Kelly Cordes
CERRO TORRE 60 anni di arrampicate e controversie sul Grido di Pietra
EDIZIONI VERSANTE SUD | I RAMPICANTI
CERRO TORRE
K E L LY C O R D E S
CERRO TORRE 60 anni di arrampicate e controversie sul Grido di Pietra
EDIZIONI VERSANTE SUD | COLLANA I RAMPICANTI
Titolo originale: The Tower. A Chronicle of Climbing and Controversy on Cerro Torre Pubblicato da Patagonia © 2014 Patagonia Testo © Kelly Cordes Edizione italiana: © 2018 Versante Sud Via Longhi, 10 Milano Tutti i diritti riservati Traduzione: Matteo Maraone L’editore ringrazia Carlo Caccia, Kelly Cordes, Rolando Garibotti, Alessandro Modia Rore, Giorgio Spreafico, Francesca Tresoldi. 1a edizione maggio 2018 www.versantesud.it ISBN: 978 88 85475 151
Copertina, Cerro Torre. Foto: Mikey Schaefer Pagina 1, La cresta ovest del Cerro Torre dal Colle della Speranza. Foto: Kelly Cordes Pagine 2-3, Cerro Torre. Foto: Mikey Schaefer Pagine 4-5, Il massiccio del Chaltén. Foto: Kelly Cordes
El Arca de los Vientos
L’ELMO
COLLE DELLA CONQUISTA
Via dei Ragni
COLLE DELLA SPERANZA
Variante Directa Huarpe Via dei Ragni
IL CERRO TORRE DA OVEST Il tratto a puntini indica le parti nascoste alla vista. A sinistra, El Arca de los Vientos (Beltrami-Garibotti-Salvaterra, 2005) e la Via dei Ragni (Chiappa-Conti-Ferrari-Negri, 1974). Foto: Dรถrte Pietron A destra, la parete sommitale; oltre alla Via dei Ragni viene indicata la variante Directa Huarpe (Fava-Sรกnchez-Treu, 2013). Foto: Dani Ascaso 17
COLLE DELLA CONQUISTA
Cresta sud-est
Quinque Anni ad Paradisum
Peklenska Direttissima
COLLE DELLA PAZIENZA
El Arca de los Vientos
IL CERRO TORRE DA EST I tratti a puntini indicano le parti nascoste alla vista. Cresta sud-est
Alimonta-Claus-Maestri, quasi fino alla vetta, 1970; BrewerBridwell fino alla vetta, 1979. Entrambe le linee seguono la Via del Compressore, schiodata nel 2012. Viene indicato il percorso attuale, con le varianti (vedi pp. 308/309): Kennedy-Kruk a sinistra Lama-Ortner a destra Lama-Ortner variante a metĂ parete sulla sinistra
Peklenska Direttissima Quinque Anni ad Paradisum El Arca de los Vientos
Fistravec-JeglicĚŒ-Karo-Knez-Kozjek-Podgornik, 1986. Beltrami-Rossetti-Salvaterra, 2004. Beltrami-Garibotti-Salvaterra, 2005.
