ADAM the Climber

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Pietro Dal Pra e Adam Ondra

the Climber

EDIZIONI VERSANTE SUD | I RAMPICANTI


2023 © VERSANTE SUD S.r.l. Via Rosso di San Secondo, 1 – Milano Per l’edizione italiana tutti i diritti riservati Traduzione e revisione stilistica dei testi di Adam Ondra di Silvia Rialdi e Antonella Cicogna 1ª edizione ottobre 2023 www.versantesud.it ISBN: 978 88 55471 572


PIETRO DAL PRA e ADAM ONDRA

ADAM The Climber

EDIZIONI VERSANTE SUD | COLLANA I RAMPICANTI


INDICE Prefazioni

07

Introduzione

11

I PRIMI DIECI ANNI Madagascar. Adam è duro abbastanza

17

WoGü. Su una via dedicata al suo mito

31

Hotel Supramonte. Passavamo sulla terra leggeri

45

I suoi e il comunismo

53

I figli

65

Il piccolo Adam si innamora

77

La scala del grado è a vista

95

Silbergeier. Si vola in alto

111

2008. Il super viaggio

127

LE GARE La transizione fra gioco e qualcosa di più

143

Mondiale e Coppa del Mondo 2009. L’esordio

153

Coppa del Mondo Boulder

163

Maggiorenne

175

Gioie e dolori mondiali

183

A tutto gas per chiudere il cerchio

193

I DO IT MY WAY La Dura Dura. Il passaggio del testimone

211

Flatanger. Tracciare la strada ha un altro gusto

227

Lo scalatore totale

247

The Dawn Wall. Una nuova alba

259

The sound of Silence

283

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L’arrampicata infinita

299

La vita scorre

313

Ringraziamenti

324

Glossario

326

Indice 5



PREFAZIONE DI ERRI DE LUCA

Conosco Pietro da tempo e ho conosciuto anche il protagonista del libro. Con i genitori veniva a scalare gli strapiombi della Grotta dell’Arenauta, tra Gaeta e Sperlonga. Era il mio posto preferito e questo esile ragazzino, meno di dieci anni, saliva linee di grado fino ad allora impensabile per la sua età. Eccolo oggi: Adam Ondra è il migliore degli scalatori su roccia. Oltre al suo elenco di realizzazioni estreme condivise con pochissimi altri, ha il record della scalata di grado più difficile al mondo, solo da lui portata a termine. In una grotta di granito in Norvegia ha lui stesso individuato e chiodato con trapano la linea che lui solo ha poi saputo scalare in libera. Si intende per stile libero l’uso di sole prese su roccia, mentre le sicurezze piantate servono solo a proteggere le cadute nel vuoto. Un giorno di settembre del 2017 Adam Ondra ha scalato la linea a lui solo possibile, da fondo a cima senza cadere. Una caduta annulla il tentativo che deve ripartire da zero. Ha messo nome Silence alla sua via. Il grado, inesistente prima, è 9c. Ci sono record mondiali stabiliti da atleti che resistono insuperati da decenni, come il salto in alto del cubano Sotomayor a 2,45 metri. Non so quanto durerà il record di Ondra, ma ho il sospetto che sia stato raggiunto in arrampicata il limite del non plus ultra. Pietro Dal Pra percorre la vita e le realizzazioni di questo fenomeno, dall’infanzia ai massimi risultati. Lo fa con precisione di dettagli che affascina invece di distogliere chi non s’intende di appigli e contorsioni per sfruttarli. Ogni capitolo è una storia nuova, esperienza e avventura differente per ambienti, personaggi, spirito di adattamento alle svariate superfici. Anche senza intendersi di geologia si sa che le pareti rocciose cambiano di conformazione, consistenza, comportando stili e allenamenti diversi. Le imprese compiute: anche se da lettore so che andranno a buon fine, la scrittura narrativa le tiene in sospeso, ne trasmette il crescendo. Pietro ha il senso della sceneggiatura. Scrive sequenze di un film e così trasmette la migliore delle verità: conta il viaggio con le sue tappe, i fallimenti, le tenacie, più dell’arrivo, del traguardo agguantato. Prefazione 7


Alla sua scrittura si affiancano le riflessioni di Adam Ondra. Servono a completare dall’interno della persona la spettacolare storia di chi ha stabilito l’assoluto nell’arte di scalare. Erri De Luca

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PREFAZIONE DI PIETRO DAL PRA E ADAM ONDRA Driin, driin. – Pronto, ciao Adam. – Ciao Pierin, tutto bene? – Tutto bene. Senti, telefonatona importante: tre giorni fa mi hanno chiesto se voglio scrivere la tua biografia, stavo per dire di no, ma ho preso tempo. Sulla barca saremmo in due… che dici? – Fantastico! – Beh… fantastico, aspetta, è un lavorone. Visto chi sei dovrei dare il meglio, non so neanche se sono all’altezza, mica sono uno scrittore. Anche tu dovresti dedicarci del tempo e lo sai, quello non ti avanza mai. – Sì, ma sarei troppo contento che fossi tu a farlo. Se non la scrivi tu chi vuoi che la scriva, magari un giornalista che manco arrampica e non mi conosce? – Ok, diciamo che sono un po’ pigro, non so se ho tutta questa voglia di sedermi a un tavolo per mesi. Sarebbe una storia in salita per me. Però mettermi alla prova in una cosa così mi attira: mi sa che non riesco a dire di no. – Appunto, vedi, ti sei già risposto… – Già! Lo sapevo che dicevi così, ma che palle… – Dai. È troppo bello e poi lo dobbiamo fare! Pensa a quanto sta cambiando il mondo dell’arrampicata, i giovanissimi non sanno neanche più come è nata. Potrebbe essere qualcosa di importante da lasciare al futuro, fra trent’anni magari chi comincerà a scalare potrebbe leggerlo e dire: «Ma va… era veramente così»? – Sì, in effetti la tua storia è anche quella di un tempo, e una ricchezza che non possiamo perdere o lasciare sparsa nel web senza un filo che le dia un senso. Ok, dai cominciamo, ma mi dovrai aiutare parecchio, raccontarmi tanto, non solo delle vie che hai fatto, di quelle si sa già. Voglio scrivere di te, dalla scalata e, parolone, anche dei valori che rappresenti. Sarà lunga, non una via a vista, ma super lavorata. E sai che per il lavorato io non ho mai avuto pazienza. – Ok, ma sarà pur sempre una bella via, l’importante è che non ci sia nulla di più della verità: niente prese scavate! – Ah, perché venga un buon libro non devo inventarmi niente, l’importante è che venga fuori il senso, o almeno un po’… Ecco, alla fine dell’avventura speriamo di esserci riusciti. Prefazione 9


