CORREVAMO IN PARADISO

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Miky Oprandi a cura di Marta Torriani

Gli anni ’90 tra Skyrunning e Scialpinismo

“Le montagne della mia valle erano fogli bianchi su cui scrivere”. Questa semplice frase esprime molte sfaccettature del Miky, una dentro l’altra. In primis la sua passione per il territorio d’origine, le Orobie brembane, che non si è affievolita anche dopo aver girato mezzo mondo grazie ai molteplici interessi sportivi spinti fino all’agonismo. In secondo luogo la voglia di cimentarsi costantemente in attività nuove e la curiosità verso qualsiasi novità vissuta con intensità e profondità. Dentro queste parole c’è anche la sua sincera sensibilità, a tratti struggente, che dà forma poetica al racconto delle sue attività sportive ma anche dei lunghi momenti d’introspezione, nati nelle ore spese con sé stesso, correndo e sciando su e giù per le montagne. Il bisogno di Miky di esternare il proprio vissuto è legato all’idea di condividere la sua esperienza da atleta sia con chi frequenta la montagna e il mondo dello sport, da neofita o da veterano, sia con chi ha semplicemente voglia di sentire storie di vita, con alti e bassi, cadute e risalite. Da questa frase è scattata la scintilla di questo libro e si riferiva nello specifico al foglio vergine dello skyrunning, una disciplina che Miky ha approcciato prima che avesse un nome e che diventasse popolare. Per lui correre era un modo di essere, oltre che di spostarsi e d’inverno diventava scialpinismo, in un’epoca in cui anche per questo sport, oggi ormai di massa, ogni indumento e ogni attrezzo era frutto di esperimenti e continui test sul campo. La passione per la corsa, lo scialpinismo e in generale la montagna è stata condivisa con numerosi amici che scandiscono questo racconto. Non solo il padre dello skyrunning Marino Giacometti e il grande alpinista Simone Moro, che introducono le parole del Miky tratteggiandone il carattere alla perfezione, ma anche Adriano Greco, Fabio Meraldi, Omar Oprandi, Emilio Previtali, Bruno Tassi e moltissimi altri. Va da sé che il racconto di uno dei pionieri dello skyrunning e dello skialp, nella loro accezione contemporanea, è anche un viaggio nei mitici anni ’90, che sembrano lontani anni luce dai nostri tempi anche per chi in quegli anni c’era e se li ricorda bene come il Miky. Non è rimpianto, ma solo un ritorno al passato per leggere con occhi consapevoli il presente.

MICHELANGELO OPRANDI, per tutti il MIKY e per gli alpinisti il Lipa, è tante persone in una. Innanzitutto uno skyrunner e scialpinista, in generale un atleta e un convinto montanaro, che ha saputo unire le passioni nella sua prima professione di Guida Alpina. Oggi si occupa prevalentemente di altre due storiche vocazioni, ovvero la musica e la fotografia. Le montagne continuano a essere la sua ispirazione, per elevare il punto d’osservazione, vivendole con lo stesso entusiasmo del bambino che è stato.

MARTA GAIA TORRIANI condivide con il Miky i natali a San Pellegrino Terme, in Valle Brembana, e la passione per la montagna, anche se la sua si è concentrata sul mondo degli alpeggi e dei formaggi, trasformandosi nel suo attuale lavoro di promozione delle eccellenze casearie orobiche. Per divertimento scrive, soprattutto ama ascoltare. Da tutto questo è nata l’idea di prestare la propria penna ai pensieri e ai ricordi del Miky.

Copertina: Miky alla corsa del Monte Bianco, 1993. Foto: archivio FSA Retro: in discesa ad Aspen, Colorado. Foto: archivio FSA

CORREVAMO IN PARADISO

2024 © VERSANTE SUD S.r.l.

Via Rosso di San Secondo, 1 – Milano

Per l’edizione italiana tutti i diritti riservati

1ª edizione agosto 2024

www.versantesud.it

ISBN: 978 88 55471 701

MIKY OPRANDI

CORREVAMO IN PARADISO

Gli anni ’90 tra skyrunning e scialpinismo

a cura di MARTA TORRIANI

EDIZIONI VERSANTE SUD | COLLANA I RAMPICANTI

Introduzione 07

Prefazione di Simone Moro 09

Skyrunning – Il backstage di Miky 11

Correvamo in Paradiso 13

Conclusione 163

Postfazione 169

Ringraziamenti e bibliografia 172

Dedicato a mia moglie Rossella e nostro figlio Jhony, due tesori e le vette più importanti della mia vita. Al Dott. Piero Redondi, sempre umanamente accanto a me in tutte le fasi e vicino a tanti atleti di montagna.

Miky Oprandi

INTROD uz ION e

Mi sono immaginato più volte quanto sarebbe stato bello se da bambino avessi potuto ricevere una lettera firmata dal Miky adulto di oggi. Una sorta di “Ritorno al futuro” epistolare.

Avrei un sacco di cose da scrivermi, senza dubbio inizierei dagli sbagli da non far commettere al Michelangelo in crescita; in verità non credo che da piccolo avrei né accettato né tanto meno seguito dei consigli.

Probabilmente scrivere risponde alla mia esigenza attuale di rivedermi, di ripercorrermi insieme a un pezzo di storia, gli anni ’90 in particolare, che forse un po’ rimpiango e che comunque non vorrei mai dimenticare. I miei genitori non hanno mai cercato di dispensare grandi consigli o impormi percorsi da seguire, però da parte loro non sono mai mancati degli input sui valori fondamentali, quali l’amore e il rispetto per gli altri, che credo di aver fatto subito miei e di aver sviluppato negli anni, cercando di metterli sempre al primo posto nelle mie scelte e nelle mie azioni. Diversi sono appunto i suggerimenti su quale strada prendere, perché anche se la meta non cambia, il percorso giusto è su misura di chi lo percorre, anche se può sembrare contorto e tortuoso. Del resto la vita, a parità di quel che accade, si guarda in maniera diversa in base al proprio essere e al proprio vissuto in un determinato momento. Questo determina la nostra reazione agli accadimenti, nel senso che tendiamo a ingigantire fatti piccoli o viceversa in base alla nostra capacità di affrontarli in un preciso periodo.