Foto: Rolando Garibotti 19
“È di rugiada è un mondo di rugiada eppure, eppure…” Kobayashi Issa (1763-1828)
Cerro Torre avvolto nella tempesta, 1972. Foto: Leo Dickinson
INDICE Prefazione 31
PRIMA PARTE SECONDA PARTE
Tempo Perso In principio Toni, Toni, Toni! Gennaio 2012 1959 1959: primi strascichi I dubbi, la rabbia e un compressore Ragni di Lecco Corpo del reato Nascita di un credo Ragione e religione Una dura, fredda veritĂ Il sigillo di Bridwell Impronta duratura Un parere di Reinhold Esame del mito
Veduta della testata meridionale della Valle del Torre. Sulla sinistra si staglia prominente il Cerro Torre, con il suo gruppo, sulla destra la catena del Fitz Roy. Foto: Mikey Schaefer
37 41 51 57 67 79 83 95 105 125 131 139 153 161 165 171
TERZA PARTE
QUARTA PARTE
APPENDICI
Nuova Patagonia El Arca de Los Vientos 2005: dopo l’Arca È ora di smetterla di cercare giustificazioni Los Tiempos Perdidos Una nuova storia Repubblica Democratica del Cerro Torre Un massiccio smitizzato Piccolo spazio pubblicità Contrasti sulla cresta sud-est
177 183 211 217 223 241 253 259 269 279
Sette giorni 289 2012: le reazioni 315 Caleidoscopio di opinioni 319 Una lettera da Cesare 329 Timori crescenti 335 Solo con la verità 343 L’uomo e la montagna 349 Intermezzo: fact-checking 353 La mia verità 361 Epilogo 365 Tessere mancanti. Post-scriptum 373 Cronologia alpinistica del Cerro Torre 382 I protagonisti 386 Glossario alpinistico 388 Bibliografia e sitografia 396 Ringraziamenti 406
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PREFAZIONE Questo libro è lo sguardo più ravvicinato che sia mai stato dato alla lunga storia alpinistica del Cerro Torre. L’approccio di Kelly Cordes, accuratamente documentato e privo di pregiudizi, è coinvolgente. L’autore esamina tutti i dettagli permettendoci di scoprire la complessità della tormentata storia di questo picco, senza saltare affrettatamente a conclusioni. Il viaggio parte dal primo tentativo nel 1958, per proseguire con la rivendicazione della prima salita, nel 1959, e la famigerata Via del Compressore; continua con le stimolanti prime salite degli anni Ottanta e Novanta, e infine si conclude con l’analisi delle complesse dinamiche in gioco a El Chaltén. In queste pagine incontriamo il meglio e il peggio dell’ambizione umana, e siamo obbligati a confrontarci con un dato lampante, indiscutibile: le nostre convinzioni spesso non si basano su fatti oggettivi. Molti hanno provato a raccontare questa storia, ma nessuno lo ha mai fatto bene come Cordes, che si è dimostrato la persona adatta per quest’impresa. Per molte ragioni, e in particolare perché ha un ruolo e uno sguardo a metà strada tra un osservatore esterno e una persona familiare con quel mondo. Quando ha iniziato a lavorare su questo libro non conosceva bene la zona. Tuttavia era già un alpinista stimato e conosciuto ed era già stato in Patagonia, dove aveva realizzato un concatenamento di tutto rispetto sul Cerro Torre. Inoltre, per anni ha lavorato come redattore all’American Alpine Journal: questo gli conferisce un sacco di autorevolezza, oltre ad avergli aperto molte porte. Prefazione 31
Il fatto di non essere impelagato nelle controversie che circondano la storia di questa vetta ha permesso a Cordes di mantenere la distanza emotiva necessaria a conservare l’obiettività. Nel corso delle sue ricerche ha conosciuto alcune delle persone coinvolte – la sua posizione di osservatore neutrale è cambiata, e ha dovuto affrontare la sfida di separare le emozioni dall’analisi oggettiva. Con alcune di queste persone ha stretto legami importanti, e questo ha reso più difficile la sfida, visto che le loro opinioni non erano suffragate da fatti verificabili. Per quanto riguarda la rivendicazione della prima salita, nel 1959, il suo sguardo fresco e la sua prospettiva inedita gli hanno permesso di notare ed esplorare angolature che prima non erano state prese in considerazione. In precedenza ci si era concentrati spasmodicamente su certi elementi essenziali, trascurando però altre questioni fondamentali: per esempio, il fatto che nel 1959 l’attrezzatura necessaria per realizzare quel tipo di salita non esisteva ancora. La sua abilità nella ricerca è stata cruciale: ha scovato in diversi archivi di quotidiani di Buenos Aires resoconti che mettono in discussione affermazioni fondamentali di alcuni degli attori principali di quella vicenda, azzerando