Mark Twight
CONFESSIONI DI UN SERIAL CLIMBER
EDIZIONI VERSANTE SUD | I RAMPICANTI
Titolo originale: Kiss or Kill – Confessions of a serial climber Edizione originale: Seattle, WA 98134, The Mountaineers Books, 2001 2001 © Mark Twight 2004 © VERSANTE SUD S.r.l. Via Longhi, 10 Milano Per l’edizione italiana tutti i diritti riservati Tutte le fotografie, se non diversamente indicato, sono di Mark Twight. L’editore ringrazia: Sarah Caola, Paola Ortenzi, Betta Gobbi (Grivel) 2a edizione marzo 2019 www.versantesud.it ISBN: 978 88 85475 755
MARK TWIGHT
CONFESSIONI DI UN SERIAL CLIMBER Traduzione di Lorenzo Ruggiero
EDIZIONI VERSANTE SUD | COLLANA I RAMPICANTI
INDICE Prefazione 7 Introduzione 10 Introduzione alla seconda edizione italiana 12
In solitaria sui Grands Charmoz 15 Bacia o uccidi 21 Splendore e disperazione 29 Bagno di realtà (frammento) 37 Ascesa e caduta dell’alpinista americano 43 Soffro, quindi esisto 51 L’abattoir 65 Niente scherzi sul paradiso 73 A modo mio: una chiacchierata con Tomo Česen 83 In tappeto volante sulla perestrojka 99 Controvoglia 109 Valle di lacrime 121 Un’intera vita, prima della morte 135 Avviso a distanza 145 Il punto di riferimento 161 Intervista a Jean-Christophe Lafaille 161 Non è ora di piangere 175 L’hai voluto, lo avrai 185 Uno strappo con Twight 195 Chamonix: oltre il limite o sottoterra 203 Il Dottor Destino disserta dei valori tradizionali 211 Fumo negli occhi 219 La competizione scompiglia la mischia 229 Il dono che ogni volta si rinnova 237 Spiegazione di un atteggiamento elitario: la consapevolezza di sé sulla Diretta ceca del Denali 251
Da dove vengono i titoli? 266 Ringraziamenti 269
A Lisa, la mia donna, e a Zuma, colui che regna.
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PREFAZIONE Ho conosciuto Mark a un poligono di tiro in Colorado. Era un novellino, ma aveva movimenti fluidi e dolci. Ho visto la stessa mancanza di sforzo qualche anno dopo, arrampicando con lui e alcuni amici, come se fosse tutt’uno con la montagna. Guardandolo allenarsi con la pistola da tiro, vedevo che era dotato: aveva la capacità di ascoltare, di assimilare e di eseguire. Anche se ci esprimiamo in ambiti differenti, mi sono reso conto che la forza che ci guida è la medesima: vogliamo dominare l’ambiente che ci circonda, in qualunque condizione ci troviamo. Ero curioso e gli domandai cosa spingesse un climber professionista a cimentarsi con la pistola. Mi rispose che le sue migliori arrampicate erano accompagnate dalla sensazione di far parte integrante dell’ambiente. Quando era al suo meglio, diventava l’ambiente. Capivo la sua risposta. Nel corso di una performance impeccabile, l’ego scompare. Spiegò che quella sensazione, se e quando riusciva a ottenerla, di norma arrivava dopo sei mesi di allenamento, due mesi in un Paese straniero, e due settimane di adattamento in alta quota. Aveva scoperto di poter ottenere lo stesso effetto allenandosi e gareggiando con la pistola da tiro e senza uscire dallo Stato. Fu un commento che mi sorprese. Mi ero immaginato che per un climber non ci fosse sfida maggiore che affrontare la paura della morte. A quel punto capii che Mark sapeva che la paura assume forme differenti, a seconda del singolo individuo. La vita è paura: paura dell’arrampicata alpina, paura della competizione, paura del fallimento, paura della morte. Mark aveva trovato il modo di lottare contro le sue personali paure senza essere “Mark il climber”. Stavamo parlando dopo una gara di tiro con la pistola e uno dei migliori tiratori stava lì in giro a scherzare e cazzeggiare. Più tardi domandai a Mark: «Probabile che abbiate tizi del genere anche nell’arrampicata, vero?» Rispose secco: «Vivo, nessuno». Correndo su moto stradali ho imparato un modo di dire: «Quando cala la bandiera verde, basta cazzate». È un concetto valido per ogni genere di sforzo umano, ma che si adatta alla perfezione all’alpinismo estremo. A ogni modo, nel caso di Mark non c’è cazzata che tenga: lui è pura azione. Io e un’amica stavamo guardando il libro di Mark Alpinismo estremo: arrampicare leggeri, veloci e in quota (Extreme Alpinism: Climbing, Light, Fast & Prefazione 7
High). Il commento di lei fu che Mark non sembrava affatto il climber estremo descritto dal libro. Solo a guardare le foto ti senti sopraffatto. Una persona normale non può nemmeno immaginarsi cosa ci voglia per cimentarsi con situazioni del genere, quando sei solo e devi sopravvivere. Mark è così: non mette in mostra il suo ego da climber per dimostrare il proprio valore. Poco dopo aver conosciuto Mark, ho saputo dai suoi amici che era soprannominato Dottor Destino. Scoppiai a ridere, perché il Mark che conoscevo non dava per niente quell’idea. Conoscevo il Mark Twight tiratore: sicuro di sé, determinato e volitivo. Anche quando ho arrampicato con Mark non ho mai colto il lato oscuro, di una persona che ami stare sull’orlo del baratro. A ogni modo, dopo aver letto i suoi primi scritti di arrampicata, ho dissotterrato il Dottor Destino. In Valle di lacrime scrive: «Non me ne frega un cazzo di quello che pensano gli altri. Faccio quello che faccio. Ci riesco. Fallisco. A volte sono così pigro che non faccio né l’una né l’altra cosa. Vivo e respiro i miei problemi, il mio lavoro e il dolore che mi infliggo da me». Quando comprendiamo senza ombra di dubbio che noi stessi siamo gli artefici delle nostre miserie, ci fermiamo. La forza generata da questa introspezione è in grado di