Non è raro sentir dire che qualcuno ha avuto la fortuna di trovarsi al posto giusto nel momento giusto. Quel momento rappresenta spesso un inizio e quella fortuna l’occasione da cogliere per poi svilupparla, concretizzarla e amarla al punto da tollerarne l’onere di averla trovata o di esserne stati travolti. Qualcosa di simile accade quando si avvera un sogno: un conto è immaginarlo, idealizzarlo, bramarlo pensando solo ai suoi vantaggi, un altro è trovarsi di fronte alla sua reale dimensione, riuscendo a gestirlo senza farsene sopraffare.

La mia vita professionale e soprattutto sportiva è nata così: dal sogno di correre in verticale all’occasione di trovare le persone per farlo e con esse lo slancio per sganciarsi dal comfort della mia vita di allora e costruirmene una nuova allineata a uno stile di vita per me ideale, per altri bizzarro.

I mitici anni ’90, attraversati nel pieno dei miei trent’anni, in Valle Brembana, sono stati il momento e il posto perfetti per incanalare la passione per lo sport e la montagna nella mia strada, prima come atleta e poi come Guida Alpina. Ed è grazie a questa libera professione che mi sono confrontato con la concretezza di dover sbarcare il lunario con una passione, ma credo di aver saputo tenerle testa andando oltre le difficoltà e reinventandomi più e più volte.

Questo libro è prima di tutto per me e per chiunque abbia voglia di sentire un po’ della storia recente raccontata dal punto di vista di un atleta di montagna. Non è né il racconto di un campione, da cui prendere spunto per seguire gli allenamenti e l’alimentazione, né un almanacco nel quale cito i nomi di tutte le gare o dei risultati. Senza pretese di esaustività ho cercato, con la mia storia, di raccontare anche quella dello skyrunning e dello scialpinismo competitivo, poiché mi ci sono trovato dentro. Se mai queste righe potranno essere da stimolo, non credo che lo saranno solo per gli sportivi. La mia voglia di raccontarmi è per condividere idee scaturite dopo lunghe riflessioni, trasversali alle epoche e alle professioni.

Come credo tutti, anche io ho una voce interna che mi parla e che riesco ad ascoltare nel silenzio che mi regalano i momenti trascorsi a tu per tu con me stesso durante gli allenamenti, le gare e i viaggi, fuori dalla confusione e dalla frenesia di un mondo in continua accelerazione, dal quale ho sempre cercato di non farmi fagocitare. Nel mio caso i luoghi erano le montagne, soprattutto quelle che vedevo dalla cima del mio paese, quelle che sembrano tenersi perennemente per mano e capaci di portarmi il cuore in paradiso.

PR efA z ION e DI SIMON e MORO

Michelangelo è forse il nome più azzeccato per il Miky Oprandi. È il nome di un grande artista, pittore, scultore, architetto, poeta conosciuto in tutto il mondo, talmente grande e diverso che è difficile darne una definizione precisa. La stessa cosa vale per Miky che, a parte una fama e abilità meno assolute rispetto al grande e unico Michelangelo, è anch’egli un personaggio poco definibile. Miky è un uomo che si è dedicato e studiando ha sviluppato doti notevoli nella musica, nella corsa, nello scialpinismo e nella fotografia. Ha percorso in lungo e in largo grandi spazi, soprattutto quelli delle sue montagne di casa, respirandone non solo l’aria frizzante e pura con il cuore in gola, ma anche assaporando secondo per secondo, leggendo il mondo attraverso la sensibilità artistica ereditata dal padre pittore e da due zii poeti e musicisti.

Il risultato è un uomo oggi quasi sessantenne che sicuramente può dire di vivere pienamente la sua vita, lasciandosi stregare dalle sue passioni, senza mai diventarne schiavo e quasi evitando che queste diventassero una cosa troppo seria, professionale.

Ha vissuto e vive di passioni, che cerca solo di rendere autosostenibili, il che è uno stadio precedente al concetto di “remunerativo” perché se tale fosse e divenisse perderebbe quasi di bellezza, purezza, innocenza. Miky è fatto così, anarchico e ideologico, utopico e realista, schietto ma anche titubante e dubbioso, e questa personalità resta la stessa indipendentemente che scali una montagna o pianifichi una sciata o una registrazione musicale. Io l’ho conosciuto e frequentato assiduamente a cavallo tra gli anni novanta e duemila, prima che le mie attività di alpinista e poi di pilota divenissero totali e occupassero ogni secondo del mio tempo, portandomi spesso lontano da Bergamo e dall’Italia. Tutte le volte che torno Miky è qua, innamorato delle sue molte passioni e la sua arte è quella di praticarle tutte. Bisogna usare il condizionale quando si fa riferimento a cosa potrebbe ancora fare o ideare e che non ha ancora realizzato. Il suo livello come corridore in montagna e come scialpinista è stato assoluto: i risultati ottenuti erano frutto di dote naturale e mai di preparazioni massacranti, ma semplicemente di allenamenti piacevoli, che tali dovevano restare. Il suo soprannome Lippa stava a indicare che andava sempre veloce e io aggiungerei anche “leggero”, era un maniaco dei materiali superleggeri e di gite in montagna che dovevano sempre prevedere il rientro