il residuo di credibilità di quelle stesse affermazioni. Il suo ruolo di “outsider” gli ha permesso di capire meglio il sostegno che Cesare Maestri, in patria, ha ricevuto da molti ambienti; di poter comprendere il ruolo di eroe che Maestri ha incarnato nell’Italia post-bellica, che spiega anche l’incapacità, per molti, di separare la sfera emotiva da quella dell’evidenza fattuale. Ha trascorso parecchie settimane a El Chaltén per studiare le reazioni alla schiodatura della Via del Compressore, parlando con tutte le persone coinvolte nella vicenda. Anche in questo caso il suo ruolo di osservatore esterno lo ha aiutato, assieme alla sua personalità: unisce un atteggiamento privo di pregiudizio a una grande scrupolosità e accuratezza, e questo è un mix implacabile e disarmante, che lo rende un cronista eccezionale. Nessun dettaglio viene trascurato, nessuna intervista può metterlo in soggezione. La narrazione esamina a fondo alcune domande fondamentali, senza tempo. Per esempio, perché ci lanciamo in imprese donchisciottesche, che non hanno alcun valore concreto? Esamina la nostra concezione dello sport: la “vetta” come un obiettivo da raggiungere a tutti i costi, ma anche un approccio più misurato, che cerca un utilizzo ragionevole di attrezzature e materiali, per garantire il fair play e avventure più significative, più memorabili. Inoltre, apre un dibattito sulla distinzione tra storicizzazione delle vestigia dell’attrezzatura alpinistica e semplice spazzatura lasciata in parete; sulla pretesa di definirsi local, e su quanto una definizione del genere possa aver senso. Kelly Cordes CERRO TORRE 32
Questo libro, inoltre, indaga sulla ricaduta e sulla reale importanza della verità e di un approccio basato sui fatti, e sulle implicazioni morali della scelta di ignorare la verità. La nostra personale bussola morale non conta: mentire sulle circostanze della morte di un compagno comporta scaricare un peso insostenibile sulla famiglia della persona scomparsa. Ancora più importante: durante tutta l’opera, Cordes scandaglia l’enigma del sistema di credenze dell’uomo. Nel capitolo 11, scrive: “Prove o no, le persone spesso credono a quello in cui vogliono credere”. E, come ha detto in un’intervista, “Su questo picco, privo di significato per il resto del mondo, si ritrova in gioco ogni elemento insensato del comportamento umano”. Questo è un libro che va letto, sia che siate interessati nei dettagli della storia alpinistica del Cerro Torre che negli sfolgoranti, evidenti angoli ciechi che tutti noi abbiamo. Rolando Garibotti
Prefazione 33
Toni Egger. Foto: Alpenraute—Lienz, Austria
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TONI, TONI, TONI! Febbraio 2013. Le gocce di pioggia guizzano a sprazzi nell’aria, trasportate dall’unica costante del paese di El Chaltén, Argentina: il vento. Il vento patagonico che spazza impietoso il paesaggio, al punto che alcuni lo hanno ribattezzato la escoba de Dios – la scopa di Dio. Il ristorante Patagonicus, uno dei locali più popolari di El Chaltén, di proprietà di una delle famiglie più importanti, risuona delle voci melodiose di cantanti sudamericane. Alle pareti, foto d’archivio – storie legate alla fondazione del paese. Seduto a un tavolo di legno grezzo, sorseggio un caffè, aspettando César Fava. Suo padre Cesarino, scomparso nel 2008 a 87 anni, era l’uomo che aveva scritto la lettera a Cesare Maestri, invitandolo a cimentarsi su una montagna che sarebbe stata “pane per i suoi denti”. Maestri, nato nel 1929 e ormai quasi novantenne, vive tuttora a Madonna di Campiglio, in Trentino. Si rifiuta di parlare della montagna che lo ha reso famoso. Io desidero parlare con César perché è uno degli ultimi contatti diretti con la complessa storia degli albori del Torre. Intendo chiedergli delle cose a proposito del 1959. Dopo il tentativo fallito del 1958, Maestri ritornò nel 1959. Con l’aiuto di Cesarino Fava, lui e Toni Egger, asso dell’alpinismo austriaco, realizzarono la prima ascensione della torre ritenuta fino ad allora impossibile. Agli alpinisti del tempo la rapidissima salita dell’impressionante parete nord del Toni, Toni, Toni! 51
Cerro Torre sembrava un’impresa talmente rivoluzionaria e futuristica da meritarsi il titolo di prestazione più grande di sempre. Ma Egger morì durante la discesa, e sorsero interrogativi sulla veridicità dei resoconti di Fava e Maestri.
