SHIVA’S LINGAM. Viaggio attraverso la parete Nord–Est

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Enrico Rosso

con brani dal diario di Fabrizio Manoni

SHIVA’S LINGAM

Viaggio attraverso la parete Nord–Est

EDIZIONI VERSANTE SUD | I RAMPICANTI



SHIVA’S LING AM


2018 Š VERSANTE SUD S.r.l. Via Longhi, 10 Milano Tutti i diritti riservati 1a edizione ottobre 2018 www.versantesud.it ISBN: 978 88 85475 373


ENRICO ROSSO

SHIVA’S LINGAM

Viaggio attraverso la parete Nord–Est

EDIZIONI VERSANTE SUD | COLLANA I RAMPICANTI



“Il vero luogo natio è quello dove per la prima volta si è posato uno sguardo consapevole su se stessi” Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano

Il monte Shivling visto dal campo base di Tapovan. Foto: arch. Rosso-Manoni


INDICE Prefazione 11

Ritorno a Gangotri Il sogno e la realtà Dio è nei dettagli Passaggio in Garhwal L’azione dissolve i dubbi Verso Antares La salvezza passa per la cima La vetta è ai piedi della montagna Dopo il ritorno

15 23 39 47 65 79 93 111 123

Ringraziamenti 127


Qui sopra, dopo la nevicata, il campo base di Tapovan 4300 m e la vetta dello Shivling. Illustrazione: Placido Castaldi Nelle pagine successive, lo Shivling di notte visto dal campo avanzato del Bhagirathi IV. Foto: Arianna Colliard




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PREFAZIONE Enrico Rosso racconta un’avventura fantastica, una storia che supera l’immaginazione. Ci sono anche le difficoltà, i rischi, gli incidenti di percorso e un finale che sembra un giallo del terrore, ma l’aggettivo fantastico si riferisce proprio alla fantasia, cioè a quella capacità visionaria che è dei giovani, degli incoscienti e degli innamorati. Di nessun altro. Siamo negli anni Ottanta del Novecento, prima di internet e dell’alpinismo in diretta. Vuol dire che la fantasia galoppa ancora su fotografie imperfette, relazioni misteriose, consigli vaghi, suggestioni e voci. Scalare in Himalaya è un salto nel vuoto, un’avventura totale, anche perché i soccorsi sono praticamente impossibili. I protagonisti di questa leggerissima spedizione allo Shivling, tra le montagne più belle e difficili del mondo, inseguono lo spirito anni Settanta di Joe Tasker e Peter Boardman sul Changabang, una scalata pazzesca e un libro magnifico, imitandoli per un soffio, prima che i computer e gli elicotteri cambino le regole e sfumino gli orizzonti. Tasker e Boardman sono tra i primi ad affrontare grandi difficoltà in stile alpino e i protagonisti di questa storia sono tra gli ultimi, non tecnicamente, culturalmente, con quell’animo indocile e ribelle che si nutre di solitudine e mistero. Negli anni Ottanta l’alpinismo è già completamente cambiato sulle Alpi, dove lo spirito sportivo ha preso il sopravvento. Si frantumano i record di Prefazione 11


difficoltà e velocità, spazzando inibizioni e tabù. Atleti come Profit ed Escoffier riescono a concatenare in una manciata di ore le pareti nord di Eiger, Cervino e Grandes Jorasses spostandosi con l’elicottero. In Himalaya non è così, soprattutto nelle zone meno frequentate. Non sono più i tempi dei pionieri ma esiste ancora un approccio pionieristico, nel senso che si tentano avventure mai tentate, si sperimenta, s’inventa, si rischia di sbagliare. I progressi tecnici e i nuovi materiali aiutano, ma il contesto è antico, decisamente avventuroso. Il libro di Rosso è un classico racconto di spedizione che si legge come un libro di avventure, uno di quei libri con la copertina di cartone che lasciavano i ragazzi inchiodati alle pagine impedendogli di staccare gli occhi. Non sono i virtuosismi letterari, non è la sceneggiatura sofisticata, è quello spirito di incertezza e mistero che ha segnato la storia dell’alpinismo e che probabilmente è la sua sostanza, la sua unica forza, l’incorreggibile vocazione. In questo senso il libro di Rosso ci porta anche a riflettere sul nostro tempo e sulla crisi dell’avventura, o sulla sua banalizzazione. Ha ancora un senso la parola avventura? Le prime voci che escono su internet sono “parco avventura”, un percorso artificiale, e “Avventure nel mondo”, un’agenzia di viaggi. Il patinato mondo della safety and security non prevede zone d’ombra. L’unica “avventura” prevista è quella programmata e sicura, cioè il suo contrario. Sarebbe il caso si rifletterci, perché è la prima volta che l’uomo si trova a corto di avventure. Enrico Camanni

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Prefazione 13


Shivling, parete Nord–Est.Foto: foto arch. Rosso-Manoni

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IL SOGNO E LA REALTÀ Nella primavera del 1985 Manetta stava svolgendo il servizio militare, gli telefonai e gli proposi il progetto. Accettò con entusiasmo, si congedò e iniziammo assieme l’avventura. Manetta è un tipo d’azione e poche parole, con grande grinta e ambizioni alpinistiche. Un lavoro fisso, in quel periodo, non faceva per lui, non collimava con le sue esigenze di aspirante alpinista professionista. Lavorare a tempo pieno non gli avrebbe permesso di dedicarsi alla montagna, ma un reddito era indispensabile. Quando ci trovammo per la prima volta a Biella, questo era il principale problema che affliggeva il mio socio. Dal diario di Manetta: Fui molto contento di apprendere del successo di Enrico sulle Ande Peruviane. Ero molto attratto dai quei luoghi esotici, viaggiare e scalare montagne all’altro capo del mondo erano i miei più grandi desideri. Quell’estate ero impegnato per i corsi guida e a racimolare i soldi necessari facendo qualche lavoretto saltuario. Trovai lavoro presso una piccola azienda che faceva disboscamento. Era un lavoro faticoso e mi feci le ossa con persone piuttosto rudi, forgiate dalla vita nei boschi, con la motosega in mano per 10 Il sogno e la realtà 23


