Volevamo solo scalare il cielo

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Titolo originale: Freedom Climbers Pubblicato da Rocky Mountain Books, Toronto, Canada www.rmbooks.com Copyright © 2011 Bernadette McDonald 2012 © VERSANTE SUD S.r.l. Via Longhi, 10 Milano Per l’edizione italiana tutti i diritti riservati 1a edizione Settembre 2012 www.versantesud.it ISBN 978-88-96634-48-6


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R A M P I C A N T I

Bernadette McDonald

VOLEVAMO SOLO SCALARE IL CIELO La storia del gruppo di scalatori himalayani pi첫 forte che il mondo abbia mai conosciuto Traduzione di Giovanni Benedetti

EDIZIONI VERSANTE SUD



Prologo Ho sempre sostenuto che il popolo polacco ha talento, forse troppo. La domanda è: talento per che cosa?

Günter Grass

Finalmente la scorsi in mezzo a tutta quella gente, appoggiata al bancone, con una birra in mano. Il calore che irradiava mi colpì all’istante. Circondata da ammiratori e curiosi, stava raccontando una delle sue storie di alpinismo. Ogni parola era accompagnata da ampi gesti di quelle mani segnate dalle intemperie, ma la vera narrazione stava tutta nel suo viso: due occhi scavati, color caffè, racchiusi da un dedalo di rughe nate forse da troppe risate, o forse dai venti di alta quota; una fronte spaziosa, coperta da un groviglio ribelle di capelli color nocciola, e un sorriso così ampio da addolcire quella mascella squadrata, tipicamente polacca. Come mi avvicinai al bancone, mi lanciò un’occhiata. «Ciao. Vieni, prendi una birra. Io sono Wanda.» Chiaramente sapevo già chi fosse. Avevo attraversato mezzo mondo per incontrare la grande Wanda Rutkiewicz a questo festival del cinema di montagna sulla riviera francese. Antibes è un posto incantevole, ma non in dicembre. Avevamo saltato la sessione serale dei film per starcene al bar nell’atrio del teatro a chiacchierare, ridere e condividere avventure di montagna di amici comuni. Wanda parlava di Jerzy Kukuczka, il grande alpinista polacco morto due anni prima sulla parete sud del Lhotse, un gigante buono che era stato uno dei suoi più cari amici. Io lo avevo incontrato un paio di volte, una a Katmandu al suo ritorno dalla prima invernale sul Kangchenjunga, e l’altra in Italia, dove gustammo insieme un lungo pranzo. Tra storie avventurose, risate e qualche birra, discorremmo anche di altri grandi di quel tempo: Kurtyka, Diemberger e Curran.

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La magrezza di Wanda mi sorprese. Mi riusciva difficile immaginarla in montagna sotto il peso di uno zaino enorme. Era esile, quasi fragile, tranne che per la mascella e, naturalmente, per le mani, ruvide e nerborute. Mi meravigliò anche il suo modo di vestire. Da questa star polacca mi aspettavo uno stile ben preciso, retrò, trasandato o elegante, non sapevo nemmeno io cosa, ma insomma un qualcosa. Indossava invece una banale e male assortita combinazione di capi in pile e cotone. Appena tornata da una spedizione sul Dhaulagiri, aveva avuto a malapena il tempo per tirare il fiato, certamente non quello per scegliere il vestito adatto a una festa. Nel corso della serata trovai il modo di svelarle che l’altra ragione per cui mi trovavo lì era invitarla a tenere il discorso di apertura del prossimo Banff Mountain Film Festival di cui ero direttrice; faceva parte del mio ruolo. Wanda accettò con entusiasmo. Ci voltammo entrambe verso la sua manager, Marion Feik, che ronzava lì attorno con fare piuttosto protettivo, e dopo una breve chiacchierata giungemmo all’accordo che Wanda sarebbe volata in Canada nel novembre dell’anno seguente. Quando, un paio d’ore più tardi, la gente cominciò a uscire dal teatro, noi eravamo ancora al bancone del bar. Ci riempimmo i bicchieri, e ci lasciammo sprofondare su due vecchie poltrone di pelle nel locale ormai deserto. «Bernadette, vorrei parlarti del mio progetto – disse Wanda. – Io lo chiamo la Carovana dei Sogni.» «Sembra interessante, di che si tratta?» «Voglio essere la prima donna a salire tutti i quattordici ottomila. Tu sai che ne ho già scalati otto; voglio concludere ciò che rimane… » «Beh, se c’è qualcuno che può farlo, quella sei tu.» «… In diciotto mesi.» «Cosa? Stai scherzando? Non dirai sul serio? È impossibile.» «Certo che è possibile. In questo modo manterrò l’acclimatamento, capisci? È meglio passare velocemente da una vetta all’altra.»