MI ALZO DAL POSTO, per osservare le foto appese alle pareti del Patagonicus: decine di immagini sgranate, in bianco e nero, che ritraggono Fava e Maestri durante le spedizioni sul finire degli anni Cinquanta. Foto di qualsiasi cosa, tranne che della scalata del 1959. Quelle immagini raccontano un mondo diverso, un tempo diverso, ma il posto è lo stesso. Il solo pensiero della temerarietà di quel tentativo sulla parete nord del Torre, in quegli anni, mi fa andare in corto circuito. Era un’impresa infinitamente più difficile di qualsiasi altro tentativo, per i tempi: per una ripetizione dallo stesso versante ci sarebbero infatti voluti quarantasette anni, e decine di tentativi dei migliori alpinisti di ogni generazione. In quelle vecchie foto Maestri sembra a suo agio, felice, in pace. Ma nel 2012, a 82 anni, avrebbe dichiarato: “Se avessi una bacchetta magica lo cancellerei [il Cerro Torre] dalla mia vita.”
UNA VOCE FEMMINILE mi scuote dal mio sogno a occhi aperti. “César sarà qui a momenti”. Ritorno alla mia sedia e apro il taccuino, sorseggiando un altro po’ di caffè. “Piacere, César”, si presenta avvicinandosi al tavolo. Quarantasei anni, in forma, quasi un metro e ottanta, qualche centimetro in più del padre, il famoso Cesarino. Piuttosto simili, d’aspetto: capelli ondulati, zigomi pronunciati, corporatura massiccia. Nel giro di pochi minuti gli occhi di César si illuminano, si spalancano; il suo viso risplende nel ricordare le montagne del passato. Un’epoca più semplice, giorni di grande passione. “Mio padre me lo diceva sempre, ‘segui la tua passione’.” Cesarino era cresciuto in Trentino, nell’Italia dilaniata dal periodo tra le due guerre, in una famiglia di contadini, uno di dodici figli. Dopo cinque anni di leva durante la Seconda Guerra Mondiale era emigrato, come molti altri italiani, raggiungendo Buenos Aires, dove sbarcava il lunario tra una spedizione in montagna e l’altra, guadagnandosi da vivere come venditore ambulante. Aveva fondato, assieme ad altri emigrati, la sezione argentina del CAI, ed era diventato una figura di raccordo con gli alpinisti italiani che desideravano esplorare le Ande, soprattutto quelli trentini. Cesarino era
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una persona semplice, un gran lavoratore, un uomo umile, noto per la sua schiettezza e il suo fascino. Riusciva a conciliare un’instancabile etica del lavoro con la sua passione per le montagne – e in seguito, con i doveri dettati dalla famiglia. Il profondo rispetto per il passato sembra iscritto nel DNA di César, come in effetti accade per la maggior parte delle persone che hanno avuto a che fare con Fava, Maestri e l’alpinismo “vecchio stampo” del Trentino. César ricordava il suo primo viaggio in quella zona: era il 1983 e, da adolescente, aveva fatto da portatore per una delle spedizioni guidate dal padre. Non c’era nessun villaggio, nessun ponte; avevano guadato a cavallo, accampandosi nella faggeta. Quei giorni, rispetto al 1959, potevano sembrare di un’epoca moderna, ma rispetto a oggi si trattava ancora di storia antica. “Prendiamo Maestri” – mi dice in inglese, con un forte accento ma in un tono profondo, dolce – “e anche Egger: prima che iniziassero a scalare, avevano vissuto un’infanzia turbolenta, e avventure straordinarie. Fin dalla loro infanzia si può capire quanto avessero forgiato il loro carattere. I climber della mia generazione e di quella successiva sono molto forti, ma non siamo stati plasmati allo stesso modo. Oggi è tutto molto più facile, e va benissimo… in fondo, è un’altra epoca.” La sua voce si abbassa, prendendo un tono misurato, pacato. “Per questo dobbiamo rispettare la storia. E per rispettarla, dobbiamo