Lewis Mumford, In nome della ragione - Edizioni di Comunità (estratto)

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Lewis

MUMFORD Cosa ci rende umani?

IN NOME DELLA RAGIONE Edizioni di Comunità


Ognuno può suonare senza timore e senza esitazione la nostra campana. Essa ha voce soltanto per un mondo libero, materialmente più fascinoso e spiritualmente più elevato. Suona soltanto per la parte migliore di noi stessi, vibra ogni qualvolta è in gioco il diritto contro la violenza, il debole contro il potente, l’intelligenza contro la forza, il coraggio contro la rassegnazione, la povertà contro l’egoismo, la saggezza e la sapienza contro la fretta e l’improvvisazione, la verità contro l’errore, l’amore contro l’indifferenza.


Indice

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La tecnica e il futuro della civiltà occidentale Specchi di violenza Rinnovamento delle arti Elementi irrazionali nell’arte e nella politica L’ascesa di Calibano I poteri di Prospero

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Nota ai testi 165


Capitolo 1

La tecnica e il futuro della civiltà occidentale

Se questo saggio fosse stato pubblicato cent’anni fa, il suo titolo, persino in quel fatale anno di fermento rivoluzionario che fu il 1848, sarebbe stato del tutto rassicurante e il suo contenuto fiducioso (a meno che a trattare l’argomento non fosse stato John Ruskin, che già allora scorgeva nubi all’orizzonte, sia pure nel chiarore di un’aurora). La maggior parte delle persone colte un secolo fa credeva che la tecnica, così come si esprimeva in un dilagare di nuove invenzioni, fosse quasi sinonimo di civiltà occidentale. Che lo fosse o meno, all’epoca, esisteva un rapporto positivo tra il progresso tecnico e le conquiste dello spirito umano. Molta di quella fiducia persisteva ancora al tempo della mia giovinezza: ingenua, eppure in un certo senso deliziosa, come quella di un bimbo concentrato su un giocattolo che può tuttavia scientemente decidere di distruggere dopo un paio di giorni. Questa sensazione è legata simbolicamente in me a una delle lezioni che il mio vecchio professore di chimica, Charles Baskerville, era solito tenere sull’acido solforico. In questa lezione, con soltanto la più garbata riserva di ironia, egli avanzava l’idea che la produzione e il consumo dell’acido solforico potessero essere presi come un indice di civiltà; e


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rappresentava quindi una gara statistica triangolare tra Gran Bretagna, Germania e Stati Uniti, che iniziava con l’Inghilterra in testa verso la metà del XIX secolo e finiva — e a questo punto la classe prorompeva sempre in uno spontaneo applauso — con la vittoria degli Stati Uniti. Nel 1914, allo scoppio della prima guerra mondiale, il calore umano di quella dimostrazione ne superò la mancanza di logica. Forse è troppo presto per dire che questo atteggiamento nei confronti della tecnica è stato completamente modificato. Ma ad ogni modo nel corso della attuale generazione si sono levate voci di disapprovazione che non provenivano soltanto dagli ultimi seguaci di Rousseau. Oggi è proprio nei settori in cui le conquiste scientifiche sono state più determinanti, in cui la tecnica si è più perfettamente raffinata — e in modo particolare naturalmente nella fisica nucleare — che la maggior parte delle più insigni personalità del mondo scientifico hanno cominciato a lasciar trasparire i segni di una profonda ansietà nella considerazione delle conseguenze sociali del progresso tecnico. La possibilità che la tecnica potesse essere usata a fini malvagi non turbava apparentemente i nostri antenati dell’epoca vittoriana. Ma nessuno spirito razionalmente obiettivo può considerare tutto quel che è accaduto nel mondo, da Liverpool a Tokyo, le dozzine di città sventrate, i milioni di vite sterminate freddamente, senza mettere in dubbio l’ingenua fede per cui la conoscenza scientifica applicata all’invenzione tende, secondo le parole di Bacone, ad alleviare la condizione umana. La prima delle invasioni barbare si è svolta sotto i nostri occhi; e differisce da quelle che sopraffecero Roma poiché i barbari sono venuti completamente e non parzialmente