ore al giorno. La camera da letto comune era invasa dal fumo delle sigarette e dall’odore di miscela che impregnava i vestiti. Nel settembre del 1984 partii per il servizio militare. Fu un anno difficile, feci molta fatica ad adattarmi alle regole militari e mi mancava terribilmente la libertà di andare in montagna come e quando volevo io. Cercavo di tenermi in forma e ad ogni licenza ne approfittavo per allenarmi. Il mio animo era inquieto e le mie reazioni illogiche e ribelli, fui fortunato a non finire al carcere militare a causa di qualche baruffa con altri commilitoni e addirittura con un ufficiale. Durante un fine settimana ero in punizione, obbligato a restare in caserma; scappai eludendo la sorveglianza alla porta carraia. Ero deciso a disertare. Fu grazie ad un ufficiale di complemento, un giovane torinese che mi aveva preso in simpatia, che mi salvai. Telefonò a casa dei miei dove mi ero temporaneamente rifugiato e mi pregò di rientrare. Avrebbe coperto in qualche modo la mia assenza, ma se non tornavo avrei messo di mezzo anche lui così feci ritorno furtivamente. Quando un anno dopo lasciai per sempre alle mie spalle il cancello della caserma, mi sentii pervaso da un’incredibile energia. Finalmente la libertà, le montagne erano lì ad aspettarmi. Per ipotizzare una via di su quella parete così articolata e difficile in ogni settore, iniziammo con lo studio del materiale fotografico a disposizione. Volevamo una spedizione leggera e ci saremmo preparati per una progressione in stile alpino. L’altezza approssimativa della parete fu stimata in 1400/1500 m, per cui calcolammo sei giorni di scalata. Il nostro obbiettivo presentava quattro settori principali: lo “zoccolo”, il pendio mediano, lo “scudo” e la calotta sommitale. Ciascun settore era alto circa 400 m tranne la calotta sommitale di neve e ghiaccio alta circa 300 m. La linea di salita che avevamo ipotizzato partiva nel settore più basso dello zoccolo, sulla sinistra della parete, quindi proseguiva obliquando leggermente a destra, lungo il pendio mediano, fino allo scudo che avremmo tentato sulla sinistra. A metà dello scudo un’evidente cengia prometteva un buon bivacco, ideale per affrontare la parte più difficile della salita. La cengia, inoltre, sembrava permettere un’agevole traversata orizzontale sotto la parte più compatta dello scudo, dandoci la possibilità di scegliere il punto d’attacco più opportuno. Il piano era di sbucare sulla parte finale della cresta est e di lì accedere alla calotta sommitale. Enrico Rosso SHIVA’S LINGAM 24


bivacco 8

Cresta Est

Calotta sommitale

bivacco 7

Scudo

(seconda parte) bivacco 5/6

Cengia mediana Scudo

(prima parte) bivacco 4

bivacco 3

Pendio centrale

bivacco 2

bivacco 1

Pareti di ghiaccio e misto

Zoccolo

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Dal diario di Maria: Domenica 1 giugno. Avete lasciato qui la farmacia e sto pensando come farò a trasportare il paccone al campo base. Dal diario di Manetta: Ero estasiato dall’India: un’ubriacatura di persone, colori e odori che mi inebriava e trasmetteva pace allo stesso tempo. Per entrare ancora più nello spirito locale mi comprai alcuni vestiti indiani. In Italia, pochi giorni prima di partire, avevo tagliato i capelli piuttosto corti ma giunto in India me li feci rasare a zero, lasciando solo una cresta. Attratto da tutto quel mondo nuovo che mi circondava mi stavo dimenticando della scalata. Enrico invece era sempre sul pezzo e concentratissimo. Lo disturbava tutto ciò che poteva rallentare la spedizione, specialmente la burocrazia. Era come una corda di violino, ma gestiva bene lo stress senza mai andare in escandescenza, come probabilmente avrei fatto io nella sua condizione. Ogni tanto incappava in episodi tragicomici che a me e Berna divertivano un sacco.

LUNEDÌ 2 GIUGNO. Partiamo all’alba. La strada inizia a salire i primi contrafforti dell’Himalaya costeggiando il corso del fiume che, via via, si fa sempre più impetuoso. Alle 16 arriviamo a Uttarkashi, l’ultima città prima di Gangotri, e l’autobus si ferma in stazione. Per far uscire i passeggeri degli ultimi sedili dobbiamo scendere tutti. Approfitto della sosta per fotografare e mi perdo dietro a tante belle inquadrature. Pochi minuti dopo torno alla realtà accorgendomi che il bus è già in movimento. Le porte sono ancora aperte, corro e salto su al volo. In quel momento, senza stabilità, un improvviso scossone mi sbatte contro un pezzo di lamiera staccatosi dagli interni del bus. Sento una forte fitta alla schiena. Mi aggrappo con una mano ad una maniglia, contraendomi dal dolore, e con l’altra, in un moto di nervoso, mollo un pugno a caso prendendo in pieno un vetro che va in frantumi. Fortunatamente mi procuro solo qualche piccolo taglio. È la prima volta che mi saltano i nervi, sono mortificato e chiedo scusa ai compagni e all’autista che esige un adeguato rimborso. Con quel gesto avrei potuto pregiudicare la spedizione. Poco dopo ci sistemiamo nella guest house. Nel pomeriggio Narpat ci accompagna orgogliosamente a visitare il Nehru Institute of Mountaineering di Uttarkashi. Il taxi ci conduce attraverso i freschi boschi di conifere sopra la città, finché arriviamo all’entrata dell’istituto. Un viale conduce al fabbricato Enrico Rosso SHIVA’S LINGAM 54


