Francesca Berardo
BLOCCAMI! L’arte di disarrampicare
EDIZIONI VERSANTE SUD | I RAMPICANTI
2018 Š VERSANTE SUD S.r.l. Via Longhi, 10 Milano Tutti i diritti riservati 1a edizione novembre 2018 Disegni di Damiano Sessa www.versantesud.it ISBN: 978 88 85475 694
FRANCESCA BERARDO
BLOCCAMI! L’arte di disarrampicare
EDIZIONI VERSANTE SUD | COLLANA I RAMPICANTI
INDICE Introduzione 7 Prefazione 8
PRIMA PARTE
COMING OUT
SECONDA PARTE
QUESTIONI ESISTENZIALI
TERZA PARTE
LA SALITA
Reggerà l’imbrago? Le sfaccettature dell’esistenza Le scarpette giuste
13 21 29
Questione di sesso Questione di gusti Questione di stile Questione di tempo Questione di punti
41 45 53 61 69
Primo spit: chi me lo fa fare? Secondo spit: dove posso arrivare? Spit sotto i piedi: il punto di non ritorno Il bastone
77 85 91 97
QUARTA PARTE
Dopo i 40m. Sotto i 10m. Dove sono finiti gli spit?
107 113 117
QUINTA PARTE
Un ampliamento di bibliografia
127
OLTRE I MONOTIRI I COMPAGNI DI CORDATA
Glossario 153 In conclusione 172 Ringraziamenti 175
A Giacomo che ride di noi
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INTRODUZIONE Questo libro nasce come uno sfogo, da uno di quei tanti “Ma chi me lo fa fare?” che hanno alzato il muso quando mi sono resa conto che forse non mi stavo divertendo. E, scrivendo, dopo lo sfogo sono arrivati la riflessione, il racconto, di nuovo lo sfogo e di nuovo la voglia di raccontare. E insomma alla fine, come un rubinetto che non si chiude, avevo sempre voglia di continuare. Ogni volta che andavo in falesia la materia prima su cui scrivere aumentava, aumentavano le persone, gli stimoli e i paesaggi. Perciò quello che è nato come una specie di taccuino terapeutico è diventato qualcosa di più, qualcosa in cui penso che anche altri possano riconoscersi. Perché una delle cose che ho capito dopo tanta frequentazione della roccia è che gli arrampicatori sono tutti uguali e che a tutti, almeno una volta, è capitato di pensare: “Ma chi me lo fa fare?”. Per quanto mi riguarda, se i “Chi me lo fa fare?” me li portassi a casa dopo la scalata, probabilmente avrei già deciso da tempo che ci sono altri sport al mondo che non richiedono tutta questa partecipazione fisica e mentale, che rassodano, tonificano, non stressano e forse sono anche più adatti al fisico femminile. Perché ho più spalle di mio fratello e le dita come un meccanico agricolo. Ma a casa mi porto soltanto la sensazione che avrei voluto dare di più e che non vedo l’ora di rifarlo. La domanda: “Ma perché non me ne sono rimasta a casa?” svanisce ancora prima che termini la calata e la verità è che, a un certo punto, non mi interessa sapere dove potrò arrivare scalando, se chiuderò mai quella via o se diventerò più forte. Non c’è modo più semplice e immediato per dire ciò che provo che rubare le parole a quel fortissimo alpinista da cui le ho sentite: “Scalo perché sono felice”. E in effetti felice lo ero anche prima, adesso lo sono scalando. E sono felice perché scalo e scalo perché sono felice.
Introduzione 7
PREFAZIONE Andiamo? No, non voglio venire. Non voglio andare e sentire pressione, responsabilità, illusione, paura. Non voglio misurarmi con gli altri, non voglio misurarmi con me stessa, non voglio misurarmi con niente. Non mi interessa il gesto, non voglio sentire il mio corpo, non m’interessa sentirmi sicura in equilibrio precario, non è possibile, non ci riesco. Non riesco, non riesco a fare del pensiero un movimento, a ubbidire alle mie pressioni, a respirare, a non trattenere il respiro. Non voglio stare in alto e sentire la fatica, sentire la paura, sentire che ce la faccio. Forse non voglio superare miei limiti. Forse, forse c’è qualcosa che non va. Ma forse c’è qualcosa che non va in questo sport, questa disciplina, questo viaggio mentale, questa accademia della bella, libera esistenza che sempre più mi sembra mi faccia sentire come un animale in gabbia. Troppo in salita per godere di pochi e brevi momenti e per autoconvincersi che in quell’istante c’è una soddisfazione che supera tutto e che sì, ne vale eccome la pena. Davvero? Eppure mi ricordo che mi piaceva. A piccole dosi, quasi senza progressi e con più soddisfazione. Ora non ce la faccio più. L’arrampicata somiglia in un certo senso a quei grandi poeti che, per quanto abbiano scritto, molto maggiore è la mole di carta che è stata scritta su di loro. Fumo, fumo, piramidi di parole, pensiero che si aggroviglia e spiega, spiega, dipana e illumina e aggroviglia di nuovo. C’è chi dice che l’arrampicata sia una filosofia, uno stile di vita. Speriamo di no: non credo che nella vita reale potrei sopportare il peso di tutti questi fallimenti. È vero però che ha qualcosa di totale, non credo che il pilates mi farebbe lo stesso effetto. E poiché purtroppo non c’è nessun’altra cosa che riesca a occupare i miei pensieri in maniera così fastidiosamente insistente, mi rassegno a darle ancora più peso. E uno spazio sul foglio. Ho iniziato ad arrampicare circa dieci anni fa, in modo regolare ma decisamente poco assiduo. Da subito mi è stato detto che ero molto portata. Qua è necessaria una parentesi. A chiunque si avvicini per la prima volta al mondo dell’arrampicata, mentre ancora sta appeso alla corda, in scarpe da tennis, raspando con i piedi sulla roccia, si dice che è molto portato. Anzi, in verità la frase d’ordinanza è questa: “Caspita, però... per essere la prima volta sei andato davvero bene”. L’apoteosi del relativismo. Tuttavia io credo di aver dato effettivamente quell’impressione, che è quella che può dare una ragazza esile e dotata di Francesca Berardo BLOCCAMI! 8
