V I A J E R V I S / 15
CARLO OLMO
URBANISTICA E SOCIETÀ CIVILE
EDIZIONI DI COMUNITÀ
Indice
Nota alla nuova edizione
7
Introduzione
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Gli incerti confini di una professione
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L’architettura e i suoi testi
49
Le strategie tentate di una diversità
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Lo spazio contraddittorio di un’élite
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I molti cantieri dell’urbanistica
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Il carisma del tempo dialogo con Antonio De Rossi
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Abbreviazioni Note Indice dei nomi
191 193 243
IL CARISMA DEL TEMPO dialogo con Antonio De Rossi
OLMO Antonio De Rossi, architetto e docente di progettazione architettonica e urbana al Politecnico di Torino, è stato tra il 2005 e il 2014 vicedirettore dell’Urban Center Metropolitano di Torino, svolgendo un sottile ruolo di supporto alle decisioni nelle trasformazioni strategiche dell’aerea torinese. Da quell’osservatorio avanzato ha potuto analizzare dall’interno, nel loro farsi, la stagione dei grandi progetti urbani e gli esiti dei processi di patrimonializzazione. Recentemente, con i due volumi de La costruzione delle Alpi (Donzelli, 2014 e 2016), con cui ha vinto nel 2015 il Premio Rigoni Stern e il Premio Acqui Storia, è ritornato sulla figura di Adriano Olivetti e sugli studi per il Piano regolatore della Valle d’Aosta. Per queste ragioni, la figura di Antonio mi è parsa la più adatta per ragionare sulla riedizione del mio testo Urbanistica e società civile a 26 anni dalla pubblicazione, e per fare un bilancio sui recenti lavori critici intorno all’opera di Olivetti. DE ROSSI Il tuo testo Urbanistica e società civile del 1992 sembrava all’epoca costituire la punta di un nuovo ciclo di studi, mentre forse visto retrospettivamente pare configurarsi come la fase finale e la chiusura di una lunga stagione. Un nuovo ciclo “autoriflessivo” allora sembrava che si era aperto con Il racconto urbanistico di Secchi del 1984 e che sembrava smontare la stagione fondativa del secondo dopoguerra tanto quanto Urbanistica e società civile sembrava indagare le narrazioni, le genealogie, le strategie culturali e politiche. Un’apertura che in realtà viene “mangiata da sotto” non solo dall’accelerazione del neoliberismo, ma dal cambiamento di scena imposto per esempio dai processi di patrimonializza-
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zione e dall’“individualismo” (vs. “personalismo”). Un cambiamento di quadro dove si imporranno modalità culturali basate sulla semplificazione, esattamente l’opposto di quella sofisticata matrice interpretativa che reggeva quelle letture. OLMO Una semplificazione – insieme scientifica e politica – che si radicalizzerà. Ma lasciami fare un piccolo inciso biografico. Urbanistica e società civile si colloca, per me, tra due testi che guardano alla città su una lunga durata. Il primo e il secondo capitolo di Alle radici dell’architettura contemporanea (1989) esplorano la città di Settecento, seguendo le tracce di Perrot e di Roncayolo, con al centro la costruzione della città e i suoi valori. L’introduzione scritta con Bernard Lepetit di La città e le sue storie (1995) riassume i temi che condivide per esempio con il lavoro di Bernardo Secchi. Il mio punto di vista sulla città senza quei lavori, quei dialoghi e quegli interlocutori non si sarebbe così centrato su una storia che fatico, oggi soprattutto, ad aggettivare. Forse la prima notazione su cui potremmo lavorare è proprio che la storia della città in questi ventisei anni è esplosa in tanti, troppi specialismi. Ma torniamo alla tua domanda. Il 1992, l’anno di uscita del libro, è un anno quasi centrale nella storia italiana contemporanea, prima ancora che europea e non solo per le vicende politiche. DE ROSSI Non solamente per le vicende politiche, hai ragione. Credo che in quegli anni, in un lasso di tempo in fondo breve, si concentrino una serie di riflessioni teoriche, di tentativi di apertura (penso per esempio al successo all’epoca dei volumi di Pietro Barcellona), che mi pare a posteriori rappresentino un po’ la fine del secolo breve, una sorta di 1989 prolungato che porta con sé la conclusione di un ciclo plurisecolare di un modello insieme territoriale e industriale. Da questo punto di vista la lettura del lungo ciclo protoindustriale, che oggi appare ancora consegnata agli studi di Carlo Poni e Alain Dewerpe, e il secolo delle due industrializzazioni, rappresentano periodizzazioni em-