conoscere non solo quello che hanno fatto, ma anche quello che erano, e quello che sono. Gli uomini che erano, gli uomini che sono ora.” Aggiunge che è un peccato che Maestri sia famoso soltanto per il Cerro Torre. Il tono della sua voce cambia di nuovo, mi si avvicina sfiorandomi l’avambraccio. “Cesare Maestri ha fatto più di tremila prime salite, un migliaio in solitaria.” Lascio cadere nella conversazione una domanda diretta: “Cosa pensi che sia successo davvero nel 1959?” “Rispetto a cosa?” mi risponde, colto alla sprovvista. “Pensi che Egger e Maestri abbiano raggiunto la cima?” César ammutolisce nettamente, sia pure per un istante, e poi si alza, inarcando le sopracciglia e gesticolando vivacemente. “Beh. Beh, certo che sì, chiaro. Questa è la mia opinione.” Visto lo strato di ghiaccio che copre il versante nord, spiega, è quasi sicuro che abbiano raggiunto la cima. Al giorno d’oggi non si forma tutto quel ghiaccio, le condizioni sono cambiate parecchio – guarda fuori dalla finestra, in direzione delle montagne, ritornando a una postura rilassata, e sciorina una serie di esempi. Ci sono anni, spiega, in cui la neve si accumula in diversi punti della parete, ma niente a che vedere con lo strato Toni, Toni, Toni! 53
Sopra, membri della prima spedizione dei Ragni di Lecco, nel 1974, costruiscono un pupazzo di neve in cima al Cerro Torre. Sotto, Daniele Chiappa sulla vetta del Cerro Torre. Foto: Mario Conti
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fotografie, sembra che i funghi sommitali allora fossero più grandi, e privi dei tunnel degli anni recenti, in cui un clima relativamente più stabile e caldo sembra aver sciolto parte delle lastre di ghiaccio, lasciando scoperta una porzione più ampia di roccia solida. Persero tempo prezioso scavando dentro un fungo sporgente di otto metri, avanzando di centimetro in centimetro nel terrificante ghiaccio friabile, con il cuore in gola. A casa avevano creato un attrezzo speciale per assicurarsi su un terreno così precario: i corpi morti, delle zanche con delle alette disposte ad angolazione variabile, in grado di espandersi nel ghiaccio friabile. Conti, che lavorava in un’officina meccanica, ne aveva prodotte una ventina. Mancavano solo trenta metri alla cima, ma un altro fungo mostruoso bloccava loro il cammino. Ferrari tirò da primo altri due tiri, traversando verso destra, esaminando, tastando, cercando un passaggio. Un solco tra due formazioni offriva una possibilità. Salirono arrampicando, traversando, persino ridiscendendo per poi riprendere l’ascesa. Mentre le nuvole e la nebbia vagavano alla deriva tra le formazioni tondeggianti, alle 5.45 del pomeriggio del 13 gennaio 1974 Daniele Chiappa, Mario Conti, Casimiro Ferrari e Pino Negro emergevano sulla vetta del Cerro Torre. Costruirono un pupazzo di neve dei Ragni di Lecco, con tanto di maglione del gruppo, casco, piccozza e bandiera; scattarono fotografie e poi tagliarono corto i festeggiamenti nell’interesse della loro sopravvivenza. La tempesta si stava levando velocemente “e sembrava avere tutte le intenzioni di assumere la violenza senza limiti a cui ci eravamo ormai abituati”, scrive Ferrari. Il rientro al campo base richiese altri tre giorni. Il ritorno a Lecco fu un trionfo, tra festeggiamenti e un entusiasmo travolgente. Oggi, nelle pagine della sezione storica del sito dei Ragni di Lecco, si trova un passaggio che riflette l’orgoglio della comunità locale per quell’impresa: “Lecco accolse [la notizia del successo] con una emotività fortissima, tanto che il Cerro Torre è sempre stato considerato quasi un pilastro appartenente al gruppo delle Grigne e non una remota guglia lontana un oceano.”