sufficiente forza nelle braccia per salire, senza l’uso dei piedi, una corta parete manigliata. Com’era facile, che bella sensazione! E non tutti i novellini ci riuscivano! Era il mio sport. E lo è tuttora, accidenti. Qual è il problema? Sono diversi, ne conosco molti, quasi tutti: mi stanno attaccati come un’armatura in un’attività in cui bisognerebbe essere leggeri e liberi di muoversi. Fra l’altro è un’armatura assai fragile, di pessima fattura, sono certa che alla prima botta si contorcerebbe su se stessa, schiacciandomi come una sardina. No, non è un’armatura protettiva, è il più grosso dei miei problemi, arrampicatoriamente parlando. È la paura. Poco tempo fa mi sono trovata ad agitare il dito contro un mio compagno, misteriosamente esente da questo radicatissimo istinto di sopravvivenza ipersviluppato, per fargli notare quanto sia terribilmente complesso arrampicare immersi nel panico e quanto invece siano avvantaggiati lui e quelli come lui, che l’evoluzione ha evidentemente privato di questa naturale predisposizione. Forse all’alba dei tempi io sarei arrivata ai trent’anni. Lui, forse, avrebbe scoperto il fuoco.
Prefazione 9
PRIMA PARTE
COMING OUT
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REGGERÀ L’IMBRAGO? Scalando ho spesso l’impressione di avere una doppia personalità. È un sabotaggio continuo e i coraggiosi si stupirebbero di quanta tenacia dimostriamo noi “codardi”, che stringiamo i denti mentre un interiore personal trainer, svogliato e grassoccio, ci guarda annaspare e ripete fra sé: “Non ce la fai”. Non sempre lo ascolto, e allora decide di ignorarmi e sprofonda nella sua poltrona. Ma, dicono gli intrepidi, i filosofi, gli amanti dell’altezza sotto i piedi, devi conservare quel momento, quella sensazione, tenerla a mente e riprodurla, divertirti. Non hanno inventato niente, lo diceva anche Peter Pan: solo i pensieri felici possono farti volare. Volare?! Facciamo un passo indietro. Quando per la prima volta mi è stato detto di lasciarmi andare e buttarmi nel vuoto l’ho fatto senza pensarci. Mi fidavo di chi mi faceva sicura, mi fidavo dei miei piedi che si sarebbero staccati dalla roccia e l’avrebbero toccata di nuovo, un istante dopo. La parete era appena appoggiata ma non ricordo di aver pensato a caviglie rotte o a ginocchia livide, i parti più modesti della mia fantasia che comprende di solito molte più possibilità, e molto più drammatiche e confuse. Anzi, il fatto che ci fossero altre persone a guardarmi mi stimolava e il fatto di pensare che qualcuna di loro potesse avere un po’ di paura per me faceva sì che io non ne avessi affatto. Un vero uomo, insomma. Reggerà l’imbrago? 13
Poi è arrivata, è arrivata la paura e credo in realtà che avesse i suoi buoni motivi. Motivo numero uno: ho smesso di arrampicare su cose facili. O meglio: ho continuato, ma sapendo che i gradi bassi erano sotto le mie capacità, e tentando nel frattempo vie più difficili. In pratica, ho scoperto quanto si può essere precari con due appoggi per i piedi e due appigli per le mani: la mia grinta si è smorzata di fronte al fatto che non avevo più la certezza del movimento successivo e, come se non bastasse, ho cominciato a salire anche le vie facili con il timore di appendermi (vergogna!), trovandole ovviamente molto più complicate. Sono rimaste, è vero, le pareti con prese enormi e quelle su cui puoi quasi salire in bicicletta e, se cadi, al massimo sbatti la faccia contro un cespuglio. Su quelle davvero mi rilasso. È un po’ poco. Motivo numero due: esiste, è vero, la remota possibilità di farsi male. Una volta, per esempio, appena scesa da un terrificante spigolo, levandomi una scarpetta ho urtato con il piede un muretto a secco. Il graffio è rimasto per almeno due settimane. E ormai non bado più ai lividi sulle ginocchia né mi chiedo come me li sono fatti. Da poco un esponente di rilievo di quel mondo strano che è l’alpinismo ha confermato la mia paura circa la possibilità, arrampicando, di rompersi una caviglia ma ha aggiunto: “Lo si può mettere in conto, no?”