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blematiche su cui occorrerebbe tornare, che lasciano veri deserti, anche concettuali, alle spalle con cui in fondo non abbiamo ancora fatto completamente i conti, specialmente sotto l’aspetto della ridefinizione di alcune categorie concettuali fondanti. Lo hai, per altro già fatto nell’introduzione a Architettura e Novecento (2010) OLMO Sono gli anni in cui una delle tematiche che diventerà chiave per capire lo stesso percorso dell’urbanistica europea, viene a precisarsi: quello dei vuoti industriali. A partire dagli anni Ottanta, la città e l’urbanistica della “crescita continua” si trovano a scoprire che è invece all’interno di mura fisiche o giuridiche che si aprono problemi e opportunità inattese. Vuoto è però una parola talmente carica di significati che ogni direzione di trasformazione appare allora possibile. Evoca la crisi (di un modello di crescita appunto plurisecolare), strizza l’occhio a una rottura delle regole, che era stata la frontiera quasi etica di generazioni di urbanisti, richiama quasi letteralmente oblio e una memoria collettiva che si dissolve, spegnendo le lampadine che illuminavano la scena trasformando in ombre i suoi protagonisti e sfumando è persino le parola chiave di quegli anni: il rischio, la solidarietà, il consumo di massa, le identità sociali e lavorative legate alla produzione.Vuoto e democrazia per altro poco si conciliano: e forse ancor meno vuoto e società civile. Bisognerebbe forse saper leggere l’elaborazione del lutto di Freud per capirne sino in fondo le tante implicazioni della parola vuoto. DE ROSSI Certamente ambedue abbiamo visto all’opera a Torino quelle retoriche che hanno permesso di costruire milioni di metri quadrati in pochi anni sui sedimi degli stabilimenti FIAT e dell’indotto abbandonati da fabbriche e servizi alle fabbriche. Retoriche dove l’horror vacui ha giocato un ruolo decisivo, proprio in ragione di un ritardo anche concettuale nell’elaborazione – non solo disciplinare ma propriamente sociale e politica – di nuove idee e figu-
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razioni di città. Basti pensare al ritardo di circa due decenni e alle modalità con cui si incomincia a discutere, a inizio anni Novanta, dei processi di dispersione insediativa. Dopo di ché, è evidente come la risposta a quella trasformazione, alla scala non solo urbana ma territoriale, sia venuta a costruirsi proprio sul modo di affrontare il problema del vuoto industriale; un modo che ridisegnava in senso inedito il rapporto tra città e democrazia, e che si sarebbe dato per tutti i decenni successivi: basti pensare alle parabole opposte di regioni anche vicine, come il Nord-Pas-de-Calais o la Ruhr. OLMO In realtà quel vuoto così radicale ha rivelato quanto fosse povero il cassetto degli attrezzi di economisti, urbanisti, sociologi, architetti, ma soprattutto politici e amministratori. E non a caso le risposte videro consolidarsi immaginari preindustriali, mercati immobiliari quasi animaleschi, affascinati nuovamente dalle quantità, culture della sostituzione quasi commoventi nell’illusione tecnocratica della funzione che sostituisce funzione, rincorse a processi identitari, fondati sulla memoria (archeologie variamente aggettivate, storie materiali, storie orali: archivi in senso quasi documentale alla Derrida). Tornare a una storia in cui l’urbanistica è una costruzione sociale di senso come quella olivettiana, dove la democrazia e le sue forme erano e sono l’oggetto in palio, mi apparve, quando iniziai a scrivere il libro, una risposta non solo difensiva – la storia del tempo presente, se vuoi, è quasi sempre un’impegnata public history per riprendere le tesi di Angelo Torre da cui nasce un recente numero di Quaderni Storici, il 150 del 2015 – e il testo nella sua struttura complessa voleva essere proprio un’indagine su un’urbanistica come “matrice” di scienze sociali, ma anche di un’idea tutt’altro che riduttiva e forse obbiettiva di democrazia. Ma ne parleremo. DE ROSSI Di quel progetto olivettiano che cosa resta oggi? Secondo te è possibile riprenderne fili e tracce? Ma