2012. È UNA BELLA GIORNATA D’AUTUNNO. In un bar sotto le guglie della Grigna Mario Conti mi racconta la loro spedizione. Il nostro comune amico Fabio Palma (allora membro, poi Presidente dei Ragni di Lecco fino a fine marzo 2018) traduce. Conti è l’unico membro ancora in vita del quartetto che arrivò in cima. Sembra più giovane dei suoi sessantotto anni. Parla in tono pacato e misurato, è un uomo di poche parole, dall’atteggiamento modesto. Scala ancora, sopra il 7a, e lavora come guida alpina e Ragni di Lecco 101
istruttore del collegio guide. Non era mai stato in Patagonia, prima dell’invito di Casimiro Ferrari. Da allora ci è tornato diciassette volte. “È stata un’avventura totale”, racconta. Allora non c’erano le previsioni meteo, c’era poca infrastruttura e poche possibilità di soccorso dall’esterno. “El Chaltén non esisteva. La Patagonia di allora era diversa da quella di oggi”. Mi mostra le foto della loro spedizione: vecchi maglioni e muffole di lana, piccozze con il manico in legno, ramponi tenuti con cinghie, un’arrampicata che si snoda tra gigantesche protuberanze di ghiaccio friabile. Le foto di vetta mostrano i loro volti trionfanti e sorridenti, accanto al pupazzo di neve dei Ragni. Alle loro spalle si intravede il brutto tempo in arrivo. Verso la fine della nostra conversazione, dico a Conti che in molti considerano la loro scalata la vera prima salita di quella montagna. Chi è dell’ambiente sostiene che i veri eroi del Cerro Torre sono loro, la cordata dei Ragni di Lecco, e che non hanno mai ricevuto il credito che si meritano. So che sicuramente questa tesi non gli giunge nuova. E di certo ci avrà pensato anche lui, tra sé e sé. “Innanzitutto, nel 1959 io non c’ero. Quindi non posso giudicare se siano o meno arrivati in cima”, risponde. “In secondo luogo, se sono davvero arrivati in cima, secondo me si tratta di una delle più grandi scalate della storia dell’alpinismo”. Sono d’accordo con lui, e glielo dico. “Terzo, la sola idea di andare lì nel 1959, per scalare da soli, in due, il Cerro Torre… ecco, solo concepire quest’idea è qualcosa di assolutamente fantastico”. Di nuovo d’accordo. “Quarto, se non è arrivato in cima, per lui dev’essere un incubo, perché il suo compagno è morto e ha dovuto vivere accompagnato dalla menzogna. Per questo preferisco non entrare in questo dibattito personale, perché se veramente non lo ha scalato, mentire su un tentativo così incredibile sarebbe una specie di incubo personale. Preferisco non giudicare.” “Normalmente si crede in tutto quello che dicono gli alpinisti, perché altrimenti… beh, è una questione di fiducia: sì o no. È difficile.” Annuisco, e considero l’onere della prova, che in questo campo non è molto gravoso. Non si richiedono nemmeno fotografie. Molte ascensioni vengono prese per buone sulla base di una descrizione plausibile dei fatti e del terreno. La Via del Compressore di certo non ha aiutato la causa di Maestri. Dopo tutto, se nel 1959 aveva salito una via molto più difficile con uno stile formidabile, perché mai avrebbe avuto bisogno di ritornare undici anni dopo per farsi strada a forza di chiodi su una linea molto più facile? Conti dice di essere amico di Maestri, ma ammette che nel 1970 Maestri ha sfigurato la montagna. “Ha fatto un grosso errore a tornarci per fare quella via. Ha reso il Cerro Torre accessibile alla maggior parte delle Kelly Cordes CERRO TORRE 102
In viaggio verso il massiccio del Chaltén, fine 1973. Foto: Mario Conti
persone, e secondo me il novanta per cento di chi ci è salito non sarebbe stato in grado di farlo senza quei chiodi.” Sono di nuovo d’accordo, e accenno che senza la scala di chiodi di Maestri il Cerro Torre sarebbe una delle montagne più difficili del mondo. “Ora [dopo la schiodatura di Kennedy e Kruk]”, osserva Conti, “è tornata ad essere una delle più difficili.” Se Conti ce l’ha con Maestri, non lo mostra affatto. La nostra conversazione si esaurisce, e mi invita a pranzo assieme a diversi suoi amici, molti dei quali membri dei Ragni. Sono onorato, e accetto volentieri. Prima di salutarci, mi dice: “So quello che ho fatto io, e tanto mi basta.”