cambiare chiunque. La sua lotta interiore per la libertà individuale, che all’esterno si manifesta nell’arrampicata, ha finito per trasformare Dottor Destino nel Dottor Mantra. Mi ha colpito che abbia scritto: «I futuri sviluppi dell’arrampicata alpina dipendono dalla mente. I miglioramenti della forma fisica e dell’attrezzatura offrono possibilità di miglioramento relativamente limitate, mentre grandi balzi possono compiersi come risultato del perfezionamento interiore di pochi climber dotati». Affermazione che colpisce, essendo fatta da un uomo impegnato in uno sport dominato dall’ego. Mi ha sorpreso trovare riferimenti bibliografici sottintesi a Krishnamurti e Carlos Castaneda, altra significativa differenza con i normali libercoli di arrampicata. Senza alcuno sforzo da parte sua, Mark mi ha spinto a migliorarmi in aree nelle quali, malgrado me ne occupi da una vita, tendo alla pigrizia. Gli effetti tangibili della sua competenza in fatto di dieta, esercizio e impegno nell’allenamento mi hanno procurato incommensurabili benefici. Il suo mantra «Sono tutti morti» mi è stato di grande aiuto in occasione di una gara in moto nella calda estate dell’Arizona. Fare sport comporta una crescita personale, in gara come in montagna. Hai l’opportunità di metterti alla prova oltre i mezzi disponibili nella vita quotidiana. Quello che ottieni l’hai scelto. Puoi sprecarlo facendone la tua identità, oppure puoi restituire un po’ di quanto hai avuto. Dipende solo da te.
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POST SCRIPTUM Tre giorni dopo aver scritto queste parole, sono stato testimone del pestaggio a sangue da parte di una banda ai danni di un membro di una banda rivale. Ho commentato a voce alta, ma a nessuno in particolare: «Che spreco di vita, vivono solo per soddisfare un gigantesco ego». Un tizio lì accanto mi ha risposto: «Vero, ma sono felici così». «Ma a che prezzo?», è stata la mia replica. Mentre lo dicevo, mi si formavano nella mente le parole di Mark, e il loro significato penetrava lo shock del momento: «Divertirsi non deve per forza essere divertente».
Brian Enos Apache Junction, Arizona Luglio 2000
Prefazione 9
INTRODUZIONE Ho cominciato a lavorare a questa raccolta nel 1993, in Francia. La versione originale comprendeva una certa quantità di poesie. Jean-Marc Porte di Montagnes Magazine e Cathy Beloeil hanno lavorato alla traduzione francese. Non prese la forma di un libro perché mancava di spessore. Aveva un’ottica singolare, che dimostrava una modesta evoluzione individuale. I sette anni passati avevano provocato molti cambiamenti, e pensavo che fosse evidente in quanto avevo scritto in quel periodo. Questo libro non avrebbe preso forma senza il contributo di Jim Martin. Il suo occhio critico e la sua abilità editoriale sono stati inestimabili per il processo di riscrittura. Il libro è un pezzo unico. In futuro non prevedo di scrivere altri brani in quantità sufficiente per assemblare un’altra raccolta. È per questo motivo che è un libro piuttosto pesante. È un pugno da KO, perché non sarà seguito da combinazioni di colpi più deboli. Questo libro presenta una raccolta di scritti prodotti tra il 1985 e il 2000, tutti già pubblicati. Comunque sia, questa è una Prova d’Autore, non una pappetta omogeneizzata dai redattori delle riviste specializzate d’arrampicata, i quali spesso non intendono urtare la suscettibilità di abbonati e inserzionisti. Parte del materiale è stata pubblicata solo in Francia, Italia o Inghilterra. Un vecchio pezzo, intitolato The Reality Bath, è apparso nell’ormai dimenticata rivista canadese Alpinism, uscita in un solo numero nel 1989. Ogni brano è stato riscritto e gli è stata aggiunta una nota con il punto di vista dell’anno 2000, nella quale descrivo la fonte di ispirazione alla scrittura o gli eventi che hanno seguito la pubblicazione. Penso che questa raccolta offra uno sguardo tremendamente lucido sulla mia vita di uomo e di alpinista estremo. A volte la dissezione mi spaventa, ma mi compiaccio di dare lezioni al prossimo. Mi rendo conto che la mia chirurgia emotiva a mezzo stampa possa essersi spinta troppo in là per qualcuno, però ha avuto effetti positivi su altri. Mi interessano solo i secondi. La mia carriera di climber rispecchia quella di molte altre professioni: ci sono stati successi, fallimenti, e una curva di apprendimento parallela a un processo di divenire. A volte questa evoluzione ha comportato il fatto che andassi in solitaria su vie difficili, assumendomi rischi estremi per avere una visione chiara. Altre volte ho dovuto semplicemente strofinare il vetro con un panno pulito. Questo è un Mark Twight CONFESSIONI DI UN SERIAL CLIMBER 10