per pranzo a casa, dove lo aspettavano (e spesso aspettavano anche me con lui) montagne di carboidrati e una quantità vergognosa di insalata. Qua l’artefice era sua mamma e il pranzo era sempre una tavola stracolma e ben curata. Sono riuscito a contagiare Michelangelo alla montagna e all’alpinismo fino al corso di Guida Alpina, che terminammo nel 1999. Praticava l’arrampicata sportiva giusto per elevare e mantenere le abilità necessarie alla sua attività di Guida, ma mai si sarebbe dedicato ad allenamenti a secco e indoor costanti per tante ore tutti i giorni, come facevamo io e il Camòs (all’anagrafe Bruno Tassi), amico e maestro comune. Miky si può dire che era “fuori”, nel senso che un po’ era ed è stato sempre originale e pazzerello, ma in aggiunta a questo voleva stare all’aria aperta, negli spazi della Valle Brembana e di quella porzione delle Orobie. Mal sopportava trasferte lontane o cercava di limitarle nel tempo organizzando rientri veloci e immediati, prevedendo a volte anche tappe con pernotto in auto. Assieme abbiamo fatto parecchie competizioni di scialpinismo e corsa in montagna, dette skyrunning. Lui era quello forte e io provavo a stare a ruota o a dare il massimo per non farlo troppo sfigurare. Io ero decisamente più dotato nel mondo verticale di roccia, ghiaccio e alta quota, ma è stato bello e importante farsi trasportare da lui nel mondo agonistico di un altro modo di vivere la montagna. Questo suo libro narra di lui e di un mondo ideale, che non c’è più ma che non è anacronistico o impossibile immaginare ancora. Più che il mondo è cambiato l’uomo, la sua educazione, la sua voglia e capacità di esporsi, di seguire sentieri fuori moda, antichi, romantici, scomodi ma allo stesso tempo autentici. È una lettura che può ispirare, far riflettere, provocare un salto nel passato e rievocare il vissuto di molti di noi. Un album dei ricordi senza effetti speciali, dal linguaggio schietto, diretto come un colpo d’accetta, vero e nostalgico. Miky vive alla ricerca dell’isola che non c’è, felice di non trovarla ma di approdare a tante altre mete che gli indicano la via e gli offrono lo stimolo a non smettere mai di essere esploratore dei suoi sogni, curandosi di vivere e scrivere la sua storia e godere del quotidiano gustando il valore del “poco” senza desiderare il “tanto”.

Simone Moro – Alpinista, scrittore e aviatore Dicembre 2023

SKYR u NNIN g – I l BA c KSTA ge DI MIKY

Lo skyrunning visto con gli occhi di Miky è il miglior modo per capirne le origini dal punto di vista degli atleti, che si avvicinavano per primi a questa nuova disciplina sportiva su vere montagne e in alta quota.

Devo dire che negli anni ’90 ero distratto dai miei troppi ruoli, prima come alpinista-atleta, poi come organizzatore di gara e team manager, ruoli che spesso si sovrapponevano nello stesso evento.

Leggere il racconto e la visione di Miky ha riportato a galla molti piacevoli episodi accaduti nei primi anni dello skyrunning, finiti poi sotto il tappeto.

Nel mio recente libro A Ognuno il Suo Everest (edito da Mondadori), anche se mi rivolgo a un pubblico di potenziali camminatori, nel diario non potevo non parlare dei primi passi dello skyrunning. L’ho fatto però attraverso brevi pillole, sia per motivi editoriali sia perché certi ricordi erano ormai sepolti sotto la frenesia degli anni successivi, sportiva e burocratico-federale, purtroppo ancora in corso.

Miky è stato tra gli atleti più entusiasti, forse inizialmente anche un po’ naïf, ma proprio per questo ha potuto vedere e trasmetterci la genuina visione dello skyrunning “dietro le quinte”.

Quasi tutti gli altri componenti del Fila Skyrunner Team aspiravano a vincere, mentre quelli esterni erano più preoccupati di arrivare o meno in vetta o al finish. I leader di allora, Guide Alpine o nuovi della disciplina, in gara si trasformavano ragionando come puri agonisti, a prescindere dai regolamenti spartani dell’epoca. Tra gli alpinisti già affermati ricordo la partecipazione di Simone Moro, il quale, provenendo dal mondo dell’arrampicata sportiva, mostrava anche lui un approccio decisamente “agonistico”.

Miky, pur essendo sempre tra i top, credo non abbia mai subito questo stress da risultato e quindi ha vissuto quegli anni assaporando appieno ogni cosa, dalla montagna alle relazioni interpersonali, correndo appunto, come dice lui, in un “paradiso terrestre”.

Marino Giacometti – Presidente ISF (International Skyrunning Federation) Settembre 2023

Prime uscite in solitaria, autoscatto

Portare il nome che i miei genitori hanno scelto per me è impegnativo. Probabilmente lo pensano anche gli altri e forse è per questo che tutti da sempre mi chiamano semplicemente Miky, solo in pochi continuano a chiamarmi con il mio nome di battesimo: Michelangelo.

Sono nato a San Pellegrino Terme in Valle Brembana, a una trentina di chilometri da Bergamo, il 14 maggio 1965. Il mondo era alla vigilia delle grandi contestazioni giovanili.

Ho visto la luce negli anni del boom economico, in un paese che, pur lasciandosi alle spalle i gloriosi fasti del Liberty, stava ancora attraversando anni culturalmente vivaci, che lo distinguevano dalla tranquillità montana dei paesi vicini. Nel 1968 avevo solo tre anni: i miei genitori non hanno vissuto quell’annata partecipando a cortei o a manifestazioni, anche perché in valle certi eventi sono sempre arrivati edulcorati, di rimbalzo.

Nel 1970 la famiglia si è completata con l’arrivo di mia sorella Gigliola. Inizialmente i cinque anni di distanza tra noi si percepivano nettamente poi , crescendo, ci siamo avvicinati pur restando caratterialmente molto diversi. Lei è sempre stata più tranquilla di me, posata, senza grilli per la testa.

Gigliola era e resta ai miei antipodi, eppure siamo cresciuti respirando gli stessi valori della famiglia e condividendo i medesimi ricordi delle estati a Zorzone, una piccola frazione di montagna dove è nata mia mamma e in cui con la mia famiglia passavamo parte dell’estate.

Rispetto alle tante biografie di molti sportivi e uomini di montagna, la mia infanzia non si è svolta nel dopoguerra , lottando contro la fame in famiglie numerose. Al contrario io sono arrivato in quegli anni nei quali bastava poco per avere tanto.