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INTRODUZIONE DI ADAM ONDRA L’arrampicata è cambiata moltissimo dai tempi in cui ho iniziato a scalare io. Con il boom delle palestre indoor, oggi è diventata una disciplina quasi mainstream, enfatizzando gli aspetti di performance e sicurezza. Da attività di nicchia è passata a sport di massa, fino ad approdare così alle Olimpiadi. Eppure, negli anni che mi hanno visto crescere, arrampicare era qualcosa di ben differente. A scuola i miei compagni neppure sapevano cosa fosse, quando gli raccontavo che questo facevo. Che arrampicavo. I climber avevano un altro stile di vita, valori diversi, una mentalità diversa. Sia io che Pietro abbiamo la sensazione che vi siano molti aspetti dell’arrampicata, a noi cari e preziosi, che potrebbero ben presto andare perduti. Irrimediabilmente. Fa parte delle cose. La scalata cambia, i tempi cambiano, noi stessi, pur essendo ancora (entrambi!) molto giovani, non abbiamo più la stessa età anagrafica. Ma la speranza è che, con questo libro tra le mani e attraverso le mie vicende verticali, ancora molte persone possano condividere questi nostri valori e questa visione dell’arrampicata. Pierin è uno straordinario compagno di scalata, amico e persona incredibile. La differenza di età tra noi non ha mai contato realmente. Conosco Pietro da quando avevo quattordici anni e sin dal primo istante in cui ci siamo legati assieme per scalare mi sono sentito in piena e reciproca sintonia. Sapevo che una volta cresciuto io sarei stato come lui, avrei pensato come lui. O almeno, questo speravo. E se non sono poi certo che idolo sia la parola giusta in questo caso, sono però sempre stato felice di considerare Pietro mio amico, e fiero che anche lui potesse considerarmi tale. Oggi, trascorsi pressoché vent’anni, la mia somiglianza con Pietro è pressoché reale. Bevo caffè come lui, non mi porto via unicamente barrette energetiche quando so di trascorrere un’intera giornata su una big wall; le mie mani sono grandi quanto le sue, o quasi. A Pietro è spuntato qualche capello grigio. E a me non manca poi tanto. Ma, più di tutto, sento che davvero i nostri pensieri coincidono. introduzione 11


E non avrei potuto immaginare persona più adatta di lui per scrivere un libro sulla mia vita, sull’arrampicata, e su quell’approccio e visione della scalata molto prossimi, forse, allo scomparire. Un compito per nulla facile questo per Pietro, al quale mi sono affidato con piena fiducia sull’esito. La stessa piena fiducia che avevo riposto in lui nelle mie prime salite su big wall, quando non sapevo nulla di sicurezza in quell’ambiente (non che oggi sia esperto. Amo arrampicare più di quanto ami le manovre di corda). Mi piace poi che Pietro abbia scritto da autore e non da ghost writer. Ha firmato un libro sulla mia storia e la mia vita esattamente come le avrei formulate io; aggiungendo altresì in queste pagine un po’ di se stesso. E questo è bello, perché Pietro è parte della mia esistenza, indirettamente e direttamente: ha avuto una notevole influenza su di me come climber, ed è stato mio compagno di cordata in alcune delle imprese verticali più determinanti della mia vita. Pietro inizia a scalare molto presto. Come me. Anche lui un “bambino prodigio”, con ascensioni molto dure a un’età senza precedenti. La prima salita di Mare Allucinante 8b+ è del 1987, a sedici anni. Approderà alle falesie con una formazione alpinistica ereditata dal padre e si dedicherà all’arrampicata sportiva in un periodo in cui questa attività è ancora agli esordi e le competizioni neppure esistono. Quando io inizierò a scalare, l’arrampicata sportiva è già cosa consolidata. Ma nonostante le mie origini verticali partano dalla falesia e dalle palestre indoor, l’influenza dei miei genitori, che erano alpinisti, sarà molto forte nella mia formazione. E se il termine sport già era presente nel nome del nostro sport, il suo significato allora ricopriva una valenza del tutto diversa da quella che noi oggi le attribuiamo.

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In Madagascar. Foto: Pietro Dal Pra

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I PRIMI DIECI ANNI

introduzione 15


Pietro e Adam in sosta su Tough Enough, parete est del Karambony, massiccio dello Tsaranoro, Madagascar. Foto: Pietro Dal Pra


MADAGASCAR. ADAM È DURO ABBASTANZA LONTANANZA Cima dello Tsaranoro, il sole tramontava all’orizzonte e noi assaporavamo il vasto paesaggio africano – lo ricordo come fosse ieri. Il sollievo dei piedi finalmente liberi dalle scarpette, la pelle dei polpastrelli consumata, l’espressione sui nostri volti e la sensazione di libertà, mentre il tempo restava immobile. È qualcosa che mai dimenticherò, ed è il motivo per cui l’arrampicata è uno straordinario dono della vita, se si è capaci di apprezzarlo e capirlo. Io e Pietro siamo sempre stati affascinati dal concetto di lontananza: l’arrampicata ti porta lontano sia mentalmente, dalla vita di tutti i giorni, sia fisicamente, in luoghi distanti. E il Madagascar e l’avventura con Pietro sono stati la mia prima “spedizione” di questo genere. Già scalando nelle Alpi riuscivo a sentirmi lontano. L’energia africana del Madagascar era tuttavia cosa ancora diversa. Guardare il paesaggio del Madagascar non era come posare gli occhi sui verdeggianti pascoli alpini che, per quanto magnifici, io conoscevo bene. madagascar. adam è duro abbastanza 17


Quel viaggio mi ha permesso davvero di nutrire il mio io avventuroso. Ero tentato di scrivere “scoprire” il mio io avventuroso; ma sono quasi sicuro che già allora sapevo. Sapevo di avere un’anima avventurosa. Quando ero bambino io, l’arrampicata non era “definita” così chiaramente come lo è oggi. Era espressione di uno spirito molteplice. Sognavi di vincere le gare, e contemporaneamente t’immaginavi a scalare una big wall in Groenlandia il mese successivo e, contemporaneamente ancora, ti allenavi per quelle stesse competizioni nel bel mezzo di un road trip nel sud della Francia. Sognare una vita di avventure era facile. E non raro. Sono felice di essere cresciuto in quei tempi, così come penso Pietro sia contento di essere cresciuto vent’anni prima di me; in una fase storica dell’arrampicata completamente diversa ancora. Penso tuttavia che l’arrampicata sia cambiata meno in quei vent’anni che separano me da Pietro, di quanto non l’abbia fatto in questo ultimo decennio... Adam