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Poggiai il bicchiere sul tavolino e mi avvicinai. «Wanda, davvero, non lo puoi fare, è troppo pericoloso. Ne hai già parlato con qualcun altro? Qualche scalatore? Cosa dicono?» Non avevo mai scalato un ottomila, ma ero certa che si trattasse di un progetto delirante, folle. Le dissi dunque quel che pensavo, facendole notare che nessuno aveva mai tentato un’impresa simile, e che di norma gli alpinisti impiegavano anni anche solo per conquistarne uno, e che soltanto Messner e Kukuczka li avevano saliti tutti e quattordici. Che fretta aveva, le chiesi? E al fattore stanchezza, non ci aveva pensato? Marion mi lanciò un’occhiata sconsolata: aveva già sentito le stesse obiezioni tante altre volte, e dal suo sguardo capii che era d’accordo con me. Ma non era Marion che dettava l’agenda, era Wanda. E Wanda aveva fretta. «Ho quasi cinquant’anni – disse scostandosi un ciuffo di capelli dal viso. – Non vado più come una volta. Ci metto più tempo ad acclimatarmi, per cui devo farmi furba, e farle tutte insieme. So che posso farcela, ho solo bisogno di un po’ di fortuna col meteo.» Smisi di oppormi, non aveva alcun senso discutere con Wanda. Restammo d’accordo che saremmo rimaste in contatto nei mesi successivi, tra una spedizione e l’altra; lei mi avrebbe tenuto aggiornata mentre io avrei avviato la macchina pubblicitaria per promuovere la sua partecipazione al festival in Canada. Wanda mi inviò una lettera da Katmandu la primavera seguente, nel 1992, appena prima di attaccare il Kangchenjunga, il suo nono ottomila. Sembrava sicura, determinata, impaziente di concludere quell’impresa. Come risposta, le augurai buona fortuna. Ma Wanda non fece più ritorno.

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Due anni dopo mi trovavo a Katowice, cuore industriale del paese, per organizzare un festival cinematografico. Fu un grande successo: centinaia di alpinisti chiacchieravano con vecchi amici, mentre gente comune e appassionati del settore seguivano con entusiasmo la programmazione giornaliera e, nonostante il grigio inverno polacco, nell’auditorium l’aria era elettrica, vibrante. Rimasi stupita nello scoprire una comunità di scalatori tanto grande in quella gelida periferia così triste e desolata: sembrava gente tosta, spigolosa, segnata da una vita sempre sul filo del rasoio. Quel gruppo mi affascinava. Quando il festival si concluse, un gruppo di climber locali mi invitò a passare dalla sede della Polski Zwiazek Alpinismu, l’associazione alpina polacca, l’ennesimo edificio sporco e umido, con finestre annerite da fumi di ciminiera; al suo interno, tuttavia, si respirava un’atmosfera cordiale, serena, annaffiata da fiumi di vodka e carica di scoppiettante energia. Zawada, Wielicki, Hajzer, Majer, Pawlowski, insomma i più grandi scalatori polacchi himalayani ancora al mondo erano lì. Conoscevo bene le loro storie, erano alpinisti eccezionali, visionari. Audaci combattenti che, quasi insensibili alla sofferenza, alla solitudine, al freddo, si lanciavano senza remore in pericolose ascensioni invernali solo per cercare, e spesso trovare, nuove linee sulle vette più alte del pianeta. Una tristezza palpabile aleggiava tuttavia nella stanza. Non riuscivo a ignorare i continui riferimenti a coloro che avevano sacrificato la propria vita sulle montagne che amavano. Jerzy Kukuczka era uno di loro; Wanda, un’altra. Dissi che li stimavo e ammiravo entrambi, e che mi ritenevo davvero fortunata ad averli conosciuti. Qualcuno sorrise, altri raccontarono storie incredibili, su Wanda in particolare. «Ne eri affascinata senza renderti conto che possedeva un altro lato, più pericoloso – disse uno di loro. – Era una persona intelligente, e sapeva essere dura e caparbia come un toro.» Obiettai che doveva necessariamente esserlo se voleva condurre quel tipo di vita.

