Steph Davis
TRA VENTO E VERTIGINE Una vita sospesa tra amore e gravitÃ
EDIZIONI VERSANTE SUD | I RAMPICANTI
Titolo originale: High infatuation Edizione originale: Seattle, WA 98134, The Mountaineers Books 2007 © Steph Davis 2008 © VERSANTE SUD S.r.l. Via Longhi, 10 Milano Per l’edizione italiana tutti i diritti riservati Traduzione: Giovanni Benedetti 2a edizione giugno 2019 www.versantesud.it ISBN: 978 88 85475 779
STEPH DAVIS
TRA VENTO E VERTIGINE Una vita sospesa tra amore e gravitÃ
EDIZIONI VERSANTE SUD | COLLANA I RAMPICANTI
INDICE Introduzione alla seconda edizione italiana
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Tra vento e vertigine
9
Al sicuro La caduta La roccia e io
17 19 26
Bienvenidos in Patagonia Forse gli Svizzeri avevano ragione Una crepa nel vetro
29 31 35
Fuori dal guscio 39 Nella terra dei Kirghizi 42 Sola 51 Delusione e gioia Freddo e gelo Quattromila trazioni
55 57 71
Correndo senza sosta Oltre i confini La casa del vento
83 85 100
Bussando dall’interno Sempre di corsa Viaggiare leggeri Un’alba infinita
103 105 106 107
Nella mente del principiante 111 Sul tempo 113 Libera 116 Lamenti d’amore Vita in Patagonia Torre Egger
133 135 153
Il traguardo Fino in fondo: la Salathé in libera
163 165
Ringraziamenti 191
In libera sulla Salathé. Foto: Jimmy Chin
A Dean e Fletch
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INTRODUZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE ITALIANA High infatuation (“Tra vento e vertigine” nell’edizione italiana, N.d.R.) fu pubblicato nel 2007: pensare dopo dodici anni a quelle avventure e a quei giorni mi fa riflettere sul tempo e su come la vita cambi così tanto, ma nello stesso tempo rimanga sempre la stessa. Non vivo più in una Ford Ranger, adesso viaggio in un furgone Sprinter. Il mio cane Fletcher è morto nel 2009. Ora ne ho un altro, Cajun, e con lui anche due gattini che hanno deciso di venire a vivere a casa mia. Nel 2008, l’anno successivo alla pubblicazione di High infatuation, ho cominciato a praticare base jumping e adesso trascorro gran parte del mio tempo in montagna a raggiungere vette da cui potermi lanciare. Per quanto riguarda l’arrampicata, ciò che mi ispira maggiormente sono ancora le dure fessure che si trovano nei dintorni di casa mia nel Mohab; non posso nemmeno immaginare di vivere in un luogo che non sia il deserto. Tante cose sono rimaste uguali, e tante altre sono cambiate: questo mi piace. In quei primi anni di avventure e scalate ininterrotte, quello che mi importava di più era seguire la mia passione e il mio cuore. Spero che queste piccole storie possano raccontarne una più grande: quanto la vita sia lunga ma anche molto breve, e come il nostro cuore sappia dirci dove andare, anche quando il percorso non è semplice o lineare. Often the only time the path is straight is when it’s straight up.