libro di memorie che documenta il mio viaggio verso la maturità di climber, e per conseguenza quella di essere umano. Il mio editor sosteneva che la forza del libro avrebbe potuto indurre la gente a lasciarlo perdere, ma poi si è sorpreso nel sentirmi dire che speravo che accadesse. In origine i pezzi sono stati scritti per le riviste. Qui i brani sono presentati in approssimativo ordine cronologico di pubblicazione e non si è fatto niente perché scorrano dolcemente uno dopo l’altro. Non voglio che sia una lettura facile. Voglio che lo mettiate da parte, che ci pensiate su. Voglio che questo libro vi aiuti a riconoscere la vostra rabbia, cosa che vi aiuterà a comprendere la mia. Il mio linguaggio e il mio atteggiamento derivano da un particolare periodo della storia musicale e sociale: sono un punk, e il punk-rock è stato per anni il propellente della mia natura ribelle e del suo modo di esprimersi. Qualcuno ne riderà, sostenendo che il punk è morto vent’anni fa insieme a Sid Vicious, ma la sua rabbia e la sua energia continuano a indicare la strada a molti. Se avete già letto questi articoli, o se li leggete oggi senza condividere il linguaggio punk, è facile che li consideriate pretenziosi o arroganti. Può essere, ma là fuori, da qualche parte, c’è qualcuno che capisce queste parole e sa dar loro il giusto valore. Sono state scritte col sangue, dopo che le ho apprese col cuore. Malgrado l’età che ho, sono ancora in rivolta contro la mediocrità. Non sono incazzato com’ero un tempo, ma quando si tratta di azione sono ancora intollerante verso le parole vuote e arroganti. Acclamatemi o tacete.
Mark F. Twight Boulder, Colorado settembre 2000
Introduzione 11
INTRODUZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE ITALIANA Sono passati quasi vent’anni dalla prima edizione di questo libro. In tutti questi anni sono cresciuto e cambiato, molto. Ho scritto il capitolo conclusivo sull’onda della mia ultima scalata di alta difficoltà in montagna, una via per cui mi ero preparato per dieci anni. Ho smesso quando avevo raggiunto il picco di prestazioni. Ho mollato quand’ero al massimo delle mie potenzialità. Ho continuato a scalare, ma per lavoro: ho fatto l’istruttore di alpinismo per le forze armate del mio paese, che in quel periodo erano impegnate sulle montagne dell’Afghanistan. Ma ho smesso di scalare per me stesso. Le montagne mi avevano insegnato tutto quello che potevano, ma per continuare a crescere dovevo intraprendere un cammino in un paesaggio diverso. Riempire quel vuoto è stato – e resta – difficile. Diciannove anni dopo, non mi sento ancora del tutto completo, esattamente come quando non ero nient’altro che brama, sete e desiderio di soddisfarla. Ma ha senso. So esattamente come sarei adesso se avessi continuato fino in fondo, fino a non avere altra scelta: sarei morto. Molti dei lettori di Confessioni di un Serial Climber mi chiedono perché il mio atteggiamento sembra così cinico e cupo, perché non ho sposato le montagne con l’idealismo romantico associato all’età d’Oro e d’Argento dell’Alpinismo. Mi chiedono perché racconto esperienze così dolorose o anche perché me le sono andate a scegliere. Capisco che la loro realtà è diversa dalla mia. Forse per loro scalare è un hobby più che uno stile di vita, che non comporta i rischi e il tasso di letalità di quello che facevo io. E senza il vuoto lasciato dagli incidenti che hanno ucciso molti dei miei amici, dei miei compagni, dei miei allievi. Continuo a faticare a riconciliare la dualità del mio rapporto con la montagna: la bellezza e la serenità contrapposte al pericolo e alle conseguenze di un errore e all’inevitabile perdita. Le montagne sono belle in cartolina, da una certa distanza, e a volte anche quando siamo lì perché nascondono facilmente le loro zanne. Quando parlo o scrivo di amici che sono morti lassù, in pochi vedono le montagne come le vedo io: pietre tombali. Gli spettatori ne scorgono la bellezza. Io ho vissuto tra quelle zanne. Mi hanno plasmato. E quando sono sceso ho portato con me le loro cicatrici. Mark Twight CONFESSIONI DI UN SERIAL CLIMBER 12
Il tessuto cicatriziale, si sa, non è flessibile, è coriaceo; e quello che ho vissuto rende difficile adattarsi a un altro stile, alla ricerca di sentieri che possano accogliere i miei piedi di alpinista. Le piccole cose che consideravo con sprezzo dall’alto di una cima sono diventate la mia vita quotidiana. Dopo anni di tentativi ed errori, di speranze e disillusioni, ho imparato che quello che un tempo consideravo futile può offrire un senso di realizzazione e sprazzi di una bellezza che pensavo fosse possibile solo ad alta quota. Ho iniziato a vedere questa bellezza giorno per giorno – lungo una strada che va verso l’orizzonte, nelle vie della città di notte, al tramonto e a volte all’alba, negli occhi di una amica, o nel suo tocco, nella profondità di un gesto fisico, e nel momento di vulnerabilità che si attraversa subito dopo. L’ho vista quando sono salito su un aereo per camminare sotto un cielo a me sconosciuto. Al posto del bianco e nero del mio rapporto con la montagna ho iniziato a distinguere i toni di grigio e più tardi, qualche anno dopo, con gli occhi e il cuore finalmente aperti, ho intuito il colore, e il calore. Questo futuro, che ora è il mio presente, si può intuire nei toni più distesi che assumono le Note dell’Autore alla fine di ogni capitolo di Confessioni di un Serial Climber. Quando, quasi vent’anni fa, provavo quelle sensazioni e scrivevo quelle note non ne comprendevo la chiaroveggenza. Ma rileggendole oggi sono certo che, senza esserne consapevole, avevo intuito la rotta e la direzione. Sono felice di aver visto ciò che ho visto, e vissuto quelle esperienze su quelle montagne. Sono altrettanto felice di esserne sceso per vivere una vita piena e realizzata quaggiù. Sapere che questo resoconto scritto della mia vita precedente continua a essere significativo anche oggi tiene desto il mio interesse nella vita futura e in qualsiasi cosa io possa scriverne a proposito. Oggi cammino con una fiducia nata dalle lezioni che ho imparato sulle montagne. E mi sento sicuro perché, se quelle lezioni sono riuscite a tenermi in vita lassù, sono valide dappertutto.