Mia mamma Maddalena da nubile lavorava a Milano come impiegata in prefettura. Dopo il matrimonio, come molte altre donne, ha lasciato il lavoro dedicandosi alla famiglia. Avendo frequentato per suo interesse personale un corso come volontaria sanitaria, una volta casalinga si è tenuta utile e attiva con alcune prestazioni domiciliari. Mio papà Romano era impiegato all’Enel, prima negli uffici di Bergamo e poi in quelli di San Pellegrino, aspetto che ha favorito il suo tempo libero dedicato alla famiglia e alle sue passioni, quali la musica e la pittura. Sono felice che i miei genitori siano riusciti a condividere tanto tempo insieme, li ho sempre reputati una bella coppia, forse perché ognuno di loro è riuscito a coltivare i propri interessi e le proprie attitudini. Ho sempre percepito in loro un amore profondo accompagnato dai fatti. Oggi anche da anziani testimoniano l’Agape fino in fondo. Come potrei non credere all’amore eterno con un esempio così?

I miei ricordi infantili sono scanditi dalle mattine passate sui banchi di scuola e dai pomeriggi trascorsi nei boschi, a giocare e a creare invenzioni con quel che si trovava. Fare i compiti non era contemplato. Le domeniche mattina erano dedicate alla messa delle undici , alla quale assistevo da dietro l’altare assieme a mio papà, che cantava nel coro polifonico del paese. L’esperienza musicale continuava anche a casa, mentre ascoltavo mio papà ripassare gli spartiti.

Della scuola elementare ho il dolce ricordo della maestra unica Teodoro, una donna dalla sensibilità eccezionale: lei ha osato andare oltre la rigidità della programmazione ministeriale, prendendosi la libertà di inserire divagazioni sulla musica e sull’arte che mi hanno letteralmente stregato e formato in maniera profonda e alternativa. A distanza di anni condivido ancora la memoria di questa bella opportunità formativa con alcuni miei coetanei.

Alle scuole medie il contesto è cambiato. Ho incontrato professori faziosi, nei quali non riuscivo a riconoscermi e in pochi docenti ho ritrovato la stessa

creatività e sensibilità della maestra Teodoro. Faceva eccezione l’insegnante di educazione fisica, che alternava l’attività tradizionale in palestra con uscite sulla cima del Monte Zucco, la montagna dei sanpellegrinesi. Per me è stato difficile piombare in una normalità scolastica che non aveva continuità con l’apertura vissuta alle elementari. Stare ore al banco perseguendo un risultato standard, che sopprimeva le doti individuali, mi aveva progressivamente allontanato dalla bellezza dello studio, tanto che è venuta meno la voglia di proseguire con la scuola superiore.

Questo disamore per lo studio ha infatti determinato le scelte del mio percorso formativo. I miei professori delle medie mi spingevano a trovarmi subito un posto di lavoro. Con il senno di poi credo che un liceo classico sarebbe stato il mondo più adatto a me. Probabilmente non sono riuscito a dare voce e seguito al richiamo interiore verso una scuola umanistica, in città, a contatto con ragazzi e ragazze di diversa estrazione sociale e con vissuti differenti dai miei. Ho avuto la conferma di questo suonando in un gruppo musicale composto da amici che frequentavano il Liceo Sant’Alessandro di Bergamo. Insieme abbiamo suonato per alcuni studenti nell’ambito di una rassegna musicale, interna alla scuola, dei pezzi di Bryan Adams cantati da Francesco Patanè, ora in piena attività come notaio e rimasto mio carissimo amico. Ecco! In quell’ambiente mi sono ritrovato con ragazzi e soprattutto ragazze molto interessanti. Le mie frequentazioni erano trasversali, ma quelle mediamente più intense erano con ragazzi e ragazze che studiavano nei prestigiosi licei bergamaschi. Oggi non mi manca tanto i fatto di non aver conseguito il diploma di maturità, quanto il non aver vissuto l’esperienza della vita da studente.

Tuttavia credo che proprio quegli anni di apparente smarrimento personale siano stati il terreno fertile nel quale sono maturate le mie scelte più profonde e dove ha trovato linfa la mia creatività. Mentre i miei compagni erano alle superiori, da autodidatta approfondivo il mondo della musica, dei computer, delle registrazioni audio e avevo iniziato a suonare nei miei primi gruppi.

Parecchie delle attività che svolgo ora sono frutto anche di quegli anni apparentemente aridi.

Non deve trarre in inganno né l’immagine di me chiuso in uno studio, né quella di un Miky dedito solo alla musica in compagnia. Quelli erano anche gli anni nei quali adoravo starmene per i fatti miei, per andare a camminare nel bosco o lungo le sponde del fiume.

Persone come Adriano si complimentano se lo pensano veramente, e viceversa. Non regalano e non fanno sconti. Frequentando Adriano si percepisce chiaramente quanto ami lo sport e gli sportivi: si è sempre donato senza egoismo e con sincero amore, addirittura con empatia, come se fosse lui a dover compiere l’azione. La sua didattica e il suo modo di fare erano vecchio stampo già trent’anni fa, ma l’approccio era elegante nonostante l’asprezza.

Sta di fatto che nell’ottobre 1992 ho fatto il primo tentativo per contattarlo. Al suo telefono di casa mi ha risposto un’energica voce che ha detto qualcosa tipo: “L’Adriano al ghe mia, America!… Everest… bah so mia!”1 Ho capito dopo che dall’altra parte del ricevitore c’era il papà di Greco, il quale mi voleva comunicare che il figlio era via, da qualche parte nel mondo.

In effetti era in Tibet alla maratona dell’Everest. Al suo ritorno, dopo che ci siamo finalmente sentiti a inizio inverno, mi aveva invitato a una gita in alta Valtellina con Fabio Meraldi. Ci sono andato al volo: non ricordo la zona esatta, ma oltre la salita con un bel passo ho ben presente la discesa ripidissima, che ho affrontato con molta determinazione e sicurezza. È evidente che Fabio e Adriano volevano testare il mio livello. Pare non fosse male perché alla fine Adriano mi ha detto: “T’el trovi mì él socio”.2

Il compagno affibbiatomi è stato Carlo Clerici dello Sci Club Sondalo, squadra nella quale militavano già Greco e Meraldi e alla quale mi sono subito associato. Neanche a farlo apposta ai tempi Carlo lavorava nella piccola azienda SkiTrab a Bormio. Con lui ho fatto coppia fissa in numerosissime gare di scialpinismo, che hanno scandito per alcuni anni i miei inverni e le mie primavere più che le gare di skyrunning estive.