Steph Davis maggio 2019
Introduzione 7
Sulla headwall durante la salita del The SalathĂŠ Wall, El Capitan, Yosemite. Foto: Jimmy Chin
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Sii pronto a giocarti tutto per amore, se davvero vuoi essere un uomo. Rumi
TRA VENTO E VERTIGINE Era il 2 febbraio del 1991 quando misi le scarpette d’arrampicata per la prima volta. Mi capita ogni tanto di ripensare a quel pomeriggio, a volte senza motivo, e mi rivedo sdraiata al sole in maglietta, in quella minuscola falesia lungo il fiume Potomac. Faceva un caldo incredibile, per essere in pieno inverno. In qualsiasi momento una singola decisione può cambiare il corso della vita, ma è raro poter riconoscere questi istanti con la chiarezza con cui oggi ricordo quel giorno all’Università del Maryland, quando, giovane matricola, decisi di saltare la lezione di Calcolo e provare questa cosa misteriosa chiamata arrampicata. Devo ammetterlo, fino a quel giorno ero stata la persona meno sportiva del mondo: mi avevano piazzata davanti a un pianoforte all’età di tre anni, e nel tempo libero, oltre a leggere e fare i compiti, studiavo anche il flauto. Un’infanzia non proprio entusiasmante, lo so. Da bambina certo, mi piaceva girovagare all’aria aperta, passeggiare lungo i sentieri della foresta, ma niente di troppo avventuroso. Inspiegabilmente però, durante l’ultimo anno di scuola, cominciai ad appassionarmi alla mountain bike e, in men che non si dica, sfrecciavo tra gli alberi della boscaglia o intorno al campus universitario. Lo adoravo, letteralmente. Non so quante ore ho passato a smontare e Tra Vento e Vertigine 9
LA ROCCIA E IO Una volta pensavo fosse solo una questione di trazioni, e così ne facevo tantissime. Sono seduta proprio sotto la fessura. Deserto rosso: l’arenaria intorno a me si stende fino all’orizzonte. Mi infilo tra i capelli una forcina con un fiore, come un’offerta votiva, e mi avvicino alla base della via. Senza corda mi sento nuda, eppure libera, e pura come la fessura stessa. Sono mesi che non faccio una trazione. Corre proprio sopra di me, di una semplicità quasi mistica. Penso alle catene di DNA che si intrecciano dentro al mio corpo, e all’enigma di questa fessura. Ho bisogno di insinuarmi dentro di essa, trovarne la naturale cadenza, e poi seguirla. Respiro piano. Cerco quella cadenza lenta, regolare, che spesso raggiungo in alta montagna. Pianto gli occhi, le mani, e i piedi dentro la roccia, e lascio che sia il mio respiro a guidarmi verso l’alto. La fessura mi afferra mani e piedi con la dolcezza e la fermezza di un amante, e mi sembra quasi di sentire la mia doppia elica svolgersi e dispiegarsi per incontrarla. Ogni cosa si fonde in una linea perfetta. Tutto si muove all’unisono. La paura è un concetto sconosciuto. Qui, non sono sola. Non sono più neanche me stessa: sono solo un’altra fibra intrecciata in questo ritmo infinito.
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Free-solo sulla Incredible Hand Crack, Indian Creek, Utah. Foto: Kennan Harvey
Al Sicuro 27
Primrose Dihedrals, Moses, Utah. Foto: Charlie Fowler
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Le mente è impetuosa e tenace, possente e ostinata, e come il vento è difficile da imbrigliare Il Bhagavad Gita
BIENVENIDOS IN PATAGONIA Dopo una brevissima carriera come studentessa di legge a Boulder, dovetti infine cedere alla voce gitana che ogni scalatore sente dentro di sé. Me la svignai così verso Rifle, nel Colorado, con l’intenzione di rimanere a scalare in quello splendido canyon, perduto nella vegetazione più rigogliosa, fino a quando la temperatura non si fosse abbassata. Mi ritrovai presto nella Yosemite Valley, e poi a Hueco Tanks, nel Texas, rimbalzando contro Dean come una palla da biliardo. Come qualsiasi altro scalatore, finivamo inevitabilmente per essere attratti verso le migliori aree del paese. Verso la fine dell’inverno ero rimasta praticamente al verde; capii che era arrivato il momento di stabilirsi da qualche parte almeno il tempo necessario per racimolare un po’ di quattrini. Moab era senz’ombra di dubbio il posto perfetto per me, e così cominciai a lavorare all’Eddie McStiff, un’enorme tavola calda per turisti. Dean mi seguì, trovando lavoro alla Fat City Smokehouse, anche lui come cameriere. Avevamo deciso di riprovare a far funzionare le cose tra noi. Non potevamo certo pensare di mantenere un lavoro vivendo in macchina, e così con quattrocento dollari comprai dal ragazzo del negozietto d’arrampicata una minuscola roulotte che era ormai pronta per lo sfasciacarrozze. Lisa, la mia migliore amica, se ne uscì con un’offerta incredibilmente generosa: avrei potuto utilizzare lo scalcinato vialetto Bienvenidos in Patagonia 29
La Torre Jushua, Isola di Baffin. Foto: Steph Davis
