UN SOGNO LUNGO 50 ANNI. Storie dell’arrampicata finalese 1968-2018

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Alessandro Grillo

UN SOGNO LUNGO 50 ANNI Storie dell’arrampicata finalese 1968-2018

EDIZIONI VERSANTE SUD | I RAMPICANTI



ALESSANDRO GRILLO

UN SOGNO LUNGO 50 ANNI Storie dell’arrampicata finalese 1968-2018

EDIZIONI VERSANTE SUD | COLLANA I RAMPICANTI


INDICE Alessandro Grillo, un venditore di pelli di coniglio 7 Pre-fazione di Guido Grappiolo 11 Mezzo Secolo 17

PRIMA PARTE

FINALE 1968-2018

Una introduzione… tra realtà e fantasia 23 Monte Cucco 33 Lo chiamarono Olinto, per tutti Vittorio, per me Torio 45 Sette chiodi da ghiaccio 57 1978, La svolta: Satori 67 Il nostro piccolo, nuovo mattino 71 Aspettando il Sole 83 Le mura di Anagoor 91 La rivoluzione. La prima volta di Patrick a Finale 95 Superpanza 103 Le placche di Shangri-la 107 Il grande sognatore 113 Pianarella, via Vaccari e Calcagni 117 La Grimonett 123 L’intervista 133 Quando incontri i ricordi 137 Quella placca sospesa 141 I guanti della bontà 149 La vida es sueño 155 Quel Natale del 1974 157 A proposito di quel lazzarone di Roberto Bonelli 163 Il Vecchio 177 Monsieur Luc 181 Placca Piotti 187 Lettera a un Amico sconosciuto 194 Ombre blu 197 In Scio Bolesomme 205

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Tu chioda che io fa 211 Suicidio sulla Dalla 215 Non c’ero solo Io 221 Sopravvivere 231 Redenta Tiria 235 Non mi ha voluto ancora 239 Giulia 249 La più banale delle domande. Perché arrampichiamo? 260 Sono stato in un luogo daL quale raramente si ritorna: L’aldilà 263 Antiche riflessioni 269

SECONDA PARTE

I RACCONTI DEGLI AMICI

Giovannino Massari. Finale per me Gianni Calcagno per Mario Piotti scrisse così… Paolo Castellino. Gianni era passato di lì Berni Vez. Il barone arrampicante Mauro Oddone. Liberi in libera Fulvio Balbi. Con un amico Bernard Gorgeon. Incontri con uomini straordinari Mario Nebiolo. U megu Alessandro Grillo. Nell’anno del Signore

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Bibliografia 322 Doverosamente 323

Indice 5


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Vedrai una città regale, addossata ad una collina alpestre, superba per uomini e per mura, il cui solo aspetto la indica Signora del Mare: Genova. Francesco Petrarca

ALESSANDRO GRILLO, UN VENDITORE DI PELLI DI CONIGLIO Alessandro Grillo è un genovese dalla testa ai piedi, nelle ossa e nel cuore e a Genova è nato, proprio nel bel mezzo di una guerra. Lui la racconta così, ma a dire il vero è un mandrogno, di origini, un po’ ligure e un po’ piemontese. Il termine, di incerta etimologia, deriva da Mandrogne uno strano abitato nei pressi di Alessandria, preesistente alla città (fondata nel 1168) i cui abitanti erano considerati, scrive Umberto Eco, “un’isola razziale, non si sa se di origine zingara o saracena (e ne avevano i tratti somatici, belli, alti, capelli crespi e naso aquilino). Praticavano il commercio di pelli di coniglio, e vigeva tra loro un’omertà quasi siciliana”. Alessandro non commercia più pelli di coniglio, per il momento. Ma cinquant’anni fa, spinto dal suo spirito zingaresco, si è inoltrato nell’entroterra finalese, terra aspra e selvaggia, mitica e misteriosa, affascinante