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Usciti dalla parete non ci sleghiamo neanche, ancora aggrovigliati di corde corriamo a quattro zampe sugli ultimi salti di roccia che ci portano al punto più alto di questa montagna. Lì, sulla cima del Karambony, un abbraccio di soddisfazione e felicità e finalmente ci fermiamo e fermiamo tutto. Seduti su questa torre di granito, in silenzio, lo sguardo spazia su rilievi e altopiani di un meraviglioso Madagascar. Non è la prima volta che vedo in Adam quel modo di guardare, morbido e intenso nel dopo scalata. Non è un modo con cui tutti guardano certe cose. È quel guardare a occhi un po’ socchiusi, quasi a filtrare e raccogliere la bellezza degli spazi e dell’appena vissuto, bellezza ancora più profonda quando sei sulla cima di te stesso. Quegli occhi socchiusi che si portano via un po’ dell’impossibile da dire e sospettano qualcos’altro oltre l’orizzonte. Siamo arrivati fino a qui attraverso un ennesimo sogno al cui centro c’era una parete da salire. Questa volta una parete di incredibile bellezza. È difficile immaginare un pezzo di roccia verticale più bello della parete est del Karambony. Quando ci arrivi sotto ti toglie il fiato. Quattrocento metri di liscio granito che a guardarlo bene non è neanche perfettamente verticale, ma appena ondulato, come una stoffa leggermente soffiata. Colati dall’alto, i colori non potrebbero essere di più. Senza nette divisioni si alternano l’arancione, il marrone, il nero. E molte strisce sono accese dai licheni; verde fluo spruzzato su tutte le basi. Fantastico. Sulle rughe più generose al centro di questo capolavoro, nel 2005 i tedeschi Daniel Gebel e compagni riuscirono a salire dal basso, in un misto di madagascar. adam è duro abbastanza 19


arrampicata libera e artificiale, lasciando una linea di assoluta eleganza e difficoltà. Le diedero un nome provocatorio e stuzzicante, Tough Enough. Due anni dopo François Legrand, mostro sacro dell’arrampicata di fine e inizio millennio, fu il primo che cominciò a provare in libera, ma più di metà via rimaneva un punto di domanda. Arnaud Petit, Stephanié Bodet, Sylvain Millet e Laurent Triay sono arrampicatori fortissimi, della mia generazione, li conosco e ne ho sempre avuto stima. Già amanti di scalata e viaggi africani, partono per una vera e propria spedizione con l’obiettivo della libera. Attrezzano la parete con corde fisse e ognuno di loro si dedica a diversi tiri. Provano e riprovano, ma uno risulta veramente troppo difficile, forse impossibile. Fortunatamente, calandosi dall’alto, Sylvain Millet riesce a trovare una linea più debole a sinistra, la attrezza e quello è il by pass dell’originale per poter salire l’intera parete in libera. Le difficoltà sono altissime, ma i quattro non demordono e nel giro di un mese, andando su e giù per le corde fisse o calandosi dall’alto per raggiungere le varie soste, centrano il loro obiettivo, riescono a salire tutti i dieci tiri in libera. Così facendo dichiarano al mondo che Tough Enough è, in teoria, scalabile da un solo arrampicatore e in una volta sola, dalla base alla cima. Disegnano una relazione e i numeri hanno un sapore di futuro: su dieci tiri solo due sono sul grado 7 e cinque fra l’8b e l’8c. Nell’ambiente un po’ ristretto degli scalatori di altissimo livello comincia ad aleggiare una leggenda. Il gruppo gira un video della loro esperienza e vedo le pazzesche immagini di quella valle, di quella parete, di quell’arrampicata. Vorrei sognare per me un progetto così, in quel contesto di generale bellezza, ma sono realista: soprattutto per essere laggiù, questi numeri sono per me altissimi. Ho però un amico per cui hanno un altro aspetto. Penso che questa cosa gli piacerebbe e lo chiamo. Dopo qualche mese, incontro Adam all’aeroporto di Parigi; lui viene da una gara di Coppa del Mondo a Burs e avrà la prossima fra tre settimane in Slovenia. Per questo autunno rinuncio alla Sardegna, ma in aereo ci passiamo sopra e, guarda caso, riusciamo a riconoscere le gole di Gorropu, dove abbiamo scalato insieme l’ultima volta. Normalmente adesso sarei lì, dove mi sento a casa. Guardo in giù un po’ malinconico, ma sono felice di andare a scoprire il Madagascar, che qualcuno mi ha detto essere la Sardegna dell’Africa. Viene a prenderci in aeroporto il titolare di un’azienda sponsor di Adam, ci porta a casa sua e il giorno seguente al mercato di Antananarivo, in una festa di colori, odori e profumi per noi nuovi. Pietro Dal Pra e Adam Ondra ADAM 20


Poi, in un tetris di bagagli, sulla sua jeep giù fino a Fianarantzoa, dove facciamo ancora spesa di viveri prima di entrare nella remota valle del Tzarannoro. Il posto è meraviglioso, solare, aperto, le pareti pulite e dall’aspetto sincero, non sembrano nascondere insidie. Ma quando la jeep riparte per un attimo mi sento solo, con quello zainetto di responsabilità che già avevo sentito sulla schiena altre volte con Adam. Siamo noi due, alla base di grandi pareti in una valle sperduta del Madagascar, senza telefonino e senza possibilità di chiedere aiuti. Ho trentanove anni, da diciotto guida alpina e sono qui con lui, che di anni ne ha diciassette, un livello stratosferico, ma completamente a digiuno di tutte le conoscenze che servono per muoversi su una grande parete. Dipende da me, se gli succede qualcosa lo metto nello zaino e lo porto giù, come mi aveva detto una volta quando ero bambino Renato Casarotto. Il contrario non può essere. Ci sistemiamo nell’unico camping e la mattina dopo siamo già alla base del muro, dove sento il prurito nelle mani del mio compagno. Voglio che possa fare un primo tentativo buono, ma non posso salire con lui, gestire la sua arrampicata in modo efficace e allo stesso tempo trascinarmi dietro tutta l’attrezzatura per stare giorni e notti in parete. Incontriamo gli unici due scalatori presenti nella valle, due italiani che staranno qui ancora tre giorni, e con il bravissimo Berni mi avventuro su Tough Enough. Salendo un po’ alla meglio, con qualche volo e qualche riposo riesco a issare oltre la metà tutto il necessario per poter poi stare su. L’idea è quella di fare, come primo assaggio, una sessione di due o tre giorni in parete per provare le sequenze e memorizzare al meglio il più possibile della via. I francesi, che la conoscevano appiglio per appiglio, avevano parlato di un’arrampicata molto delicata e tecnica, difficile da interpretare, da ricordare, e soprattutto di una continuità delle difficoltà impressionante. Queste info mi fanno pensare che, se sarà possibile, ci vorrà comunque un bel po’ di tempo anche ad Adam per venirne a capo. Nove ore. In tutto, la salita in libera di quello che era il più ambito sogno di scalata su vie lunghe, che anche i più bravi avevano visto come un progetto futuristico da coltivare a lungo, ha richiesto nove ore, di cui tre di pausa per il sole troppo forte. E sono state ore intense. Temendo il caldo, con le lampade frontali partiamo sul primo tiro prima dell’alba. Accanto ad Adam che arrampica su roccia, decine di lemuri schiamazzano sugli alberi, incerti fra stupore e diffidenza. Come ci alziamo sopra il limite del bosco, tutto l’ambiente intorno a noi è un’esplosione di vita pseudo equatoriale, con versi e colori esotici di tutti i toni. madagascar. adam è duro abbastanza 21