A inizio di quella stagione ’92/’93 ho fatto una cronoscalata individuale a Santa Caterina di Valfurva, un’occasione per conoscere meglio Carlo. Aveva vinto Fabio Meraldi, Greco si era classificato quinto, io dodicesimo e Carlo ventitreesimo. È iniziata un’avventura!

Oltre a una partecipazione a un’altra cronoscalata, questa volta a coppie a Davos, della quale abbiamo vaghi ricordi sia io sia Carlo, il 21 febbraio 1993 abbiamo partecipato al Trofeo Corradini in Val di Non in Trentino, una gara in linea a coppie. Siamo arrivati quarti.

1. “Adriano non c’è, è in America, all’Everest… bah, non lo so!”.

2. “Te lo trovo io il socio”.

Sul podio Greco-Melardi, seguiti da Boscacci-Murada e Vescovo-Biavaschi.

Omar e Marco Polla si sono piazzati dietro di noi, sesti i fortissimi bresciani Salvadori-Guzza.

Con incredulità abbiamo ritrovato dietro di noi coppie conosciute, forti e affermate. Lo stupore si è caricato di coraggio e voglia di cimentarmi sempre più nello scialpinismo agonistico, del quale scoprivo giorno dopo giorno la bellezza dell’ambiente, foriero di amicizie vere, confronti costruttivi e amore condiviso per la montagna.

Le coppie stabili avevano un nome che risuonava sempre come unico: Grecomeraldi, Vescovobiavaschi, Salvadoriguzza, Boscaccimurada, Oprandipolla, Foscopederiva e via dicendo. Erano una sorta di marchio di fabbrica, come dire Dolcegabbana.

Già in quella prima stagione al fianco di Carlo, tra le varie gare abbiamo partecipato anche alla mitica Pierra Menta, che per me sarebbe diventata la regina dello scialpinistico agonistico. Questa competizione internazionale viene disputata da quasi quarant’anni nell’Alta Savoia francese: è una gara in linea a tappe, suddivisa in quattro giornate con 10 000 metri di dislivello e grandi momenti di festa e condivisione.

Durante il primo viaggio in auto verso quel Tour de France dello scialpinismo, Meraldi ha fermato l’auto in un punto nel quale, per loro abitudine e forse anche con un pizzico di scaramanzia, erano soliti fermarsi a fare pipì. Mentre eravamo tutti in fila uno in fianco all’altro, Fabio mi ha rivelato in dialetto che sarebbero state tre le cose su cui fare riferimento nei giorni successivi: “Mangiàr, cagàr e far fadiga”. Credo sia superflua la traduzione. Svolgendosi all’incirca a metà marzo, ogni giorno di gara iniziava all’alba per sfruttare la neve ottimale del mattino, così ho potuto apprezzare con la migliore luce del giorno quei luoghi stupendi. Quel primo anno io e Carlo siamo arrivati ottavi, un piazzamento sufficiente per ritrovarmi con nostra grande meraviglia sui giornali locali.

Nei 10 000 metri di dislivello di sola salita sono immaginabili azioni frenetiche quali svariati cambi pelli, metti e togli ramponi, sci infilati nello zaino e molteplici variazioni di assetto sugli sci. In un’edizione ho usato solo un paio di pelli di foca in tutte le quattro giornate di gara, in ogni cambio sono sempre filate lisce e la colla ha sempre tenuto. Mi piace pensare che la velocità acquisita nei cambi, di cui ero diventato particolarmente abile, era merito della Pierra Menta e delle innumerevoli uscite mattutine, durante le quali svolgevo velocemente ogni azione per arrivare in tempo al turno di lavoro.

Una cosa che ho sempre amato di quella competizione erano anche gli innumerevoli dietro front; queste manovre di cambio direzione lasciano sui pendii delle tracce a forma di Z, nome col quale io e soci indicavamo i tratti di gara che richiedevano l’inversione. La mia abilità sulle “zeta” era inversamente proporzionale alla mia resa nei tratti ripidi diritti.

Il giorno clou della gara francese a tappe era il terzo, quello dalla salita da tre versanti della vetta simbolo: il Grand Mont (2680 m). Con alcuni passaggi sia in salita sia in discesa molto tecnici, compresa la lunga cresta aerea e il passaggio delle centinaia di concorrenti in un mare di folla, quella giornata donava agli atleti un’emozione straordinaria.

Quando iniziavo a sentire da lontano a ogni arrivo di atleti in vetta il rumore della folla, la fatica passava in secondo piano e nell’attraversare il frastuono delle grida e dei campanacci del pubblico ero assalito persino da un nodo alla gola che mi faceva venire le lacrime agli occhi.

Tra le discese dalla cima, una in particolare la ricordo ripidissima, con corda fissa e con la dura neve primaverile: si scendeva derapando in alta velocità, in quanto tale sistema faceva perdere quota rapidamente, senza affaticare troppo la muscolatura.

Persino il sacerdote del paese, Jacques Plassiard, ovviamente scialpinista e anche fotografo, uomo di grande sensibilità, appassionatissimo di montagna, non si perdeva un’edizione collocandosi nei punti più difficili del percorso, quali creste e canali, che richiedevano magari i ramponi e suonava per gli atleti l’armonica a bocca. Quel suono, che proveniva da un uomo di fede, infondeva in me un senso di protezione profonda e in ogni tappa in quel passaggio mi commuovevo profondamente.

Sono riuscito a scrivere a Jacques per chiedergli se avesse una fotografia di quegli anni che lo ritrae con l’armonica. È stato motivo di qualche scambio di toccanti ricordi; mi ha scritto:

Mi postavo in disparte, dove non c’era la folla. Al punto più strategico, particolarmente la cresta ovest del Grand Mont. Dare un po’ di coraggio per gli ultimi 100 metri della tappa del sabato. Un’occhiata, un sorriso scambiato, un’aria di armonica... adatta al concorrente. Per comunicare non è necessario fare tanto rumore.