. Sì, si può. Se mi predicessero con assoluta certezza che volando (e non togliendomi una scarpetta) mi romperò una caviglia non smetterei di arrampicare; forse prediligerei per un periodo lo strapiombo, quel tanto che basta per poter dare del buffone all’oracolo, e poi tornerei con il consueto terrore anche alla placca. Terrore però è una parola grossa, conosco molte persone più fifone di me, le tiro spesso in ballo nei miei pensieri come rassicurante prova che non c’è limite al peggio. Chissà, forse loro fanno lo stesso con me. Motivo numero tre: non sono l’unica. La paura è una moda. Prima di tutto è totalmente condivisibile: basta lasciarsi prendere un po’ la mano e ognuno può scoprirla dentro di sé, come un talento nascosto. Seconda cosa, non è colpa di nessuno: un modo come un altro per darsi dell’idiota o prendersela con il chiodatore o con il proprio fidanzato. Inoltre la paura in molti casi unisce e, a posteriori, fa ridere, spesso di sollievo; è come il difetto dei supereroi: li umanizza, li rende imperfetti, decisamente più simpatici. E in effetti partire su un tiro esclamando: “Questo lo chiudo a occhi chiusi, state a vedere!” potrebbe attirarci meno simpatie di: “Ci provo ma tanto non credo di riuscirci”, soprattutto se poi ci appendiamo al secondo spit. Almeno avevamo messo le mani avanti. E scommesso sul nostro fallimento. Francesca Berardo BLOCCAMI! 14
LA COSA PIÙ BIZZARRA DELLA PAURA è che, benché sia un sentimento fastidioso, caratterizzato dalla sensazione di perdita di tante avvolgenti certezze, nella pratica ci attacchiamo a essa per avere sicurezza. La paura, per esempio, ci dà la sicurezza di non riuscire, di non volerci nemmeno provare. Ci libera dalla possibile ansia da prestazione, dall’eventualità di trovarci in una situazione delicata e dalla necessità di affrontarla. La paura ci tiene sempre qualche metro più in basso. Dicono che capire il problema può essere un primo passo. Se non fosse che, nell’istante in cui ho capito che non mi stavo più divertendo, ho smesso di giocare. “Blocca. E cala”. È la scelta più ragionevole, la risposta alla domanda che prima o poi riesce a farsi sentire sopra il fracasso di chi ti grida che più in alto c’è la presa buona, di alzare i piedi... improvvisa e silenziosa: “Chi me lo fa fare?”. Nessuno. So che esiste una scuola di pensiero fra gli psicologi che dice di affrontare i mostri e i traumi interiori. In cucina mia mamma rifletteva ad alta voce che se una cosa la teniamo nascosta dentro di noi forse un motivo c’è; non tutti hanno voglia di trovarsi a faccia a faccia con il proprio io serial killer. Purtroppo (ho ormai perso una sana scala di valori) il problema in questo caso non è gettare la chiave della segreta in cui è rinchiusa quella parte di sé a cui piace fare a pezzi la gente, ma liberarsi di qualcosa che ci tiene al guinzaglio. E forse la rimozione non è la soluzione migliore. Cos’è che fa paura? Risposta concreta: il volo e il vuoto. L’anello luccicante che non è più all’altezza del petto. Solo una volta mi è capitato di pensare che gli spit fossero davvero troppo vicini: erano a meno di 80 centimetri uno dall’altro. Ridacchiando sprezzante non ne ho saltato nemmeno uno. E poche volte mi è capitato di dimenticarmene, in quello che realmente si può definire una specie di stato di grazia. Come su una lunghissima via di calcare grigio, solido, ruvido e compatto, che dopo i primi metri di timidi movimenti mi ha fatto scordare una a una tutte le ansie, e mi ha portato in quello speciale stato mentale in cui ti appaga il tuo modo di muoverti, ti senti incredibilmente brava (poco importa su che grado sei), le braccia non ti diventano pesanti e una volta tornata a terra conservi una particolare, serena gioia che ti fa venire voglia, nella successiva irrinunciabile tappa al bar, di offrire almeno un giro di birre. C’è a chi succede spesso, per qualcuno è la norma quotidiana della scalata, per altri (per me) è frutto di una complicata congiunzione astrale. Ma, quale che sia la frequenza, la sensazione che lascia addosso, che per qualche ora ti fa parlare in modo vago e con sguardo perso e sognante di una mistica Reggerà l’imbrago? 15
Certo, ci sono modi molto meno sottili di dare della pippa ai tuoi colleghi climber ma è consigliabile che dietro ci sia un consolidato rapporto di amicizia e di sana o malsana competitività arrampicatoria. In ogni caso, chiunque sia il tuo rivale e qualunque sia il tuo livello, non c’è maniera migliore di scalare una via che salirla a vista. Se qualcun altro ci ha fatto più di un giro, sei stato più bravo tu. Se l’ha fatta flash, sei stato più bravo tu. Arrampicare a vista mette una pressione gigantesca. Hai solo una possibilità nella vita di salire una via a vista. A volte ciò porta al paradosso di voler provare una via ma, non essendo sicuri di avere il livello adatto, di rimandare a oltranza il tentativo, quasi a voler serbare la verginità di quella precisa striscia di roccia in attesa di una perfetta prima volta. A pensarci bene è una cosa che rasenta la follia. In certi momenti mi ha sfiorato l’idea che stavo esaurendo le vie da fare a vista, almeno nell’immediato circondario, e ho provato una certa invidia nei confronti dei neofiti dell’arrampicata, che possono ancora inoltrarsi in terre inesplorate a venti minuti da casa.
