INTELLIGENZA ARTIFICIALE
Tecnica e materiali dell’arrampicata artificiale classica e new age
Fabio Elli Diego Pezzoli VERSANTE SUD
Prima edizione: Aprile 2016 ISBN 978-88-98609-66-6 Copyright © VERSANTE SUD S.r.l. via Longhi, 10 Milano - www.versantesud.it Per l’edizione italiana Tutti i diritti riservati Copertina: Materiale da artificiale. Foto Davide Grimoldi. Risvolti: Il pendolo del Molar Traverse su Mescalito, El Capitan. Foto Tom Evans elcapreport.com. Skot Richards su Lurking Fear, El Capitan. Retro da sinistra: Eccentrico utilizzato in rotazione. Diego Pezzoli durante l’apertura di JB Line, A2, Falesia di Balmarossa (VB). Foto Davide Grimoldi. Set up per una risalita su corda con due jumar e due staffe. Montaggio di una portaledge. Fotografie: degli Autori dove non diversamente specificato. Stampa: Tipolitografia Pagani - Passirano (BS) Ringraziamenti Gli autori ringraziano sentitamente CAMP e Versante Sud, hanno creduto in noi e senza di loro questo libro sarebbe rimasto confuso solo nelle nostre teste. Gli atleti CAMP: Matteo Rivadossi, Marcin Tomaszewski, Rossano Libèra, Libby Sauter. Federico Tresoldi, per aver fatto da modello per molte foto tutorial, per l’estrema pazienza, disponibilità e competenza. Francesca Fonio per i disegni. Un ringraziamento particolare va (in ordine decisamente sparso!) a: Marco Gianola (CAMP sales manager), Jim Bridwell, Andrew Kirkpatrik, Mark Hudon, Lorenzo Nadali, Silvia Vidal, Chris McNamara, Franco Perlotto, Giuseppe “Popi” Miotti, Diego Filippi, Giuliano Bressan, Angelo Riva, Erik Sloan, Jordi Mena, Alessandro Gogna, Marco Furlani, Dani Brugarolas & Kop De Gas, Josh Blumental & Pika Mountaineering, Scott Peterson, Peter “Pass the Piton Pete” Zabrok, Gerry Greenleaf, Skot Richards, Joe Marlay, Paolo Solavaggione & Maddalena Demaria, Marco Ghisio, Eleonora Delnevo, Giorgio Confalonieri, Spiro Dalla Porta Xydias, Luca Calvi, Theron Moses & Moses Enterprises, Steve Bosque, Tom Evans & elcapreport.com, Stefano Fonio, Alberto Gentili, Davide Grimoldi, Jason “Singer” Smith, John Long, Sara Ongaro, Paolo Bosco, John Middendorf, Mauro Gibellini, Gianni Scorzato, Saverio de Toffol, Floriano Martinaglia, Enrico Ostidich & Kong SPA, Korra Pesce, Hervè Barmasse, Alessandro Grillo, David Allfrey, Silvestro Stucchi, Yann Borgnet, Mark Synnott, Anna Torretta, Mike Libecki, Marco Gabbin, Gianfranco di Salvo, Daniele Bianchi, Robin Revest, Bruno Quaresima, Alberto Elli.
A Federica, la mia roccia Fabio Elli A tutte le persone dotate d’immaginazione, perché sono loro che scriveranno nuove e avvincenti storie di grandi pareti! Let’s move! Diego Pezzoli
Fabio Elli Diego Pezzoli
INTELLIGENZA ARTIFICIALE Tecniche, materiali e storie dell’arrampicata artificiale classica e new age
EDIZIONI VERSANTE SUD
DISCLAIMER RESPONSABILITA’ ATTENZIONE: L’ARRAMPICATA IN OGNI SUA FORMA È UNO SPORT POTENZIALMENTE LETALE, DOVE SI PUO’ MORIRE O RESTARE SERIAMENTE FERITI. LEGGERE QUANTO SEGUE CON ATTENZIONE PRIMA DI UTILIZZARE QUALSIASI INFORMAZIONE CONTENUTA IN QUESTO LIBRO. Questo libro è un manuale su una particolare disciplina dell’arrampicata su roccia, ovvero l’arrampicata artificiale. Qualsiasi forma di arrampicata è un’attività intrinsecamente pericolosa. Per la vostra sicurezza personale non dovete in alcun modo dipendere solamente dalle informazioni contenute in questo libro. La vostra sicurezza in arrampicata dipende unicamente dal vostro personale giudizio, giudizio che deve essere basato su un precedente apprendimento qualificato, esperienza e valutazione realistica delle vostre capacità. Non c’è modo di sostituire l’addestramento personale nella arrampicata su roccia, e questo addestramento è al giorno d’oggi facilmente disponibile e largamente diffuso. Avete il dovere di contattare un istruttore o guida alpina al fine di apprendere le tecniche per arrampicare in sicurezza. Se interpretate male un concetto espresso in questo libro potreste restare uccisi o seriamente feriti come risultato dell’errore di interpretazione. Ne deriva quindi che tutte le informazioni contenute in questo manuale devono essere usate solamente per ampliare le vostre precedenti conoscenze tecniche ricevute da un istruttore o una guida alpina. Se avete qualsiasi dubbio sulle vostre abilità e capacità di utilizzare in sicurezza qualsiasi delle tecniche qui descritte, non fatelo! Non ci sono garanzie, esplicite o implicite, che questo manuale contenga informazioni accurate o affidabili. Le informazioni qui condivise potrebbero aumentare i pericoli a cui vi esponete praticando le vostre attività outdoor. Non ci sono garanzie che questo manuale non contenga informazioni errate o parziali, derivanti da errori degli autori o delle persone da loro consultate. Gli autori non possono quindi garantire la correttezza di qualsiasi delle informazioni qui descritte. I suggerimenti sul materiale, le tecniche e le procedure possono essere errate o fuorvianti; le vostre azioni saranno da imputare solo al vostro giudizio riguardo ciascuna delle informazioni qui contenute. Questo libro non vuole e non può sostituirsi a un apprendimento diretto da personale qualificato e professionale. Contiene solo le opinioni degli autori riguardo gli argomenti trattati. Nessun libro può mettervi in guardia contro ogni pericolo o prevedere i limiti e le carenze di ogni lettore. Niente può sostituire la formazione personale, una pratica di routine e molta esperienza. L’uso di questo libro indica da parte vostra una piena consapevolezza di quanto sopra esposto e la conseguente assunzione di responsabilità per ogni eventualità, morte o infortunio permanente, come risultato dei pericoli stessi impliciti nell’arrampicata su roccia ed è il riconoscimento della vostra sola e unica responsabilità per la vostra sicurezza personale in arrampicata.
A CHI È RIVOLTO QUESTO MANUALE Questo libro assume che il lettore sia un arrampicatore con esperienza, in grado di capire la terminologia di base dell’arrampicata, che conosca le manovre e procedure dell’arrampicata su vie di più tiri e che voglia approfondire le proprie conoscenze. Arrampicatori orientati a entrare nel mondo dell’arrampicata artificiale devono avere qualche anno di esperienza precedente e quindi queste sono le conoscenze base che si daranno per scontato nelle pagine che seguono: • comandi di base per assicurazione e discesa • tecniche di base per assicurazione e discesa • nodi di base, inclusi nodo ad 8 in ogni sua variante, nodi • autobloccanti, barcaiolo, mezzo barcaiolo, bocca di lupo, nodo piano, inglese doppio • capacità di piazzare protezioni clean (nut, friend) su vie di arrampicata libera • costruire una sosta equalizzata • scalare da primo e da secondo di cordata una via di più tiri. L’arrampicata artificiale è inoltre, contrariamente a quanto si possa pensare, un’attività molto faticosa fisicamente e per questo per praticarla è necessario essere in ottima forma fisica e aver acquisito un’alta resistenza a sforzi prolungati.
Cassin, c’era una volta il sesto grado: è il titolo di un libro ma anche uno slogan che riassume un’epoca, i favolosi anni Trenta del Novecento. Quando nelle Alpi c’erano “i grandi problemi” e Riccardo andava, vedeva e vinceva, passando dove gli altri non riuscivano. Ma lui era Cassin, armato di quei chiodi che nascevano nella sua officina per finire nelle fessure del Badile, delle Lavaredo e delle Jorasses. Alpinismo come avventura, quindi, ma anche come manualità artigiana: l’abilità di realizzare gli attrezzi giusti da usare al posto giusto, con esperienza e creatività. E qui sta il bello della scalata artificiale, in cui C.A.M.P. ha sempre creduto anche per il suo esclusivo, strettissimo legame con Riccardo. Durante la sua lunga storia, cominciata nel 1889, C.A.M.P. ha sempre guardato lontano. Tanto che negli anni d’oro della Yosemite Valley, quando dalla California giungevano notizie di strabilianti scalate su immense muraglie di granito, alcuni degli artefici di quelle imprese – leggi Yvon Chouinard e Tom Frost – ebbero modo di lavorare con noi. Per questo El Capitan e le sue vie – Nose, Salathé, North America Wall… – divennero qualcosa di familiare: presenze evocate in C.A.M.P. dai loro protagonisti, che come Cassin sapevano fabbricare le meraviglie per alzare l’asticella del possibile. Ma eccoci alle soglie degli anni Duemila. L’azienda di Riccardo passa nelle mani di C.A.M.P. e su El Capitan la via più difficile si chiama Reticent Wall: grado A5 ossia precarietà assoluta, numeri da prestigiatore per passare. L’alpinista sale in una sorta di bolla, che può scoppiare da un momento all’altro. Ma Tomaž Humar, autentico fenomeno del team C.A.M.P., cerca proprio questo e in quindici giorni, nel 1998, firma la prima solitaria di Reticent Wall. Ma non è finita: qualche anno dopo, grazie a Valerio Folco, quella via da incubo entra nuovamente nella storia di C.A.M.P. Proprio in collaborazione con Valerio, forte di un’esperienza unica in Italia, si sviluppa la linea big wall su cui campeggia il marchio Cassin: un omaggio al risolutore dei “grandi problemi”, una serie completa di attrezzi per chi non sa resistere, oggi come ieri, al fascino intramontabile della scalata artificiale.