Campionati provinciali, bassa bergamasca. Corsa campestre, categoria Junior, anni ’80
Miky Oprandi CORREVAMO IN PARADISO
Discesa a salti dalla vetta

, scialpinismo in Val Brembana, anni ’80

A fianco, con Fulvio Mazzocchi e Gianluca Carrara al Passo del Tonale durante il militare, 1985

Sopra
Gara di corsa su strada, Campionati Provinciali, Sedrina (BG)
Miky incolla le pelli prima della Rampegada al Monte Guglielmo (BS), anni ’90

Nel suo insieme la Pierra Menta resta a mio giudizio la gara più toccante di tutte. Era persino commovente sentire pronunciare dal pubblico che ci incitava i nomi nostri con l’accento finale alla francese: Alé Oprandì! Alé Clericì!

Anche se quella gente così calorosa annullava la fatica in certi passaggi, ammetto che l’impegno fisico e mentale era alto, come lo era la fame nel dopo gara. Infatti mangiavamo in continuazione e solo facendola ho compreso fino in fondo il motto in tre verbi di Meraldi.

Durante quella gara ho anche capito di essere un diesel, nel senso che il primo giorno e soprattutto le prime centinaia di metri arrancavo sempre, mentre progressivamente miglioravo, finché gli ultimi due giorni davo il meglio di me.

Iniziavo a capire di essere portato per le gare a tappe, ma purtroppo non ne esistevano altre. In quelle edizioni Greco e Meraldi si contendevano il primo posto lottando con coppie di atleti francesi, nella maggioranza dei casi vincevano loro.

I primi 10 alla Pierra Menta 1993:

1. Adriano Greco–Fabio Meraldi (ITA)

2. Francis Bibollet–Thierry Bochet (FRA)

3. Miroslav Leitner–Dušan Trizna (SVK)

4. Omar Oprandi–Marco Polla (ITA)

5. Christophe Jond–Marc Arvin-Berod (FRA)

6. Guillaume Prin–Paul Mollière (FRA)

7. Gilles Barnéoud–Eric Thole (FRA)

8. Carlo Clerici–Miky Oprandi (ITA)

9. Pierre-Alain Morand–Christophe Profit (FRA)

10. Patrick Lambert–Lionel Bonnel (FRA)

Un ricordo oltre la gara di quel Pierra Menta è legato a un pomeriggio in cui, per sgranchire le braccia e la schiena fra una tappa e l’altra, Adriano e Fabio hanno pensato bene di andare a fare due arrampicatine in una falesia non distante dal luogo dove pernottavamo. Dato che in quel periodo iniziavo a maturare la voglia di indagare il loro modo di vivere e di sostenersi come Guide Alpine, oltre che carpire i loro trucchi atletici, mentre scalavamo mi hanno fatto notare senza troppi giri di parole che se diventare guida era quello che mi ballava in testa dovevo assolutamente migliorare nell’arrampicata. Con noi era venuto il mitico Christoph Profit, uno degli alpinisti solitari francesi più forti al mondo, un mito anche per Greco e Meraldi.

Foto: arch. Camel Trophy

Un altro poliedrico atleta a me vicino e soprattutto un amico, trovato in quegli anni ’90 e mantenuto nei successivi, è Emilio Previtali: bergamasco, di poco più giovane di me, era un riferimento nel mondo dell’arrampicata e un pioniere bergamasco dello snowboard, del quale è stato per anni il maestro di riferimento a Foppolo, quando ancora non c’era una normativa specifica che ne regolamentasse l’insegnamento ma in moltissimi volevano cimentarsi. Anche se frequentavo quella nota stazione sciistica salendo a testa bassa con gli sci, non ho mai avuto il paraocchi, anzi ero ben attento a notare qualsiasi novità sportiva. In generale sono sempre stato estremamente curioso e attratto da qualsiasi nuova attività, non solo sportiva. Ebbene, un altro sport emergente in quel periodo era proprio lo snowboard.

Ribadisco, mi sentivo e mi sento nel midollo uno scialpinista, ma il sapore del principiante in altre attività in quell’ambiente mi inebriava e un qualcosa di nuovo al quale non ho saputo resistere è stata la tavola. In valle era anche nato un gruppo di amici amanti dello snowboard che avevano creato un team, ribattezzato in bergamasco-inglese “team tum tam”. Sul logo, riprodotto anche come adesivo da applicare ai materiali, compariva la scritta “brember valley” per rimarcare l’ispirazione internazionale di una realtà valligiana. Molti soci di quel team erano di San Pellegrino Terme ed è stato in particolare grazie a

Giovanni Redondi, Alessandro Arizzi e lo stesso Paolo Gherardi, compagno di viaggio in Colorado, che mi sono avvicinato a quel mondo; non posso non citare anche l’altro compaesano Gianni Sonzogni che, su quella scorta, si è lanciato a livello commerciale aprendo il primo negozio d’abbigliamento specifico per lo snowboard in centro a Bergamo.

La tavola quindi l’avevo provata prima di incontrare Emilio, senza minimamente avvicinarmi al suo livello, e l’avevo subito immaginata divisibile, ovvero da trasformare all’occorrenza in sci, ben prima che venisse brevettata la splitboard. Questa propensione e vera e propria attrazione per la sperimentazione sportiva e l’atletismo del mio corpo allenato ha indotto Emilio a propormi di partecipare al Camel Trophy.

Previtali aveva rappresentato l’Italia in un raid con auto fuoristrada nel 1991 in coppia con Carlo Rinaldi, dunque memore della sua esperienza aveva visto in me un potenziale partecipante.

Nell’autunno 1997, dopo il conseguimento del titolo di Aspirante Guida Alpina, Emilio mi ha convinto a partecipare alle selezioni di questa competizione internazionale su fuoristrada, che si sarebbe svolta qualche mese dopo in Patagonia, nella Terra del Fuoco. Quell’edizione sarebbe stata la prima ad aggiungere ai fuoristrada altre prove sportive quali il kayak, lo scialpinismo, la corsa su neve e lo snowboard. Io ero fisicamente e atleticamente adatto, ma avrei scoperto che in realtà il raid richiedeva altre caratteristiche a me mancanti, che con lo sport avevano poco in comune.

