


Tuttavia è possibile lanciare alcune sonde, sulla traccia di testimonianze dirette originali e anche di accenni sparsi nella corrispondenza di Camillo. I primi, vaghissimi ricordi, sotto forma di incubi infantili, risalgono all’abitazione di Milano di via Donizetti 33. Adriano, come capita sovente all’immaginazione infantile, vedeva i mobili assumere strane forme di animali minacciosi. Nel maggio 1903 il padre ha trasferito la fabbrica da Ivrea a Milano, dove diventerà la CGS (da “Centimetro, grammo, secondo”). La sua avventura industriale sembra avviata su binari obbligati, con l’immigrazione nella grande città, attorno alla quale gravitano già la Edison e le altre imprese che si riforniscono degli strumenti di misurazione elettrici ed elettromagnetici. E infatti la CGS è rimasta ancora oggi una delle principali aziende del settore. Ma Camillo non è uomo da basare i suoi calcoli solo sul successo economico. Dopo quattro anni, insofferente di consigli d’amministrazione, di banche e di cambiali, decide di ritornare a Ivrea per riconquistare la propria indipendenza. Sotto la collina di Monte Navale c’è ancora il piccolo fabbricato in mattoni rossi. Lì Camillo inizia una nuova attività, la progettazione della prima macchina per scrivere italiana su base industriale, un prodotto che aveva già suscitato il suo interesse durante il viaggio americano. Gli operai che l’avevano seguito a Milano ora affrontano una nuova trasmigrazione. Ma, finalmente, Camillo può contare quasi esclusivamente sulle proprie forze, dalla ideazione al controllo finanziario, alla produzione. L’impresa, che vista dalla prospettiva di poi appare indovinata, allora era tutt’altro che scontata. Dal Cinquecento, inventori più o meno fantasiosi si erano cimentati per escogitare una scrittura tattile che sembrava destinata soprattutto ai ciechi, come la macchina scrivente di cui Pellegrino Turri di Castelnuovo, agli inizi dell’Ottocento, faceva gentile omaggio alla contessa Carolina Fantoni di Fivizzano, cieca. Bisogna arrivare a un avvocato di Novara, Giuseppe Ravizza, per trovare un prototipo delle macchine funzionanti, che porta 12


il nome melodioso di cembalo scrivano per l’aggraziata tastiera simile a quella di un pianoforte. Ravizza aveva già risolto quasi tutti i problemi, superando per primo una delle maggiori difficoltà, quella di rendere visibile la scrittura, con l’introduzione del rullo, in modo da poter controllare quello che si scriveva. Ma Ravizza non andrà oltre una medaglia di bronzo all’esposizione del Valentino di Torino e nel 1876 abbandona dicendo: «È una follia sperare che anche tra secoli mezzo mondo scriva a macchina, come mezzo mondo cuce a macchina». I suoi prototipi, che un giorno Camillo si sforzerà di rivalutare, vengono dimenticati. In America invece si intuisce che “l’impiego della penna è laborioso e poco soddisfacente”: la Remington comincia a produrre macchine per scrivere nel 1873 e la Underwood lancia nel 1898 la prima serie con leve che battono dal basso verso l’alto e la piena visibilità della scrittura. Ma in Italia, nel primo decennio del secolo, circolano poche migliaia di macchine importate, e l’impiegato d’ufficio non ha né il desiderio né la speranza di vederne arrivare una sulla propria scrivania. Il 29 ottobre 1908 la nuova Società Ing. C. Olivetti e C. con sede in Ivrea è cosa fatta. Fra i dodici soci un parente e soprattutto amici. È una società in accomandita semplice, non una società anonima, dove Camillo tiene bene in mano tutte le leve di comando e di controllo, se gli altri soci possono liberarsi delle proprie quote solo dietro consenso del gerente, cioè di Camillo stesso, che possiede da solo più di metà del capitale sociale. Quello stesso autunno la famiglia si trasferisce al convento che sorge fra i prati della fabbrica e le prime pendici del Monte Navale. Questa collina dalle sponde ripide e boscose è più di ogni altro luogo legata alle vicende, o, se si vuole usare un termine più letterario, alla saga degli Olivetti. Negli anni Trenta Alberto Savinio, in un elzeviro su «La Stampa», la vedrà innalzarsi come una vela sulla pianura, ma l’origine del nome, più che dal mare o dalla neve, sembra derivare da “terre nove”, le terre dissodate 13


e messe a coltura dopo il Mille. Intorno e dentro al convento di San Bernardino più volte si accamperanno le truppe francesi nelle loro discese in Piemonte e dall’alto di Monte Navale, il 26 maggio 1800, Napoleone Bonaparte disporrà le sue truppe per la battaglia del Chiusella: battaglia, naturalmente, vittoriosa. Ma il convento è più famoso per gli affreschi di Gian Martino Spanzotti commissionati alla fine del Quattrocento da Jolanda di Francia, vedova di Amedeo IX di Savoia. Quando Camillo acquista chiesa e convento da una famiglia di benestanti non è per affermare un nascente prestigio, per acquisire una investitura, ma semplicemente perché è l’edificio più adatto alle sue esigenze e più vicino alla fabbrica. I figli sono già cinque e la prima sera sono contenti della novità. Si mangia a lume di candela, solo dopo arriverà l’illuminazione a gas e poi quella elettrica. La famiglia si installa nel corpo lungo del convento, tante stanze che si aprono sul grande corridoio. Il convento si era degradato a cascina e sono gli operai della fabbrica a fare i lavori di adattamento, sotto la direzione di Camillo. Gli impianti sono moderni per i tempi, ma essenziali: riscaldamento centrale a carbone, ma solo per le stanze effettivamente abitate, acqua calda, ma per un unico bagno. I pavimenti sono in legno, ma Camillo proibisce di farli lucidare dalle cameriere con la “galera”, lo spazzolone che si usava una volta, perché troppo faticoso. Il racconto della prima adolescenza procederà sul filo dei ricordi lucidissimi della sorella minore di Adriano, Silvia, raccolti in tante ore di conversazione affabile e intelligente. I bambini Olivetti hanno una iniziazione alla vita che sarebbe piaciuta a Rousseau: il padre Camillo, memore delle costrizioni del collegio, considera la scuola una perdita di tempo e vuol prolungare il più possibile per i figli il contatto con la natura, con l’aria libera. Scorribande sulla soglia del bosco, giocando a cavalluccio sul muro di confine e poi spingendosi sino al limite della siepe 14


Valerio Ochetto, Adriano Olivetti. La biografia © 2013, 2015 Comunità Editrice, Roma/Ivrea © 1985, 2000, 2009 Valerio Ochetto ISBN 978-88-98220-29-8 prima ristampa febbraio 2017 In copertina: Adriano Olivetti a metà anni Cinquanta. © Fondazione Adriano Olivetti/Archivio privato famiglia Olivetti Le immagini contenute nell’inserto fotografico sono protette da copyright. In ordine di citazione nelle didascalie, per le foto 1-19, 21, 22, 30: © Fondazione Adriano Olivetti, Roma-Ivrea/Archivio privato famiglia Olivetti; per le foto 20, 23-29: © Associazione Archivio Storico Olivetti, Ivrea L’Editore, acquisiti i diritti di riproduzione delle immagini, è comunque a disposizione di quanti avessero a vantare ragioni in proposito Direzione editoriale: Beniamino de’ Liguori Carino Progetto grafico: BeccoGiallo Lab Redazione: Angela Ricci facebook.com/edizionidicomunita twitter.com/edcomunita www.edizionidicomunita.it info@edizionidicomunita.it


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