INDICE Prefazione di Jim Bridwell Introduzione degli Autori Lorenzo Nadali - Noiosi giochetti sulle staffe Jordi Mena - Arrampicata artif su conglomerato 1 - Breve storia dell’arrampicata artificiale Franco Perlotto - La paura è in agguato 2 - Sistemi di gradazione Marco Furlani - Artificiale in Dolomiti, quale il suo destino? Mark Hudon - Reticent Wall 3 - Materiali, nodi e loro utilizzo Warren Harding Intervista a Erik Sloan 4 - La progressione da primo Matteo Rivadossi - L’eleganza dell’ultimo gradino Matteo Rivadossi - Morange 5 - La progressione da secondo Diego Pezzoli - Baba Jaga 6 - Paranchi e recupero sacconi Matteo Bertolotti - La Pietra di Bismantova Chris McNamara - Girdle traverse 7 - Corde fisse: posizionamento e risalita Royal Robbins Silvia Vidal - Espiadimonis
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8 - Vita in parete Marcin Tomaszewski - Katharsis 9 - Discesa Giuseppe Miotti - La bellezza dell’artificiale John Middendorf - The Grand Voyage 10 - Progressione artif. in ambiente alpino Rossano Libèra - Momenti di artificiale sulle mie montagne Fabio Elli - BAT 11 - Tecniche di progressione in solitaria Jim Bridwell Andy Kirkpatrick - Ai confini di me stesso 12 - Leggere una relazione Xaver Bongard - Angoscia e Sollievo sulla Big Stone Omaggio a Xaver di John Middendorf 13 - Progressione nell’apprendimento Diego Filippi - Il Monte Brento Giuliano Bressan - Le Dolomiti del Mali 14 - Speed climbing Libby Sauter - Failing upwards Mike Libecki - Lo stile della tartaruga 15 - Artificiale nel mondo Angelo Riva - Quel nuovo mattino 16 - Siti web di riferimento 17 - Bibliografia
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PREFAZIONE di Jim Bridwell INTRODUZIONE ALLE BIG WALL Traduzione dall’inglese di Eleonora Delnevo È più che giusto che l’Italia, patria dell’arrampicata e santuario di grandi pareti, abbia un nuovo testo di riferimento per l’arrampicata artificiale, attività che è quasi una religione per i suoi appassionati praticanti. Da giovane, quando iniziai ad arrampicare negli Stati Uniti, sono stato un’eccezione, un caso più unico che raro, avendo guadagnato molte delle mie conoscenze leggendo libri come questo, ma che purtroppo erano al livello di un uomo di Neanderthal. L’arrampicata arrivò in America dall’Europa ma non si portò dietro tutta la sua cultura, è stato necessario del tempo perché questo avvenisse. I libri più facilmente reperibili erano quelli di avventura e di azione, di uomini di carattere e di coraggio, ma nessun manuale di tecnica. I testi erano ricchi di nomi quali Comici, Cassin, Buhl, Maestri e certamente del grande Walter Bonatti: questi mi sarebbero diventati mentori e modelli per i futuri obiettivi arrampicatori. In molti modi l’arrampicata su big wall può diventare una delle più importanti terapie per quello che manca nella civiltà moderna, emozione e avventura, ma andateci piano perché può causare dipendenza! Questa, più che ogni altra forma di arrampicata, porta ad acquisire molte abitudini che alla lunga diventano benefiche e rinforzano l’evoluzione sociale. Sebbene sia un’attività complessa è allo stesso tempo tranquilla ma non priva di pericoli ed emozioni, impone disciplina e fortifica la cooperazione, premia la forza d’animo, il coraggio e sviluppa il cameratismo. Promuove e solidifica la fratellanza umana spesso al di là di ogni nazionalismo, ma distrugge le persone deboli e non allenate senza regalare gloria ai superuomini: dissolve l’illusione di uguaglianza e selettivamente gerarchizza la società. Quelle immense pareti rocciose esercitano un richiamo in tutto il mondo e incoraggiano viaggi e interazioni culturali.
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Jim Bridwell nel1975 sul Cerro Torre. Foto arch. J. Bridwell.
Il legame tra gli arrampicatori di big wall ha contribuito enormemente in passato a diminuire gli spiacevoli effetti di egoismi nazionali, principalmente rimpiazzando cerchie ristrette e legami di sangue con sentimenti di unione derivanti dall’aver vissuto esperienze comuni. È da notare comunque che parlare lo stesso linguaggio è essenziale per una efficiente comunicazione e cooperazione. Salire big wall richiede lavoro. Sono il lavoro e gli sforzi fatti per progettare che distinguono l’uomo dalla bestia, le cui fatiche sono in gran parte istintive. Il bisogno di lavorare, inteso come necessità di sforzarsi per raggiungere un traguardo, è una benedizione di primaria importanza per l’umanità ed è superfluo sottolineare quale ingente lavoro richieda questo modo di arrampicare: se siete pigri vi troverete meglio con l’arrampicata sportiva, il big wall climbing non è per gli oziosi. L’arrampicata che vi aspetta sulle enormi pareti rocciose del mondo necessita, a causa della sua variegata natura, di una moltitudine di competenze molto sofisticate da adattare fluidamente ed efficacemente a quanto vi trovate davanti. Questo permette all’uomo comune di sperimentare quella straordinaria autorealizzazione che consegue al successo, onestamente conquistata e per questo moralmente valida: dopo tutto c’è una sottile linea rossa tra equilibrio e stupidità, come c’è tra prudenza e codardia. Come in tutte le cose, l’oggettività porta con sé equilibrio e solidità; ma questa condizione non è statica, non è rituale, pena il fallimento. Impara a conoscere il tuo limite e mettiti alla prova, non andare oltre ma datti una possibilità con fiducia: “È meglio aver giocato e perso che non avere mai giocato del tutto”. Il pericolo che sempre di più minaccia il mondo dell’arrampicata in generale, e delle big wall in particolare, è che la tecnologia arrivi a usurpare l’avventura e la sua necessaria incertezza. Se si potesse volare perché arrampicare?! No, no davvero, gli uomini hanno bisogno di essere stimolati e la paura è un gran motivatore: quando non puoi permetterti di perdere impari velocemente, ma solo la pratica accresce le tue possibilità di sopravvivenza. Allenati, fai esperienza, allenati ancora e fai ancora più esperienza, abbi chiaro
in testa il percorso per migliorare le tue competenze, scegli di salire vie conosciute che richiedano un livello di abilità appena inferiore a quello che già possiedi. Scusate il tono filosofico ma non sono mai stato un grande arrampicatore, Dio non mi ha donato dei tendini geneticamente forti, ma mi ha dotato di una mente appassionata e fantasiosa a cui io attribuisco il mio successo. È grazie alle osservazioni e, più ampiamente, alle svariate esperienze vissute nel mondo naturale che mi sono evoluto più da filosofo che da arrampicatore di talento, il che dovrebbe essere una buona notizia per quelli che non hanno la forza di superman. Sia la scienza che la tecnologia meccanica sono state fondamentali per lo sviluppo della sicurezza e hanno ridotto la fatica, moltiplicando le possibilità per tutti noi di vivere avventure sempre più estreme. Tutto quello che puoi fare è del tuo meglio, fanne il tuo obiettivo. Possa la forza essere con te!
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INTRODUZIONE DEGLI AUTORI Se noi comprassimo un manuale sull’arrampicata artificiale il minimo che ci aspetteremmo dall’introduzione sarebbe che l’autore provasse a illuminare le menti sul perché questa disciplina non sia “barare” allo stato puro, il “salire a ogni costo” eletto ad arte. Dovrebbe cercare di convincerci che non è riservata a chi “non sa scalare” e magari potrebbe anche spiegarci perché sia così snobbata e poco diffusa in Italia e zone limitrofe. L’introduzione a un manuale sull’arrampicata artificiale dovrebbe far trasparire la passione di chi lo ha scritto per le scomode notti passate in dormiveglia su una portaledge, o per le velocissime giornate passate appeso alle più precarie protezioni immaginabili. L’introduzione a un manuale sull’arrampicata artificiale dovrebbe far capire se la ricerca del rischio e dell’adrenalina siano davvero le uniche motivazioni che spingono lassù dei tipi strani, a faticare e lavorare lentamente come i sette nani in miniera, ma senza fischiettii e sorrisi sulle labbra, e senza Biancaneve soprattutto… Invece questo libro lo abbiamo scritto noi e in questa introduzione non troverete niente di tutto ciò. Niente. È come sperare che l’introduzione a un volume universitario sulla fisica delle particelle o sulla storia dell’arte bizantina possa accendere in voi un fuoco per il sapere, anche se le vostre uniche letture sono sempre state i giornali di gossip o i fumetti porno giapponesi. Una piccola scintilla può generare un incendio solo dove trova le condizioni adatte, e se state leggendo queste pagine c’è una grossa probabilità che in molti di voi la benzina pronta a esplodere ci sia. Se leggerete anche le prossime 400 pagine questa probabilità sarà certezza. E allora concorderete con noi, non ci sarà stato alcun bisogno che gli autori impazzissero cercando le parole per spiegare quello che le parole
Luigi Crippa sulle Stovelegs Cracks sul Nose, la via più ambita al mondo? Foto Federico Tresoldi.
non possono spiegare, ma non ci penserete nemmeno più perché il vostro unico pensiero sarà trovare una parete dove piantare qualche chiodo, appenderci le staffe e sognare di essere in America… L’idea di questo libro è nata separatamente in ognuno di noi più o meno nello stesso periodo, verso la fine del 2013, ma è rimasta a germogliare nella nostra fantasia per un altro anno circa. Quando abbiamo scoperto che in entrambi sobbolliva lo stesso progetto non c’è stata discussione, fare cordata anche in questa avventura era l’unico modo per unire divertimento a un risultato sicuro. Non è affatto semplice mettersi in gioco su un argomento di questo tipo, con un manuale che in Italia mai nessuno ha cercato di sviluppare, nonostante ci siano personaggi attivi nel campo ben più titolati di noi. Ma proprio l’assenza di informazioni di facile accesso, la mancanza di mentori pronti a condividere il loro sapere uniti a una grande voglia di esplorare anche questa disciplina del verticale ci ha portato a costruirci Angelo Riva bivacca sulle Big Sandy Ledges, durante la salita della Regular Route alla NO dell’Half Dome, Yosemite Valley. Foto Angelo Riva.