Riparazione del pneumatico del bus sulla strada per Gangotri. Foto: arch. Rosso-Manoni

Passaggio in Garhwal 55


principale, intorno vi sono gli acquartieramenti degli allievi. Sembra una caserma. Un responsabile ci accoglie cordialmente, ci offre una tazza di chai e ci fa visitare un’esposizione di materiali alpinistici storici. Alla fine della visita, salutandoci, ci regala una bandierina indiana da portare in vetta e chiede di tornare a depositare una relazione della nostra spedizione. L’alpinismo indiano ha ancora un’impronta militaristica: la montagna viene attaccata, conquistata e sulla vetta è immancabile il rito della bandiera. La sera Raju ci porta in un ottimo ristorante vegetariano. – Qui cucinano benissimo i vegetali perché siamo in zona di pellegrinaggio e non si mangia più carne. I pellegrini, generalmente, fanno di Uttarkashi il loro campo base per il “Chota Char Dham”, il circuito dei quattro santuari. Gangotri, a una distanza di circa 95 km da Uttarkashi, è la seconda tappa del pellegrinaggio –, ci spiega. Diario di Maria: Lunedì 2 giugno. La sede della Travel House dista 48 rupie dall’Hotel. Speriamo nel permesso, oggi! Adesso sono assalita da un altro problema: l’ufficiale è con me e voi avete i suoi vestiti! Dio mio che pasticcio!

MARTEDÌ 3 GIUGNO. La mattina, nuovamente all’alba, partenza da Uttarkashi per Gangotri. Finalmente si respira aria di montagna! Tornante dopo tornante, acquistando velocemente quota, risaliamo la magnifica valle del Baghirati. Vi sono molte installazioni militari ed è proibito fotografare, ma Placido inizia a tradurre il viaggio sulla carta in tratti di pastello. Un’ultima curva e la strada carrozzabile finisce davanti a Gangotri. Il nostro ultimo approdo in autobus è un piccolo villaggio a 3048 m d’altezza, costruito lungo un tratto del fiume Bhagirati. Alla fermata del bus troviamo diversi uomini che si propongono come portatori. Raju e Narpat prendono subito accordi per il trasporto dei carichi al campo base. Poco dopo sistemiamo i carichi in un lodge per pellegrini dove passeremo la notte. Il pomeriggio sarà dedicato a visitare il villaggio. Abitato da circa 600 residenti, nella stagione dei pellegrinaggi, Gangotri arriva anche a 40.000 presenze al giorno. Ovunque ci sono ashram, lodge e templi. Nonostante la folla, su tutto domina un’atmosfera di tranquillità. È un ambiente coinvolgente e suggestivo. Le pendici dei monti sono coperte da boschi di conifere segnati da bianchi corsi di torrenti che vanno ad alimentare il Baghirati, il quale si esibisce in alcune impetuose cascate. Siamo Enrico Rosso SHIVA’S LINGAM 56


circondati da montagne granitiche alte oltre 4000 metri. L’atmosfera è così permeata di religiosità che ogni azione diventa preghiera. Gangotri ha un fascino mistico, chi arriva non può non essere contagiato dall’aura di santità che permea il luogo. Questo piccolo villaggio ha un’immensa importanza religiosa poiché, poco avanti nella valle, gli hindu immaginano ci sia la sorgente del più santo tra i fiumi, il Gange. La via principale conduce al tempio dedicato alla dea Ganga, eretto vicino alla pietra sacra chiamata “Bhagirath Shila”. Si racconta che lì, per secoli, il re Bhagiratha condusse una severa penitenza per soddisfare la dea Ganga e assolvere i peccati dei suoi predecessori, riuscendo infine a purificarli. Finalmente la dea si manifestò per scendere sulla terra in forma di fiume, ma la terra non poteva sostenere l’immenso flusso di Ganga: vi sarebbero state terribili inondazioni. Shiva, per scongiurare l’impatto devastante, decise di fare scorrere il fiume attraverso i suoi capelli. Da quel momento in poi, per gli hindu, il Gange scorre assolvendo i peccati dell’umanità e il flusso originale è stato riconosciuto nel fiume Bhagirathi. Per noi è la via da seguire per arrivare allo Shivling. Nella piccola piazza principale, antistante il tempio dedicato a Shiva, ci sono le cappelle di Ganesh (il Dio elefante) e del toro Nandì, quest’ultimo con il lingam (shivling) sulla schiena. Narpat ci spiega tutto con dovizia di particolari. Vaghiamo a caso per il villaggio chiedendo dell’ashram di Swami Sundaranand, il famoso asceta, alpinista e fotografo del quale abbiamo sentito parlare. Vorremmo chiedere anche a lui della nostra montagna. La gente che interroghiamo ci dice che non c’è, è salito temporaneamente a Kedartal, sotto la magnifica piramide del Thalay Sagar. Tornati al lodge, ci vengono distribuite pesanti trapunte imbottite, questa notte condividerò il letto con Narpat. È pomeriggio inoltrato: Maria non arriverà neanche stasera. Dal diario di Manetta: Con l’arrivo a Gangotri la nostra meta è vicina. Lo Shivling è nascosto là, da qualche parte in fondo alla valle del Baghirati. Io continuo ad essere in una sorta di torpore mistico. Durante il giorno abbiamo visitato alcuni templi e le bellissime cascate. Ci fermiamo spesso nei caratteristici locali per berci un chai servito con gli immancabili biscotti al cocco. Quando viene sera, mentre Enrico e Placido vanno a riposare, io e Berna accettiamo l’invito a sederci con un folto gruppo di anziani, all’interno di una costruzione circolare con i muri in pietra e il tetto in paglia e lamiere annerite dal fumo. È bassa e angusta. Ci intratteniamo con quei personaggi dall’aspetto esotico, con barbe bianche lunghe e fluenti, apprendendo che arrivano dalle Passaggio in Garhwal 57