MA OBIETTIVAMENTE COSA SIGNIFICA ON SIGHT? Più di una volta ho sentito dire che i gradi sotto il 6a, per quante volte tu possa ripeterli, in un certo senso saranno sempre a vista. Ovvero, è tecnicamente impossibile rifare un 5b esattamente nello stesso modo, nemmeno impegnandosi seriamente. In effetti questa utopica possibilità potrebbe diventare la nuova disciplina verticale: la perfetta clonazione del quarto grado! Sennonché il solito canuto alpinista seduto su un masso (che nel frattempo un amante del bouldering sta cercando di conquistare) borbotta con sguardo mistico che l’on sight è uno stato mentale. Ed è difficile dargli torto. Il punto, come sa chi scala da più di mezz’ora, non è solo sapere dove andare, cosa afferrare e dove spalmare i piedi ma non avere la certezza di riuscire. L’on sight è un volo nell’ignoto. O meglio, una scalata nell’ignoto che, chissà, può portare a un bel volo. Ecco perché è la bestia nera dei codardi, dei prudenti, dei ragionieri dell’arrampicata, gente che si vuole prima fare due conti, vagliare le possibilità, analizzare le statistiche e poi, dopo aver misurato la distanza fra i rinvii ed essersi sciolti la cravatta, affrontare il mistero. C’è chi arriva a sostenere di aver rifatto una via a vista. Va ignorato. Ovviamente, l’incognita di arrivare incolume in vetta sbiadisce, se proviamo on sight solo vie di quattro o cinque gradi sotto il nostro e se la nostra unica perplessità riguarda l’utilizzo di un inutile bilanciamento per far bella figura con gli escursionisti di passaggio. C’è una complessa equazione, certo Francesca Berardo BLOCCAMI! 62
frutto di anni di studi in laboratorio, che ti dice il grado che dovresti fare a vista in funzione del tuo grado massimo lavorato. Dopo esserti sottoposto ad analisi complete perché ti sei appeso su una via troppo facile, aver notato che è una cosa che capita e aver escluso la possibilità di avere la mononucleosi, ti ricordi che la matematica ti fa schifo e ti rassegni ad avere un giorno di gloria ogni cento giorni da ippopotamo. In certi periodi mi sono convinta che arrampicare in modo pessimo la prima via della giornata fosse un ottimo preludio a grandi prestazioni. È uno dei tanti miti di cui noi scalatori dobbiamo ogni tanto vestirci e di cui, anche quando indossiamo gli scomodi abiti borghesi, non possiamo quasi fare a meno. Non riesco più a fare vie a vista perché sono stressato sul lavoro, non mi vengono perché il mio livello è troppo più alto dei gradi che provo e quindi mi manca lo stimolo, il calcare mi ha stufato, i compagni non mi incitano abbastanza, tutti intorno a me fanno on sight e questo mi mette pressione. Ci ho pensato e ripensato: talvolta mi convinco che devo partire convinta di riuscire, di centrare l’obiettivo. Ma no, non sempre va bene, meglio cominciare con l’idea di bloccarsi al primo spit. Toh: questo funziona, a volte… Infine mi sono rassegnata. A non capirci niente, ovviamente. Ogni tanto va, e ogni tanto no. E certo che dipende da noi. Potremmo chiamarlo fatalismo responsabile. Il mio meccanico arrampica da circa un anno, abbastanza per aver vissuto un bell’inizio carico ed essersi frettolosamente arenato su una fase di stallo in cui non riesce più a scalare serenamente. E può già raccontare all’imperfetto e progettare un suo grande ritorno. Anche perché adesso, mi diceva, ha risolto i suoi problemi, sa cosa non andava e l’ha superato. Mi è stato fatto notare che ho rasentato la scortesia continuando a ripetergli: “Sì sì ma tanto ti ricapita, vuoi scommettere?”. Non potevo farci niente, sono una fatalista consapevole, io, e non voglio che tanti capri espiatori vengano sacrificati inutilmente. Per lo meno lasciamocene un po’ di scorta. In ogni caso non sono riuscita a fargli cambiare idea: lui i suoi capri li prende per le corna, e anche così ogni tanto funziona. Tornando a quella faticosissima chimera dell’on sight, da un po’ mi frulla in testa un’idea, credo, controcorrente. L’on sight è più facile. Il mio lettore immaginario a questo punto ha avuto un sussulto scettico, l’attempato scalatore dolomitico si è messo le mani fra i capelli e il fanatico del lavorato ha incominciato ad agitare la testa, annuendo entusiasticamente. No, infatti, Questione di tempo 63
scherzavo, è ovviamente più complesso. Ma, se penso a quello speciale stato di concentrazione in cui solo provare le vie a vista riesce a farti entrare, ecco, se ci penso mi viene quasi da credere che, sentendo quella sensazione, niente sia impossibile. Sono quei particolari momenti (frequenti più o meno come la varicella) nei quali non strizzi gli occhi per vedere le prese davanti alla faccia, capisci al volo che un rovescio va tenuto come un rovescio e non senti la voce della coscienza che grida: “Attento! Lo spit si allontana!”, come se ti avessero tagliato la tua àncora di salvezza. Più volte mi è capitato di trovare la seconda salita più difficile della prima, o di scalare decisamente meglio a vista che flash. Non è perché sto sbagliando tabella di allenamento: forse semplicemente non ho visto in anticipo il mio fallimento nella salita di qualcun altro. I climber sono gli animali più suggestionabili della terra. E il profondo rispetto per il tuo compagno di cordata non ti permette di stampargli una via in faccia, soprattutto se a separarvi ci sono l’età, il grado e l’esperienza. Cortesia vuole che ti appenda nel suo medesimo punto, possibilmente con qualche imprecazione in più. Ed è facile intuire un moto di gratitudine negli occhi di un altro arrampicatore, quando gli confermi che sì, anche tu hai avuto le sue stesse difficoltà e ti sei bruciato la via a vista. In questa strana attività in cui la roccia è l’ultimo dei tuoi rivali, almeno si rinsaldano i rapporti.