Capire l’importanza di tornare indietro di un passo è qualcosa che ho appreso solo ultimamente. Come un anno fa ho imparato che arrampicare veloci non sempre è il massimo; che, ogni tanto, fermarsi a riposare a metà della via è meglio. Tuttavia, la soddisfazione che provo in una progressione perfetta e continua, senza interruzioni, è impareggiabile. Onestamente, se la mia scalata fosse lenta e io salissi senza piglio sicuro e con esitazione, non potrei mai essere quello che sono. Non farei il climber. La scalata non sarebbe un piacere tanto gratificante. Negli anni ho sempre cercato di arrampicare assecondando questo flow. A volte con il risultato di cadere su vie molto facili; semplicemente per non voler sprecare un solo secondo in più in cerca di altre prese. Se è una via facile, pensavo, la presa successiva non può che essere buona; quindi lanciavo. E a volte, be’, non lo era. D’altro canto, penso che questo sia stato un approccio molto efficace per apprendere a leggere rapidamente la roccia. Più la salita diventa difficile meno spazio è concesso all’esitazione, banalmente per un fatto: perché sulle brutte prese non puoi tenerti. Questo significa quindi che non sempre mi preoccupo di posizionare i piedi, o addirittura le mani, con troppa precisione. E che quindi a volte scivolo del tutto inaspettatamente. Come detto, mi piace muovermi verso l’ALTO, senza la preoccupazione di capire se ho il piede posizionato o meno correttamente. Questo desiderio febbrile, un’impazienza forse infantile di arrivare in cima, ADESSO, è qualcosa che non mi ha mai abbandonato. Non so veramente se sia buona o cattiva, so però che io sono così. E che quando funziona, e non cado, e concludo la via veloce, elegante ed efficiente, la sensazione è maledettamente incredibile. Proprio come quel giorno su Hotel Supramonte. Dolce quanto i corbezzoli che ci siamo gustati sulla via del ritorno, quando già il nostro passo si era fatto molto più tranquillo. Adam

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Gli avevo detto che ci saremmo incontrati in fondo alla valle dell’Oddoene, dove finisce la sterrata sotto il monte Oddeu, che mi avrebbero trovato là da qualche parte in furgone. Quel là da qualche parte è nel mezzo di una campagna del centro Sardegna, un posto sperduto fatto di strade e stradine bianche dove non si incontra anima viva. Non dimenticherò mai quanto ho riso al loro arrivo. Sono già lì a sistemare il materiale per domani quando su un dosso all’orizzonte compare una Fiat Seicento incerta fra le buche della strada. Da lontano vedo una sagoma normale alla guida e una testa di una buona spanna più bassa al posto del passeggero. Sarà il solito vecchietto sardo con la sua signora che viene a lavorare il suo campo o orto che sia. Continuo ad armeggiare con la mia ferraglia, la Seicento mi affianca e si ferma. Mi giro e dentro vedo i fratelli Ondra, Kristýna alla guida e Adam di fianco, che mi guardano soddisfatti di avermi trovato. La scena è troppo ridicola, scendono dalla macchina e li contagio con una risata che non riesco a fermare. L’autoironia non manca in famiglia, e per fortuna penso. Per Adam, destinato a diventare un mito della scalata, sapersi ridere addosso sarà una qualità importante. Cena in furgone e a letto presto. Sistemo i due fratelli a dormire al piano alto, e anche questa volta prima che suoni la sveglia Adam sgattaiola fuori dal sacco a pelo e mette su l’acqua. – Per me tè verde – gli sussurro. Lasciamo Kristýna a dormire, le ho spiegato come arrivare a Gorropu e ci raggiungerà più tardi. Se fosse una ragazza italiana mi farei qualche problema, probabilmente si allarmerebbe per tutto in questa Barbagia mai vista, ma è Hotel supramonte. Passavamo sulla terra leggeri 47


figlia dei suoi genitori e della Cecoslovacchia, le indico la direzione e non mi preoccupo. Colazione abbondante, per me doppio caffè e via. Mi è sempre piaciuto muovermi in velocità, perché mi sembra di scivolare via leggero. Sulle pareti, sulla terra, sulla vita, lasciando una traccia solo dentro di me. È raro trovare compagni che in questo senso siano sulla stessa lunghezza d’onda. Oggi l’ho trovato. Alle sette meno un quarto partiamo al trotto e in poco più di un’ora siamo alla base della parete, nelle gole di Gorropu, un luogo dalla bellezza per me inebriante. La prima volta che ci ero stato era per salire Hotel Supramonte, e oggi siamo di nuovo qui per quella. Riassaporo quell’angolo davvero unico. Siamo sul greto secco del fondo della gola tra enormi sassoni di bianco calcare liscio, levigato dall’acqua di migliaia di anni. Sopra di noi un lato della gola è la parete che stiamo per salire, quattrocento metri leggermente strapiombanti dalle forme che evocano lo scorrere di un tempo infinito. L’acqua ci ha lasciato disegni cangianti dai colori densi, tipici delle rocce mediterranee. Canne e stalattiti si rincorrono fra un arancione caldo e un grigio che sfuma fino al quasi azzurro. Amo la forza cromatica di queste colate e le loro diverse ondulazioni. Mi fanno sentire una roccia ancora giovane, viva, alla quale associo un carattere decisamente latino. L’altro lato della gola è un pendio di rocce rotte, salti e terrazzi inclinati su cui crescono gli arbusti tipici di queste latitudini. Al profumo del rosmarino si confonde quello del cisto, del mirto, del timo e tanti altri sconosciuti. La Sardegna è la mia seconda casa, per certi versi la prima, e sono ormai dieci anni che passo il tempo libero sull’isola, alla ricerca della scalata e dei luoghi in cui più mi riconosco. Un modo per me di vivere questa terra, con un interesse e un amore che vanno oltre l’arrampicare. Per questo oggi mi sento un po’ orgoglioso cicerone da pareti. Sul fondo delle gole, in uno spazio raccolto e in un’atmosfera ovattata, sono tranquillo e felice di sentirmi ancora una volta coccolato dal calore che mi trasmette questo spicchio di mondo. E di essere con Adam, a regalarci una bella occasione. In rito silenzioso preparo il materiale lasciando il mio compagno con i suoi pensieri. Sento che è in raccoglimento a caricare la molla. Gli chiedo se vuole salire sulla sponda opposta alla via per guardarla da più vicino, magari gli serve a qualcosa. Mi dice che no, che va bene così. Già, dimenticavo, il suo concetto di a vista non contempla sfumature. Ci leghiamo e siamo ai blocchi di partenza. Spegnendo il telefonino vedo che sono le nove e mezza. Pronti... via! Sui primi degli undici tiri che ci aspettano vedo Adam fare i conti con il peso di voler salire a vista. Pietro Dal Pra e Adam Ondra ADAM 48


Tough Enough (8c, 380m) sulla parete est del Karambony, valle dello Tsaranoro, Madagascar. Foto: Pietro dal Pra

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Sopra, ora di cena in Madagascar. A fianco, Adam riposa sulla portaledge sulla parete est del Karambony, valle dello Tsaranoro, Madagascar. Foto: Pietro Dal Pra