Avevamo involontariamente scelto una zona di una bellezza incantevole, proprio alla confluenza dei fiordi Gibbs, Clark e Refuge Harbor. In ogni caso avevamo ormai scaricato tutta la roba, per cui il dado era tratto. Jushua e i suoi amici ci augurarono buona fortuna, e se ne ripartirono verso Clyde. Mi chiesi se sarebbero davvero tornati a prenderci dopo quattro settimane, come pattuito. Cominciai a disfare lo zaino e immediatamente, preparando la tenda e organizzando il materiale, mi sentivo già più a mio agio. Ben presto l’attrezzatura fu ordinatamente sparsa sul ghiaccio, e le cose cominciarono ad assumere l’aspetto familiare di una spedizione alpinistica. Il fucile preso a prestito sedeva tra gli amassi di corde e la ferraglia. Non ero più così convinta che ci sarebbe potuto servire a qualcosa contro un orso affamato, anzi, a dire il vero, tranquillizzava molto di più vedere le grasse foche che si crogiolano sul ghiaccio lì intorno: di certo erano un pasto più allettante di noi. Steph Davis TRA VENTO E VERTIGINE 66
Osservai la parete, cercando la linea da seguire. Ancora non potevo credere di aver dimenticato i binocoli. Dopo avermi confidato di non usarli mai, Russ mi illustrò come si identificava una linea lì a Baffin: bastava allontanarsi dalla montagna di qualche centinaio di metri, camminando sul ghiaccio, e poi guardare in su per quarantacinque secondi esatti. Una volta trovato il paretone principale, bastava tornare alla base e trascinare lì sotto tutto il materiale. Che stupida che ero stata: la linea migliore era ovviamente quella che sale su, dritta, proprio al centro; come avevo fatto a non vederla subito! Senza il minimo punto di riferimento in questo enorme anfiteatro roccioso, non riuscivamo a farci un idea delle dimensioni della parete. Mi sentivo stranamente al sicuro in quella terra di tenui dissolvenze bianche che sfumavano dal grigio al blu. Ogni cosa sembrava muoversi al rallentatore, tutto era così calmo e ovattato. Sarebbe stato estremamente facile morire in quella landa sperduta, ciò nonostante mi sentivo inspiegabilmente rilassata. Annunciai tronfia che la nostra missione sarebbe stata quella di misurare la parete con una corda da sessanta metri. Senza volerlo, fantasticavo già sulle prime spedizioni in vecchio stile. Che tempi quelli, quando gli alpinisti portavano termometri e bussole in cima al Monte Bianco solamente per amor di scienza. Nel nostro caso, però, a nessuno sarebbe importato davvero quanto alta fosse questa montagna, nemmeno agli stessi alpinisti. Ci vollero diversi viaggi e un paio di giorni di sfacchinate per portar su attrezzatura, portaledges, cibo, carburante e corde fino all’attacco della via. Come sempre i preparativi prima dell’attacco di una via erano lunghi e faticosi, ma finalmente eravamo pronti. Desideravo solamente appendermi alla parete, essere un sacco da recupero, lontano dalle grinfie di orsi affamati. Avevo preso in giro Russ per la sua raffinata tecnica di individuazione dell’itinerario, ma fui subito costretta a rimangiarmi tutto, quando la linea scelta si rivelò azzeccata. Fui designata io per le sezioni in libera. Nella prima parte della via, quando la qualità della roccia e la temperatura meno rigida lo consentivano, era un piacere arrampicare a mani nude. Era una parete fantastica: verticale, varia e interessante, con sezioni strapiombanti che si profilavano più in alto. Data l’assenza delle notti a separarli, i giorni trascorrevano quasi in silenzio, senza che noi ce ne accorgessimo. Era come trovarsi su di un altro pianeta. Il ghiaccio artico si stendeva bianco e sconfinato tutt’intorno a noi, racchiuso soltanto all’orizzonte da massicce pareti granitiche. Per qualche ragione quel panorama semplice e autentico mi ricordava il deserto intorno a Moab. Curiosamente, mi sentivo a casa. I portaledges erano ben fissati agli ancoraggi, e Delusione e Gioia 67
LA CASA DEL VENTO Patagonia. Il vento, più su, sta tuonando orgoglioso. Al riparo tra gli alberi, lo sento spazzare il ghiacciaio, sento quel folle turbinio… Le speranze che domani il tempo si metta al meglio sono nulle, tanto vale restare al campo base. «Restate» dicono gli italiani. «Stasera prepariamo la pizza!» «Restate» dicono i francesi. «Stasera facciamo la fonduta!» Ma se continuassi a vagare al Campo Bridwell per un altro giorno intero, potrei uccidere qualcuno, forse Dean stesso. Meglio sfidare il vento e salire, no? Meglio arrivare fradici ed esausti al campo superiore, dove ci aspettano una minuscola tenda striminzita e del cibo disgustoso. Meglio arrivare su e sentirsi soddisfatti di non aver concluso niente. Scendiamo fino alla morena scivolando lungo un pendio quasi verticale di terra e polvere. I lacci dello zaino e le trecce mi frustano il viso. Mentre ci muoviamo attorno ai crepacci, mi rendo conto che abbiamo lasciato il Campo Bridwell da quasi un’ora. Quando raggiungiamo la cima dell’ultimo pendio, il vento scatena la sua furia. Senza ramponi faccio un passo incerto sul nudo ghiaccio. Ma qui, all’incrocio dei venti, le raffiche mi scagliano a terra senza pietà, e l’aria turbina via