L’ABITUDINE E LA VOGLIA DI SCALARE A VISTA, la mancanza di paura, unite alla capacità di stringere sotto le dita cose minuscole e svasi senza ombra, possono portare a realizzazioni che i lavoratori della domenica fanno fatica a immaginare. Mentre loro misurano con la squadra il punto esatto in cui dovrà poggiarsi il loro avampiede, in un ballo preciso e spontaneo quanto una pianificazione edilizia, il mostro di turno divora on sight i settimi gradi, e anche di più. Ho assistito un giorno a una scena esilarante: un fortissimo francese stava passeggiando per la prima volta su una via bella dura, provata e riprovata, quasi chiusa da un noto arrampicatore seriale della zona. Quest’ultimo osservava con apprensione i movimenti del climber straniero, in una contraddittoria lotta interiore in cui, da una parte, desiderava assistere al suo successo, dall’altra sperava di vederlo incappare nelle difficoltà che lui stesso aveva sperimentato. Ed ecco apparire un ghigno. Ecco la vanità soddisfatta: l’arrampicatore seriale si lasciò sfuggire un fin troppo euforico: “Ah, ha sbagliato presa!”. Il forte francese aveva sì sbagliato presa, nel senso che aveva ignorato i vistosi murales di magnesite che segnalavano quelli che, a detta del Francesca Berardo BLOCCAMI! 64
L’incredibile calcare di Jerzu. Foto: Ilaria Deliperi
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A sinistra, pisolini pre-prestazione. Foto: Vittorio Fara A destra, Samugheo, castello di Medusa. Foto: Ilaria Martinez
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Il miglior assicuratore del nord Sardegna. Foto: Alessandra Fara
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Supereroi. Foto: Sergio Russo
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Tecnica alternativa da strapiombo. Foto: Ilaria Martinez
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Giacomino. Foto: Ilaria Martinez
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local, erano gli unici appigli tenibili e che stava serenamente smagnesando su una tacca che immagino non fosse più grande vista da vicino. Con lo stesso relax che aveva coi piedi per terra, ha poi terminato la sua on sight, guadagnandosi a quel punto la totale ammirazione dell’altro che, non potendo più fare paragoni con se stesso, ha innalzato lo sconosciuto scalatore sulle nuvole del suo Olimpo personale. In definitiva c’è poco da fare: i climber che arrampicano forte a vista godono della nostra incondizionata ammirazione. E, con loro, tutti quelli che smettono di pensare alla scalata come a una passeggiata in cui non puoi, per niente al mondo, inciampare. Se non ti puoi più definire un arrampicatore della domenica, l’on sight, piano piano, comincia a giocare una parte importante in ciò che pensi di te stesso e di cosa sei in grado di fare. È innegabile che chi dà tutto sulla roccia dia molta meno importanza al volo e alle sue conseguenze. Ma sono convinta che, mentre sputa sangue e magnesite, non stia pensando all’eventualità di cadere bensì alla possibilità di riuscire. Come se una bussola immaginaria stesse misurando le sue prospettive di vittoria e la lancetta fosse sempre orientata in positivo, sul bicchiere mezzo pieno. La percentuale di caduta, di volo, è solo un risicato venti per cento. Non c’è bisogno di dire che il mio personale potenziometro calcola sempre in difetto le mie possibilità, portandomi il più delle volte a chiedermi: “Ma perché provarci?”. Una volta mi hanno spiegato come funziona il nostro cervello, come regola le nostre azioni. Niente di intellettuale, una di quelle conversazioni da parrucchiere, con la stessa profondità di taglio. Insomma, mi è stato detto che quando nasciamo il nostro cervello è come un campo aperto. Man mano che compiamo delle azioni, però, queste tendono a tracciare una linea, un solco, che con il passare del tempo assomiglia sempre più a un binario, dove a un certo punto siamo costretti a passare perché quasi ci rotoliamo dentro. Mi chiedo quando è successo che ho percorso per la prima volta la retta del “non fare niente che ti possa far volare” ma sta di fatto che adesso uscire da questa specie di trincea che mi sono scavata è più complesso di una comoda passeggiata. Avrò bisogno di una corda. Ce l’ho! A metà strada fra l’arrampicare a vista e lavorarsi le vie sta una scorciatoia di grande soddisfazione e di minor fatica, il flash. Non significa, come pensano i profani, scalare con il pepe al culo perché sta tramontando il sole ma salire su una via dove hai visto prima qualcun altro o di cui ti hanno spiegato i passaggi. I novelli scalatori non capiscono granché la differenza fra l’uno e Questione di tempo 65