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Introduzione degli Autori
un’esperienza di prima mano, fatta di ricerca, studio, prove ed errori. E non sono mancate fin da subito le grandi soddisfazioni, quelle soddisfazioni dove l’unico da ringraziare porta il tuo nome e cognome, non importa quanto alta o difficile sia la parete appena salita. Ovviamente non ci siamo inventati niente, questa disciplina vive di vita propria da quasi 50 anni ormai, vita scandita da piccoli passi e balzi da gigante, come giganti sono stati alcuni personaggi il cui nome resterà scritto nella storia delle big wall. Il 99% di quello che leggerete è stato personalmente approfondito, digerito e testato sul campo, interagendo e confrontandosi con un’arena di praticanti ormai globalizzata e di facilissimo accesso. Il restante 1% scaturisce da esperienze al di fuori delle nostre possibilità, ci siamo fidati di chi ne sa più di noi, ma siamo felici che sia così, poter sognare è la chiave di tutto. Cruciale per la stesura di queste pagine è stato il fattore tempo, avremmo potuto aspettare di avere più esperienza, di accrescere un curriculum che non ne Peter “Pass the Piton Pete” Zabrok sul Capitan al dodicesimo tiro di Tempest (A4), chiamato Pecking Order. Foto Scott Peterson.
ha mai abbastanza, ma il momento giusto era questo, c’erano voglia, disponibilità e cuore. All’estero, e principalmente in America, la disciplina dell’arrampicata artificiale ha una diffusione completamente diversa presso il grande pubblico, quasi tutti i climber ci si cimentano, probabilmente sognando scomode notti appesi alla loro big wall casalinga, la più famosa del mondo, El Capitan. Proprio dall’America è venuta gran parte della letteratura specialistica sull’artif, dove i primi timidi manuali risalgono agli inizi degli anni 80, pieni di disegni a matita riciclati negli anni da diversi autori, aggiornati più volte fino ai giorni nostri. Ma un manuale completo, specifico ed enciclopedico su ogni argomento ancora manca, anche laggiù. Da questa constatazione abbiamo deciso di aggiungere un po’ di sale alla nostra sfida, come sempre non riuscivamo ad accontentarci già in partenza. Abbiamo scelto di fare un manuale “totale”, che potesse interessare il principiante, introducendolo a un mondo che ancora non può essere suo, e nello stesso tempo fornire tutti gli strumenti necessari all’alpinista più esperto che vuole darsi da fare per realizzare i sogni più grandi. Più grosso è l’albero più forte è il rumore quando cade, ma siamo convinti di aver svolto un buon lavoro e, perché no, saranno ben accette critiche e suggerimenti, sia mai che un giorno venga pubblicata una versione aggiornata… Veniamo al libro. Un tema comune tiene legati tutti i capitoli, un fil rouge purtroppo, e incredibilmente, spesso snobbato: la sicurezza. Ai più “consumati” alpinisti e scalatori di big wall alcune raccomandazioni suoneranno superflue o strideranno con abitudini affinate negli anni. Possiamo solo dir loro che un nodo o una precauzione in più non hanno mai ucciso nessuno, lo stesso non può dirsi per il contrario… C’è davvero chi si crede immortale, chi ripone in tecniche approssimative diventate ormai routine, nella tecnologia e nei materiali una fiducia immeritata, dettata solo dall’ignoranza, intesa come non conoscenza dell’intero argomento. Oppure è convinto di stare facendo tutto per il meglio, solo perché non
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Introduzione degli Autori
si è mai fermato a ragionare sui “ma se…”. Mettersi in discussione, essere convinti che ci sia sempre qualcos’altro da imparare, un modo migliore per fare le cose, è l’unica chiave per avere un futuro. E quando siete convinti che sia tutto a posto, ancora, non fidatevi! Ci ha stupito profondamente conoscere veterani del Capitan, nonostante passino da una vita molti mesi all’anno a salire le vie più pericolose e inimmaginabili, assolutamente non disposti a lasciare che miss Fortuna si leghi alla loro corda: pienamente consapevoli dei rischi inevitabili delle loro passioni mettono in pratica qualsiasi accorgimento permetta loro di tornare a casa, pronti a partire verso un’altra salita ancora… e non è forse questo il modo giusto di fare le cose? Non abbiamo risposte universali, ma per noi tutto funziona così. Non vogliamo scioccarvi, anzi si, ma gli spit si rompono (non sappiamo chi li ha messi, quanta esperienza
aveva, come è stato fatto il foro, da quanto tempo sono lì…), le corde si tranciano, i chiodi escono e la testa non è fatta di acciaio. Centinaia di esempi a suffragare ognuna di queste eventualità ci permettono di non arrossire di fronte a chi ci addita come “poco dotati di attributi”… Vorremmo trasmettere la nostra stessa filosofia, non si è eroi nel salire una parete verticale di sedimenti millenari, quello che conta è l’esperienza che si vive lassù, esperienza che lascia sempre l’amaro in bocca se sai di essere tornato a casa solo perché il tuo angelo custode c’ha messo lo zampino… È quasi un fallimento, ti è andata bene ma in realtà la partita l’hai persa. Questo non è un libro di avventure, o almeno non solo, impossibile leggerlo tutto d’un fiato, cento pagine al
Sull’immensa parete nord della Torre Grande di Trango, aprendo The Grand Voyage. Foto John Middendorf.
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Introduzione degli Autori
Gli attrezzi da lavoro. Foto Davide Grimoldi
giorno. È un mattone che va masticato e digerito un boccone per volta, una pietanza altamente calorica di cui non fare indigestione. Abbiamo cercato di essere il più completi possibile, analizzando tutti o quasi i prodotti presenti sul mercato, ogni operazione è descritta con molteplici tecniche, spesso simili e ridondanti, ognuna con i suoi pro e i suoi contro. E quando sarete padroni di tutte loro, quando tutto scorrerà nel vostro sangue, non sarete al traguardo ma sulla linea di partenza, non sentitevi arrivati, ma solo pronti a dire “che il gioco abbia inizio”. Noi siamo appena partiti… Sfogliatelo, guardate le figure come quando eravate bambini e leggete solo ciò che attira la vostra attenzione. Soffermatevi sui tanti racconti che impreziosiscono questo volume, abbiamo coinvolto i migliori specialisti mondiali di questa disciplina, e in molti si sono gentilmente prestati, fornendo racconti e fotografie di pareti sperdute o famose, di vie vicine o lontane, che potremo inserire nella nostra lista dei
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progetti o limitarci a sognare. I capitoli tecnici vanno letti e riletti, portati in falesia (sì, in falesia!) e consultati quando provate le varie manovre, magari a fine giornata. Un mastodontico capitolo dedicato all’attrezzatura farà felici i “nerd” dell’arrampicata: se non vi interessate di materiale, se un friend vale l’altro e non siete felici se non fate almeno 12 tiri al giorno, forse l’artif non fa per voi, o non ancora. È una disciplina “ingegneristica”, nel senso che ingegno, spirito di osservazione e inventiva contano di più di ogni allenamento. I materiali vengono presentati nelle loro caratteristiche tecniche, ne viene illustrato l’utilizzo classico insieme a tutta una serie di trucchi e piccole sottigliezze guadagnate sul campo. Quale miglior modo di progredire velocemente se non sfruttare le conoscenze altrui? Se ne avete altre contattateci e raccontateci le vostre. Una lunga digressione sui vari sistemi di gradazione è altro argomento prettamente nerd, mentre un tentativo di ricostruzione della storia dell’arrampicata artificiale è stato un gran pugno nello stomaco, ma è stato bello tornare indietro nel tempo, vivendo sprazzi di un
Diego alla seconda sosta di Fragilità Cerebrale (A4), Sergent, Valle dell’Orco. Foto Davide Grimoldi.
Introduzione degli Autori
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Introduzione degli Autori
periodo dove tutto era profondamente diverso e dove noi ancora non eravamo. I capitoli di progressione da primo e da secondo illustrano le varie manovre di corda che si compiono in parete, manovre potenzialmente pericolose e che perciò si meritano il giusto apprendistato. Imparerete a posizionare e a muovervi sulle corde fisse, per poter così “lavorare” un progetto, o le varie tecniche di discesa in parete, infinitamente più complicate che scendere una via sportiva. Non c’è disonore nell’accettare il fatto di non essere ancora pronti a salire una determinata via, anche se questa consapevolezza arriva quando abbiamo già un bel vuoto sotto il sedere. Decisamente peggio invece scoprire di non essere in grado di scendere da soli, coi propri mezzi, da dove ci si è andati a cacciare: lì davvero si è osato “oltre” e urge un esame di coscienza.
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La vita in parete è l’aspetto, insieme all’utilizzo delle staffe e delle altre diavolerie, che caratterizza il mondo delle big wall: stare in parete, dormire in portaledge, svegliarsi ed essere già alla base del tiro che saliremo oggi, forse l’unico della giornata, arrivare in sosta e prepararsi a un’altra notte in verticale, sono l’essenza stessa dell’artificiale. Seguono sia un capitolo per pochi, dedicato alla progressione in solitaria, forse la più completa e intrigante esperienza del verticale, sia uno che dovrebbe essere invece letto da tutti, dedicato all’artificiale in ambiente alpino, intendendo con
Se guardando questa foto vi sudano le mani e vorreste essere al suo posto, allora siete già a buon punto. Altrimenti riprovateci dopo aver finito di leggere questo libro…! Foto John Middendorf.