Non avevo nessuna voglia di districarmi dalle pratiche burocratiche, indispensabili a finalizzare una domanda del genere, ci ha pensato Emilio stesso a farla per il sottoscritto. Ero stato scelto nei 40 chiamati a partecipare alle selezioni nazionali in Trentino nel febbraio 1998 e, avendo passato le ultime, che riducono a quattro i candidati, in aprile mi sono presentato all’ultima prova internazionale in Svezia. È stato un vero divertimento prendere parte alle scremature dei candidati (ovviamente ogni viaggio era spesato). Fabrizio Pistoni di Ivrea era stato il prescelto finale a rappresentare con me l’Italia al Camel Trophy ’98. Anche Fabrizio partecipava a gare di scialpinismo come il Pierra Menta, per cui nella prova con le pelli eravamo andati come dei fulmini in paragone agli altri team internazionali. Per questo motivo durante l’intervista alla TV Eurosport la domanda che ci era stata posta riguardava la tecnica usata per dare quel grosso distacco alle altre coppie in salita. Dato che nel nostro ambiente si diceva scherzosamente che per vincere una gara la tattica era: partire forte, aumentare a metà e alla fine fare uno scatto, l’ho detto pari pari

al giornalista, ma nel mio inconfondibile inglese misto al bergamasco. Ne è uscita un’affermazione del tipo: “In de star partir a bala, in the midel aumentar, end in finisc scattar!”. Non è mancato qualche “pota” a condire il tutto e altri indefiniti neologismi tra le frasi. Fabrizio non riusciva a trattenersi dalle risate! Un conoscente mio compaesano, che era per caso davanti al proprio televisore quando hanno trasmesso l’intervista, si è schiantato a terra dalle risate sentendo me in sottofondo, mentre il traduttore simultaneo in inglese tentava di restituire il concetto ai telespettatori anglofoni!

Proprio per la mia scarsa padronanza dell’inglese sono stato ammesso con riserva. Comprensibilmente l’organizzazione in Patagonia e tutti i rapporti tra atleti e staff, inclusi i messaggi d’eventuale pericolo, sarebbero stati gestiti in inglese, dunque uno dei requisiti d’ammissione era la conoscenza della lingua. Sostenuto dal team italiano, che me lo ha finanziato, ho svolto un corso intensivo individuale con un’insegnante madrelingua residente in Valle Brembana.

Nei mesi intercorsi fra le selezioni finali di aprile e la partenza per il Sud America, in autunno ho avuto anche il tempo di recuperare una canoa e fare pratica di questa disciplina fluviale, in quanto al Camel avremmo usato dei gommoni per spostarci nei laghi o scendere i fiumi. Il mio compagno Fabrizio era un esperto canoista e mi ha insegnato i rudimenti di questo sport sia nella “sua” Dora Baltea, sia nel “mio” fiume Brembo. La canoa, oltre a essere molto divertente, mi aiutava ad allenarmi all’acquaticità e il fatto di avere il fiume letteralmente sotto casa ne favoriva la pratica. Proprio per questo motivo ero già in confidenza con l’ambiente fluviale sin da piccolo, quando per noi bambini del paese era normale fare il bagno nel Brembo, trasformandolo ai nostri occhi in un parco giochi naturale. A chi non conosce questo fiume sembrerà strano pensarlo così ricco d’acqua da consentire tuffi, immersioni e pagaiate. A prova di quanto questo corso fluviale fosse vigoroso, soprattutto quando le estati erano meno aride, riporto la descrizione poetica che ci ha lasciato a metà del ’500 Torquato Tasso, legato alla terra Brembana da antiche origini. A rimarcare la portata del Brembo il poeta disegna la bergamasca come la “Terra che il Serio bagna e il Brembo inonda”.

Da piccolo vedevo spesso i canoisti che, partendo da San Giovanni Bianco, scendevano fino a San Pellegrino percorrendo un tratto di fiume divertentissimo e molto didattico. Da più grandicello, ho seguito con gli amici quelle loro orme, ci ammassavamo in più persone su improvvisate zattere, ricavate dagli pneumatici dei camion, ribaltandoci spesso nelle piccole rapide.

Una volta arrivati in paese, per concludere quella gita galleggiante, la prassi era il tuffo dal Ponte Vecchio.

Uno dei kayakisti più noti nella valle era, guarda caso, proprio il Camòs: sapendo che avrei dovuto usare un gommone in Patagonia, prima della mia partenza mi ha seguito senza canoa da San Giovanni e, mentre io pagaiavo, lui si è fatto tutto il tragitto sostanzialmente a nuoto, dispensandomi preziosi consigli. Se questa non è generosa amicizia non saprei che altro nome darle.

Durante i miei tragitti in solitaria in kayak mi estraniavo dal mondo circostante, giocando in certi passaggi, ovattato dal letto del fiume, abbracciato solo dai boschi. Per certi versi la sensazione era simile a quella che mi regalava lo scialpinismo e mi piaceva pensare che l’acqua sulla quale fluttuava la mia canoa proveniva dalla stessa neve su cui erano scivolati i miei sci, prima di sciogliersi e scendere a valle. Prima del Camel, andare in canoa era diventata un’attività che si era aggiunta alle altre

Scrivere oggi di quegli anni mi pare un lavoro lento e di ricostruzione, nonostante si tratti della mia vita, eppure sto raccontando in maniera scandita dei fatti che all’epoca sono accaduti in fretta, concatenati e spesso sovrapposti l’uno all’altro, in un concentrato di vicende umane e sportive che si inserivano in un turbinio di molti altri eventi. Rincorrevo situazioni e momenti con una grinta e un’energia che solo i trent’anni ti consentono, ma non ero mai stressato o nervoso, tutt’altro, ero sereno e felice di vivere così intensamente, divorando giorni e notti mosso dalle passioni. Per queste ragioni accadeva che, per periodi più o meno lunghi, le frequentazioni con amici intimi come Simone Moro fossero meno intense e ci dimenticassimo di raccontarci delle novità, complice il fatto che non avevamo ancora il cellulare. Sta di fatto che, durante il mio viaggio in Patagonia, Simone si trovava a Kathmandu in una spedizione e ha appreso della mia avventura al Camel Trophy vedendomi in un’intervista televisiva a bordo del kayak.