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LE GARE

“Spraywall” - il muro con tante prese e ancora piu combinazioni e possibilità sul quale si allenava Adam a quei tempi. Foto: Bernardo Gimenez


Marina Superstar 9a+/b, Domusnovas, Sardegna, 2009. “Pochi chili, pochi muscoli, ma riesco a fare vie dure che richiedono anche tanta forza”. Foto: Vojtěch Vrzba


LA TRANSIZIONE FRA GIOCO E QUALCOSA DI PIÙ POTENZA vs TECNICA Ancora oggi mi sembra incredibile se penso a quanto scalassi bene da ragazzino pur disponendo di così poca forza fisica. Fino all’età di sedici anni il mio power training altro non era che il boulder stesso. Forza non ne avevo. Zero assoluto. Del tipo che non riuscivo neppure a chiudere una trazione mono-braccio. Grandi movimenti senza l’uso dei piedi erano fuori delle mie possibilità; figuriamoci una sospensione mono-braccio su una grossa tacca. Oggi, rispetto ad altri scalatori di livello mondiale, manco ancora di forza ma la mia progressione su questo fronte è stata immensa. Credo inoltre che come climber io sia migliorato, sia più completo. Tuttavia è paradossalmente nell’arrampicata che la progressione è stata forse meno evidente. E questo a dispetto della mia aumentata potenza. Nello sport dell’arrampicata il rapporto peso-potenza è estremamente importante. Oggi sono due centimetri più alto e dieci chili li ho guadagnati tutti. Molti più muscoli quindi, che mi hanno conferito molta più potenza, ma anche più peso. A sedici anni ero suppergiù sessantatré chili, per un metro e ottantaquattro di altezza. La transizione fra gioco e qualcosa di più 143


Condizioni, queste, per esprimersi al meglio nelle vie di resistenza, nella lunga permanenza in parete. Tuttavia, bei boulder e vie di blocco mi riuscivano di certo anche allora. Se alcuni passaggi che oggi potrebbero sembrarmi facili erano all’epoca totalmente impossibili, quante volte sono riuscito comunque a trovare il modo per aggirarli o semplicemente a coinvolgere tutto il mio corpo così da eseguire ugualmente il passo col minimo impiego di forza. Ero in grado di risolvere potenti blocchi di 8C pur non essendo affatto forte. Cosa che ancora oggi mi sorprende tantissimo. Ma con il senno di poi, sono grato che sia andata così. Credo che aver arrampicato tutti quegli anni senza poter contare su una particolare forza fisica mi abbia reso uno scalatore migliore, mi abbia permesso di sviluppare una sensibilità per l’arrampicata come pochissimi altri climber hanno potuto fare. Se hai molta potenza, usarla è un attimo. Se non ne hai, e vuoi salire quella linea, devi saper escogitare i tuoi trucchi. Adam

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Il 2008 per il giovanissimo ceco rappresenta dieci anni di scalata, i suoi primi dieci anni. Ero lassù con lui sulla via mostruosa del Rätikon e mi godevo una maturità arrampicatoria e una grinta che avevo visto in pochi adulti ma con la freschezza tipica di un ragazzino. Me lo dirà più di una volta nella vita. – Con quell’anno è finita la prima fase della mia scalata. Mi viene da ridere quando la chiama “la fase infantile”, ne esistessero di bambini così – penso. Ma insiste: – Sì, Pietro, fino ad allora arrampicare era sempre stato un gioco. Cerco di capire meglio quell’affermazione e me la spiega in modo semplicissimo. – Perché fino ad allora non c’era stata nessuna pressione. Ok, ho capito. Impegno sì, ma sempre gratuito, “leggero”. Ne sono passati di appigli sotto quelle mani, chilometri di appigli, di roccia e di plastica. E chilometri in macchina, dalle grigiastre auto dell’Est al furgone rosso, alle notti lì dentro o in tenda o all’aperto, falesie, paesi e lingue diverse, palestre di tante città, scalatori dal 6a al 9a con cui il suo atteggiamento non cambiava poi tanto, cene preparate su fornelletti, sacchi a pelo sporchi, settimane senza docce, vie fatte, spuntate su guide e appuntate su diari o sul ranking del sito norvegese, dita sbucciate, runout e voli lunghi. E catene di soste raggiunte, catene d’oro, soddisfazioni indescrivibili, tanta leggerezza, poco peso. Quella vita è stata un’avventura meravigliosa, un gioco serio, intensissimo. Ma ancora un gioco. La transizione fra gioco e qualcosa di più 145


È già vicino alla catena quando gli si rompe un appoggio sotto un piede. Ma non vuole cadere, l’istinto di restare attaccato è sempre più forte. Un braccio steso in alto, l’altro che blocca in basso, il corpo che oscilla verso il fuori, le mani che non mollano. Sono pochi centesimi di secondo. Crack, un rumore, una sensazione di lacerazione e gli esce la spalla. Si fa calare e l’omero rientra, ma il dolore no. A quello fisico si aggiunge quello generale. No, non può essere! Non adesso, non a questo punto della vita, della stagione, non con questo punteggio e stato di forma, a due gare dalla fine della Coppa del Mondo. È troppo da accettare, proprio troppo. Non lo accetta. Tanto per non sbagliarsi dice no alla risonanza magnetica, ché se vedesse cosa c’è dentro a quella spalla molto probabilmente dovrebbe mollare tutto. Meglio non sapere. Tanti antidolorifici e il suo fisioterapista lo aiuteranno ad andare avanti meglio di quanto farebbe il triste referto di un esame diagnostico. Ma è un calvario. All’ultima gara del circuito, in Slovenia i due si presentano con lo stesso punteggio. Chi vince questa, anche se l’altro dovesse arrivare secondo, vince la Coppa. Patxi arriva a Kranj con la sua solita faccia concentrata, con un gran dolore alla spalla di cui non si lamenta, e tirato come la corda di un violino. In semifinale Adam parte prima di lui, fa top e poi può assistere alla sua prova. Sa di quella spalla, sa quanto male sta e che non si è curato per poter arrivare fino a quell’ultima gara. Patxi parte, ma non sale con il ritmo di sempre, si vede che non è a posto. Ugualmente stringe dita, denti e cuore fino a un piccolo tettino quasi in cima. Lì, con le mani contrapposte su due appigli da tirare in apertura, gli scivola un piede e deve controllare l’oscillazione tirando come una bestia su quella spalla già mezza andata. Adam quasi si spaventa, non vuole guardare, abbassa gli occhi e li rialza piano verso quelli del fisioterapista del basco, nei quali legge tutta la preoccupazione che si aspettava. Patxi resiste ancora due movimenti, poi cade. Lo calano a terra e Adam gli vede in faccia tutto il dolore di quel momento e degli ultimi mesi. Il giorno dopo il giovane ceco, al primo anno nel circuito assoluto, vince la gara e, con quella, la Coppa del Mondo. Voleva mettersi alla prova con i migliori e, su quel gradino più alto del podio, è alle stelle. Qualche mese prima non lo avrebbe neanche sognato. Quando scende dal podio posa coppa e medaglia e va verso Patxi. I due ovviamente si conoscono, ma non tanto bene. Pietro Dal Pra e Adam Ondra ADAM 160