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Berna e Manetta durante le prove di bivacco alla roccia di Oropa Bagni, nei pressi di Biella. Foto: arch. Rosso-Manoni

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Nelle pagine precedenti, nel caos di Delhi. Qui sopra, Maria e un “Baba”. A destra, in alto, nel caos di Delhi. A destra, in basso, Placido e Berna in moto-risciò. Foto: arch. Rosso-Manoni

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Trekking verso il campo base, sullo sfondo il gruppo dei Bhagirathi. Foto: arch. Rosso-Manoni

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La prima parte della parete Nord-Est con le fasce di roccia, ghiaccio e misto dello “zoccolo” e il “pendio mediano”. A sinistra la “pinna” della cresta Est. Foto: arch. Rosso-Manoni

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VERSO ANTARES Domenica 15 giugno. Suona la sveglia, sono le tre e questa volta i denti mi hanno concesso una notte tranquilla, sono solo un po’ stordito dalle massicce dosi di novalgina. Maria, rannicchiata nel suo sacco-letto, si gira dall’altra. Placido è già in piedi e si aggira impaziente per le tende. Sembra che debba partire lui. Raju e Vishan, nella tenda cucina, preparano rumorosamente la colazione, sento il fornello che rantola ritmicamente. Resto rannicchiato ancora un attimo nel sacco-letto, poi realizzo che devo uscire, gli altri sono già attivi. – Ehi Maria! È ora, partiamo! Le do uno strattone, ma lei risponde con una specie di grugnito. Ci rimango un po’ male, mi aspettavo qualcosa di più e mi alzo contrariato da questa scarsa dimostrazione d’affetto. Apro la zip della tenda e osservo la montagna. Vedere la mole scura nella notte, stagliata nel cielo stellato, mi fa pensare a un palcoscenico vuoto prima della rappresentazione. Poco dopo ci troviamo tutti nella tenda del cuoco. Durante la veloce colazione scambiamo poche parole. Ciascuno di noi se ne sta chiuso in se stesso cercando di godersi quegli ultimi momenti di calore e comodità. Ultimati gli ultimi preparativi, in piedi con gli zaini a spalle, ci accomiatiamo dagli amici. Saluto Maria sulla soglia della tenda. Non si è alzata. Placido entra nella tenda Verso Antares 79


e si dispone seduto davanti all’apertura per guardarci partire e registrare nella memoria, con pochi schizzi su un foglio, la scena da cui poi nascerà un dipinto. Dal diario di Placido: Stamattina, alle quattro, sono partiti i ragazzi. Era ancora buio e Antares brillava di luce rossa sulla testa dello Shivling. Ci siamo salutati e poi non si sono viste altro che tre piccole luci ballonzolanti sotto l’enorme mole scura dello Shivling. Sono rimasto a lungo a guardare quelle luci nell’immenso spazio buio e silenzioso.

Ci incamminiamo lentamente verso il campo alto, non c’è fretta, ormai siamo acclimatati e procediamo regolarmente, abbiamo il tempo necessario. Dobbiamo salire 700 m di dislivello prima che il sole scaldi la neve rovinandone la portanza. Ciascuno sale per i fatti suoi, scegliendosi l’itinerario a piacimento, silenzioso, chiuso in se stesso, nei propri pensieri. Cammino lentamente, ultimo dei tre perché mi sono attardato per andar di corpo. Le luci dei compagni sono sono già lontane. Le emorroidi mi dolgono terribilmente e sanguinano, ma sono ben fornito di medicinali e anche dei pannolini di Maria. Avrei voglia che tutto fosse già finito. Quattro ore più tardi, alle 7:30, raggiungiamo la base del canale di ghiaccio sotto il campo-deposito. Continuiamo a salire e sbuchiamo sulla sella; poco sotto, sul lato che guarda lo Shivling, c’è il campo. La tendina si è afflosciata con lo sciogliersi della neve, ma tutto il materiale è in ordine così ci apprestiamo ad un giorno di riposo. Ripartiremo di sera per salire la prima parte della parete di notte, quando il gelo blocca neve, ghiaccio e roccia. Passeremo il resto del giorno a mangiare e bere il più possibile, riposare e discutere sulla tattica di salita. Infine viene l’ora di preparare i carichi, ce ne occupiamo Manetta ed io mentre Berna continua a cucinare. Ci sentiamo in ottime condizioni fisiche e dentro di noi si fa strada la convinzione di farcela in meno di sei giorni, così decidiamo di scartare metà delle razioni prendendone per soli quattro giorni. Decidiamo di scartare lo zaino da recupero, se servirà recupereremo gli zaini da spalla. Uno zaino leggero andrà al primo di cordata, quelli più pesanti al secondo e terzo. Verso le 18 iniziamo a cambiarci. Alle diciannove smontiamo e insacchiamo la tendina. Radunato tutto il superfluo nel sacco da recupero, ancoriamo quest’ultimo sul posto e iniziamo a salire. Per non Enrico Rosso SHIVA’S LINGAM 80


stancarci troppo, ci muoviamo lentamente lungo il ripido canale di neve sotto la parete. Procediamo con le orecchie tese per paura delle scariche che cadono dal pendio mediano. Ho la netta impressione che stiamo tagliando i ponti dietro di noi, ora esistono soltanto i 1500 m della parete che ci sta sopra. Garwal ’86 in fondo, comincia adesso, ed è un’incognita.