Mark F. Twight Salt Lake City, Utah 24 gennaio 2019
Introduzione 13
La parete nord dei Grands Charmoz, 2 novembre 1984, Chamonix, Francia.
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IN SOLITARIA SUI GRANDS CHARMOZ Nella tua lettera mi domandi dove sono stato. Nei soliti posti di Chamonix, potrei dire. L’attesa è snervante, ma gli indigeni non se ne accorgono nemmeno. Possono permettersi di stare ad aspettare l’arrivo di buone condizioni atmosferiche. Io ho un limite di tempo, quindi per me le cose non vanno alla stessa maniera. Prima, pensavo che sarei rimasto per tutto l’inverno; non so cosa mi abbia fatto cambiare idea, ma dentro di me qualcosa si è teso fino al limite e poi è scattato. La voce interiore che avevo ignorato alla fine si è messa a gridare: «Vattene, Mark, è ora di andare a casa!»
ERA DURA, MA NON ERA POI COSÌ MALE. Il franco era debole, quindi con i miei dollari potevo comprare molte cose, e sapevo di potercela fare finché avessi trovato un lavoro. Quando sono arrivato qui da Grindelwald ho trovato tre settimane di tempo bello e di condizioni del ghiaccio anche migliori. Sono stato felice quando è tornato il normale clima autunnale. Le mie mani erano così spelate a furia di pestare le nocche sul ghiaccio che avevo bisogno di una pausa. Ho passato qualche giorno a cercare lavoro In Solitaria sui Grands Charmoz 15
Sulla Goulotte Cheré, Mont Blanc du Tacul. Foto: Ace Kvale
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L’ABATTOIR Passò un’ora prima che riuscissi a muovere le gambe. La pietra mi aveva colpito così forte che pensai che mi avesse rotto la spina dorsale. L’impatto mi fece schizzare lacrime dagli occhi. Insieme alla pietra, vidi svanire tutti i miei sogni e le mie speranze. Cominciai a cadere. Tra me e me pronunciai una serie di addii, amari quanto acidi, convinto che la mia vita sarebbe finita oscenamente spiaccicata in fondo alla scarpata. I pensieri cupi svanirono appena sentii la tensione del laccio da polso della piccozza. Frenò la caduta. La spalla non si era slogata, ma ero sicuro di essermi fatto male. Per un momento mi sentii euforico. Mi ero salvato. Avevo ripreso il controllo della situazione. Qualche secondo dopo cominciò a colarmi sangue dalla testa. Avevo la faccia color del cemento: il colore di un cadavere. Ero nei guai: a un migliaio di metri di altezza nella quiete invernale, in assoluta solitudine sul ghiaccio a 80 gradi. Il dolore mi tolse il fiato. La neve si staccava allegramente dal ghiaccio plumbeo. Il vento mi impartì una lezione sulla futilità del mio futuro. Sentii la voce primordiale delle masse di ghiaccio che mi dicevano che non ce l’avrei fatta, l’ennesimo miracolo vanificato dalle circostanze. Non volevo morire. Mi ero arrampicato su questa parete Nord per soffrire, per provare il piacere masochista di lottare per la mia vita, ma non avevo alcuna intenzione di perderla. Il bisogno di rischiare si è sempre L’Abattoir 65
annidato dentro di me, in agguato. Se non avessi assecondato quegli impulsi, se li avessi lasciati crescere senza trattenerli, sarebbero esplosi definitivamente. Sarei finito ucciso nel tentativo di tenerli a bada. Mi domandai per quanto tempo la piccozza potesse sostenere il mio peso. Riservavo alle mie preziose piccozze più attenzioni di quante ne prestassi alla maggior parte dei miei amici. Mi sentivo in colpa quando le piccozze si arrugginivano o finivano spuntate dopo qualche epica uscita in montagna. Avevo la sensazione che, quando le ignoravo, le piccozze mi disprezzassero. Anch’io disprezzavo loro, per il fatto che mi permettevano di esprimere la mia mania. Spesso le buttavo in cantina come punizione per avermi permesso di spingermi troppo oltre. In giornate come quella innalzavo lodi alla loro grandezza. Le amavo, perché erano state capaci di spingermi fino a questo punto. La pietra mi aveva colpito con una forza sufficiente a strappare dall’imbragatura il fodero del mio martello preferito. Una perdita dolorosa ma non grave come vedere la mia piccozza Chacal piazzata ben fissa sopra di me, fuori portata.