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questo trucchi e tecniche per salire in artificiale con materiali non specifici o improvvisati, per far fronte a imprevisti o corte sezioni non superabili in libera. Nel capitolo “progressione nell’apprendimento” abbiamo cercato di dare quello che deve essere interpretato solo come un consiglio, quella che secondo noi è la migliore metodologia da seguire per apprendere il mondo artif senza bruciarsi troppo presto, e senza rischiare inutilmente. Possono essere visti come una serie di esercizi che, eseguiti più o meno in ordine, vi porteranno facilmente ad acquisire l’esperienza desiderata. Un’idea questa presa in prestito dal famoso libro di C. McNamara “Road to the Nose”, una serie di esercizi e di vie preparatorie per chi ha come obiettivo la più bella e famosa via di roccia del mondo. Ritornando all’aspetto gestione del pericolo di cui parlavamo qualche riga più sopra, ricordate che una guida alpina è l’unico professionista della montagna in grado di insegnarvi tutte queste manovre (e molte altre) in piena sicurezza: non esitate a chiedere supervisione, è il migliore investimento che possiate fare.
Concludono il libro una piccola selezione di luoghi più o meno famosi dove pianificare i vostri prossimi viaggi arrampicatori, artificiali ovviamente, un elenco di siti internet dove approfondire ulteriormente ogni tecnica qui illustrata e una bibliografia di letture più che consigliate: per forza di cose molti aspetti quali l’autosoccorso in parete, il primo soccorso, la meteorologia, la progressione alpina, l’alimentazione non sono state qui trattate ma ciò nulla toglie alla loro fondamentale importanza durante una scalata di 10 giorni in ambiente remoto. Se vi annoierete ed entusiasmerete a pagine alterne avremo raggiunto il nostro scopo, se realizzerete un sogno finora ritenuto impossibile avrete realizzato il vostro. Gli Autori
Un bivacco in portaldge, da qualche parte nel mondo. Foto John Middendorf.
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Durante l’apertura di Pacific Ocean Wall su El Capitan, A5 a quei tempi, un solido A3+ oggi.
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Breve storia dell’arrampicata artificiale
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Breve storia dell’arrampicata artificiale
Questo capitolo doveva inizialmente chiamarsi “Storia dell’arrampicata artificiale”. Dopo giornate intere passate a raccogliere materiale per rimpolpare le nostre scarse conoscenze ci siamo accorti che mantenere fede agli originali propositi era un compito al di là delle nostre forze e, per quanto intrigante potesse essere, ci avrebbe assorbito tempo ed energie che più giustamente avrebbero dovuto essere impiegate nella parte “tecnica” del libro. Ecco spiegato il “Breve” iniziale. Non per questo però non ci siam dati da fare per cercare di ricostruire l’evoluzione della disciplina, scoprendo personaggi, pareti e aneddoti che meriterebbero un libro ciascuno. Speriamo che questo “breve” riassunto di quanto successo là fuori possa stimolarvi a un approfondimento personale, tornerete molto più ricchi. Lo abbiamo diviso in decenni: risulta così più facile farsi un’idea di quanto succedeva contemporaneamente in diverse parti del mondo, piuttosto che trattare zona per zona. Dalla preistoria alla metà del 1900 Prima di concentrarci sull’arrampicata artificiale è giusto spendere due parole sul suo “papà”, l’Alpinismo con la A maiuscola. Se non si conosce da dove si viene non si capisce dove si va. Se con Alpinismo intendiamo il salire su una montagna per un qualsivoglia motivo, allora l’Alpinismo nasce ben prima di Cristo, con nostri predecessori vestiti di pellicce spinti oltre i boschi di fondovalle per motivi di caccia e sostentamento. Se invece con Alpinismo intendiamo il salire una montagna per il semplice gusto di farlo, per sfida contro noi stessi o contro ciò che veniva considerato “impossibile”, allora possiamo dire che ha circa 700 anni. Le prime salite a una vetta di cui abbiamo traccia risalgono a Petrarca col Mont Ventoux (1909 m s.l.m. in Provenza, nel 1336 d.C.) e a Bonifacio d’Asti che nel 1358 saliva in cima al Rocciamelone (3538 m s.l.m. in Piemonte). Degna di nota ancora la salita di Antoine de Ville del Mont Aiguille nel 1492 (2085 m). Queste salite non attirarono certo l’attenzione del grande pubblico, tanto che restarono fatti isolati per altri 300 anni. Nel 1786 Balmat Dall’alto: Il celebre Great Roof, Nose, El Capitan. Foto Angelo Riva. Paolo Armando durante un tentativo di prima invernale della via Concilio Vaticano II alla Parete Rossa della Roda di Vael, febbraio 1968. Foto cortesia Alessandro Gogna/K3.
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Breve storia dell’arrampicata artificiale
e Paccard raggiungono la vetta del Monte Bianco, a 4810 m s.l.m., dando così il via a un’attività che crebbe a dismisura fino ai giorni nostri. Inizialmente si scatenò una caccia alla prima salita di ogni cima disponibile e, solo quando tutte furono conquistate, si iniziò a guardare alle pareti inscalate che riservavano avventure di ben altro livello, dando nuova linfa e stimoli agli alpinisti. Ma fino a che ci furono cime da conquistare il “come” ciò venisse fatto non rivestiva alcuna importanza agli occhi di chi desiderava salirle. Tutte le difficoltà tecniche che li separavano da gloria imperitura erano viste come noiosi ostacoli, problemi da addomesticare a ogni costo e con qualsiasi mezzo. Fu così che nacque l’arrampicata “artificiale”, prima ancora che nascesse sua sorella l’arrampicata “libera”. Quando le montagne venivano salite per vie che oggi sarebbero poco più che passeggiate, già l’uomo aveva inventato attrezzi artificiali per superare le difficoltà che la montagna gli presentava: scale e scalette per sorpassare crepacci e piccoli seracchi, piramidi umane, gradini scavati, pertiche a pioli, le prime rudimentali piccozze che già venivano incastrate nelle fessure (il dry tooling è molto più anziano di quanto si creda!). A. de Ville era un militare, abituato ad assaltare fortezze, e nella sua conquista del Mont Aiguille utilizzò “ganci da cacciare dentro le rocce” e scale di corda, i progenitori di cliff e staffe. Solo molto più tardi l’uomo si accorse che poteva trarre piacere da una sfida con se stesso, dal “come” superava certi arditi passaggi: è così che nacque l’alpinismo sportivo. Dai primi del 900 già il mondo degli arrampicatori si divideva in chi non concepiva l’utilizzo di mezzi artificiali durante una scalata e chi non si faceva troppi problemi. L’evoluzione dei materiali, dei chiodi e delle corde come dei ramponi e delle picozze, è stata diretta conseguenza dell’evoluzione dell’arrampicata libera: le difficoltà e i rischi erano sempre maggiori, servivano nuovi mezzi per assicurare la progressione. Tita Piaz nel 1906 apre la prima via mista libera-artificiale, salendo il Campanile Toro. Negli stessi anni Otto Herzog risolve l’annoso problema di doversi slegare, passare la corda direttamente nel chiodo e rilegarsi (!) sviluppando i primi moschettoni da arrampicata, derivati probabilmente
da altri più piccoli utilizzati per appendere i fucili, e Hans Fiechtl elabora il chiodo, costruendone di diversi tipi. Queste nuove invenzioni permettono ai due di fare capolino nel regno del sesto grado, con la salita alla sud della Schusselkarspitze, e al loro pupillo Hans Dulfer di replicare con la ovest del Totenkirchl. Dulfer non solo sviluppa particolari tecniche di arrampicata libera, che ancora oggi portano il suo nome, ma elabora anche difficili manovre, come la “traversata alla corda”. I detrattori dell’artificiale dell’epoca avevano dovuto arrendersi alle pareti dei loro sogni: mancavano ancora troppi anni perché potessero essere salite in libera. Invece i fautori di queste tecniche “moderne” compiono imprese sempre maggiori, Solleder in testa. Arriva così il momento in cui lo sguardo di tutti si posa sulle pareti nord delle Tre Cime di Lavaredo. I migliori ci provano, solo Comici e i fratelli Dimai ci riescono, assediando per giorni con corde e centinaia di chiodi la parete. Sembrano tempi lontani ma le cose son cambiate di poco: la salita di Comici e compagni desta un vespaio di polemiche, tra chi non accetta lo stile di salita utilizzato e chi voleva essere lui ad averlo utilizzato… Se le Dolomiti sono indubbiamente la culla dell’arrampicata artificiale nel mondo, queste tecniche vengono ben presto esportate a ovest, dove nel 1939 Ratti e Vitali salgono la Parete Ovest dell’Aiguille Noire de Peuterey, la prima via mista libera-artificiale nel massiccio del Monte Bianco. Nel frattempo tutte le pareti ritenute impossibili capitolano di fronte a veri specialisti della chiodatura seriale, uno per tutti il francese Livanos, che si è fatto le ossa sulle corte vie della Francia del sud ma che non ha trovato difficoltà nell’applicarle a ben più ampi strapiombi. Negli anni seguenti si susseguono alpinisti di fama mondiale, da Maestri a Desmaison, da Couzy a Mazeaud, da Carlesso a Bonatti; è davvero impossibile nominare e descrivere tutte le vie salite in quel periodo senza escludere qualcuno, quindi lorsignori ci scuseranno se stiamo compiendo imperdonabili dimenticanze. È proprio Bonatti nel 1951 a firmare un’altra salita mista libera-artificiale che farà storia, salendo i quasi 500 metri della stupenda parete est del Grand Capucin, che termina a oltre 3800m di quota.