più velocemente di quanto io non riesca a riempire i polmoni. Tremante, mi rialzo. Per un istante i miei occhi sbarrati si specchiano in quelli di Dean, e guizzano via in cerca di ghiaccio pianeggiante. Un’altra folata rabbiosa ci costringe in ginocchio. Ci travolge, e poi in un vortice scappa via, lasciandoci naufragare qualche passo più in là, prima di cambiar rotta e colpirci di nuovo, con più furia di prima. Mi ha preso in pieno, questa volta. Mi ritrovo immobile come un cervo di fronte ai fari di un auto. Abbasso i bastoncini e mi raggomitolo su me stessa fino a sdraiarmi a terra, pronta al peggio. Di nuovo il vento scappa via, mulinando. Di nuovo cerco di sfruttarne il riflusso per tentare la fuga. Corro attraverso il pendio ghiacciato, finché non sento prepararsi quel fragore di terremoto, e in quell’istante mi getto a terra, ancora una volta tremando di paura. Ma questa volta il vento ci sorvola soltanto, senza sfiorarci. Mi lascia lì, sotto il peso dello zaino a guardare in su come un allocco. Ed è allora che, capricciosamente, si volta, torna indietro e mi scaraventa via con un violento manrovescio. La progressione ha perso ogni significato. Ormai è solo qualcosa che faccio. Senza pensare. Senza fine. Senza scopo. Soltanto un movimento ostinato Steph Davis TRA VENTO E VERTIGINE 100
Dean gioca con la brezza leggera. Foto: Steph Davis
e irregolare. Il vento consuma il tempo e le parole, le inspira ed espira dentro e fuori come le note di un’armonica. Mi vengono in mente i pellegrini verso la Mecca, che si prostrano a terra ad ogni singolo passo. Ho sempre trovato quella forma di preghiera assolutamente incomprensibile. Ciò nonostante, eccomi qua‌ Correndo senza Sosta 101
Momento di relax assieme a Fletcher, Hueco Tanks, Texas. Foto: Kennan Harvey
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Ho vissuto sull’orlo della follia, bussando a un portone, bramando risposte. Ecco, si apre. Stavo bussando dall’interno! Rumi
BUSSANDO DALL’INTERNO Una volta in un bar del Wyoming, conobbi un biologo che aveva trascorso diversi mesi studiando le tartarughe nel deserto del Joshua Tree. E pensare che io non ne avevo mai vista neanche una durante le mie numerose visite! Immagino che di fronte a quelle infinite distese di granito immacolato, tutto da scalare, il resto del panorama passasse decisamente in secondo piano, a parte forse gli alberi dal profilo bizzarro che adornano la zona. Fu un incontro davvero interessante, e quello studio mi affascinava a tal punto che interrogai senza pietà il malcapitato sulle abitudini di quelle creature. Sfinito dal mio terzo grado, giurò di spedirmi una copia della sua ricerca una volta tornato a casa. Una settimana dopo, in effetti, ricevetti il fascicolo con tutto lo studio dettagliato. Quel che trovo più intrigante è che queste tartarughe possono trascorrere diversi mesi senza mai espellere liquidi; a quanto pare, infatti, sono in grado di riprocessarli internamente più e più volte, fino a eliminare una densa sostanza scura, completamente priva di ogni residuo utile. Mi fa pensare ai sopravvissuti di un naufragio, che a volte sono costretti a bere la propria urina per sopravvivere. Il risultato finale è in qualche modo lo stesso, ma per l’uomo si tratta di un processo estremamente sgradevole, dal basso rendimento, e per giunta poco salutare. Per le tartarughe invece non è un gran problema: loro non devono neanche berla, la propria urina. Bussando dall’interno 103
Il diedro nella parte alta di Free Rider, El Cap. Foto: Heinz Zak
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rinvii per mostrarmi indaffarata. Dover riorganizzare il materiale mi sembra una scocciatura infinita, e così borbotto tra me e me qualche insulto mentre aggancio rinvii e sciolgo fettucce annodate. Dopo un tempo che pare eterno, finalmente mi decido a ripartire, ed ecco: non appena le mie mani affondano ancora una volta nel diedro, sento un’ondata di nuova energia esplodermi dentro. Fessure strapiombanti! Le adoro! Totalmente rinvigorita comincio a correre su per lo spigolo, non riesco a smettere di sorridere. Sono passate circa venti ore dall’attacco della via, e tutto è di nuovo stupendo. Raggiungiamo la cima nel sole pomeridiano, precisamente alle 16.00, stando all’orologio di Heinz. È il 24 maggio, un mese esatto dall’ultima volta che sono stata quassù. Guardo Heinz, colma di gratitudine: se sono qui, ora, dopo aver realizzato una delle più belle imprese della mia vita, è tutto merito suo. Lascio cadere a terra il materiale e mi sdraio sul caldo lastrone di granito, a rilassarmi al sole. Ogni fibra del mio essere è pervasa da un’infinita spossatezza, ma anche da un’incontenibile gioia. Free Rider mi ha spinto oltre il limite in così tanti modi diversi, più di qualsiasi altra via. Quella che ora si crogiola al sole della Yosemite Valley, non è più la stessa persona che, ventidue lunghissime ore prima, si preparava ai piedi di El Cap.