IL PROIETTILE CADUTO ERA GROSSO, credo delle dimensioni di un cestello portabottiglie. Non avevo sentito rompersi nessun osso. Provai a muovermi subito dopo il violento urto. Le gambe scattarono senza controllo. Sembravano la coda di un pesce, ondeggiavano avanti e indietro davanti al ghiaccio color terracotta macchiato di sangue. Nella tuta di Gore-Tex c’era uno squarcio di venticinque centimetri. Quando la macchia di sangue cominciò a seccarsi il tessuto si attaccò alla pelle. Non potevo vedere il livido che mi si stava gonfiando sul retro della coscia. Volarono giù altre pietre, producendo uno strepito da cose vive. Mentre il sole saliva, l’aria si riscaldava e sul ghiaccio cominciarono a formarsi rivoli d’acqua. La paura mi si rovesciò addosso dapprima in rivoli, poi in torrenti. La mia mano destra andò a tentoni alla ricerca di qualcosa di solido a cui appendermi. I sinuosi muscoli dell’avambraccio vennero colpiti dai crampi e finirono anche loro paralizzati. Né le precedenti esperienze né l’allenamento mi avevano preparato all’angosciante tormento della morte lenta e della consapevolezza della sua inevitabilità. Ho sempre pensato che sarebbe arrivata rapida come un proiettile. Non sarei mai capace di affrontare la strisciante certezza di una malattia terminale. Data la situazione, i miei occhi iniettati di sangue vennero sopraffatti dalle lacrime. Grugnii. Senza dubbio, con assoluta certezza, stavo abbandonando la vita e la cassetta che stavo ascoltando Mark Twight CONFESSIONI DI UN SERIAL CLIMBER 66
non era ancora finita. Per questa via avevo scelto la musica più tetra che potevo: sarebbe stata la scalata più dura che avessi mai fatto. Siamo bruciati e ribruciati, corpo e anima, ero tutto cenere… la comodità è sleale: dài, ficca le unghie negli occhi serrati, urla come un disperato i tuoi desideri spessi come cortine fumogene insopportabilmente vivo. Skinny Puppy «Vivo?» pensai. «Finora non potevo davvero considerarmi vivo. Ma adesso lo sono fin troppo e voglio continuare a esserlo». Temevo sempre di morire giovane. Però, dopo aver vissuto per un po’, provai un vero terrore all’idea di non poterlo più fare. Le dita dei piedi mi bruciavano, provai a muoverle una alla volta. Una fitta di dolore mi risalì lungo la gamba e l’anca, mentre negli arti intorpiditi tornava la vita. Dovetti faticare per riuscire a muovere tutta la gamba. Mi strappai via la speranza e la schiacciai sotto i piedi. Qualcosa dentro di me urlava che era ora di reagire: «Non mollare!». Mi ricordava la fisioterapia dopo che i medici mi avevano ricostruito il ginocchio. Ricordai che avevo tentato con tutte le mie forze di piegare la gamba e che non ci ero riuscito. La frustrazione era stata immensa ed ero stato tentato di lasciar perdere. Altre delusioni erano seguite ad altre battute d’arresto, ma alla fine l’avevo piegata. Dopo aver sollevato un po’ di pesi, avevo riguadagnato la speranza di poter tornare ad arrampicare. Quando provai a caricare il peso sui ramponi, la mia gamba sinistra cedette. Caddi, scalciando dal dolore, appeso alla piccozza: la implorai che mi salvasse. Decisi che potevo reggere il peso su una sola gamba. Dopo essermi stabilizzato sulle punte dei ramponi, caricandoli del minor peso possibile, guardai fisso la mia piccozza di scorta. Era necessaria alla mia sopravvivenza ed era fuori portata. L’acido lattico mi avvelenava i bicipiti contratti, che cominciavano a cedere sotto lo sforzo. Non riuscivo a estrarre dal ghiaccio la piccozza che tenevo con la sinistra, quindi non potevo piazzarla più in alto senza cadere. Provai con scarsa convinzione ad appendermici e ad afferrare quella che stava più su. Non ci riuscii. Sollevai il piede sul ghiaccio un centimetro dopo l’altro, in una continua agonia. Il dolore mi trafiggeva le gambe ogni volta che le flettevo. Rimasi contratto. Il fiato mi usciva a fatica dai polmoni. Tossii. Ebbi l’impressione che dentro mi si stesse strappando qualcosa. Ruggii di rabbia, furibondo per la mia debolezza. Raccolsi le forze, pompai i muscoli, ignorai i crampi e mi protesi verso il laccio della Chacal, ma il Barracuda uscì con uno strappo dal ghiaccio. L’Abattoir 67
sicura. Ero furibondo. Non m’interessa quanto sia facile un passaggio, sulle vie alpine difficili io piazzo protezioni ovunque sia possibile, perché quando ne ho davvero bisogno, spesso non ce la faccio. Piazzo sempre più di un ancoraggio che mi impedisca di finire al suolo. Non c’è ragione per non assicurarsi in modo adeguato. Con il passare dei minuti la rabbia aumentava. Chucky ci stava mettendo troppo tempo. A questa andatura non saremmo mai arrivati in prossimità della cima prima che facesse buio. Tranne farsi da parte e lasciarmi andare da primo, Chucky non avrebbe potuto far niente per placarmi. Sperai per il suo bene che gli capitasse un tiro troppo difficile anche per andare da secondo. L’unica cosa che mi trattenne dall’esplodere fu il modesto margine di sicurezza che avevamo. Dopo 2 ore e 15 minuti, Chucky si appese in sosta su due chiodi e un nut ficcati in una roccia che non dava troppe garanzie. Mi mossi dalla sosta e scalai il tiro da secondo pensando più al mio partner che ad arrampicare. Aveva fatto le Big Wall dello Yosemite, era un free-climber di quelli tosti e aveva aperto alcune belle vie in Himalaya. Il Trident Peak