discesa. Sallustio diceva che siamo artefici del nostro destino e qualcun altro che siamo responsabili della nostra felicità. Forse un giorno a Sallustio si sono incastrate le corde durante una calata perché con pigrizia estrema aveva deciso di evitarsi quaranta minuti di ritorno a piedi. Se c’è la possibilità di tornare alla macchina con le proprie gambe non va sprecata perché, come dice un mio esperto amico, le corde hanno un’anima e quando decidono di incastrarsi lo fanno, anche su placche lisce e verticali. Più spesso dentro canaloni alberati in grado di risvegliare, ovviamente troppo tardi, il senno di poi. In definitiva, nella scalata delle vie multipitch nulla va preso sotto gamba, dalla nostra preparazione tecnica allo stato delle candele della macchina. Perché la macchina si ferma, le corde s’incastrano e noi ci sentiamo stranamente inclini a domande esistenziali proprio nel mezzo del quinto tiro, come per esempio: “Perché sono qui?”.
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Surtana. Foto: Giuseppe Olmeo
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In vetta al Monte Oddeu. Foto: Marco Manieri
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A sinistra, in alto, gente del trad. Foto: Marco Marrosu A sinistra, in basso, Roccodomo. Foto: Nicola Putzu A destra, chiodare con stile. Foto: Marco Corda
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SOTTO I 10M. Ma facciamo anche sotto i cinque. So che la moda del momento (o forse io ne ho avuto notizia solo in questo momento, talvolta sono poco aggiornata) è salire sopra enormi massi, in cui chiodatori assennati metterebbero una dozzina di spit, senza imbrago né corda ma solo con le scarpette ai piedi, il sacchetto della magnesite legato in vita e una fede manzoniana nella provvidenza divina. Ovviamente io ho cognizione di ciò solo avendo visto qualche filmato in rete, seduta sul divano, con le mani che gocciolavano sul pc. Sono pazzi. Totalmente pazzi. In uno di questi video i paratori si dileguavano da sotto il masso dopo che il prode aveva superato gli otto metri d’altezza e perciò il loro aiuto non era più necessario. “Vai con Dio, fratello”. Che cosa terrificante. Chissà se riuscirò mai nella mia vita a salire tanto in alto da poter pensare con cognizione di causa: “Da qui proprio non devo cadere”. Chissà se mai me ne verrà la voglia. Non è difficile indovinare che i miei boulder preferiti sono quelli in traverso. Ah! Là sì che do il meglio di me! Parliamo del bouldering, disciplina moderna e fantasticamente slegata da qualsiasi finalità ascensionale. Perché è vero che anche nel bouldering bisogna salire ma il fatto che gran parte dei sassi che vengono boulderizzati possa essere comodamente conquistata anche dalla parte opposta, quella “facile”, fa Sotto i 10m. 113
IL CODARDO Vedi specchio. Scopri in te tutte le paure motivate e immotivate che l’arrampicata ti pone davanti: traumi infantili, recessi bui e scheletri dimenticati. Non aggiungo altro. Se invece la tua immagine riflessa ti sorride indomita e non sai cosa significhi tremare e sentire la colazione che risale quando non vedi più l’ultimo spit... ecco qualche dettaglio. Il codardo è una persona fantasiosa e sensibile ed è grato per tutta la ricca gamma di emozioni che la paura gli fa provare. Di solito, infatti, si profonde in enfatiche invocazioni all’A ltissimo una volta che sale sulla via, chiaro segno di devozione e sincera gratitudine. Di codardi è pieno il vasto mondo e talvolta mi domando se mi piacerebbe così tanto scalare se non sentissi la mia codardia retrocedere leggermente quando, ogni tanto, faccio qualche passo avanti. Cosa si perdono i coraggiosi. A ogni modo, stipare tutti i codardi in un’unica categoria è fare un torto alla loro multiforme individualità. Infatti i codardi possono essere di moltissimi tipi, da quello che trema a un metro dallo spit a quello che non sopporta lo spit ad altezza ombelico, a quello che per sicurezza resta direttamente a casa. Ecco qui le principali varietà di codardi: 1. Il codardo codardo. Ligio all’insegnamento evangelico della rassegnazione, egli scala solo da due, esibendosi in una tecnica discreta, godendo della lieve trazione alle parti basse che lo rassicura sulla presenza di una corda sempre un po’ in tiro. 2. Il codardo reale. La corda in tiro non conforta questo sottotipo, che è in grado di percepire il baratro sotto di sé anche se si trova a tre metri da terra e appeso all’imbrago, chiaro segno di una capacità immaginifica che avrebbe fatto gola a Tolkien. 3. Il codardo cazzuto. Il fatto che cominci a produrre adrenalina anche solo salendo in ascensore non distoglie il codardo cazzuto dal suo obiettivo: superare le paure. 4. Il codardo mascherato. Non è facile individuare il codardo mascherato, perché mantiene un profilo basso, controllando alla perfezione la mimica facciale e il vibrare delle sue membra. Come i migliori amanti, è in grado di distaccarsi dalla situazione giusto quel tanto che gli permette di non diventare isterico. Ma non vola. Mai.