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dal cuore stesso della società che subisce l’attacco. È mai possibile — cominciamo a chiederci — che il nostro eroe da commedia, il superuomo, non abbia né l’intelligenza, né la sensibilità morale necessari perché gli si affidino gli strumenti che la scienza ha ora messo a sua disposizione? Malauguratamente, l’epoca che ha prodotto l’energia atomica ha prodotto anche la mente pervertita di un Hitler, che fu capace, anche senza le bombe atomiche, di concepire la tortura e il massacro di circa sei milioni di soli ebrei, per tacere della morte e delle mutilazioni inflitte a milioni di persone di altre nazionalità. Parte del mio sforzo si volgerà in questo saggio a indagare se, nell’ambito di sviluppo della tecnica stessa, siano prevalse certe condizioni atte a rendere possibili e in effetti quasi inevitabili tali pervertimenti; e, se così fosse, quali mutamenti devono effettuarsi nel complesso della civiltà occidentale perché la macchina torni a essere uno strumento al servizio dell’uomo per il miglioramento delle condizioni di vita. Certamente sarebbe poco opportuno, se non inutile, in un’occasione fausta come questo centenario, sottolineare gli aspetti negativi della situazione. Ma per parlare di tecnica oggi, è necessaria una certa dose di sana fiducia animale nel futuro. Se la nostra civiltà si trovasse sull’orlo dell’abisso, questo stesso fatto priverebbe le nostre attuali speculazioni di ogni valido significato. Tuttavia, tra coloro che professano una fede illimitata nella capacità dell’uomo di sopravvivere a qualsiasi concepibile errore — un gruppo che comprende studiosi insigni e competenti come A. L. Kroeber, il decano degli antropologi americani — e coloro che credono che la nostra civiltà è quasi certamente condannata se non ci si impegna in uno sforzo comune per ristabilire il nostro equilibrio umano;


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tra queste due correnti io appartengo, lo confesso, alla seconda. Questo fatto comunque non mi impegna più che lo sguardo circospetto con cui lo scalatore guarda l’abisso prima di tentare di liberarsi da una difficile posizione per continuare l’ascesa. Poiché tocca a quelli di noi che sono convinti della gravità del pericolo concentrare i loro sforzi non nell’immaginazione di possibili catastrofi, ma nel suggerire quei giudizi e quelle azioni tempestive che possano salvarci dal pericolo che ci minaccia. Così mi propongo di trattare in questo saggio principalmente un insieme di problemi particolari, tra loro connessi, posti proprio dal progresso e dall’espansione della nostra tecnologia meccanica e scientifica nel secolo scorso. Tali problemi, credo, sarebbero stati gravi e schiaccianti sotto alcuni aspetti anche se non fossero stati ingigantiti da trent’anni di guerre, di barbarie e di sterminio; e anche se non ci trovassimo ora sull’orlo del suicidio di tutto il genere umano, e questo in virtù del fatto che, attraverso la conoscenza delle energie biotiche e atomiche che ora controlliamo, noi qui negli Stati Uniti, per non parlar d’altri, siamo divenuti arbitri della vita e della morte di tutta l’umanità. E ci trattengono dall’esercitare tale arbitrio solo i fragilissimi ostacoli della tradizione, dei tabù, dell’intelligenza e della consapevolezza morale. Tuttavia se riconosceremo tempestivamente l’esistenza di questi problemi essenziali, e con un ulteriore sforzo dell’intelligenza li considereremo attentamente, ciò rappresenterà un gran passo in avanti nell’eliminazione dei pericoli che i nostri strumenti di sterminio di massa hanno creato. In breve, mi propongo di trattare questi problemi fondamentali raggruppandoli in tre categorie: anzitutto


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il problema di tempo, spazio e potere; poi, conseguente al primo, il problema generale della quantità e della determinazione della quantità; e infine, il problema dell’automazione. La soluzione di questi problemi interni della tecnica mi sembra essenziale per l’integrazione delle nostre funzioni meccaniche in una nuova superiore struttura sociale, basata su un complesso di finalità e di motivazioni umane diverse da quelle che hanno avuto una così grande parte nella creazione dell’età della macchina. Tutti questi problemi danno origine a una serie di sconcertanti paradossi; e non meno paradossale, temo, sarà la mia conclusione finale, secondo la quale soltanto attraverso un deliberato atto di severa autodisciplina nel campo della scienza e della tecnica, gli elementi umani interessati potranno essere in grado di concentrare le loro energie su quelle invenzioni decisive nel campo della morale, della politica e della guida psicologica che ristabiliranno l’equilibrio della nostra civiltà. Per salvare la tecnica stessa dovremo porre dei limiti alla sua espansione fin qui indiscriminata. Ma non anticipiamo. Probabilmente il mutamento più decisivo, certo il più diffuso, è stato quello che ha modificato sia i nostri concetti sia le nostre esperienze di spazio, tempo, energia. La maggior parte delle invenzioni esattamente anticipate da Leonardo, Bacone, della Porta e Glanvill, e realizzate da un gran numero di inventori dopo di loro, sono state strumenti per risparmiare il tempo, per ridurre le distanze, per aumentare l’energia, per rendere più rapidi i movimenti, per accelerare i processi naturali: strumenti che sono stati per l’uomo moderno stivali dalle sette leghe e tappeti magici, e lo hanno liberato dalle limitazioni di spazio e tempo. Ma notiamo il curioso andamento che