era facile, in confronto al Khan-Tengri, quindi due ore per un tiro non erano accettabili. Quindici minuti dopo gli strappai di mano senza complimenti la bandoliera con i ferri. Salii su quel tiro astruso tirando un cordino su una vite, piazzando un nut in orizzontale, un rinvio su uno spuntone non troppo saldo e un friend rovesciato. Alla fine della corda, mi inclinai con un angolo di tre quarti di pollice e le orecchie continuavano a fischiarmi senza pietà quando Chucky mi raggiunse a forza di ramponi e mi disse: «Chapeau, par-ce-que c’etait pas facile» («Complimenti, non era affatto facile»). Quel tiro non era stato facile, riflettei, ma non era neanche difficile. Prima di allora, io e Chucky avevamo arrampicato insieme solo una volta. Ero al cospetto di un tratto che avevo già notato in molti alpinisti francesi. Molti di loro non piazzano una cazzo di protezione nei posti strani, perché si sono fatti le ossa sugli spuntoni di granito dalla forma pressoché perfetta del massiccio del Monte Bianco. La maggior parte delle vie è cosparsa di attrezzatura fissa. Senza ombra di dubbio, Chucky è velocissimo quando si tratta di arrampicare dritti e precisi. Non a caso è salito a razzo sul ghiaccio a 60 gradi di una gola. Mentre gli davo corda, soppesai le parole che gli avrei detto alla sosta successiva. Dalla radio arrivarono le voci di Ace e John, posticipando il discorsetto con Chucky. Ci descrissero con precisione la nostra situazione. Vedendoci attraverso le lenti da 600 millimetri, avevano valutato che ci aspettassero ancora due tiri difficili; poi un facile traverso sul ghiaccio ci avrebbe Mark Twight CONFESSIONI DI UN SERIAL CLIMBER 112
Michel Fauquet pulisce i vetri del treno Mosca-Alma Ata. Io faccio la parte dello sgabello, John Falkiner fornisce sostegno morale. Foto: Ace Kvale
permesso di evitare la roccia in strapiombo che circondava la vetta. Erano le quattro e mezza del pomeriggio e la temperatura era a -29°C, due settimane dopo il giorno più breve dell’anno. Trovare la via era già problematico alla luce del giorno. Non avevo intenzione di provarci con la lampada frontale. Non avevamo portato l’attrezzatura da bivacco.
DOVEVAMO SCENDERE, ERA OVVIO. Non avevo nessuna voglia di discutere, invece passammo venti minuti proprio in quella maniera. Quando arrampico da solo, ho il potere assoluto. In montagna la democrazia è una perdita di tempo, ma Chucky voleva mettere al voto le decisioni… Alle 10 di sera arrivammo al campo base, dopo nove doppie da paura su chiodi piantati alla bell’e meglio e Controvoglia 113
arrampicate in Nepal, ma la gente, il paese, e la sensazione di essersi imbarcato in una grande avventura eccitavano Jean-Christophe. Spiega che oggi ci tornerebbe «sia per vedere la gente e il paese, sia per scalare». Ha passato gran parte degli anni di gioventù tra camminate in montagna e campeggio e ha volontariamente bivaccato su molte delle vie che ha scalato – una rarità, per gli alpinisti francesi di oggi – , quindi vivere in una tenda gli riusciva facile. Aspettava che il maltempo se ne andasse ascoltando musica classica col walkman, leggendo e facendo lunghe camminate per sentire la montagna. Pierre Beghin aveva pensato che quella nuova e difficile via, scalata in stile alpino, avrebbe segnato la sua uscita in grande stile dall’Himalaya e che sarebbe stata una delle sue ultime spedizioni sulle grandi montagne. Si era preparato con le sue precedenti scalate, la solitaria del Kangchenjunga, poi K2, Dhauligiri, Jannu, e il Manaslu in stile alpino. La scalata in solitaria dei 1500 metri finali di duro terreno tecnico sul versante Sud del Makalu poteva essere considerata il suo migliore risultato.
I DUE AVEVANO SCALATO DI NOTTE LA SEZIONE INFERIORE della parete, per evitare l’incredibile caduta dei massi provenienti dalla fascia rocciosa. Pietre vaganti cadevano in continuazione durante il giorno, ma la notte smettevano di colpo: «Un bombardamento impressionante. Non avevo mai visto, né sentito dire di niente del genere» (Alex MacIntyre è stato ucciso da una pietra vagante, mentre affrontava quella che sarebbe poi diventata la Via catalana sulla stessa parete.) L’iniziale terreno di ghiaccio e misto saliva per 1500 metri, su 55 gradi continui e passi di 90 gradi. A 6600 metri Pierre lasciò centocinquanta metri di corda fissa per facilitare la discesa, ma a parte quelli, avevano arrampicato in puro stile alpino: in solitaria simultanea e portandosi tutto sulla schiena. La ripida parete offriva scarsi siti da bivacco. Il terzo giorno Jean-Christophe e Pierre raggiunsero una striscia di curiosa roccia himalayana: «Sembravano mattoni, o i vassoi dei bar impilati uno sopra l’altro. Non del tutto mobili, anzi a tratti sorprendentemente compatti». Dov’era possibile arrampicavano in libera, bypassando delle sezioni di strapiombo su ghiaccio e di duro terreno misto. Incontrarono un tetto obbligato di A2/A3. «Uscendo da una parete dall’aria cattiva arrivammo su una perfetta cascata ghiacciata, alta 25-30 metri». Stando alle loro foto, a sette tiri dalla fascia rocciosa avrebbero dovuto trovarsi su una cengia al di sopra della cascata, a 7300 metri. Invece si trovarono di fronte una pendenza di 70 gradi, Mark Twight CONFESSIONI DI UN SERIAL CLIMBER 166
Jean-Christophe Lafaille sulla parte nord delle Grandes Jorasses.