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fermai, in un equilibrio tremendamente precario, per raccogliere le energie. Con distacco, mi resi conto che non provavo nessuna emozione. Non c’era nessuna emozione da provare. Feci un respiro profondo e, tenendo il bordo svaso, tirai su i piedi più che potevo: mi levai sul granito lucente di El Cap come una piuma nel vento, fino a raggiungere l’ultimo appiglio. Ero leggera, completamente controllata, finalmente perfetta. Avevo raggiunto quell’inesorabile flusso di energia che avevo cercato per tutta la salita. Ero finalmente libera. Rimasi in uno stato di estasi per diverse settimane. Avevo speso più di quanto non pensassi di avere. Per conquistare la Salathé avevo dato fondo a ogni minima riserva, combattuto con ogni fibra del mio corpo. L’euforia del grande risultato, insieme al fatto stesso di aver salito tutto in libera, mi diede un’enorme fiducia in me stessa. Per la prima volta in vita mia credevo veramente che Dean avesse ragione, che avrei potuto realizzare qualsiasi cosa avessi voluto. Era una sensazione meravigliosa. Una volta placatosi l’entusiasmo, però, cominciai a sentirmi vuota. Non era la prima volta, anzi: al termine di ogni grande impresa alpinistica, dopo la gioia per il trionfo, arriva sempre un periodo di apatia ugualmente profondo, e quella scalata non sembrava fare eccezione. Proprio come l’esaltazione vissuta in cima alla Salathé, la depressione che provavo adesso era incredibilmente intensa. Non avevo mai sperimentato niente di simile. Per la prima volta da quando avevo cominciato a scalare, mi sentivo tormentata da mille dubbi. Uno sconforto senza fine si era impadronito di me. Sulla Salathé, più che su ogni altra via, avevo raggiunto il mio traguardo esclusivamente grazie a un testardo rifiuto di arrendermi, cosa che mi riempiva d’orgoglio. Ora però vedevo quella lotta ostinata come l’esatto contrario della filosofia spirituale che avevo sempre cercato di abbracciare. Ho sempre considerato l’arrampicata come una strada verso la conoscenza, un modo privilegiato di apprendere quegli insegnamenti che non trovo nella cultura materialistica e competitiva da cui provengo. Tutte le religioni orientali che avevo studiato insegnano ad abbandonarsi e seguire la corrente, non certo a combatterla o forzarne il corso naturale. Per la prima volta mi trovavo di fronte all’evidente conflitto tra la filosofia spirituale che cercavo di seguire e la mia etica personale basata su determinazione e duro lavoro. Ero frastornata, dilaniata dall’incertezza. Lavorare su qualcosa che non potevo ottenere non era forse un forzarne il corso? E se davvero volevo mettere in pratica quei principi, non dovevo dunque abbandonare la salita della Salathé dopo il Steph Davis TRA VENTO E VERTIGINE 186
L’ultima sequenza chiave sulla SalathÊ. Foto: Jimmy Chin
Il traguardo 187
«Cominciavo a sentirmi debole. Arrivai allo strapiombo e alla temuta fessura svasa. Continuai ancora a salire, finché il mio corpo non riuscì più ad andare avanti. Sentii il caldo granito di El Cap scivolarmi via dalle mani. Era finita». «Often the only time the path is straight is when it’s straight up».
€ 19,90
ISBN 978 88 85475 779