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El Capitan, Reticent Wall
Mark Hudon
Mark Hudon nasce nel 1956 e inizia ad arrampicare a 16 anni. Due anni più tardi arriva la sua prima big wall, la Salathé al Capitan. L’anno successivo decide di trasferirsi per esser più vicino alle pareti che segneranno la sua vita. Da allora sale il Capitan 29 volte, per 25 vie diverse, compiendo anche 3 difficili solitarie. Tutte le pareti della Valle di Yosemite lo vedono protagonista più e più volte. È molto dotato anche come free climber e, insieme all’inseparabile compagno Max Jones, compirà il primo visionario tentativo (nel 1979) di liberare la Salathé, tentativo a cui solo 90 metri di artificiale resistettero e durante il quale vennero saliti i primi tiri di 5.12 e 5.13 del Cap. Era ancora un periodo d’oro in Valle, e moltissime salite aspettavano le prime ripetizioni: numerose oggi portano il suo nome. Scala fino al 5.13c ed è la persona più “anziana” ad aver compiuto una solitaria sul El Cap, con Grape Race/Tribal Rite (VI 5.11, A3) a 54 anni. Guardando il suo incredibile curriculum si capisce come non abbia la minima intenzione di smettere ma, anzi, ogni anno sembra spingere sempre di più sull’acceleratore. Documenta sempre al meglio le sue salite, e trovate i suoi trip report su www.supertopo.com. Il suo sito personale è www.hudonpanos.com
È stata proprio l’avventura perfetta. Niente è andato storto, il meteo è stato ottimo e la via era difficile al punto giusto, tutta interessante e mai troppo spaventosa o davvero pericolosa. E c’era calma tutto intorno. Veramente molta calma. Nessun camion della spazzatura a sbattere i cassonetti, nessuna motocicletta a rombare giù nella strada, nessun clacson o sirena che suonasse. Nessuna persona che urlasse. Era strano. Era davvero bello. Mentre Max, su El Cap, era impegnato a tirare l’ultimo tiro di Atlantic Ocean Wall… Io mi chiedevo come sarebbe andata a finire. Il governo americano aveva fermato ogni attività, il famoso shut down, e il parco nazionale dello Yosemite aveva “chiuso”. Il fiume Merced scorreva ancora, la Valle era ancora bella come era sempre stata, ma era chiusa e tutti dovevano andarsene. Noi aspettavamo i portatori sulla cima per il giorno successivo, ci avrebbero aiutato a riportare a valle tutta la nostra attrezzatura ma avevo pianificato anche di andare a fotografare un matrimonio e poi scalare un’altra via su El Cap. Il mio piano era da gettare nel cesso. Max ed io non avremmo avuto la classica cena di festeggiamento giù al Mountain Room, né avremmo passato la mattinata successiva al ponte o nel Meadow a riguardare dal basso la nostra via e raccontarci cosa avevamo provato lassù. “Il parco è chiuso, fuori dalle palle” recitava un annuncio su ogni singola macchina parcheggiata lungo la strada di fronte al Capitan.
Mark Hudon esprime tutta la sua gioia di trovarsi nuovamente in parete. Foto archivio Hudon.
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Contributi – Mark Hudon
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Ci stringemmo la mano e Max saltò in macchina per tornare a casa sua a Carson City. Io guidai per un po’ senza meta nella valle, andai a prendere del materiale al YOSAR (Yosemite Search And Rescue, il servizio di soccorso del parco, ndt), imbucai una lettera, recuperai del cibo nascosto sotto chiave al Manure Pile e mi diressi giù a Fresno per passare una settimana col mio amico detto Micronut. Usciti da South Seas nel 2011, la sua prima via su El Cap da 32 anni, Max propose di salire Reticent come nostra prossima avventura. Io sapevo che nessuno di noi due era pronto per quella via; avevamo bisogno di farne almeno un altro paio insieme, prima. L’anno dopo facemmo Lost in America e nel 2013 Atlantic Ocean Wall. In vetta dopo quest’ultima, mentre ci gustavamo un caffè ammirando l’alba, mettemmo in lista Reticent per la primavera successiva. Reticent è gradata DFU (Don’t Fuck Up, Non Fare Cazzate, nel Casual Rating System inventato da Jim Bridwell, ndt) e A4+ e a prescindere da quello che potete aver sentito in giro; Max ed io siamo pienamente “umani” e ci teniamo a continuare a vivere. Entrambi crediamo che “morire facendo qualcosa che piace” sia un’idea idiota. Morire facendo quello che ami è pur sempre morire e non poter più fare quella cosa che ami, non poter più fare tutte le cose che ami, e questa è la cruda realtà. Tuttavia siamo sempre stati dell’idea che se una salita era stata fatta anche noi avremmo potuto farla (lo pensavamo di più anni fa, ma allora eravamo giovani...). Ci organizzammo, fissammo una data e comprammo molti altri beak. Lascio Hood River, la mia famiglia e il mio lavoro, l’Hood River Coffee Roasters giovedì notte e due giorni dopo entro in valle con Max e tutta la nostra attrezzatura, pronti a partire. Arrivati a El Cap Meadow saltiamo fuori dal furgone, prendiamo i sacchi e ci dirigiamo verso la base della parete. Max ed io siamo totalmente sulla stessa lunghezza
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d’onda quando si tratta di salire pareti; fatica al minimo e divertimento al massimo. Scaliamo due tiri, recuperiamo i sacconi e scendiamo lungo le corde penzolanti. Quella sera, nello spiazzo fuori da El Portal impacchettiamo i carichi finali, e andiamo a letto presto. I nostri piani prevedono di svegliarci all’alba, fare altri due viaggi fino all’attacco, risalire le corde, recuperare il carico, scalare finché ne avremo avuto voglia, preparare la portaledge e goderci la nostra prima notte su El Cap. Reticent Wall inizia dopo i primi sette tiri di New Dawn. Questi tiri li ho saliti la prima volta 38 anni fa, Max l’anno scorso sotto un caldo opprimente. Il tempo è buono e il cielo sgombro mentre noi saliamo con naturalezza tirando friend, nut e rivetti, molto spesso senza interrompere la conversazione. Si parla delle cose della vita, di arrampicata e pareti. Scaliamo due tiri, poi io ne tiro un terzo e scendo, lasciandolo da pulire per il giorno dopo («pulire» un tiro significa rimuovere le protezioni piazzate per salirlo, ndt). Siamo pronti alla serata sulla portaldge per le 17:30. Il mattino dopo non abbiamo nessun posto dove andare e tutto il giorno per andarci, ma ci svegliamo lo stesso al sorgere del sole e per le 6:30 un caffè gorgoglia sul fornello. I nostri piani sono di salire altri due tiri fino alla Lay Lady Ledge e magari fissare i primi uno o due di Reticent. Quella mattina scopriamo dai nostri telefoni che una veloce tempesta si sta avvicinando. Non ce ne frega molto. Utilizziamo un collaudato sistema di recupero 2:1 e ci portiamo dietro sempre abbastanza cibo, acqua e attrezzatura per resistere con comfort alla maggior parte delle tempeste. La Lay Lady Ledge ci vede arrivare verso l’una del pomeriggio e Max subito si carica il materiale e parte sul primo tiro di Reticent. Posso dire che lo vidi un po’ preoccupato. Reticent è famosa per essere una via seria, con una gradazione stretta. Avevamo già salito tiri di A3 e A4, ma qui questi gradi assumono un nuovo significato. Max inizia
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a salire lentamente e con circospezione. Il nostro mantra, che ci saremmo ripetuti a vicenda, è «metti la miglior protezione, testala di brutto, salici sopra, dimenticala e ricomincia». Max ci mette un paio d’ore su questo difficile e complesso tiro e torna in cengia soddisfatto dal lavoro svolto. I tiri chiave delle vie precedenti li avevo tirati sempre io, ma su questa via Max ha il fardello del crux finale, il penultimo tiro della via gli grava sulle spalle e sulla mente. Io ho il primo tiro chiave, quello che conduce fuori dalla Wine Tower, sulle mie. Cerchiamo di imparare qualcosa da ogni singolo piazzamento, da ogni singolo tiro della via. Stiamo dormendo quando inizia a piovere, sono le 2 del mattino, ma ora che riusciamo a tirar giù il telo della portaledge ha già smesso. Quel giorno albeggiò con molte nuvole e inquietudine ma ogni tanto le nuvole si dissipavano, rivelando un cielo blu. Passiamo il tempo parlando di affari, allenamenti e nutrizione, mangiando e sonnecchiando. Il giorno successivo il Park Service aveva un’esercitazione con l’elicottero e sapevamo che il meteo sarebbe stato buono fintanto che l’uccello di metallo fosse stato nei paraggi. Risaliamo entrambi la corda ed io faccio un tiro che la relazione riporta come A4. Sarebbe stato A4 se non fosse per tutti quei copperhead saldati alla roccia, con i cavetti ancora perfetti. Sarebbe stato un tiro divertente e impegnativo, ma devo ammettere onestamente che assomigliava di più a un A2+. Un tiro più che altro del tipo «moschettona e tira». C’era si un tratto carino a metà, con alcune scaglie molto sottili, ma senza la reale possibilità di cadere e strappare più di una o due protezioni. In ogni caso fu un tiro bello e divertente. Il mio più grande errore fu di non prendere con me abbastanza materiale. Finii i moschettoni prima della sosta e dovetti tirare come un ossesso per avere abbastanza corda per costruire l’ancoraggio. Max pulisce il tiro e quando scendiamo alla Lay Lady Ledge inizia a piovere leggermente. Saltiamo nella portaldge
quando la pioggia è ormai cessata, ancora... Le previsioni parlano di cieli sgombri per il mattino seguente e decidiamo di svegliarci presto per continuare a salire. «Niente di meglio che essere un climber sul El Cap al maaaaattttiiinnoooo!» è il mio grido appena sveglio. Infatti lo grido ogni volta che vengo assalito dall’euforia di essere sul Cap, il che avviene abbastanza di frequente. «Andiamo a scaaalaaareeee!» è l’altro, e di solito ottengo in risposta urla da stadio dalle altre cordate in parete. Non questa volta: a parte Matan Solomon in solitaria su Zodiac, non c’è nessun altro su tutta la parete sud est del Capitan.
Max Jones sul penultimo tiro della via, uno dei tiri chiave, A4+, Reticent Wall, El Capitan. Foto archivio Hudon.