IL SUPERLOCAL (O ABITUDINARIO) Dice la scienza che l’uomo ha bisogno di abitudini e di schemi mentali che, per quanto elastici, gli consentano di avere dei punti di riferimento e di non perdere il senno. Tutti: anche quelli che si vestono di fiori e vivono alla Francesca Berardo BLOCCAMI! 140
giornata girando il mondo in autostop. Avranno la loro routine mattutina fatta di cereali biologici e saluto al sole. Senza, pare, non si può sopravvivere. Lo scalatore superlocal sente questa esigenza all’ennesima potenza e, oltre a mettere tutti i giorni la stessa cravatta, frequenta sempre e solo un’unica falesia. Fenomeno bizzarro: nonostante il suo bisogno di tran tran sembri non esaurirsi, talvolta anch’egli esprime un desiderio di novità che si manifesta in sconcertanti deliri (“Se prendi solo le prese di destra quella via diventa 6b”, “Ho provato a partire dalla prima via di sinistra, fare un traverso, tornare indietro, togliermi una scarpetta, usare per gli ultimi tre metri un braccio solo, bendarmi un occhio: in questo modo il tiro diventa 6c pieno, bellissimo, dovreste farlo anche voi”). In un recente esperimento, un piccolo gruppo di superlocal, fornito di attrezzatura omologata, è stato portato in un settore diverso dal solito e lì è stato lasciato per qualche ora, sotto l’occhio vigile e discreto di telecamere nascoste. Disorientati e impauriti, i climber hanno cominciato a muoversi sospettosi, facendosi sicura a vicenda mentre camminavano alla base delle vie cercando nomi conosciuti. Infine, trovato un anfratto, i più vi si sono rannicchiati fino a che non sono arrivati a prenderli. Alcuni sono tornati a casa in autobus.
IL SERIAL CLIMBER Ne ho già parlato. Meglio non parlarne troppo, se no si monta la testa.
L’ESPERTO TEORICO E IL MANOVRATORE Abbastanza simili, condividono in effetti elevazioni e degenerazioni. Sia l’esperto teorico che il manovratore possono essere ferrati anche nella pratica e a questo punto tendono ad assumere connotazioni da guru omnisciente (tu pensavi ti stesse spiegando come valorizzare il tallonaggio e invece lui è passato a dirti che dovresti cambiare lavoro), come non è infrequente che la loro competenza si fermi all’astratto, cosa che può avvenire per diversi motivi. Gli esperti teorici potrebbero infatti avere un passato di tutto rispetto e adesso essere appesantiti da un presente fatto di dolori articolari, o essere appesantiti e basta. Oppure avere un’intelligenza logico-matematica che permetta loro di comprendere alla perfezione l’algoritmo del mano-piede ma poca capacità, predisposizione, talento, voglia per metterlo in pratica. Tante sono le spiegazioni ed è sufficiente chiedere: “Me lo fai vedere?” per scoprire se ci troviamo di fronte a un nerd dell’arrampicata o a Chuck Norris. Comunque, al di là della delusione che rischia di coglierci quando scopriamo che colui che ci ha svelato il segreto dell’8a non è in grado di fare un laterale, l’esperto Un ampliamento di bibliografia 141
teorico è di solito una creatura con una sua utilità nel panorama arrampicatorio; benché le raccomandazioni su come tenere quel rovescio svaso, che ci sta inesorabilmente sfuggendo, da parte di uno che non ha nemmeno l’imbrago possano risultare, in effetti, un po’ urtanti. Una volta ero in compagnia di un’amica climber, la cui miglior dote è la sincerità, ma non il tatto, che, seccata dai commenti di un arrampicatore in fase illuminata (che le stava dicendo come avrebbe dovuto fare il passaggio su una via che ella aveva chiuso a vista), ha tradotto in parole ciò che pure io stavo discretamente pensando: “Oh, ma ti sei appeso cinque volte, ma cosa vuoi?!”. Ma a ognuno il suo ruolo. E in fondo non è meno fastidioso vedere l’esperto teorico-pratico che ci mostra con movimento elegantemente perfetto come superare il passo chiave quando tutto quello che riusciamo a fare è sudarci sopra (sopra il passo chiave, non sopra l’esperto). Stessa competenza con i piedi a terra, il manovratore ama dispensare consigli, sovente assai graditi, durante la salita. Degli altri naturalmente. Avvezzo a questa pratica, egli si premura talvolta di dispensare indicazioni anche a chi non ne ha bisogno o a chi, pur avendone bisogno, non ci tiene affatto ad averle e si intestardisce a tenere un bidito scivoloso pur di non prendere la ronchia che l’altro gli ha indicato, perché è troppo gonfio per gridargli: “Sono a vista, porca miseria!”.