LUNEDÌ 16 GIUGNO. I fasci di luce delle frontali illuminano l’attacco delle corde lasciate in parete: sono appena sopra di noi. Raggiunta la piazzola ricavata nel pendio ci prepariamo, agganciamo le maniglie jumar alle corde e iniziamo subito a salire il tratto attrezzato di parete, rimuovendo le corde e il materiale degli ancoraggi. Pochi metri e ansimiamo violentemente. Ora si scala per la cima e ci accorgiamo subito che portare gli zaini in spalla non sarà cosa facile. Procediamo su terreno misto verticale, siamo lentissimi e sorpresi dalla fatica che facciamo ad ogni passo. Pian piano ci rendiamo conto che su questa parete non saliremo più di 250 m al giorno, ma speriamo ancora nel pendio mediano di ghiaccio, dove la progressione potrebbe essere più veloce. Mi si spegne la frontale, guardo in basso, 20 metri più sotto una luce ballonzolante indica la posizione di Paolo, l’unico che sa come cambiare le lampadine, devo fermarmi e attenderlo. Solo, fermo, al buio, sono assalito da dubbi e angosce. Lenti come siamo, come faremo a superare quest’immensa muraglia? La luce ballonzolante mi raggiunge. Paolo ansima come un mantice ma si mette subito ad armeggiare con la mia frontale e infine, nonostante i guanti di lana, riesce a cambiare la lampadina. Un’ora dopo raggiungiamo il punto massimo dal quale c’eravamo calati quattro giorni prima. I primi bagliori ci sorprendono in una scomoda sosta. Il sole illumina la punta dello Shivling e inizia a scendere: metro per metro, lentamente, riscaldando la parete, tagliando la fredda atmosfera antelucana con spade di luce. Inizia così un rituale al quale, per un po’ di giorni, avremmo prestato particolare attenzione. Manetta sbotta: – Più saliremo e prima ci scalderemo al mattino! Ora ci aspetta un tratto tecnicamente facile. Ci guardiamo, abbiamo lottato tutta la notte senza perdere tempo e realizziamo d’aver percorso non più di 150 m. Siamo stremati, sconsolati per non aver previsto questa situazione e preoccupati, ma non si parla di rinuncia. Dovremo impegnarci a fondo per raggiungere il pendio mediano, non Verso Antares 81


sembra molto distante. Senza pensare ad altro, nonostante siano già dodici ore che arrampichiamo, sempre convinti di liquidare la salita in quattro giorni, ripartiamo. Siamo decisi ad impegnare tutte le energie possibili per avanzare ancora. Ora finalmente siamo in cordata, tiro io. Sbuchiamo sulla zona nevosa che sovrasta la prima parete verticale dello zoccolo, è inclinata a circa 60°. La neve, nonostante il freddo notturno, non è gelata. Caricandola con il mio peso cede e rischiamo di scivolare sulle lisce placche di roccia sottostanti. È un problema, speravamo fosse ramponabile. Procedo con circospezione cercando di non esercitare pressioni troppo forti. Gli scarponi continuano a sfondare la coltre di neve e i ramponi stridono sul granito. Scavo con le piccozze e con le mani, annaspo nella neve per cercare fessure nella roccia, ma non riesco a proteggermi in alcun modo. Arrampicare in alta quota, con il terreno in queste condizioni e con lo zaino pesante è estenuante. A tratti devo fermarmi in preda a crisi di respirazione. Un minuto di respiro affannoso e poi avanti.

MANETTA CONDUCE LA CORDATA PER ALTRI 100 M, sempre con le stesse condizioni. Paolo è terzo di cordata e non riesce più ad avanzare, il suo sacco è troppo pesante. Ci siamo divisi i carichi e i compiti. Il primo deve avanzare scarico o con poco peso perché ha il compito di aprire la via, il secondo ha uno zaino di peso medio, ma anche il compito di rimuovere le protezioni piazzate dal primo, il terzo, con uno zaino da 30 kg, deve fare un lavoro di puro e duro trasporto. Decidiamo di montare un paranco per issare lo zaino di Paolo, lui intanto, risalirà fino a noi scarico. Passa una mezz’ora, Paolo arriva ma lo zaino si incastra. Proviamo una, due, dieci volte ma non si sblocca. Paolo abbassa la testa e appoggia il casco alla roccia chiedendosi se è tutto vero. Sa che dovrà tornare giù di quaranta lunghissimi metri, caricarsi il sacco sulle spalle e risalire nuovamente. Noi lo aiuteremo tirandolo con una corda, lui si isserà con le maniglie jumar su un’altra. Quando ci raggiunge sono le tredici, tutto è sembrato lungo un’eternità. Ormai è chiaro che per oggi dobbiamo fermarci a bivaccare. È necessario recuperare un po’ delle energie profuse in diciotto ore consecutive di sforzi. Ci guardiamo attorno in cerca di un posto idoneo a piazzare il bivacco. Sopra di noi, circa 50 m, sembra ci sia un terrazzino, un posto buono per piazzare la tendina. Ci consultiamo: salirò io, scarico per velocizzare la preparazione del bivacco e poi ridiscenderò a recuperare lo zaino mentre i Enrico Rosso SHIVA’S LINGAM 82