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Foto Davide Grimoldi
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Materiali, nodi e loro utilizzo
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Materiali, nodi e loro utilizzo
Uno degli aspetti che rende la disciplina dell’arrampicata artificiale così esotica è sicuramente il materiale. Un tiro può risultare facilmente scalabile o totalmente impossibile se abbiamo con noi o abbiamo lasciato a casa il giusto pezzo di artiglieria. Purtroppo questo stesso aspetto contribuisce a farne una disciplina poco praticata: rifornirsi di tutto il necessario rappresenta un costo di tutto rispetto, un vero e proprio investimento. I materiali più strani sono molto difficili da trovare qui in Italia; data la richiesta quasi nulla non vengono nemmeno importati. Solo acquisti online oltreoceano possono esserci d’aiuto, ai cui costi vanno spesso aggiunti i dazi e le tasse di importazione. È d’obbligo però sottolineare che non serve tutto subito, l’attrezzatura può essere collezionata col tempo, man mano che esigenze ed esperienza crescono insieme. Di seguito indichiamo una possibile dotazione di base, cioè il materiale minimo necessario senza il quale risulta difficile parlare di “scalata artificiale” e senza il quale probabilmente sarebbe più giusto dire “arrangiarsi in qualche modo a uscire da un tiro”. È il materiale utile per affrontare le prime prove e le prime vie di artif, anche classico, ovviamente da attrezzare almeno parzialmente. Non ci riferiamo in questo momento all’artificiale in ambiente alpino, dove la leggerezza regna sovrana e quindi si deve fare a meno di materiale specifico: questo verrà trattato più avanti in un apposito capitolo. Intendiamo qui dare un’idea generale su che cosa acquistare in una prima fase di avvicinamento alla disciplina, avendo ben chiaro che ogni particolare via ha caratteristiche peculiari e sarà necessario studiare a fondo la relazione per capire che cosa portare. 2 staffe lunghe (circa 1 metro) 2 daisy chain (regolabili o fisse) 1 fifi hook (opz.) 1 jumar Ginocchiere Guanti mezze dita Casco 10 rinvii
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20 moschettoni sciolti 15 cordini 60 cm 3 cordini 120 cm Serie di friend (dai piccoli ai medi – es: serie di Camalot C4 da n. 0.3 a 3) Serie di nut (dai piccoli ai medi – 8 pzi) 6 chiodi (2 LA, 2 KB, 1 angle, 1 U, di misure diverse tra il piccolo e il medio) Martello Cavanut Coltellino GriGri Una dotazione più avanzata prevede materiale più specifico e in quantità maggiore. Se siete convinti di proseguire sulla strada delle staffe il consiglio è di investire nel seguente materiale. 1 serie microfriend (BD Camalot C3, Wild Country Zeros, Metolius TCU, BD Camalot X4) 1 serie micronut 8 chiodi (3 KB, 3 LA, 2 Angle, di misure diverse) 2 pecker (1 medio ed 1 grande) 3 hook (1 micro, 1 medio ed 1 grande) 1 carrucola autobloccante (microtraxion, minitraxion) 2 jumar 1 saccone Da qui in avanti non ci sono limiti. Ci sono vie dove servono 3 o 4 serie di friend, 100 head, 40 pecker, 30 nut della stessa misura il nostro consiglio è di cercare di avere un po’ di tutto senza eccedere nelle quantità, poi col tempo capirete cosa vi serve. Utilissimi, ma solo in particolari situazioni, sono i tricam, i ball nut e i cliff giganti. Di seguito illustreremo tutto il materiale disponibile allo stato dell’arte, il suo utilizzo e tutti i trucchi di cui siamo a conoscenza. Il consiglio è sempre lo stesso: fate le vostre prove in basso, su qualche masso o paretina senza pretese e in top rope, prima di andare a verificare se avete capito o vi ricordate tutto a qualche centinaio di metri da terra. Questo vale ancora di più per le manovre di corda che
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non per le protezioni stesse. Assolutamente da evitare è il far pratica con protezioni “distruttive” (chiodi, pecker, head) in falesie o vie di valore storico, che ne uscirebbero rovinate irrimediabilmente e non fareste certo una bella figura. Ottime sono le falesie trad per impratichirsi a muoversi sulle staffe con nut e friend; magari qualcuno avrà da borbottare per la vostra lentezza ma nulla più.
NB. Nessuno di noi è sponsorizzato in alcun modo dalle aziende nominate qui di seguito; solo Camp ha messo gentilmente a disposizione alcuni dei suoi materiali per i set fotografici delle trattazioni tecniche che seguiranno. Questo capitolo non vuole essere una pubblicità diretta verso qualcuno o qualcosa; nessuna azienda ha ricevuto un trattamento “di riguardo”, ma non riteniamo possibile parlare di materiali così specifici senza esaminare direttamente i vari modelli presenti oggi sul mercato. Le considerazioni espresse riguardo a performance e caratteristiche derivano da esperienza personale diretta sul campo e proprio in quanto “opinioni” possono non trovare d’accordo la totalità dei lettori e non corrispondere quindi alla realtà.
Foto John Middendorf
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Materiali, nodi e loro utilizzo
Daisy Chain Un elemento fondamentale della catena di assicurazione e progressione artificiale. Ne servono almeno due; su tiri difficili e precari averne tre aiuta. Sono chiamate anche Longe. Ci sono due tipologie principali: quelle fisse ad anelli e quelle regolabili e scorrevoli. Queste ultime sono una novità degli ultimi anni e secondo noi hanno rappresentato un gigantesco passo avanti. Vediamole meglio.
All’ultimo anello infilare un moschettone di ampia apertura, al quale si connetterà anche una staffa. Possono venire fissate all’imbrago con nodi differenti, probabilmente più sicuri, ma col bocca di lupo riusciamo a massimizzare la lunghezza utile della longe. Niente vieta di usare metodi di legatura diversi.
In cima alla longe (qui in foto una Evolv Adjust della Petzl) fissate un largo moschettone, non a ghiera e possibilmente key lock.
Le Daisy Chain. In senso orario, da in alto a sinistra, troviamo: la nuova daisy Twist di Camp ad anelli fissi, la daisy regolabile della Fish, la nuova doppia Evolv Adjust di Petzl e la Easy Daisy di Metolius.
La daisy chain viene legata all’imbragatura tramite un nodo a bocca di lupo; si suggerisce di averne di due colori diversi e di legarle una a destra e una a sinistra dell’anello centrale dell’imbrago, in modo che risultino ben separate.
Fissate le due longe direttamente nel ponte dell’imbrago e non nell’anello di servizio.
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La daisy sarà il nostro collegamento con la protezione che stiamo inserendo (ci eviterà di perderla in caso di fuoriuscita in fase di bounce test, vedi capitolo 4 La progressione da primo) e ci permetterà di innalzarci centimetro dopo centimetro verso la protezione successiva. Le daisy ad anelli cuciti vengono usate insieme a un rinvio o a un fifi hook fissato all’anello dell’imbrago. Nella pratica intensiva sono piuttosto scomode in quanto si deve sganciare il rinvio/fifi da un anello per inserirlo in uno superiore, e ciò risulta sempre più faticoso e lento di quanto si possa immaginare. Inoltre, durante questa manovra in situazioni precarie, si rischia di sollecitare maggiormente la protezione a cui si è appesi. Di vitale importanza ricordare che le daisy sono elementi statici (non elastici, quindi non in grado si assorbire le forze generate durante una caduta, seppur breve) e richiedono un utilizzo secondo specifiche del produttore. Gli anelli precuciti intermedi hanno una tenuta di soli 150kg, il che implica che un moschettonaggio sbagliato seguito da una piccola sollecitazione (una caduta statica di 1 m sulla daisy) può portare all’apertura della cucitura e alla fuoriuscita del rinvio/fifi.
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Per evitare questo inconveniente (che ha già fatto vittime) sono state introdotte le daisy ad anelli separati: ogni anello è un’unità statica a sé stante, con resistenza omologata di 2200 kN. Hanno come lato negativo di non essere particolarmente lunghe (in artif devono coprire almeno la distanza tra l’anello dell’imbrago e la punta delle dita con braccio tutto alzato sopra la testa) e che gli anelli non sono corti come quelli dell’altro tipo di daisy, non permettendo regolazioni altrettanto precise sulla distanza dalla protezione.
Una daisy chain ad anelli separati. Purtroppo questi anelli sono troppo lunghi per permettere le regolazioni precise che un tiro di artif richiede.
Camp ha invece introdotto da poco sul mercato la daisy fissa modello Twist i cui anelli sono intrecciati in modo che il moschettone non esca anche se le cuciture intermedie dovessero saltare. Un piccolo “uovo di Colombo” che fa la differenza. La nuova daisy chain Twist della Camp, con questa rivoluzionaria cucitura, ha eliminato un pericoloso inconveniente presente in tutte le altre daisy chain ad anelli continui, ossia il non dover moschettonare due anelli vicini.
Le daisy regolabili invece si possono allungare e accorciare col semplice gesto di una mano e permettono di fermarsi esattamente alla distanza voluta da una protezione e/o di equalizzarsi su due protezioni vicine (distribuendo su entrambe parte del proprio peso, cosa molto utile su piazzamenti precari). Trovare la fluidità nel loro utilizzo richiede un attimo di pratica, dopo il quale risultano irrinunciabili. Non sono omologate come daisy da autoassicurazione in sosta durante manovre e calate (meglio utilizzare una fissa ad anelli, con le dovute attenzioni a non sollecitarla troppo staticamente). Ce ne sono di diversi modelli: quelle più diffuse in Europa sono le Easy Daisy della Metolius e le nuove Evolv Adjust della Petzl. Quelle della Metolius necessitano di qualche prova per essere utilizzate al meglio: all’inizio sembrano non allungarsi facilmente. Con il tempo e l’uso la fettuccia si irrigidisce e diventano poco scorrevoli. Quelle della Petzl hanno invece un cordino dinamico che non è il massimo nei bounce test (vedi cap. Progressione da primo) in quanto assorbe parte della forza che vogliamo trasmettere alla protezione. Inoltre bisogna porre attenzione a non impedire il movimento rotatorio della parte di metallo incaricata di strozzare la corda o potrebbe non bloccarla. Anche qui un po’ di utilizzo e si acquisiscono le malizie necessarie. In America sono invece disponibili le Adjustable Daisy Chains della Fish, le migliori come semplicità di utilizzo: sono comodissime da stringere e allungare, in ogni situazione. La fettuccia è un po’ delicata ma è possibile sostituirla in caso di usura.
Una daisy regolabile può essere facilmente costruita con una piastrina Slyde della Kong, o utilizzando un bloccante stile Ropeman.