Kyselina mravenčí IXc, Labák, Cechia. Foto: Petr Piechowicz

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Boží muka Xb (8a nella scala francese), Labské údolí, Cechia. Foto: Petr Piechowicz

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Sopra, Adam in Labák, Cechia. Foto: Petr Piechowicz Sotto, Arrampicata a Labské údolí, Cechia, 2007. Foto: Petr Piechowicz

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Arrampica quell’ultima parte con un po’ di apprensione, ma con una pace interiore che non dimenticherà più. Oggi è stato ancora una volta sul limite della gravità, con quella capacità speciale di attingere a energie dentro di sé che vanno oltre il fisico. È alle stelle. Perché così sa di essersi speso tutto, fino all’ultima goccia, e quella è la soddisfazione più grande, non il suo secondo 9b+, e tanto meno avercela fatta prima di Chris. È più che mai forte il senso di sollievo, è stata una grande avventura ma anche un peso che non si aspettava. A un certo punto non ci si sentiva più a suo agio, ma lì non poteva più mollare. Moschetta la sosta e l’enorme tensione accumulata esplode in un urlo in cui c’è tutta la gioia e la liberazione dei suoi vent’anni compiuti da tre giorni dopo uno di dedizione al grande progetto. Quando è atterrato già da un’ora e sta realizzando che ce l’ha fatta, gli fanno un’intervista. Dice che non sa descrivere la sua felicità, troppo grande. Ma nel video lo vedo con un’aria un po’ assorta e non con gli occhi sprizzanti di gioia che mi sarei aspettato in quel momento. Ringrazia Chris che gli ha dato quella possibilità e quella via e gli fa gli auguri. – You’ve got to do it man! Il giorno dopo il web esplode, Adam Ondra ha fatto La Dura Dura, secondo 9b+ al mondo. Chris Sharma ancora no e bla bla bla... Quelli a cui meno importa di chi sia stato il primo o il secondo sono forse Adam, liberato da quella ossessione, e Chris, per cui la salita del primo non è certo motivo di frustrazione ma solo uno stimolo a mettercene ancora di più. Lo sente che è così, e ne è orgoglioso, è anche per lui una prova che il suo amore per la scalata è dopo tanti anni ancora limpido. Devo essere sincero. Quando ho visto quanta fatica aveva fatto Adam per riuscire, ho pensato che per Chris sarebbe stata ancora lunga o addirittura infinita. Conoscevo bene Adam e mi sembrava impossibile che qualsiasi altro arrampicatore al mondo potesse anche solo avvicinarsi al livello che lui aveva raggiunto con tanta fatica. È evidente che non conoscevo bene Chris e non mi rendevo conto di quanto forte fosse. Eppure era stato proprio Adam a dirmelo: – Chris è un mostro, forse la farà presto, è vicino, è un talento unico che questa volta si è allenato sul serio, è nato veramente con qualcosa di diverso. Ma ancora stentavo a rendermene conto; sapendo della gentilezza congenita di Adam, pensavo che esagerasse. ***

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Il 27 marzo, agli ultimi strascichi dell’inverno, un mese e mezzo dopo la salita di Adam, è un giorno caldo e poco ventilato. Kristýna, la sorella di Adam, è in falesia a Oliana e sta provando un 8b+ su cui è caduta a un soffio dalla catena, ma quel giorno rinuncia a provare perché fa troppo caldo. Su dal sentiero arriva Chris e ha il piumino addosso. Guarda gli amici presenti e si rallegra per le buone condizioni, gli sembra che ci sia proprio una buona aria. Kristýna non capisce se sia per autoconvincersi o perché ci crede veramente, mentre lui comincia i piccoli rituali del riscaldamento in vista dei tentativi. Si sente bene, forte e tranquillo. Scorrono i minuti e lo sguardo da sereno e spensierato si trasforma in serio e assorto. Si fa silenzioso e si ritira nei suoi pensieri e respiri. Parte, e anche per lui è scalata superiore. Se di Adam colpisce, anche accentuata dalla morfologia fisica, la capacità di contorcersi, la scioltezza e gli angoli in cui vanno gambe, tronco, spalle e gomiti, di Chris colpiscono la forza e la pulizia, la nitidezza con cui le mani arrivano agli appigli. La salita è un quarto d’ora di passione al limite del commovente, si sente chiaro che in quei minuti si cristallizzano anni di scalata, si convoglia una vita intera. È fortissimo Chris, oggi davvero mostruoso. Rispetto al primo periodo di prove in cui gli si vedeva lo sforzo in ogni singolo movimento, ora è solido al punto che su molte prese sembra non essere neanche al suo limite. È un quarto d’ora speciale per tutta la falesia, si respira un’aria magica. C’è anche un relativo silenzio, quasi religioso: al contrario di Adam, Chris urla solo poche volte, giusto per prendere certi appigli deve liberare tutta l’energia compressa nella cassa toracica. Ci sono un po’ di amici e il supporto non è un tifo chiassoso ma un incoraggiamento quasi composto, continuo, che non vuole rovinare la solennità del momento. Si sentono in quegli incoraggiamenti tutto l’affetto e l’empatia che i presenti hanno per Chris e la sua storia Dura Dura. Se per quelli a terra è un tempo denso, per Chris lassù lo è molto di più. È perfetto dal primo all’ultimo appiglio, in equilibrio fra tranquillità interiore e un’energia infinita. Sull’ultimo passo arriva con un po’ più margine di Adam, ma conquistato il riposo finale è anche per lui difficile abbassare i battiti, la felicità vorrebbe solo sgorgare libera. Sui metri seguenti, per la gioia gli escono due urla quasi pacate e senza nessuna tensione. Arriva alla catena, passa la corda nel moschettone e lasciandosi cadere alza un braccio al cielo senza emettere suono. Lo calano, il silenzio rotto solo da qualcuno che sotto batte piano le mani. La Dura Dura. Il passaggio del testimone 223