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«Questo è vero. – Aggiunse un altro scalatore, tormentandosi gli enormi baffi. – Wanda però si spingeva oltre i limiti, per lei era sempre una sfida, una prova continua. Noi le volevamo bene, ma credo che non l’abbia mai capito. Pensava di essere sola, e ci ha sempre tenuti a distanza. Comunque le eravamo tutti molto affezionati.» «E di Kukuczka, che mi dici? – chiesi a quel punto. – Era anche lui uno sempre in lotta?» «No, Jerzy non aveva tempo per le sfide, era troppo occupato ad arrampicare. Solo una volta si lasciò distrarre, quando entrò in competizione con Messner per essere il primo alpinista a salire tutti i quattordici ottomila. Ma tornò quello di sempre una volta conclusa la gara; si buttò di nuovo nell’arrampicata, quella vera, quella delle grandi pareti.» «Quella però fu la sua fine,» replicai. «Sì, certo, ma è stato uno scalatore autentico, il migliore che ci sia mai stato in Polonia.» La conversazione sfumò quindi su altri argomenti, su com’erano cambiate le cose dai tempi assurdi ma in qualche modo stupendi del Comunismo, e di quando il governo centrale finalmente comprese e sostenne le necessità degli alpinisti polacchi, almeno di quelli più forti. Parlarono con orgoglio delle qualità imprenditoriali che avevano dovuto affinare per potersi permettere quel loro vizio himalayano. Questi scalatori avevano rischiato la vita non soltanto in montagna, ma anche sul lavoro, giorno dopo giorno, pulendo camini, verniciando fumaioli, salendo le scivolose e traballanti scalette delle infinite ciminiere che costellavano l’orizzonte di Katowice: un’occupazione rischiosissima non solo per l’elevata probabilità di cadute, ma anche per l’aria estremamente tossica che quei ragazzi erano costretti a respirare. Sottovoce qualcuno accennò velatamente a varie attività di contrabbando che in quei giorni si erano rivelate piuttosto redditizie; ora però i tempi erano cambiati, e nell’abbondanza della nuova economia di mercato il paese si era ormai dimenticato di loro.

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Erano le tre del mattino quando lasciammo la sede dell’Associazione; immersa nell’oscurità pungente della notte, tra vicoli bui e umidi, sentivo ancora addosso il calore della festa. Una volta tornata in Canada, mi capitò più di una volta di ripensare a quella notte a Katowice, di cui custodivo nel cuore le storie delle grandi imprese compiute, dei progetti per il futuro e degli amici scomparsi. Pensavo e ripensavo alle opinioni contrastanti su Wanda e gli altri. Questi eroi nazionali si erano rivelati più complessi di quanto pensassi, e in particolare mi riusciva difficile conciliare la Wanda che avevo conosciuto io, cordiale e amichevole, col ritratto ambiguo che ne era emerso durante quella serata. Nel tempo continuai ad avere l’impressione di aver partecipato a una sorta di rituale di passaggio, una celebrazione nostalgica e dolceamara di qualcosa di unico, l’età dell’oro dell’alpinismo himalayano polacco, una stagione che apparteneva ormai al passato. Rivedevo la tragica storia recente della Polonia, sessant’anni di oppressione e violenze atroci, di grandi sollevazioni popolari e infine di miracolosa rinascita. La capacità di quest’affiatata comunità di scalatori di riuscire a convivere con una realtà tanto dolorosa, partorendo alcuni tra i migliori alpinisti himalayani al mondo, era davvero straordinaria. Mi chiesi se quei tempi difficili avessero temprato le ambizioni di questa élite alpinistica o l’avessero semplicemente resa più tenace, esasperandone lo stoicismo. Ora la vita in Polonia stava nuovamente cambiando, forse per il meglio, e non avrei saputo dire come quei ragazzi avrebbero reagito, se consolidando la propria determinazione o lasciandosi fiaccare dal nuovo benessere. Questi dubbi continuarono a tormentarmi per molto tempo dopo la notte di Katowice. Decisi quindi di scavare più a fondo nella storia dell’alpinismo polacco fino al suo predominio nel settore himalayano, concentrandomi sugli aspetti più umani e sulle contraddizioni dei grandi alpinisti di quell’era gloriosa. Chi era davvero Wanda? E soprattutto, la

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sua figura avrebbe potuto aiutarmi a entrare nei cuori e nelle menti di quell’incredibile gruppo di persone che, seppur plasmate dal loro paese, non riuscirono mai a sopportarne i confini? Questa è la storia del loro straordinario viaggio, e della loro scalata verso la libertĂ .

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Questo libro racconta la storia di un gruppo di straordinari avventurieri emersi dalla coltre di oppressione creatasi in seguito alla fine della Seconda Guerra Mondiale in Polonia e destinati a diventare i leader mondiali tra gli scalatori himalayani. Pur vivendo in un territorio devastato dalla guerra, con durissime condizioni sociali ed economiche, nessuna speranza apparente di crearsi una vita piena di significato e in un momento in cui i cittadini polacchi erano bloccati dietro la cortina di ferro, questi intrepidi esploratori trovarono un modo per viaggiare per il mondo alla ricerca

dell'avventura estrema: in Alaska, Sud America ed Europa, ma soprattutto sulle montagne più alte e più stimolanti del mondo. L'Afghanistan, l'India, il Pakistan e il Nepal divennero così la loro seconda casa, trasformandoli nel gruppo di scalatori himalayani più forte che il mondo abbia mai conosciuto. Nel suo libro più coinvolgente, Bernadette McDonald, autrice rinomata e pluripremiata, tesse un racconto appassionato di avventura, politica, sofferenza, morte e, in ultima analisi, ispirazione.


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