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Microchiodi - RURP Questo tipo di protezione è tra le più divertenti da posizionare e permette di salire facilmente fessurine quasi impercettibili. I primi a comparire sono stati i famosi R.U.R.P. (Realized Ultimate Reality Piton), chiodini molto simili a lamette da barba, riescono a essere posizionati dove nessun KB riuscirebbe a entrare. Sono stati “inventati” da Tom Frost, forse per
A destra un rurp Camp in metallo duro, a sinistra due misure di rurp Gear4Rock in metallo tenero.
Questi rurp innovativi hanno un design diverso da quelli che siamo abituati a vedere ed hanno una zigrinatura in punta che ne aumenta la tenuta. Vengono prodotti in due dimensioni.
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limitare la spittatura di sezioni non chiodabili coi chiodi tradizionali. Hanno due punti deboli: il cavetto molto delicato e la scarsa tenuta in fessure verticali. Sono invece i migliori in fessure orizzontali. Non si possono non nominare i 35 rurp in fila utilizzati per la prima salita della Triple Crack dello Shield sul Capitan, o la sosta a 5 rurp (e 1 spit) su Sea Of Dreams (attribuita di solito a Jim Bridwell, ma costruita in realtà dal suo compagno Dave Diegelman).
Il RURP rivisitato da Kop de Gas. Un vecchio rurp arrugginito, ma il Per tenere al meglio il gambo cavetto è in ottime condizioni! BAT, deve appoggiare alla roccia, L3, A3, Valle dell’Orco. limitando l’effetto leva.
Il modello Pitonisse della Kop De Gas, uno Rurp molto spesso (3mm) ma compatto e a punta, molto simile per utilizzo a un micro chiodo a foglia.
Materiali, nodi e loro utilizzo
Microchiodi - Pecker I pecker sono un’evoluzione dei RURP, pensati per avere migliore tenuta in fessure verticali. Vengono chiamati anche bird beak e in passato il loro predecessore più illustre era conosciuto come crack ‘n’ up: in realtà derivano dagli Star, un primo progetto di Tony Yaniro. Hanno la forma di una piccola picozza e si possono usare anche come cliff, in particolari situazioni, ma rimane un utilizzo davvero precario in quanto poco stabili.
I pecker sono nati come evoluzione di questo chiodo, il crack ’n up, a cui è stata tagliata una punta per facilitarne il posizionamento col martello.
Una gran quantità di pecker non può mancare nell’arsenale dell’aid climber più incallito. È utile averne diversi modelli e taglie, per adattarsi al meglio ai problemi che la roccia ci presenta. In questa foto troviamo, partendo da sinistra in alto, in senso orario: le tre misure di pecker Black Diamond, due Iron Hawk della Cassin/Camp, sette diversi modelli di pecker Krukonogi, due Toucan della Pika, quattro diversi Tomahawk della Moses.
Ci sono molti modelli sul mercato: si differenziano per la forma del gambo, per la lunghezza del becco e per lo spessore del metallo. Alcuni modelli hanno il gambo o una parte di esso svergolato a destra o a sinistra, in modo da aggiungere un effetto di bloccaggio torsionale e permettere un agevole piazzamento in posizioni chiuse ad angolo. È impressionante come, inseriti per pochi millimetri, possano davvero sopportare il peso del climber o le forze di una caduta. I modelli più grossi sono ottimi in piazzamenti dove si userebbe normalmente un LA o un angle. Se riescono a fare presa sul fondo della fessura sono da preferire, in quanto molto meno distruttivi per la roccia. I più tecnologici sono sicuramente i Tomahawk della Moses, con un design studiato nei minimi dettagli, come il dentino posteriore per l’estrazione col martello o le molteplici possibilità di “martellamento” in più direzioni.
Un pecker della ditta russa Krukonogi. In questo caso è stato posizionato a mano dentro uno stretto buco della roccia, senza bisogno di utilizzare il martello. Questo tipo di posizionamento ha ovviamente una tenuta più precaria e spesso monodirezionale. Sono protezioni solo da progressione, ma salvaguardano l’integrità della roccia e fanno parte del repertorio dei trucchi dello scalatore “clean”.
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Un beak della A5, ormai introvabile. Un pecker Iron Hawk della Cassin, Foto John Middendorf. molto affilato, è uno tra i modelli che userete di più. Qui in azione su Muro di Silenzio, A3, Parete del Castello, Chiavenna (SO).
Un pecker della Kop de Gas, ha la Due Tomahawk accoppiati, utile trucco per i buchi più larghi. Foto punta molto rastremata. Moses Enterprises.
La russa Krukonogi ha sviluppato invece la più ampia gamma di pecker mai vista sul mercato, con decine e decine di modelli e misure diverse. Per estrarli tirarli, dal cavetto verso l’alto è completamente inutile; si rischia solo di rovinarne la punta o rompere il cavo. Se anche il martellarli dal basso verso l’alto da sotto il gambo o da sotto
Un pecker utilizzato in una fessura orizzontale, come un rurp. Rinviando il foro sulla lama e non sul gambo si annulla l’effetto torsionale che potrebbe altrimenti spezzarlo. Foto di Andy Kirkpatrick, durante la sua solitaria di Sea Of Dreams, El Capitan.
Un Tomahawk della Moses con gambo svergolato a sinistra, aggiunge una componente di tenuta per torsione quando caricato. Il grosso dente sulla testa aiuta molto in estrazione.
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Un trucco da utilizzare quando non ne vogliono sapere di uscire: inserisco un cisello sotto il gambo e, colpendo in basso col martello, estraggo la lama per rotazione.
Un Toucan della Pika strozzato. Fragilità Cerebrale, 6° tiro, A4, Sergent, Valle dell’Orco.
Mike Libecki sul quinto tiro di una via nuova sull’Acopan Tepui, in Venezuela. Foto John Burcham, archivio Libecki.
Materiali, nodi e loro utilizzo
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La progressione da secondo
Lower out. Non tutti i traversi permettono al primo di lasciare fisse tutte le protezioni. Il famoso “hook or book” di Sea of Dreams al Capitan o “atomic traverse” di Supersonic al Sergent in Valle dell’Orco sono esempi di tiri quasi completamente su hook in traverso. In questi casi, ma anche in più semplici, non si pretende che anche il secondo inizi un balletto sui ganci. Si parte sempre da una prima protezione che non sarà più recuperabile (fosse anche la sosta stessa di partenza), preferibilmente il più sicura possibile, e da cui ci si cala eseguendo un lower out, “un mini pendolo” svolto utilizzando i diversi metodi descritti più sotto in questo capitolo per l’esecuzione di un pendolo da parte del secondo di cordata (a cui rimandiamo per foto e discussione): un cordino 5mm da 10-12 metri è utile per piccoli lower out (gli americani lo chiamano “tat cord”), una terza corda portata allo scopo o la parte di corda di cordata che resta tra noi e il capo sotto. Mentre da una parte ci caleremo in doppia (utilizzando assolutamente discensore + prusik o un GriGri) dall’altra recupereremo corda con le jumar: restiamo quindi appesi in mezzo a una “V”, da una parte la corda di lower out, dall’altra la corda di cordata. Ripetiamo, se il primo è passato facendo un pendolo o arrampicando sulle protezioni ma le ha rimosse dietro di sé, al secondo nulla cambia, dovrà percorre quel tratto come se fosse un pendolo. Dopo un po’ di timore iniziale vedrete che sarà pura routine. Provatelo però prima in una situazione tranquilla, andare in panico od incastrarsi durante una manovra del genere può d’altra parte essere disastroso!
Fabio esegue un piccolo lower out da un chiodo tramite la sua tat cord. Dopo essersi ancorato momentaneamente al chiodo tramite i rinvii e il fifi hook attrezza una mini corda doppia sulla tat cord, sgancia i rinvii, si cala e recupera il cordino. Qui su Tempi Duri + Strapiombi delle Visioni, A4, Caporal, Valle dell’Orco.
Un cordino da 5 mm lungo 10-15 metri non deve mai mancare all’imbrago del secondo di cordata. Chiamato in inglese “tat cord” serve per eseguire piccoli pendoli o lower out da protezioni fisse, in caso di traversi non scalabili sulle protezioni messe dal primo di cordata.
Il settimo tiro di Lurking Fear al Capitan parte con un lungo traverso orizzontale su spit e hook, ma il primo di cordata non ne ha lasciato rinviato neanche uno, per velocizzare la manovra di pulizia. Infatti calarsi con un lungo lower out è più veloce che eseguirne 4 o 5 più piccoli. Qui Fabio esegue il lower out con l’eccesso di corda dinamica, che il primo non ha recuperato in sosta.
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La progressione da secondo
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La progressione da secondo
Pendoli Eseguire un pendolo da secondo è spesso più pericoloso e complicato che eseguirlo da primi. A seconda della lunghezza del pendolo e della corda che abbiamo disponibile possiamo decidere se eseguirlo sulla corda di cordata o con una corda ausiliaria. Se optiamo per la corda ausiliaria la manovra risulta più semplice e sicura, ma richiede qualche minuto in più; se utilizziamo la corda di cordata residua il tutto sembra essere un po’ più complicato, ma in fin dei conti è più veloce. Ci saranno delle occasioni in cui potremo scegliere quale metodo utilizzare, delle altre in cui la scelta sarà obbligata: se il pendolo è più lungo della metà della corda disponibile siamo obbligati a utilizzarne una ausiliaria. Se è molto corto potremmo utilizzare la nostra tat cord (consigliamo che il secondo ne abbia sempre una con sé da 10-12m di 5-6 mm di diametro). C’è da dire però che il secondo non si troverà più a correre avanti e indietro in parete fino ad afferrare un chiodo o una scaglia: questo è il lavoro del primo di cordata. Il secondo eseguirà solo una calata obliqua, con le tecniche che vediamo di seguito. Analizziamo i diversi casi: 1 Pendolo con corda ausiliaria o tat cord: non si tratta altro che eseguire una corda doppia dall’ancoraggio utilizzato per il pendolo, prendendo alcune precauzioni. a - Arrivo all’ancoraggio del pendolo. b - Inserisco la corda ausiliaria nell’ancoraggio di pendolo e allestisco una corda doppia. c - Mi blocco e mi peso sulla corda ausiliaria, tramite un nodo autobloccante o un’asola di bloccaggio. d - Sgancio la corda di cordata dall’ancoraggio di pendolo. e - Mi calo in doppia con un discensore o un mezzo barcaiolo con entrambi i capi + nodo autobloccante. f - Mentre scendo posso recuperare la corda di cordata nella jumar e nel GriGri, il che mi fa scendere in obliquo, portandomi sotto la verticale della seconda parte del tiro. g - Arrivato a fine pendolo rimetto in tensione la longe della jumar sopra il GriGri, recupero la doppia, continuo a salire e a pulire il tiro. Ovviamente l’ancoraggio utilizzato per il pendolo non può essere recuperato.