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l’esperienza attuale ha conferito a tutti questi primitivi progetti e aspirazioni: quanto più rapidamente viaggiamo, tanto meno in realtà vediamo e sperimentiamo lungo il nostro cammino; quanto più estendiamo il raggio della nostra comunicazione, più si restringe il campo di una vera comprensione; quanto più grande è il nostro potere materiale, tanto più temibili diventano le nostre limitazioni sociali e morali. Non appena raggiungiamo la meta teorica di annullare completamente le distanze — come avviene ora, anche a prescindere dalla televisione, quando per scopi pratici telefoniamo oltreoceano — ritorniamo esattamente al punto di partenza: a un mondo provinciale di rapporti faccia a faccia con oltre due milioni di vicini e a questo punto le nostre umane debolezze, già abbastanza gravi in una società provinciale, si ingigantiscono assai più rapidamente che non le nostre virtù, a causa del processo tecnico stesso; proprio come un sistema di rapporti che da una famiglia si estendesse al mondo accentuerebbe i propri caratteri di meschinità e di litigiosità, piuttosto che le meno appariscenti manifestazioni di amore e di devozione. Grazie alla tecnica, gli uomini sono divenuti materialmente i vicini degli abitanti dell’altra parte del globo; ma poco hanno fatto per essere loro vicini spiritualmente o per educarsi al rispetto, e a quella disciplina di mutua tolleranza che manterrebbero pacifici rapporti. Nella loro incauta ingenuità, i creatori della tecnica moderna non previdero queste difficoltà; altrimenti avrebbero, senza dubbio, tentato di prevenirle. Voi ricorderete che, quando venne fondata in Inghilterra la Royal Society, i suoi membri decisero deliberatamente di rifiutare ogni collaborazione con quelle discipline che oggi


Lewis Mumford, In nome della ragione © 2016 Comunità Editrice, Roma/Ivrea

1a edizione italiana © 1959 Edizioni di Comunità Titolo originale In the Name of Sanity Copyright © 1954 by Elizabeth M. Morss and James G. Morss Published by arrangement with the Gina Maccoby Literary Agency Traduzione dall’inglese di Luciana e Marisa Bulgheroni L’editore ringrazia per la gentile concessione del testo ISBN 978-88-98220-40-3 Redazione: Angela Ricci Impaginazione e ebook: Studio Akhu Progetto grafico: BeccoGiallo Lab

Edizioni di Comunità è un’iniziativa in collaborazione con la Fondazione Adriano Olivetti www.fondazioneadrianolivetti.it Direzione editoriale: Beniamino de’ Liguori Carino

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I sentIMentI nOn passanO MaI DI MODa.

Le conquiste della tecnica e una certa meccanizzazione dell’esistenza hanno condotto a esaltare la tecnologia come esempio di razionalità perfetta, oggettiva e priva di errore. Ma la ragione della macchina è diversa dalla ragione umana, e pensare che il progresso tecnologico non riguardi anche la sfera spirituale significa aver capito ben poco della ricchezza presente nell’animo di ogni individuo. Soltanto in nome di una ragione liberata da questo equivoco è possibile riappropriarsi della fonte stessa di tale ricchezza: l’amore, l’unico elemento in grado di ricomporre la frattura che ha separato ragione ed emozione e di restituire senso a una tecnologia altrimenti senza scopo e significato. Ed è proprio questa la sfida nella quale, secondo Mumford, si gioca il destino dell’uomo moderno e in definitiva della nostra specie.

ISBN 978-88-98220-40-3 ISBN 9788898220403

€ 15,00

9 788898 220403


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