Quando vedo le immagini di lui che atterra dal suo cielo quasi mi commuovo. Non ha in volto l’esultanza esplosiva di uno sportivo che ha abbassato il suo cronometro. Al contrario, è un po’ zen quel momento, gli escono poche e pacate parole, ma nel sorriso e negli occhi c’è una pace infinita. È gentile nel ringraziare tutti, anche loro lo hanno spinto un po’ in su e poco dopo ringrazierà Adam per averlo trascinato in quel viaggio che gli ha permesso di superarsi ancora una volta. Mi sembra che sia la serenità di uno che ha dato tutto, che è consapevole di aver raggiunto il proprio culmine assoluto, in pace perché questa volta non avrà più il fuoco di andare oltre. Nei giorni seguenti pian piano si scoprirà dentro un’altra piacevole sensazione: il sollievo, questa volta non solo quello per la riuscita, ma perché sente scemare il proprio ruolo di leader della difficoltà. Quella responsabilità ora sarà sulle spalle di un altro, e che altro! Una persona di uno spessore che va oltre l’arrampicata. È stato Adam ad arrivare per primo al 9b+, addirittura su un’altra via durante l’estate scorsa, ma lui sa di aver dato il suo contributo a questo processo, al salto avanti. Giorno dopo giorno è sempre più sereno, ha passato il testimone nel migliore dei modi, c’è stato un momento di contatto importante, in cui ognuno è stato l’occasione per l’altro. Forse è arrivato al suo limite ultimo, ed è contento di non esserci arrivato da solo. È un coronamento ancora più bello di anni sul filo dell’estremo. Qualche giorno dopo la salita dell’americano sento al telefono Adam. È felice e anche lui sente una sorta di sollievo per Chris, si sente meglio ora che anche lui l’ha fatta. Sempre, anche negli anni a venire, quando il discorso con Adam è caduto su La Dura Dura, ho sentito che era stata per lui un capitolo importantissimo, sofferto e gratificante, ricco di tanti aspetti che andavano al di là di quelli tecnici e sportivi. Ma non ho mai percepito la felicità travolgente che mi ha trasmesso per altre sue vie. Non so, forse aveva sentito di non aver dato il meglio di sé e l’aveva tirata troppo lunga. Anche se più semplicemente credo che questo fosse dovuto al fatto che aveva vissuto quell’esperienza a cavallo con un altro salto avanti nella scalata e nella sua vita. Un salto evolutivo più importante di quello de La Dura Dura: un salto che parlava di numeri, ma ancor prima di libertà, nuove visioni, creatività e futuro.

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Change 9b+, Flatanger, Norvegia. Foto: Petr Pavlíček

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Sopra, The Dawn Wall. Quinto giorno: Adam esulta dopo il 14° tiro. Foto: Heinz Zak A sinistra, The Dawn Wall. Le mani di Adam al sesto giorno. Foto: Heinz Zak Nella pagina a fianco, Silence 9c, Flatanger, Norvegia. Foto: Bernardo Gimenez

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Super Crackinette 9a+, Saint Léger du Ventoux, Francia. Foto: Bernardo Gimenez


L’ARRAMPICATA INFINITA QUO VADIS, CLIMBING? Già all’epoca in cui avevo iniziato a scalare io si discuteva se e quando l’arrampicata sarebbe mai approdata alle Olimpiadi. E, come molti altri della mia cerchia, ero fiducioso che da lì a poco la cosa sarebbe avvenuta. Sono invece passati quasi vent’anni all’alba di Tokyo 2020. Ma sono ovviamente felice che l’arrampicata sia finalmente parte dei Giochi a Cinque Cerchi. L’obiettivo è interessante e motivante. E nel seguire le Olimpiadi mi sono spesso chiesto come sarebbe stato se un giorno vi avessi partecipato anch’io. Ero emozionato all’idea. Ma il mio entusiasmo per Tokyo, successivamente, non sarebbe durato a lungo una volta appreso che all’arrampicata veniva assegnata una sola medaglia, secondo la decisione dell’IFSC (International Federation of Sport Climbing) che univa le tre specialità in un unico format di gara combinata. Ciò significava che, oltre al Boulder e alla Lead (specialità che amo), avrei dovuto iniziare ad allenarmi nella Speed. Nelle gare di velocità le vie di salita sono standardizzate, non cambiano mai, e anche l’allenamento consiste nel ripetere sempre lo stesso tracciato. Il contrario di ciò che amo dell’arrampicata, vale a dire creatività e apertura mentale. È stata una sfida immane dovermi dedicare a qualcosa che non gradisco. L’arrampicata infinita 299


La prima volta che accade. Per mesi posso davvero dire di averla odiata questa Speed! La preparazione è stata comunque rigorosa per tutte e tre le specialità, complicata dal Covid; l’esperienza di Tokyo bella, ma il mio sesto posto profondamente deludente. Nonostante questo, l’aurea delle Olimpiadi non ha eguali: trovarsi lì nel Villaggio Olimpico con migliaia di altri incredibili atleti delle diverse discipline sportive, pronti a realizzare il proprio sogno. Non sono il tipo che si lascia impressionare dagli eventi di massa, non immaginavo che avrei potuto emozionarmi, ma di fatto un po’ è stato così. Ecco perché voglio tentare un’altra Olimpiade o, chissà, partecipare a più d’una! Le Olimpiadi sono anche tra i motivi per cui oggi l’arrampicata sta vivendo un boom di crescita senza precedenti. Durante i Giochi, le palestre nel nostro paese hanno registrato un aumento vertiginoso d’iscritti e di partecipanti ai corsi. Da attività di nicchia e ai margini, si sta lentamente ma inesorabilmente trasformando in sport di massa. Di tutti gli eventi olimpici, il live streaming di arrampicata è stato il più seguito da noi in Repubblica Ceca! Il valore dell’arrampicata sportiva agonistica è sempre più riconosciuto, le Federazioni dei diversi paesi dispongono di fondi via via più consistenti per poter sostenere le proprie squadre. Vedo benefici soprattutto nella sfera agonistica di questa disciplina. E la maggiore disponibilità di denaro nell’ambiente non è riuscita a intaccare lo spirito solidale che si respira nelle competizioni, per ora. Sento che l’energia e il sentimento di comunanza tra gli atleti è rimasto immutato. È difficile prevedere che cosa accadrà in futuro, ma sono ottimista. Secondo le dichiarazioni del Comitato Olimpico Internazionale, serviamo addirittura da modello. La nostra è una disciplina in cui l’importante valore dell’amicizia risulta ancora radicato e preservato. La fase di osservazione collettiva della via, quando discutiamo tutti assieme delle beta, è qualcosa che stupisce sempre tutti. E pur prendendo atto che il gran giro di soldi e la politica abbiano notevolmente rovinato l’ambiente olimpico, le idee fondatrici di questa iniziativa sono buone e l’inclusione del nostro sport nei Giochi può costituire un’accezione positiva. Il crescente interesse per l’arrampicata condurrà all’apertura di un numero sempre maggiore di palestre nel mondo. Se una risulterà troppo affollata, subito ce ne sarà un’altra pronta ad essere inaugurata. Cosa ben differente rispetto a vent’anni fa, quando le indoor gym erano perlopiù buie, polverose e i suoi frequentatori si conoscevano tutti per nome. Pietro Dal Pra e Adam Ondra ADAM 300