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1a - Arrivo all’ancoraggio da cui devo eseguire il pendolo. Passo la corda ausiliaria nello stesso, per allestire una piccola corda doppia.
1b - Attrezzo la corda doppia, utilizzando un discensore o un nodo mezzo barcaiolo con la tat cord.
Particolare del mezzo barcaiolo che utilizziamo per eseguire il pendolo da secondi di cordata.
La progressione da secondo
1c - Con un’asola di bloccaggio mi peso sulla corda ausiliaria.
1d - Posso ora sganciare la corda di cordata dal punto di pendolo, lasciando solo eventualmente il moschettone da cui mi calerò.
1g - Arrivato sulla verticale della protezione successiva al pendolo posso smontare la corda doppia e recuperarla tirandone un capo. Attenzione a che non ci siano nodi sul capo che lasciate libero!
1f - Mentre mi calo sono trattenuto anche dalla corda di cordata che mi fa scendere in obliquo.
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Uno scatto di Andy Kirkpatrick durante la sua solitaria su Sea Of Dreams, A4+, El Capitan.
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Tecniche di progressione in solitaria
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Tecniche di progressione in solitaria
Leggere questo capitolo. Perché? Non fatelo, saltatelo a piè pari. Potreste maledirvi di averlo fatto, se vi ritroverete appesi a cercare di ricordare cosa ci sta scritto tra qualche pagina. Potreste però esserci davvero grati, una volta lassù, in cima, con nessuno a cui stringere la mano. Potrebbe essere una piacevole divagazione in un mondo che non sarà mai vostro. E non c’è niente di male in questo, le vostre vite sono già piene così come sono, non avete bisogno di ingolfarle con pensieri e paure troppo ingombranti per l’uomo comune. È proprio questo quello che vi succederà quando vi porrete davvero una solitaria come obiettivo. Potrebbe però anche solo risultarvi utile leggerlo, magari una volta o l’altra un piccolo accorgimento vi salverà la pelle, o quella del vostro compagno infortunato all’altro capo della corda. Potreste invece essere semplicemente curiosi: come si possa scalare El Capitan in solitaria con tutta quella attrezzatura non sono in molti ad averlo chiaro. Qualsiasi sia la vostra motivazione a continuare a leggere questo capitolo sullo scalare in solitaria, volete un consiglio? Semplice, non fatelo. Trovatevi un socio e scalate con
Jason “Singer” Smith in vetta al Monte Thor, Isola di Baffin, dopo aver passato 23 giorni da solo in parete lungo la via Midgard Serpent (VI/A5). Una felicità che trascende la salita appena compiuta. Foto Jason Smith.
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lui. Sembrerà stupido scritto qui, ma è davvero la cosa migliore. Non vi abbiamo ancora convinto? Bene, continuate a leggere allora. Se alla fine del capitolo sarete ancora dell’idea che trovarvi in sosta a parlare col vostro zaino sia quello che fa per voi avete dei problemi, e questo capitolo vi aiuterà nei vostri intenti perversi. Esperienza L’arrampicata in solitaria è forse l’ultimo passo su quella scala di apprendistato del verticale che avete iniziato tanto tempo fa. Quando vi sembrava impossibile salire da primi di cordata, neanche ci pensavate a una salita in solitaria. Arrivati al punto di padroneggiare la situazione con la corda dietro le gambe, e non davanti alla faccia, potreste essere attratti da quest’ultimo gradino. Un gradino su cui 99 climber su 100 non saliranno mai. E va bene così, non sono peggiori per questo. Alcuni tra i migliori del mondo han scelto di star lontani dalle solitarie. Mettendo su un piatto della bilancia tutta la fatica, i rischi, il tempo necessario e le basse probabilità di riuscita, solo pochi saranno disposti a salire con tutto loro stessi sull’altro piatto, l’unico modo per entrare in partita.
Una solitaria inizia sempre nello stesso modo, innumerevoli trasporti di materiale fino alla base della parete. Qui Jason “Singer” Smith ha quasi finito di portare la sua attrezzatura alla base del Monte Thor, Isola di Baffin. Ci ha impiegato 15 giorni, passerà le successive 3 settimane in parete. Foto Jason Smith
Tecniche di progressione in solitaria
Questo capitolo illustra le tecniche utilizzate per l’arrampicata artificiale in solitaria, e solo poche sono in comune o riadattabili all’arrampicata libera autoassicurata in solitaria. In libera avrete meno materiale e meno tempo per salire i tiri, una mano dovrà sempre tenervi attaccati alla roccia; avrete bisogno di tecniche armoniose e veloci, leggere e fluenti. In artificiale siete sempre seduti sull’imbragatura, avete le mani libere e un quintale di ferraglia appeso ovunque. Sapete già in partenza che difficilmente farete più di uno o due tiri al giorno, avete tutto il tempo che volete. Descriveremo varie tecniche per compiere la stessa operazione, alcune utili in certe situazioni, alcune migliori in altre. Bisogna padroneggiarle tutte, e questo
Il famoso Specchio di Itaca, A2, sul Caporal. Angelo Riva in solitaria. Questo tiro è stato liberato da Cristian Brenna con difficoltà di 8a trad. Foto cortesia Angelo Riva.
richiede tempo, pratica, studio e dedizione. Tempo perché improvvisarsi quello che non si è è il miglior modo per avere una targa ricordo su un qualche sentiero. Pratica perché spesso si crede di aver capito come fare, ma quando ci si ritrova in sosta non si ricorda più bene se questo moschettone va collegato qui o là. Un altro buon modo per avere una targa con foto. Studio perché non si finisce mai di imparare. Il tempo a nostra disposizione è limitato in generale, non parliamo poi di quello che possiamo dedicare a farci esperienza diretta. Niente di meglio che assorbire grossi e veloci dosi di esperienza altrui. Ci sono ormai molti manuali e libri che spiegano i più variegati aspetti tecnici di tutte le sfumature dell’arrampicata: dall’autosoccorso agli ancoraggi, dalle manovre alle tecniche di arrampicata. Tutto fa brodo. In ogni manuale troverete sicuramente una o due cose che non sapete o che potete fare meglio. Non esistono solo i manuali del CAI (ottimi punti di partenza comunque). Imparate l’inglese e sbizzarritevi sui siti americani, dove troverete forum di gente molto competente e poco incline a raccontare barzellette o dove potrete ordinare manuali decisamente interessanti (molti sono citati in fondo, nella sezione Bibliografia. Doverosa citazione per il manuale Me, Myself and I di Andy Kirkpatrick, 180 pagine dedicate esclusivamente alle solitarie artif, lettura obbligatoria e molto specialistica per chi voglia approfondire ulteriormente argomenti che qui vedremo giocoforza più velocemente). Ormai ci sono anche siti che ospitano video tutorial su tutte le varie manovre: si può imparare molto anche in una giornata di pioggia o a casa con la febbre. Dedizione perché ci vuol costanza, non si può imparare l’artif andando in falesia; mentre i vostri amici macineranno tiri su tiri, voi starete su qualche piccola paretina e salirete 10 metri l’ora. Ma i vostri sogni sono più grandi dei loro e avete intrapreso il giusto sentiero per realizzarli. Questo capitolo è sicuramente il più ostico, da leggere, da comprendere e lo è stato anche da scrivere. Se un passaggio non vi è chiaro rileggetelo più volte, studiate bene le immagini e provate a ricreare la stessa situazione. Anche la ringhiera di un letto o di una scala possono simulare una sosta.
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È più che giusto che l’Italia, patria dell’arrampicata e santuario di grandi pareti, abbia un nuovo testo di riferimento per l’arrampicata artificiale, attività che è quasi una religione per i suoi appassionati praticanti. … Salire big wall richiede lavoro. Sono il lavoro e gli sforzi fatti per progettare che distinguono l’uomo dalla bestia, le cui fatiche sono in gran parte istintive. Il bisogno di lavorare, inteso come necessità di sforzarsi per raggiungere un traguardo, è una benedizione di primaria importanza per l’umanità ed è superfluo sottolineare quale ingente lavoro richieda questo modo di arrampicare: se siete pigri vi troverete meglio con l’arrampicata sportiva, il big wall climbing non è per gli oziosi. L’arrampicata che vi aspetta sulle enormi pareti rocciose del mondo necessita, a causa della sua variegata natura, di una moltitudine di competenze molto sofisticate da adattare fluidamente ed efficacemente a quanto vi trovate davanti. Questo permette all’uomo comune di sperimentare quella straordinaria autorealizzazione che consegue al successo, onestamente conquistata e per questo moralmente valida: dopo tutto c’è una sottile linea rossa tra equilibrio e stupidità, come c’è tra prudenza e codardia. Dall’introduzione di Jim Bridwell
Questo non è un libro di avventure, o almeno non solo, impossibile leggerlo tutto d’un fiato, cento pagine al giorno. È un mattone che va masticato e digerito un boccone per volta, una pietanza altamente calorica di cui non fare indigestione. Abbiamo cercato di essere il più completi possibile, analizzando tutti o quasi i prodotti presenti sul mercato, ogni operazione è descritta con molteplici tecniche, spesso simili e ridondanti, ognuna con i suoi pro e i suoi contro. E quando sarete padroni di tutte loro, quando tutto scorrerà nel vostro sangue, non sarete al traguardo ma sulla linea di partenza, non sentitevi arrivati, ma solo pronti a dire “che il gioco abbia inizio”. Noi siamo appena partiti… Dall’introduzione degli Autori
Un libro che dovrebbe essere letto anche da tutti gli arrampicatori che si cimentano su vie lunghe e in ambiente e che devono far fronte a imprevisti o corte sezioni non superabili in libera.
www.versantesud.it