Il Punto di Riferimento: Intervista a Jean-Christophe Lafaille 167
di ghiaccio duro e nero. Non potevano scavare un terrazzino per la tenda, dovevano bivaccare appesi alle imbragature. Il vento rendeva impossibile accendere il fornelletto, quindi avevano passato senza cibo quella lunga notte amara. «È stato tremendo, e ci ha tirato fuori tutto. Per fortuna siamo riusciti a infilare buona parte dei nostri corpi dentro i sacchi a pelo». La mattina dopo salirono arrampicando fino a 7500 metri, «con 150 metri di arrampicata facile, riuscivamo a vedere dove l’inclinazione diminuiva». Lottarono contro le ultime difficoltà prima che la pressione atmosferica in rapida discesa finisse in tempesta. Il vento e i mulinelli li bloccarono al gelo. Decisero che era il caso di scendere. Stravolti e leggermente fuori di testa, i due dovettero prendersi grossi rischi su ogni discesa in doppia. A un certo punto Pierre voleva scendere appeso a una sola vite da ghiaccio, ma Jean-Christophe martellò nel ghiaccio una delle sue piccozze per sostenerlo. Dopo altre due doppie, Pierre piazzò poco più su dell’altezza della spalla il chiodo che gli avrebbe permesso di calarsi su un terreno meno inclinato. Rinfoderare piccozza e martello era una manovra troppo complicata. Contrariato, allungò la piccozza a Jean-Christophe, il quale stava in piedi su una stretta cengia, troppo distante per raggiungere il chiodo. Con l’esperienza di anni stordita dalla stanchezza, dalla confusione, dalla tempesta e dalla necessità di scendere in fretta, Pierre si appese su un solo chiodo senza nient’altro di supporto. Il chiodo si ruppe e lui cadde. Jean-Christophe lo guardò sconvolto, ma certo che «si sarebbe fermato. Anche se era molto ripido, credevo che sarebbe riuscito a fermarsi… Non dimenticherò mai di averlo pensato». Era solo. La tempesta rinforzava. Quando si rese conto che «salire sarebbe stato impossibile», Jean-Christophe scese arrampicando su un terreno misto relativamente difficile, fino all’ultimo bivacco che avevano fatto, raggiungendo i venti metri di corda che avevano lasciato a 7000 metri. Passò quarantotto ore in quel posto a rimettersi in forze, mentre la tempesta si sfogava. Finì il cibo, e gli rimase poco gas per il fornelletto. Durante quelle ore, fece dei piani con la scaltrezza istintiva che tiene in vita gli uomini braccati. Si immaginò che «una volta che avessi recuperato la corda di scorta, i chiodi e il gas lasciati a 6500 metri, sarebbe stato semplice scendere in doppia e tenermi lontano dalla frana». Il pomeriggio seguente, durante le intermittenti schiarite, fece marcia indietro, a tratti scendeva arrampicando e a tratti in doppia. Dopo la caduta di Pierre, a Jean-Christophe rimanevano due moschettoni, un discensore e due piccozze. Fissò le corde da doppia su tutto quello che aveva: i paletti della tenda furono i primi ad andarsene. Usando il martello li ruppe in due finché Mark Twight CONFESSIONI DI UN SERIAL CLIMBER 168
gli riusciva, e gli sembrò che potessero funzionare. La sua lunga esperienza di scalate in solitaria (e di relative discese) sulle vie alpine gli permise di affrontare con freddezza tutti i problemi che si presentavano, di trovare una soluzione, e di metterla in pratica senza perdere la testa. «La sintesi di tutto quello che avevo fatto negli ultimi dieci anni – e soprattutto le arrampicate in solitaria – mi tirò fuori da quella situazione. Comunque, facevo fatica a costringermi a proseguire. A 7000 metri mi sono quasi bloccato, perché avevo paura: paura di cadere». Circa 150 metri sopra la rampa che lo avrebbe condotto alla corda fissa, Jean-Christophe perse un rampone. Rotolò via e scomparve dalla vista. Continuò a scendere arrampicando, scivolando su un piede e poi stabilizzandosi con una piccozza e l’altro piede. In cima alla rampa, ritrovò il rampone che spuntava dietro a un ghiacciolo. Si era fermato nella neve morbida. Appendendosi alle piccozze, lo recuperò: «Fu il segno che ce l’avrei fatta, che le cose si stavano mettendo per il verso giusto». Raggiunse la corda, una sezione fissa da cinquanta metri, e scese in doppia. Mentre era fermo al primo punto di sosta, una pietra cadente lo colpì all’avambraccio destro, provocandogli una frattura composta a entrambe le ossa. Si gonfiò all’istante, riempiendogli la manica della giacca: «Quando avevo trovato la corda ero euforico, perché avevo capito che sarei sopravvissuto. Dieci minuti dopo ero sprofondato nella depressione più nera… Non credevo più di farcela a uscire da quel posto». Continuò a scendere fino al bivacco a 6500 metri, dove passò un’altra notte insonne: «Non potevo fare diversamente. Stavo finendo le riserve. Mi stesi nel sacco a pelo, e pensavo che stavo soffrendo troppo. Avevo dato tutto quello che avevo, ma avevo perso. Era un pensiero assolutamente spassionato, non comportava alcun giudizio. Sapevo che mi bastava fare mezzo giro dalla parte del campo base, sarei finito fuori dalla cengia, e tutto sarebbe finito. Lo pensai senza provare alcuna emozione».