Le palestre moderne sono frequentate da persone prevalentemente nuove all’arrampicata, che verosimilmente non hanno mai provato a scalare fuori e neppure hanno intenzione di farlo. Lo capisco: l’arrampicata indoor è accessibile, comoda, e ci si diverte sempre più grazie a muri e prese che migliorano di continuo. La scalata outdoor, invece, richiede più tempo, c’è l’incognita del meteo instabile, ed è potenzialmente più pericolosa. Non posso però che essere sinceramente lieto se con la pratica dell’arrampicata indoor molti si sentiranno più felici e soddisfatti. Continuo a pensare che sia un’attività più stimolante e divertente del far pesi in palestra, o no? Eppure, sono ancora molte le persone che li preferiscono alla indoor climbing. Non vi pare sorprendente? E un po’ sconcertante? E alle nostre falesie, che accadrà? Sempre più affollate, frequentate da persone senza alcun rispetto per l’ambiente naturale? Si arriverà per questo a maggiori restrizioni? Si promuoverà una richiodatura eccessiva delle vie classiche, con l’obiettivo di garantire la massima sicurezza per tutti? Difficile a dirsi. E anche se non mi sembra che ciò stia già avvenendo, questo non significa che dobbiamo abbassare la guardia. Sono convinto che occorra promuovere la massima varietà in termini di arrampicata. Alcune falesie dovrebbero risultare super sicure, altre, le più avventurose, restare tali, per quegli scalatori disposti ad andare oltre la difficoltà pura. La complessità che è propria dell’arrampicata outdoor fa sì che quest’ultima non possa crescere allo stesso ritmo veloce dell’arrampicata indoor. E, secondo me, sempre sarà così. Questo libro è nato con un intento. Un’idea di cui sono fermamente convinto. Ossia di spiegare che l’arrampicata sia molto più di quanto un abituale frequentatore di palestra indoor possa percepire. L’arrampicata è rispetto per l’ambiente naturale. È un grandioso dono che la vita ci offre, dalle molteplici dimensioni esplorabili e da esplorare. E anche se l’esplorazione in questo mondo sovrappopolato, dove tutti hanno il navigatore installato sul proprio cellulare, resta un concetto difficile da vivere, apriamo gli occhi e seguiamo la voce del nostro istinto. Così facendo non sbaglieremo mai strada. Adam

L’arrampicata infinita 301


Anders Ericsson, uno psicologo svedese specializzato nello studio sulla natura psicologica delle attività umane, dopo aver monitorato per lunghi anni un gruppo di giovani violinisti, aveva formulato la Teoria delle diecimila ore. Sosteneva che se nell’esercizio ripetuto per tutto quel tempo l’attenzione del praticante fosse completamente focalizzata su ciò che stava facendo, si sarebbero potuti creare nuovi circuiti cerebrali associati a quello per cui ci si stava esercitando e solo così raggiungere l’eccellenza. Scriveva Ericsson: «Non si migliora con la sola ripetizione meccanica, bensì continuando a mettere a punto la propria esecuzione per avvicinarsi sempre di più all’obiettivo». Il mio è un riassunto un po’ semplicistico delle teorie dello svedese, ma certamente anche così evoca il fascino zen di molte attività umane praticate con tanto amore e dedizione da evolversi a stato di arte. Il fascino della ricerca quasi inconsapevole della perfezione. E anche quello dell’automatismo nella pratica, quell’automatismo che ti porta a muoverti in modo talmente naturale da essere come un animale, ben oltre il pensiero razionale. Così è stato per Adam, che delle oltre diecimila ore dedicate alla scalata, ha vissuto tutti i minuti con una dedizione particolare, concentrazione del cervello e passione della pancia. Li ha succhiati tutti quei minuti, sempre colorati del progetto a cui erano volti e che li rendeva belli e pieni da vivere. Così la fatica non è mai stata vissuta come un peso, ma piuttosto come un’opportunità. Il grado è di certo stato importante, ma tutti i suoi obiettivi sono sempre stati veri sogni che andavano al di là dell’aspetto prestazionale-sportivo. Il numero è stato uno stimolo per andare verso l’eccellenza pura e un modo di misurarla. Pietro Dal Pra e Adam Ondra ADAM 302


Adam a ventitré anni si laurea, vince i Mondali e subito dopo sale Dawn Wall. A ventiquattro raggiunge la catena di Silence dopo un anno di dedizione a quella via. È appagato, consapevole di aver dato il massimo sul lavorato. Ha raggiunto il 9c, un grado nuovo per lui e per il mondo. Un mondo che già da tempo lo riconosce come il migliore. Ma poco importa quello che pensano gli altri, solo lui può dare a se stesso, con i fatti, le risposte che vuole. Così, a qualche mese dallo storico risultato in Norvegia, c’è ancora qualcosa che gli manca e, ancora una volta, sente il bisogno di mettersi alla prova per sapere a che punto è arrivato, se ha davvero spostato la sua personale asticella e lo vuole fare sulla scalata delle sue origini, quella da primo tentativo. Le ragioni sono due: intanto è ancora convinto che le più belle e pure qualità di uno scalatore emergano su appigli sconosciuti, quando bisogna essere elastici nella mente e capaci di adattarsi al meglio e subito alla roccia; poi, cosa altrettanto importante, in quella scalata il senso della prova è assoluto. Sì, perché sul lavorato se sbagli puoi confidare in altri tentativi, nell’a vista o nel flash no: una prova e basta. Se riesci, il piacere del successo è totale, se non riesci, il fallimento è definitivo e la via provata è bruciata. Quando è così, la pressione che si sente addosso è molto più forte. Più alta è la posta in gioco, più difficile è incanalare le proprie emozioni in una direzione costruttiva. Già, avere una sola chance cambia moltissimo e Adam lo sa, eccome se lo sa. Sulla roccia sembra una persona fredda, pragmatica e razionale, ma è in fondo anche un passionale, uno scalatore che ha sempre dovuto fare i conti con la propria mente e con le sue ansie da prestazione. Da bambino forse non se ne rendeva conto, ma già di fronte a vie che voleva salire a vista a tutti i costi, dandosi quindi una sola possibilità, educava nel migliore dei modi la testa a essere il più possibile un aiuto e non un peso. Forse non si rendeva neppure conto di essere sempre così proiettato verso il mettersi alla prova, eppure proprio quello è stato l’atteggiamento chiave della sua vita, una sorta di denominatore comune che si è spalmato in diversi ambiti, non solo quello della verticale. Un piacere, un bisogno, un modo di essere. Un gusto con cui è nato e che la sua cultura ha rinforzato ed esaltato. Un’attitudine che ha trovato il miglior terreno per esprimersi nell’arrampicata, di cui Adam ha sempre apprezzato un aspetto ben preciso: la chiarezza totale che c’è fra riuscita e fallimento. Sulla roccia come sulla plastica il risultato è netto, limpido, trasparente. O cadi o non cadi, o è nero o è bianco. I due estremi, anche se spesso vicinissimi, non lasciano dubbi. E questi estremi sono più lontani e spietati nella scalata in cui hai solo una possibilità a disposizione. L’arrampicata infinita 303


Pietro ha il senso della sceneggiatura. Scrive sequenze di un film e così trasmette la migliore delle verità: conta il viaggio con le sue tappe, i fallimenti, le tenacie, più dell’arrivo, del traguardo agguantato. — ERRI DE LUCA, dalla prefazione

€ 22,00

ISBN 978 88 55471 572


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