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soprattutto, a distanza di quasi sessant’anni dalla morte di Adriano Olivetti, quello che mi pare centrale è capire come vengano a organizzarsi nel corso del tempo le varie discorsività, i vari filoni di riflessione storico-critica, sui caratteri pluriformi della sua opera. Quali sono i fil rouge, le continuità e le rotture? OLMO Certo, riprendere i fili non solo è possibile, è necessario. A partire da tre livelli su cui si consolida la letteratura olivettiana: la biografia, la memoria sociale, la memoria collettiva. Non sempre è così facile distinguere i tre livelli, ma certo la biografia olivettiana ha alcuni passaggi chiave. La pièce teatrale di Laura Curino e Gabriele Vacis (2000) e i suoi epigoni, le ristampe di alcuni testi chiave della sua produzione teorica, la ripresa della riflessione sui temi della cittadinanza, anche se troppo spesso ricondotti solo a un ambito e a un contesto: da locale a globale. La memoria sociale, quella che si potrebbe forse più correttamente chiamare una prosografia olivettiana o una Comunità concreta come scrive Emilio Renzi nel 2000, guidata da alcuni protagonisti essenziali (come Francesco Novara) o da una costruzione quasi letteraria del contesto di Ivrea negli anni non solo di Adriano (i seminari organizzati da Michele Fasano, in particolare quello del 2013 a Bologna, ne sono un esempio). La memoria collettiva è diventata la costruzione di un metatesto sempre più conteso, a mano a mano, come dice Giulio Sapelli, che è «diventato terreno di coltura per improvvisati attori del palcoscenico dell’industria culturale e dell’identità di piccoli gruppi di un’industria della comunicazione che è ormai insensibile ai valori profondi del messaggio». Sono tre livelli su cui si è lavorato per far uscire l’eredità olivettiana da quel gomitolo di fili in cui sembra entrato un gatto che ancora oggi è l’immagine, forse più provocatoria, di quell’eredità. DE ROSSI E rispetto all’urbanistica? Esistono a tuo giudizio diverse stagioni critiche? Quali sono stati i nuovi appor-
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ti dopo il 1992? Tra gli infiniti terreni d’indagine possibili cosa è stato analizzato e cosa no? OLMO Vi sono, sino al 2001, passaggi essenziali. Il lavoro sulle architetture olivettiane a Ivrea (1998), la ristampa del Piano regolatore della Valle d’Aosta (2001), e soprattutto la mostra-catalogo su La Città dell’uomo in occasione sempre del centenario della nascita di Adriano nel 2001. Testi che aiutano a popolare la scena di Ivrea di personaggi meno legati alla lettura dell’urbanistica e dell’architettura come tafuriano «museo all’aperto dell’architettura italiana del Novecento», ma anche a segnare una riflessione su Adriano presidente dell’INU, e ancor prima coinvolto in quasi tutte le avventure più interessanti del secondo dopoguerra: dall’UNRRA-Casas a Matera. Un confronto che può essere interessante per cogliere cosa capita nella riflessione sull’esperienza olivettiana è un confronto tra la mostra del 2001 e quella curata da Luca Zevi per la Biennale del 2012. A parte i tagli completamente diversi, gli undici anni che intercorrono tra le due mostre chiariscono passaggi importanti. La storia innanzitutto muta di ruolo. DE ROSSI Anche perché come scrive Felipe Brandi, sulla scorta di Pierre Nora, siamo ormai arrivati a «une histoire au second degré». OLMO Forse persino une histoire au troisième degré, se mi consenti di scherzare. Professionalizzandosi la storia si frammenta. Escono monografie sui grandi protagonisti di quella esperienza (Figini e Pollini, Vittoria, Gardella; in realtà non tutti, il buco più evidente rimane quello su Ludovico Quaroni), su alcune fabbriche ed esperienze (Pozzuoli o Matera per esempio, con gli studi di Francesca Castanò e Federico Bilò), ma rimangono nell’ombra forse le questioni centrali. La committenza è un esempio emblematico, se si esclude il lavoro di Rossano Astarita (2000). Ma soprattutto manca un’indagine sulla committenza olivettiana e poi
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sulla gestione della sua eredità da parte di Renzo Zorzi. Ci sono ristampe, anche importanti, sul rapporto tra l’indagine (fondamentale anche per affrontare il Piano Regolatore della Valle d’Aosta come produzione sociale di senso) e le politiche territoriali nel Canavese come in Meridione (e l’indagine andrebbe riportata sulle politiche editoriali che sorreggono quelle scelte, basti pensare a Buttita, De Martino, ma soprattutto per l’urbanistica a Carlo Doglio, su cui ancora si aspetta un lavoro sistematico), dopo i diversi studi di Stefania Proli negli ultimi anni. E solo ora si iniziano a studiare figure come l’architetto Tarpino. DE ROSSI Stai in qualche modo dicendo che la fine della stagione post strutturalista ha comportato anche la nascita di un’ideologia – in fin dei conti neanche troppo