LA MATTINA DOPO SI LEVÒ UN SOLE BRILLANTE E CALDO. Jean-Christophe passò la giornata a mangiare, bere e ricaricarsi. Durante la notte le condizioni del suo braccio non erano peggiorate e, siccome la speranza è l’ultima a morire, provò di nuovo la sensazione che poteva farcela. Col calore del sole, quando cessarono le frane, Jean-Christophe riprese a scendere: «Pensavo a Doug Scott e Joe Simpson e mi immaginavo quei due, che avevano dato tutto, e poi ancora di più. Avevano continuato a lottare e non avevano Il Punto di Riferimento: Intervista a Jean-Christophe Lafaille 169
Le forti raffiche di vento ci spruzzarono mulinelli di neve contro gli occhiali di protezione. Avevamo troppo freddo per continuare ad arrampicare sotto la morsa di quel vento, quindi ci fermammo al riparo di un grande masso, nella speranza che al levar del sole il vento si placasse. Io e Steve scavammo a tutta forza per un’ora. Scott ci guardava con lo sguardo vuoto, era troppo spossato per fare la sua parte. La situazione stava rapidamente andando a rotoli. Alla quarantottesima ora i fornelletti esalarono l’ultimo sibilo, poi rimasero senza gas. Il loro silenzio fece sprofondare le mie fantasie in un buco nero. Avevamo otto litri di acqua tiepida per arrivare alla cima e scendere per 3300 metri fino alle nostre scorte, ma non avevamo idea di quanto tempo ci sarebbe voluto. Poi Steve diede di stomaco, vomitando nella neve 500 calorie e due litri d’acqua. «Merda», pensai, «è rovinato». Gli domandai se si sentisse bene. «Già», rispose pulendosi il mento, «stavo solo ridefinendo la mia consapevolezza».
NON POTEVAMO FARE MARCIA INDIETRO né prendere una via di fuga laterale. Non avevo idea di quanto potessimo salire ancora prima che il Denali ci inghiottisse definitivamente. Il freddo mi aveva reso insensibili le dita dei piedi e, mentre la sensazione di gelo mi risaliva lungo le gambe, riuscii ad ammettere con serenità che forse stavolta eravamo saliti troppo leggeri. Accecati dall’istinto di sopravvivenza, non riuscimmo a goderci lo splendore dell’alba. Era una bellezza che avrebbe attraversato anni di ricordi, ma vedere il sole in quel momento per noi significava soltanto che finalmente le nostre giacche erano abbastanza calde. Con il gelido crepuscolo dell’A laska a diciotto ore di distanza, Scott e Steve schiacciarono un pisolino. L’incertezza dello sforzo che ancora ci restava da compiere mi tenne completamente sveglio. Dopo quindici minuti cominciai a preparare lo zaino, pronto a chiudere la partita: a vincere, o forse a morire nel tentativo. Per prima cosa devi avere in mano un martello, ma devi sentirtelo dentro, sei capace di piantare quel chiodo? Siete in tanti allineati su quella riga, ma pochi la oltrepassano… Parlare è una cosa, uccidere un’altra. Henry Rollins, On the Day Mi allontanai dalla cengia scalando un altro sorprendente tiro di misto. Faccia a faccia con il bordo superiore di Big Bertha, mi assicurai su quattro chiodi Mark Twight CONFESSIONI DI UN SERIAL CLIMBER 258
Scott Backes a 5150 metri da secondo sul duro tiro finale della Diretta ceca sul Denali, Alaska
collegati con un cordino. I miei compagni mi raggiunsero rapidamente. La pendenza si addolcì, così aumentai il ritmo di arrampicata pur con le becche ormai smussate; finii la corda, e urlai agli altri di muoversi al mio passo mentre continuavo a piantare le piccozze. «Cosa ne facciamo di questo ancoraggio?». «Lasciatelo. Tanto abbiamo finito», risposi urlando. Prima di cominciare l’arrampicata, per scherzo avevo detto che gli ultimi 1200 metri sarebbero toccati a me, «visto che voi non sareste comunque in Spiegazione di un Atteggiamento Elitario: La Consapevolezza di Sé sulla Diretta Ceca del Denali 259
«Perlopiù la letteratura di montagna sembra un incrocio tra la patologia legale e gli insulsi fumetti degli Hardy Boys. Come la musica punk ha aperto uno squarcio nel rock moribondo degli anni Ottanta, così la scrittura punkeggiante di Twight ha restituito l’anima alla letteratura dell’arrampicata. Una copia di Confessioni di un serial climber vale cento volte tutte le schifezze scritte sull’Everest messe insieme».
Will Gadd, visionario dell’arrampicata mista
«Gli scritti di Twight possono essere perigliosi quanto le vie che ha scalato. Mi è piaciuto leggere cose che non mi sarei mai azzardato a scrivere. È un racconto dettagliato, di crudele schiettezza, e talvolta scomodo del prezzo che ha pagato per arrampicare ai massimi livelli». John Bouchard, profeta dell’arrampicata su ghiaccio e iconoclasta dell’alpinismo
€ 19,90
ISBN 978 88 85475 755