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talmente dure da non essere ancora state ripetute. Aveva realizzato la prima salita invernale del Torre, e ripetuto una miriade di altre vie difficili in quella zona. Molti degli habitué lo chiamavano “Mr. Cerro Torre”. Salvaterra, interessato come molti altri alpinisti a stabilire la verità sulla prima salita, aveva tentato la presunta via del 1959 tre volte, ma non era mai riuscito ad arrivare oltre il Colle della Conquista. Ed era in buona compagnia, visto che decine e decine dei migliori alpinisti al mondo ci avevano provato, nel corso degli anni, senza successo. E nessuno aveva trovato la benché minima traccia della spedizione del 1959 al di sopra del nevaio triangolare. Inizialmente Salvaterra aveva pensato di salire con il connazionale Alessandro Beltrami, allora appena ventiquattrenne, guida alpina e sciatore di fondo, che era stato in Patagonia solo una volta in precedenza. Nel 2004, lui, Salvaterra e Giacomo Rossetti avevano aperto una nuova via sull’imponente parete est del Cerro Torre. Per molti anni Salvaterra aveva creduto alla versione di Maestri, e ne era stato un fedele sostenitore. Ma, nel corso del tempo, raccogliendo una mole crescente di informazioni, aveva iniziato a cambiare idea, trovandosi anche ai ferri corti con molti alpinisti della fazione pro-Maestri – che, in Trentino, voleva dire un bel po’ di gente. Trovare delle tracce del passaggio di Egger e Maestri al di sopra del Colle della Conquista sarebbe bastato a riabilitarlo. Prima di partire, Salvaterra aveva dichiarato, “Se trovo anche solo uno di quei chiodi li sbatto in faccia al mondo, ma per primo a me stesso.” Il taciturno Beltrami, che lavorava a Madonna di Campiglio nello stesso ufficio guide di Maestri (che, alla sua veneranda età, resta sempre una celebrità e continua a guidare escursioni semplici), alla partenza per la Patagonia credeva alla versione di Maestri. “Dalle nostre parti Maestri è un alpinista molto conosciuto, per alcuni è un’icona, ed è comunque una persona rispettata e importante. Direi che è normale, credergli senza fare domande.” Garibotti, amico di una vita di Salvaterra, era ovviamente convinto che Maestri avesse mentito. Animato da una passione immensa, e dotato di un immenso talento, l’enigmatico alpinista, allora trentaquattrenne, si era già fatto un nome tra il giro che conta, per le sue incredibili realizzazioni e per lo sprezzo del tam-tam mediatico. Nato in Italia, Rolando Garibotti è cresciuto a Bariloche, nella Patagonia settentrionale argentina. Ha salito la sua prima via tecnica sul massiccio del Chaltén a quindici anni. A diciassette anni lui e un compagno di liceo erano arrivati a cinque tiri dalla vetta del Torre, seguendo la Via del Compressore. Nel 1993 si era trasferito negli Stati Uniti, ma il suo cuore era rimasto in Patagonia, dove aveva realizzato delle salite strabilianti e veloci El Arca de Los Vientos 185
Uno sguardo sul compagno che fa sicura, sulle sezioni finali della parete nord del Cerro Torre. PiĂš in basso, la vetta della Torre Egger. Foto: Rolando Garibotti
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di obiettivi tecnicamente difficili, in stile impeccabile, e rifuggendo da ogni clamore. Il suo ricco curriculum non si limita alla Patagonia. Nel 2000, Garibotti risolse in free solo1 il Grand Traverse, un epico concatenamento, piuttosto tecnico, di dieci cime sul massiccio dei Tetons, Wyoming, in meno di sette ore. Ai tempi la maggior parte dei climber ci impiegava diversi giorni. Nel 2001, assieme allo statunitense Steve House, salì l’Infinite Spur, una via molto tecnica di tremila metri, in Alaska, considerata