Berna in risalita sulla prima parte dello “zoccolo�. Foto: arch. Rosso-Manoni

Verso Antares 83


La parte superiore della parete Nord-Est. Foto: arch. Rosso-Manoni

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LA SALVEZZA PASSA PER LA CIMA Venerdì 20 giugno. Il tempo per ora è sereno, ma ci sono nuvole in arrivo da est. Immobili dentro i nostri “bozzoli” con le cerniere fino sul naso, gli occhi socchiusi sono l’unica parte del corpo scoperta. Sappiamo che, tra poco, dovremo alterare un equilibrio precario cercato per tutta la notte, ma sono le 7 e dobbiamo muoverci. Con la lentezza di tre astronauti ci prepariamo, ma senza riuscire a mangiare e bere gran che. Alle 9 iniziamo a risalire le corde. Alle 12 Manetta raggiunge la base dello scudo. Paolo e io siamo fermi ad una sosta 30 metri sotto. Per riunirci dobbiamo smontare l’ancoraggio, recuperare la corda e risalire l’ultima delle corde fissate. Fabrizio si prepara ad issare un po’ di peso con una delle corde libere, Paolo aggancia ad una fettuccia una parte consistente del materiale tecnico da progressione: chiodi, friends, nuts, cordini e moschettoni per poi legare la fettuccia alla corda che verrà recuperata dall’alto. È un attimo: la perdita di concentrazione per una frazione di secondo, un movimento sbagliato, la stanchezza. La fettuccia con tutto il materiale vola nel vuoto e scompare oltre la parete ghiacciata e poi le fasce di roccia tintinnando. Siamo atterriti, ci sentiamo perduti. Guardiamo la scena muti, con gli occhi spalancati e un senso La salvezza passa per la cima 93


di smarrimento, forse era un sogno troppo grande per noi? Manetta ci guarda dall’alto senza dire nulla, Paolo inizia a urlare. – No! Nooo!! Faccio la stima dei danni, ci restano quattro chiodi da ghiaccio, 3 chiodi da roccia, 5 micro-nut1, 5 friends e 20 tra moschettoni a ghiera e normali. Questo è un momento cruciale e ce ne rendiamo subito conto, ora non c’è più materiale sufficiente per scendere in corda doppia: arrivare in cima, raggiungere l’accesso alla via normale, è l’unico modo per tornare a casa. Un’ora dopo siamo tutti e tre alla base dello scudo. Toccare il granito, dopo tre giorni nella precarietà del pendio di ghiaccio, ci dà una sensazione di sicurezza. Berna oggi è particolarmente nervoso e Manetta lo riprende in maniera cruda. Dal diario di Manetta: Paolo non mi guarda, è atterrito e preoccupato ma abbiamo bisogno di lui, della sua forza fisica. Ora più che mai. Siamo su un’esile cengia alla base dello scudo e non possiamo più scendere: ci servirebbero molte più viti da ghiaccio e chiodi da roccia. Dobbiamo trovare il punto debole nell’enorme salto di granito che ci sovrasta, gelido e repulsivo. Lo scudo inizia con un tratto di misto di quelli difficili da decifrarne a priori la difficoltà. Le rocce che ci sovrastano sono a strapiombo, ma non si riesce a intuirne nella totalità la reale inclinazione. Sicuramente è un tratto infido.

PARTO IO, OGGI TOCCA A ME. Dopo un breve tratto di misto inizio a seguire una stretta colata di ghiaccio verticale che, con qualche deviazione e qualche interruzione, sembra condurre fino alla lunga cengia mediana dello scudo. Saranno almeno tre lunghezze di corda, circa 100 m. La roccia a tratti è fessurata, ma il ghiaccio è dannatamente duro e sottile. Pianto gli attrezzi con tutta la precisione che posso, ma spesso faccio movimenti in sicurezza precaria. La sensazione di essere troppo lenti ci ha indotti a riprendere tutto il peso sulle spalle, ora mi rendo conto di essere troppo stanco per portare lo zaino. Salgo per altri 15 metri, un po’ frontalmente sul ghiaccio e un po’ facendo opposizione sulle rocce ai bordi del canale, a tratti incastro o aggancio le becche degli attrezzi nella roccia. 1. Vedi nota 1. a pagina 68, NdR.

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Davanti a me il canale è interrotto e devia sulla sinistra con un passaggio di roccia strapiombante. L’ultima protezione è sotto di 10 metri. Due metri più in alto, una fessura adatta per un friend taglia la roccia. Il ghiaccio è troppo sottile per piazzare una vite. Per infilare un friend là dentro però devo alzarmi di un passo e poi, tenendo una lama di roccia al contrario, estendermi facendo opposizione sui ramponi piantati nel ghiaccio. Tolgo i guanti, afferro la lama, pianto un rampone, faccio un passo e pianto l’altro cercando stabilità. Cerco affannosamente il frend che mi sembra di misura nel porta-materiale, ne addento la fettuccia e mi estendo. I polpacci mi stanno esplodendo, tutto il corpo è contratto, non respiro. Se non infilo subito il friend nella fessura succederà l’irreparabile, le gambe iniziano a tremare. Il friend entra e mi ci appendo subito con la mano, senza temere, poi infilo una delle due corde e poi l’altra. Il respiro ora è impazzito. Procedere con lo zaino mi sfinirà e carrucolarlo ci farebbe perdere troppo tempo. Decido di agganciarlo a un nut, poi attrezzo una sosta e chiamo i compagni. So che dovrò riscendere a recuperarlo, ma ci penserò dopo.