IL TELECOMANDATO L’altra metà della mela del manovratore: lo completa, si completa.
LA ZECCA Esserino fosco dalle zampette sottili che ama attaccarsi alle caviglie dei climber d’estate e agli amanti nei campi di grano dorati. Il suo corrispettivo umano pare non possa trasmettere il morbo di Lyme ma averlo attorno può essere comunque irritante. La zecca tende a scroccare in modo parassitario tutto ciò che la circonda: corda, rinvii, merende e, cosa ancor più grave, vie altrui. Si può facilmente riconoscere la zecca dalle apparentemente premurose domande sullo stato di forma che rivolge ai suoi compagni, seguite da uno spiccato interessamento per i loro obiettivi del giorno e da un affabile: “Ti tengo se vuoi”. Prodigo di incitazioni, la zecca vi sosterrà fino a che non arriverete in sosta, solidale e motivante fino al completo montaggio della via. Dopodiché vi calerà precipitosamente (non prima di avervi chiesto con voce zuccherosa di allungargli un rinvio qua e là) e passerà all’assalto del tiro, con le sue sei brulicanti zampette e l’esoscheletro luccicante al sole. Francesca Berardo BLOCCAMI! 142
Da non confondere la zecca con l’elemosinatore (o pellegrino delle falesie), individuo solitario che, dopo aver abbandonato la famiglia sotto l’ombrellone, vaga ramingo con un file PDF dei settori come unica bussola, in cerca di gruppi dispari di arrampicatori. Adattabile e disponibile, è solitamente una compagnia interessante, anche perché talvolta possiede un livello abbastanza discreto da montarvi/smontarvi le vie a piacimento.
IL FARLOCCO/IL MUNGITORE/IL BANFONE Accorpo queste tre tipologie di climber, benché presentino un pelame e una struttura fisica lievemente diversi (il mungitore ha per esempio avambracci più sviluppati), poiché simile è il loro atteggiamento nei confronti dei rigidi canoni dell’arrampicata moderna: libero, spontaneo e anticonformista.
IL FRUSTRATO Pare ce ne sia almeno uno in ogni macrogruppo di arrampicatori. Se non ve ne viene in mente nessuno soppesate l’eventualità di esserlo voi stessi. Il frustrato presenta in realtà caratteristiche facilmente riconoscibili, ma solo a posteriori, dopo che un evento scatenante ne ha rivelato la vera natura; allora tutte le tessere trovano il loro posto, come in un puzzle. Per esempio, si comprende come mai questo individuo sia riuscito nel tempo a crearsi il vuoto cosmico, e una serie di fedeli detrattori, attorno. Per evitare di entrare in quella folta schiera, avvelenarci il sangue e perdere il nostro flemmatico autocontrollo (che ci è oltretutto indispensabile per chiudere il 7c) è consigliabile tenere sempre a portata di mano un agile breviario delle peculiarità del frustrato, onde poter immediatamente capire con chi abbiamo a che fare e possibilmente gridarlo a gran voce ai presenti. Perché il climber frustrato non solo è urticante per i parenti, dirimpettai e coloro che gli siedono vicino sull’autobus, ma è incredibilmente dannoso per chi si avvicina per la prima volta all’arrampicata e ha la sfortuna di avere l’imprinting roccioso con questa categoria di scalatore. Pieno è il vasto mondo di neo-climber bruciati da questi incontri infelici, restii ormai a staccare il corpo da terra anche solo di pochi centimetri. Il frustrato ha: 1. pochi se non nulli amici (come Voldemort, per capirci); 2. la tendenza a isolare gli sparuti suoi compagni di cordata dal resto della fauna scalatoria, per evitare che si crei un confronto impietoso con l’autoeletto mentore (di grado e umanità); 3. la volontà consapevole e maligna di mantenere i suoi adepti a un livello infimo, in modo da conservare la sua risibile supremazia; Un ampliamento di bibliografia 143
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ISBN 978 88 85475 694