la più impegnativa del massiccio del Denali, in ventiquattr’ore. La seconda ripetizione più veloce aveva richiesto otto giorni. Nonostante eviti la luce dei riflettori, Garibotti è un fenomeno. Nel suo memoriale Enduring Patagonia (2001) Gregory Crouch descrive così Garibotti: In lui abbondano i tratti buoni dello stereotipo del carattere latino. Rolo è cordiale, amichevole, schietto; alto, moro, bello, un po’ intransigente, ma senza la minima traccia del comportamento da pavone del macho. È silenziosamente competente, tenace, o forse è semplicemente così stramaledettamente bravo da non aver bisogno di dimostrarlo. Rolo riconosce il talento delle persone che ammira, è sinceramente entusiasta delle realizzazioni dei suoi amici e sembra che, nel suo fisico di un metro e ottantacinque, non ci sia una sola oncia di invidia. Credo che Rolo sia mega-competitivo – nessuno, tra quelli così bravi, non lo è – ma tutto questo è completamente slegato dal desiderio di veder fallire gli altri. Rolo sfrutta questo suo lato competitivo per spronare se stesso, anche fin troppo severamente… il complimento in ambito alpinistico a cui ambisco maggiormente è il conciso “ davvero niente male” di Rolo. Non lo dice a cuor leggero. Può sembrare sorprendente, visto il suo interesse per la storia di Egger e Maestri, ma Garibotti non mostrava un particolare interesse per quella vetta. “Il Cerro Torre non è mai stato un mio sogno. Non ho mai pensato che quella montagna mi avrebbe permesso di salire in uno stile per me accettabile”. Il Cerro Torre, molto semplicemente, è così disperatamente verticale, e viene battuto da tempeste così improvvise e violente che aprire una nuova via in uno stile pulito e minimalista non sembrava possibile. Quando Garibotti chiese a Salvaterra di accompagnarlo in uno dei suoi progetti patagonici, il veterano intuì uno spiraglio per un’occasione 1. Si intende l’arrampicata libera in solitaria, senza corda; quando si parla di solitaria ci si può riferire a una salita che non implica necessariamente il ricorso alla pura arrampicata libera, o che include tecniche di auto-assicurazione, NdT.
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Il Cerro Torre. Viene indicata la posizione in cui si trova il compressore, e uno dei chiodi di Maestri. Foto del compressore: Kelly Cordes. Altre: Mikey Schaefer
La cerimonia di consegna dei Piolet d’Or, la primavera successiva, si tenne a Courmayeur, in Italia. La giuria attribuì una “menzione speciale” a Kennedy e Kruk, e a Lama e Ortner, per le loro imprese sul Cerro Torre – compresa la schiodatura. La giuria era composta da un gruppo di rinomati alpinisti, nessuno dei quali italiano. Nel comunicato che illustrava le motivazioni dei premi c’erano questi due paragrafi: Nel 1970 Cesare Maestri salì lungo la parete sud-est piazzando non meno di trecento chiodi a espansione. La via artificiale alterò la conformazione di questa montagna così spettacolare e selvaggia. Nel gennaio 2012 Hayden Kennedy e Jason Kruk hanno risalito la cresta sud-est by fair means, e tolto un gran numero di quelle protezioni: si è trattato di un primo passo per restituire alla montagna la sua difficoltà naturale, riportandola a una condizione che esclude la possibilità di controversie. Qualche giorno più tardi Lama e Ortner hanno invece realizzato la prima ascensione in libera della via, compiendo un’impresa ancor più notevole. Nel suo libro Duemila metri della nostra vita [CDA & Vivalda, edizione del 2002] Maestri stesso sembra suffragare quelle che sarebbero state le azioni di Kennedy e Kruk, raccontando che appena prima di iniziare le calate Caleidoscopio di opinioni 325
€ 21,00
ISBN 978 88 85475 151