IL CANALE SOPRA È SEMPRE VERTICALE e il ghiaccio è secco e fragile, ma sembra ci sia la possibilità di piazzare alcune protezioni. Tre ore e due tiri di corda dopo, sbuco sulla lunga cengia che taglia buona parte dello scudo. Mi guardo attorno e tutto sembra inclinato verso il basso, non vedo terrazzini adatti a un bivacco, ma ora devo pensare alla sosta e a recuperare il mio zaino. Piazzo due buoni chiodi, li collego, fisso le corde. Mentre i compagni risalgono a jumar con il grosso del peso, mi calo. Sento di avere ancora buone energie a disposizione, ma risalendo appeso alle maniglie jumar mi rendo conto d’avere abusato delle forze. Domani sarà compito di Manetta aprire la strada e forse riuscirò a risparmiarmi un po’. Quando sbuco nuovamente sulla cengia, Manetta e Berna stanno già scavando per approntare il bivacco. Mi unisco agli altri, il ghiaccio è duro anche qui. Un colpo di piccozza dietro l’altro e riusciamo a scavare tre sedili. È sera e il freddo intenso, come al solito, ci sorprende a scavare nel ghiaccio. Ormai siamo troppo stanchi ed è troppo tardi. Speravamo, ma alla fine ci arrendiamo. Nel luogo dove eravamo sicuri di fare il bivacco più comodo di tutta la parete non riusciremo, non solo a montare la tendina, ma neanche a stare col sedere perfettamente orizzontale. Manetta urla imprecando di disperazione. La gola e le spaccature sulle labbra continuano a tormentarci. Il vento soffia freddo da ovest ma il cielo è sereno. La salvezza passa per la cima 95


Enrico Rosso SHIVA’S LINGAM XLII


Il campo base di Tapovan sotto la neve. Pochi giorni dopo l’arrivo. Foto: arch. Rosso-Manoni

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Enrico Rosso SHIVA’S LINGAM XLIV


A sinistra, Berna alle prese con il trasporto dei carichi verso il deposito alla base della parete. A destra, traversando il grande canale alla base della parete Nord-Est. Foto: arch. Rosso-Manoni

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Enrico Rosso SHIVA’S LINGAM LIV


A sinistra, risalendo verso il deposito avanzato. A destra, la parte superiore della parete Nord-Est. Foto: arch. Rosso-Manoni

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A sinistra, in arrampicata sulle placche rocciose dello “zoccolo” durante il primo giorno di scalata. A destra, Berna in discesa sullo “zoccolo” dopo aver terminato il fissaggio delle tre corde a disposizione. Foto: arch. Rosso-Manoni

Enrico Rosso SHIVA’S LINGAM LVI


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Enrico Rosso SHIVA’S LINGAM LXIV


Nelle pagine precedenti e a sinistra, arrampicando sulle prime fasce di roccia. Sopra, la prima parte della parete Nord-Est con le fasce di roccia, ghiaccio e misto dello “zoccolo” e il “pendio mediano”. A sinistra la “pinna” della cresta Est. Foto: arch. Rosso-Manoni

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Manetta sulla cima dello Shivling. Foto: arch. Rosso-Manoni

Enrico Rosso SHIVA’S LINGAM 110


LA VETTA È AI PIEDI DELLA MONTAGNA Martedì 24 giugno. Sgusciamo fuori dalla tenda a giorno fatto. Barcollanti, inciampando in preda a giramenti di testa, ci sediamo per due volte per spostarci lateralmente di una ventina di metri, poi ci appoggiamo al seracco. Per me, senza il rampone e con il braccio sinistro mezzo fuori uso, salire questo piccolo muro di ghiaccio è un grosso problema. Parte Manetta, poi Paolo: spariscono dietro al bordo del seracco. Un attimo dopo sbucano le loro teste e mi dicono di partire. Pianto il rampone e le piccozze, mi alzo un poco, i compagni mi tengono di peso e io ripeto quest’operazione per tre volte poi pianto la piccozza con il braccio sano sulla cima, mi tiro, appoggio i gomiti, alzo il busto e infine rotolo letteralmente sulla cima piatta che è discretamente ampia e completamente glaciale. Dal diario di Manetta: Martedì 24 Giugno L’arrivo in vetta è senza grandi emozioni. Forse perché siamo devastati dalle fatiche e dalla disidratazione o perché già ieri sera eravamo consapevoli di esserci. La vetta è ai piedi della montagna 111


Enrico Rosso SHIVA’S LINGAM LXXVI


In queste pagine, Manetta sui tiri di corda sotto i tetti. Foto: arch. Rosso-Manoni

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Enrico Rosso SHIVA’S LINGAM LXXXII


Berna (a sinistra) ed Enrico (a destra) risalgono lo “scudo� verso la cresta Est. Foto: arch. Rosso-Manoni

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Qui sopra, Berna in risalita lungo lo “scudo” A destra, dopo aver risalito la corda, la stessa viene utilizzata per issare i sacchi con la maggior parte del peso. Foto: arch. Rosso-Manoni

Enrico Rosso SHIVA’S LINGAM LXXXIV


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Enrico Rosso SHIVA’S LINGAM XCII


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Enrico Rosso SHIVA’S LINGAM CIV


A sinistra, foto di rito sulla vetta. Enrico con la bandiera italiana, i gagliardetti del CAI di Biella e della SocietĂ Sportiva Pietro Micca di Biella. A destra, sul volto di Paolo tutta la fatica e la sofferenza di otto giorni di scalata. Foto: arch. Rosso-Manoni