Unico neo di quell’esperienza era il fatto che lo sponsor fosse una marca di sigarette e non un normale brand d’abbigliamento, come avevano cercato di farci intendere inizialmente gli organizzatori. Avevamo al seguito moltissimi fotografi e ci trovavamo in posti paesaggisticamente pazzeschi del Sud America, dunque era utile all’organizzazione avere dei modelli sportivi con addosso il marchio Camel da immortalare.

Io mi prestavo senza timidezza, anche perché a motivare la mia presenza lì non era tanto la gara ma la possibilità di visitare la Patagonia. Con il compagno d’avventure Fabrizio, che vedeva quel viaggio un po’ come me, ho colto al

In alto, Trofeo Parravicini con Omar

In basso, in allenamento con le pelli

A fronte, durante una prova della Coppa delle Dolomiti, metà anni ’90

Ad Aspen (Colorado, USA) con Kate e Simone, 1996

In Colorado, 1996. Foto: Simone Moro A fronte, allenamento in Colorado (USA), 1997

Miky Oprandi CORREVAMO IN PARADISO
Miky Oprandi CORREVAMO IN PARADISO
Monaci a Tengboche. Sullo sfondo l’Ama Dablam durante il trekking in Nepal, 1999
Trekking in Nepal, verso il Kala Patthar, 1999

meglio l’opportunità di vedere luoghi straordinari e confrontarmi con altre popolazioni. Devo riconoscere che la macchina organizzativa era impeccabile, qualsiasi intoppo veniva risolto immediatamente, i servizi messi a nostra disposizione erano di altissimo livello. Per esempio dormire in tenda era funzionale mediaticamente allo stile avventuriero che richiedevano le riviste, ma, terminati i momenti di gara e le riprese, dormivamo in hotel di lusso.

Nei luoghi più remoti andavamo a cercare piccoli alberghi o camere per una notte e una cena, anche se io, alla blasonata bistecca argentina preferivo sempre le buste liofilizzate di riso alle verdure da diluire in acqua calda; quegli intrugli somigliavano ai pasti della NASA, eppure mi piacevano un sacco.

Inutile dire che, amante com’ero dei carboidrati, mi mancavano tanto la mia cara pasta e le insalatone, sempre presenti nei miei pasti.

Ricordo a tal proposito che a Piazza Brembana, a pochi chilometri dal mio paese, era appena stato aperto un antesignano dei negozi con prodotti locali e a base di erbe selvatiche. Lì mi ero innamorato di un formaggio grasso d’alpe, credo fosse il Camisolo, una sorta di Formai de Mut, prodotto in alpeggio sopra Valtorta. Era la ciliegina sulla torta nel mio pasto abituale, che iniziava con un bel piatto di pasta in bianco con tanto olio, magari del peperoncino, accompagnato da una gigante ciotola di insalata, frutta e immancabile dolce. Non chiedevo di più per stare bene, sentirmi sazio e appagato al palato. Un’alimentazione basata sui carboidrati era un’inconscia esigenza condivisa fra noi atleti per carburare velocemente e dare buone prestazioni sportive. Sappiamo bene quanto fosse difficile ricreare quell’alimentazione lontano migliaia di chilometri da casa.

Tornando alla Patagonia, una tarda sera siamo stati colti da un’incessante nevicata, che metteva a dura prova il volante mentre eravamo alla guida alla ricerca di un posto dove trascorrere la notte. A un certo punto, ho intravisto una scritta su una costruzione in un piccolo paesino: “Baño público”. Senza indugio, io e Fabrizio siamo entrati e abbiamo posato i nostri sacchi a pelo tra i lavandini e water del bagno. I giornalisti sono rimasti esterrefatti dalla nostra scelta avventata e hanno cercato invano di piantare la tenda nel prato adiacente alle toilette. Ormai inzuppati e infreddoliti hanno piano piano desistito e, uno alla volta, sono entrati con noi nell’improvvisata camerata dall’arredamento alternativo.

Guidavamo lungo strade infinite, talvolta anche sterrate. Un giorno abbiamo percorso circa 1000 km, dunque ore di viaggio, senza incontrare anima viva. L’unica auto in tutta la giornata l’abbiamo incrociata in senso di marcia oppo -

RINGRAZIAMENTI

Omar Oprandi per i sui preziosi ricordi.

Dott. Sergio Roi (Sky Doc) per la vicinanza e le sue nozioni scientifiche. Tutti gli ex compagni di gare e avventure.

Marta Torriani per avermi accompagnato in questa insolita avventura letteraria, prendendomi a braccetto e dedicandosi al progetto del libro con un orecchio, un occhio, ma soprattutto un’anima aperta all’ascolto dei miei ricordi e pensieri, sempre in sintonia con me.

BIBLIOGRAFIA

Sergio Giulio Roi, L’ABC di chi corre in quota. Skyrunning i corridori del cielo, Ed. Correre, 2017.

«Muovermi in quel paradiso terrestre che sono le montagne resta per me una sorta di necessità, una pratica costante e un’abitudine che sono cambiate nel tempo, spostando il mio scopo dalla gara alla ricerca di una bella fotografia»

Finito di stampare nel mese di agosto 2024 da Press Grafica (Gravellona Toce – VB) per conto di Versante Sud Srl - Milano

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Questo suo libro narra di lui e di un mondo ideale, che non c’è più ma che non è anacronistico o impossibile immaginare ancora. Più che il mondo è cambiato l’uomo, la sua educazione, la sua voglia e capacità di esporsi, di seguire sentieri fuori moda, antichi, romantici, scomodi ma allo stesso tempo autentici.

— SIMONE MORO, dalla prefazione

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