paradossale – dell’anti ideologia, di una sorta di storicismo stanco e rassegnato? A posteriori, a me colpisce profondamente la scarsa attenzione data negli anni a cavallo del passaggio di secolo allo studio dei reali meccanismi di produzione economica del territorio, a fronte di una centralità tutta riposta sull’indagine fenomenologica del nuovismo dei comportamenti sociali. OLMO La caduta d’interesse sull’industria e l’accettazione di una ideologia post industrialista, ha fatto quasi sparire dalla letteratura scientifica il tema centrale per la riflessione olivettiana, sul tempo di fabbrica e i tempi della città e del territorio. L’attenzione per il restauro del Moderno ha portato a studi e a progetti, anche apprezzabili – sull’ICO o sull’asilo di Canton Vesco – e ancor più ha portato alla Carta della qualità inserita nel Piano regolatore di Ivrea di Oliva e Campos Venuti – il cui progetto definitivo è del 2006 – rimettendo in circolo forse l’unica scienza sociale estranea alla vicenda olivettiana: la storia. Si sono seguite parole d’ordine, piene di suggestioni, più che, come dici, di attenzione ai dati reali di produzione del territorio. Non può allora stupire che nella mostra alla Biennale si arrivi a legare la riflessione sulla dimensione comunque antropologicamente industriale
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della Ivrea e del Canavese olivettiano a parole d’ordine che vengono da tradizioni culturali davvero distanti da quelle di Adriano come la sostenibilità e un ambientalismo quasi ontologico. E lo stesso restauro delle architetture moderne a Ivrea non ha saputo riconcettualizzare luoghi e architetture. Esempio di un processo di appropriazione che richiama le riflessioni recenti di Etienne Balibar sul citoyen subjet o di Nicolas de Coulon sul divenire cosciente. DE ROSSI Il tema che quindi poni è quello di studi intorno alle esperienze urbanistiche olivettiane che vengono a riorientarsi intorno alle necessità e alle narrazioni del momento, dimenticando le valenze centrali che attraversavano quelle pratiche. OLMO Forse questo è uno dei punti più critici. L’urbanistica come produzione sociale di senso si portava dietro la necessità di categorie interpretative via via più sofisticate. Molte traduzioni (da Weber sino, per assurdo, alla Carta di Atene, ristampata nel 1960) si possono e forse si devono leggere anche come costruzione del cassetto degli attrezzi di quell’idea di urbanistica. Dal 1992 a oggi l’urbanistica, non certo solo quella italiana, ha accentuato le sue derive teoriche, in colloqui sempre più stretti con quella che Alberto Toscano chiamerà Culture of Abstraction. (2008) Certo alcune riflessioni sulla ridefinizione delle forme di cittadinanza – come i due testi di Pizzorno, Crosta e Secchi su Competenza e rappresentanza (2013) e di Gigi Mazza su Spazio e cittadinanza (2015) – tornano a ri-concettualizzare il nodo forse più complesso dell’urbanistica olivettiana: quello tra saperi tecnici, saperi relazionali e Jeu d’échelles, se si vuole riprendere la lunga riflessione che il libro curato da Jacques Revel propone tra l’edizione francese del 1996 e quella italiana di una decina di anni dopo. Ma rimangono esperienze isolate. Forse un piano che varrebbe la pena di riprendere è quella della crisi concettuale della storia dell’urbanistica, alle prese con l’esplosione dei modelli nar-
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Carlo Olmo, Urbanistica e società civile © 2018 Edizioni di Comunità ISBN 978-88-98220-84-7 In copertina: dettaglio del Piano regolatore della Valle d’Aosta (1943) © Fondazione Adriano Olivetti Redazione: Angela Ricci, Andrea Crisanti de Ascentiis Impaginazione e ebook: Studio Akhu Progetto grafico: BeccoGiallo Lab
Edizioni di Comunità è un’iniziativa in collaborazione con la Fondazione Adriano Olivetti www.fondazioneadrianolivetti.it Direzione editoriale: Beniamino de’ Liguori Carino facebook.com/edizionidicomunita twitter.com/edcomunita www.edizionidicomunita.it info@edizionidicomunita.it
Ognuno può suonare senza timore e senza esitazione la nostra campana. Essa ha voce soltanto per un mondo libero, materialmente più fascinoso e spiritualmente più elevato. Suona soltanto per la parte migliore di noi stessi, vibra ogni qualvolta è in gioco il diritto contro la violenza, il debole contro il potente, l’intelligenza contro la forza, il coraggio contro la rassegnazione, la povertà contro l’egoismo, la saggezza e la sapienza contro la fretta e l’improvvisazione, la verità contro l’errore, l’amore contro l’indifferenza.