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In queste pagine, in discesa sulla grande seraccata della parete Nord. Foto: arch. Rosso-Manoni

Enrico Rosso SHIVA’S LINGAM CVIII


CIX


Ieri il sonno ha preso il sopravvento. È stato l’unico bivacco in cui ci siamo potuti sdraiare e ho dormito di un sonno profondo. Stamattina cerco di fare colazione con la busta di minestra liofilizzata. Ieri l’ho riempita di neve e tenuta con me nel sacco-letto, nella speranza che si sciogliesse e creasse un pastone liquido. Niente da fare, la neve è rimasta tale e quale. È un esperimento che ho già tentato da quando siamo rimasti senza accendino, ma sempre senza successo. Non mi do per vinto e agito la busta con il suo contenuto. Ottengo una specie di granatina alla minestra liofilizzata. La ingurgito rovesciandomela direttamente in bocca, ma non si forma alcun liquido così mastico ghiaccio e pezzi di verdura congelata, ma non riesco a mandarli giù: la gola pare avere un tappo. Tengo tutto nel cavo orale e riprovo, intanto passo la busta ad Enrico che non ne vuole sapere. Usciamo dalla tenda e iniziamo stancamente a smontarla e a preparare gli zaini. Pochi minuti dopo sono in vetta. Il cielo è coperto da uno strato sottile di nubi che lasciano intravedere il sole. Sono in uno strano stato mentale, felicità ed apatia coesistono stranamente nello stesso istante. Assicuro i miei compagni che in breve mi raggiungono. I loro volti martoriati dai raggi ultravioletti dell’alta quota e dalla disidratazione sono senza espressione. Non un sorriso e poche parole. Enrico ci sprona a fare qualche foto. Lo sguardo domina su tutto il Garhwal e la vista è stupenda, ma sono preoccupato per la discesa. Enrico è senza un rampone e questo potrebbe rallentarci molto, magari costringerci ad un altro bivacco. Vorrei evitarlo. Dobbiamo scendere il prima possibile ma senza fretta. In questo momento più che mai, con la salvezza a portata di mano e le forze che sembrano venir meno, è necessario tenere alto il livello d’attenzione. Avevo immaginato forti emozioni, ma siamo prostrati e di forte percepiamo solo la fretta di scendere. Forse, il vero “momento della cima” è stato ieri o lo sarà domani, al campo, in salvo. Ciò nonostante ci sforziamo di fotografare, tiriamo fuori bandierine e gagliardetti. Le condizioni meteo si stanno deteriorando velocemente, le nubi sono sempre più dense ma non fa molto freddo. Non ha mai fatto troppo freddo e questa è una delle ragioni principali per cui siamo ancora vivi. Sappiamo comunque che potremo dire di avercela fatta solo quando saremo ai piedi della montagna.

Enrico Rosso SHIVA’S LINGAM 112


Dal diario di Maria: Rabi dice che arriverete questa sera, io e Raju diciamo domani, comunque tutti sappiamo che il vostro rientro è vicino. Magari arriverete questa notte, non mi stupirei di sentirvi nel cuore della notte. È coperto, probabilmente il monsone non tarderà molto. Dal diario di Manetta: Sotto di noi c’è il versante sud ovest dello Shivling. Il primo tratto di discesa è un pendio inizialmente poco ripido ma la pendenza va aumentando. La neve è compatta. Scendiamo arrampicando al contrario con la faccia a monte, bisogna risparmiare il poco materiale che ci rimane per i tratti più difficili. Sono molto stanco e calibro con attenzione ogni passo a ritroso. Pochi metri e il ritmo rallenta. Scendere velocemente è troppo pericoloso. Enrico procede in retromarcia con grande maestria, fidandosi di un solo rampone. Poco dopo troviamo ghiaccio scuro e duro, avvitiamo un chiodo e prepariamo la prima doppia. Le corde sono un manicotto di ghiaccio e il discensore ad otto fatica a scorrere. In fondo al pendio vediamo una zona pianeggiante. È lì che dobbiamo arrivare. Le viti da ghiaccio non saranno sufficienti per attrezzare tutte le doppie necessarie, ma spero che ci permettano di uscire dalla parte più impegnativa. Al di là del pianoro si intuisce il salto del seracco.

LA PRIMA DIFFICOLTÀ IN DISCESA è un pendio di circa 50° di pendenza per 250 m di altezza, che iniziamo a scendere in arrampicata con la faccia rivolta a monte. Mi sento sicuro, pervaso da una forza inaspettata, forse perché finalmente si scende e poi il pendio è regolare e in ottime condizioni. Mordono bene le piccozze, i ramponi e anche la punta del mio scarpone sprovvisto di rampone. Dopo una quarantina di metri la neve dura cede il posto al ghiaccio e diventa chiaro che scendere slegati è troppo rischioso. Avvitiamo un chiodo e attrezziamo la prima calata. La consapevolezza che ora tutti gli sforzi sono rivolti a scendere e la sensazione di abbandonare il proprio peso ad una corda che ti sostiene, mi rassicura. Due ore dopo, con l’ultimo chiodo, raggiungiamo la fine del pendio dove ci fermiamo per mangiare qualche maledetta prugna secca. Da due giorni sto passando la lingua sul dente spezzato, fortunatamente non fa male, ma dà un enorme fastidio. La vetta è ai piedi della montagna 113


“Lo Shivling 6543m appartiene a quella categoria di vette non altissime ma dalle forme affascinanti sulle quali si svilupperà la corsa alla vetta nel futuro”. Reinhold Messner (a cura di), Corsa alla Vetta. Atti del convegno di Juval del marzo 1987

€ 19,90

ISBN 978 88 85475 373


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