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e terribile a un tempo stesso e ne è divenuto un suo cantore. Ha costruito casa a Orco Feglino, allora un paesino quasi dimenticato da Dio e dagli uomini. A onor del vero, Orco è in alto, al vento perenne, Feglino qualche chilometro più in basso, sempre al vento, ma per tener fede al suo carattere e non essere né di Orco, né di Feglino, la sua magione la fece in mezzo ai boschi, tra ulivi, roveri e vento. Uno zingaro-saraceno, mica poteva andare a dimorare in un paese normale! Finale, la capitale, era a pochi chilometri, ma che valevano come anni luce, una distanza immensa dalla città, moderna e progredita, ma che gli orco-feglinesi non hanno mai amato e non è che abbiano cambiato idea. Peraltro a Finale si dice che ”a Fein u ciù brau u l’è n’assascin1”. Nel paese, i prodotti del progresso tecnologico, radio e televisori, non mancavano, ma galleggiavano su un mare d’indifferenza, di superstizione e di tradizioni. Attorno, un ricamo di fasce pietrose, di rocce e pareti, le famose rocche, che creavano più fastidio che altro e quindi, gli abitanti, cominciarono a tagliarle a pezzi e a venderle. Lui pelli di coniglio, loro blocchi di pietra. Ma tutto ciò avvenne, sino a quando il nostro saraceno iniziò, per curiosità, ad arrampicarsi selvaggiamente, quasi primitivamente, su per quelle pareti, spinto da un no so che… forse per cercare di vedere, laggiù in mezzo al mare, la sua inesistente patria. Sta di fatto, che da quel momento, lentamente, le cose cambiarono. Le rocche divennero luoghi di divertimento e nei paesi rifiorì l’antico commercio. La faticosa terra, creata troppo in basso da un dio sicuramente malvagio, via via venne abbandonata, il petrolio si mangiò i boschi che vennero conquistati da colorati invasori dotati di veloci bicicli e tutto ciò perché un venditore di pelli di coniglio, cercando un paese che non esisteva, mutò le abitudini di quei luoghi ancestrali, un attimo prima del loro triste epilogo, per stravolgerle e trascinarle verso un altro destino, per aprire gli occhi, ai loro disperati protagonisti e riportare la serenità, la fiducia nel futuro, l’amore per la vita.

1. A Feglino, il più bravo è un assassino.

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In questo clima, in cui il soprannaturale si mescola alle vite degli uomini e le compenetra, quasi che di esso non si possa fare a meno, i racconti di Alessandro, a metĂ strada tra storie bibliche, favole per adulti e trattati di psicologia, sono espressi in un modo singolare, ma semplice a salvaguardia della sostanza piĂš intima di un mondo non conoscibile fino in fondo, da parte di chi non vi appartiene.

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Guido Grappiolo su Enrico IV.

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Un Saggio ha detto: “Qualsiasi cosa può essere detta con poche parole… bastano poche parole per dire tutto”.

PRE-FAZIONE

di Guido Grappiolo

“Ciao Guido. Ho scritto un libro sul Finalese attraverso la mia storia, su ciò che abbiamo fatto su queste pareti e, quindi, ci devi essere anche tu!“. Sono in auto. Ricevo in viva voce la chiamata di Sandro, sono sorpreso, ma non troppo: da Grillo questo e altro. Soprattutto sono lusingato di avere una citazione che a Finale, quella dell’arrampicata, io c’ero. E checché se ne dica, gratifica l’ego! La telefonata prosegue e prima ancora che abbia tempo di ringraziare: “Però di te e di Nico non riesco a scrivere! Dovresti mandarmi un contributo, una manciata di fogli”. Io spaventato: “Ma Sandro io al massimo scrivo articoli scientifici! Non sono in grado”. Grillo: “Sì che lo sai fare, scrivi veloce che devo andare in stampa!”. Mi ritrovo come al solito ad affrontare una deadline davvero improbabile, con un compito impossibile. Qui e ora! Richiamare il mio passato, alla luce di questo presente, davvero non è facile. Oggi c’è gente che fa il 9a, il 9b, forse anche 9c!

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Le “rocche” sono lì, ma Grillo c’è sempre stato e non solo per questioni di omonimia e allora partiamo da lì, dal principio. “In principio era Grillo e Grillo era presso Calcagno…”. Scherzi a parte, è stato proprio Sandro a venirci a cercare, a tentare di trasformare una comunità di locals che si annidavano nel cavernoso ventre del Finalese, speleologi “sgarruppati” in odor di acetilene, in alpinisti. Tutti insieme fondammo così l’unione “Speleo-alpinistica finalese”. Ci riunivamo tutti i venerdì, Sandro compreso, e talvolta si univano a noi Gianni Calcagno e l’immancabile Vittorio Simonetti. Entrare nel tessuto sociale di questa piccola Barbagia che è l’entroterra finalese, non è stato facile. Lo sa bene Grillo che si è insediato fin da allora in quel di Feglino: una terra intrisa di diffidenza per tutto ciò che si sposta dai conosciuti gesti quotidiani, dalle mani sulla terra, per rubare centimetri di terreno pianeggiante. Noi, invisi ai padroni delle rocche, scavammo con difficoltà sentieri nella fitta macchia mediterranea per arrivare alla base delle pareti. Prima della piccozza bisognava brandire il machete. Tutto era un mezzo per giungere a quel fine: diventare alpinisti. Ci volevano coraggio e fantasia. E fu così che diventammo Purchin! Grillo decise che, se da qualche parte c’erano i Ragni di Lecco o gli Scoiattoli di Cortina, il futuro dell’arrampicata avrebbe dovuto passare attraverso i Purchin di Finale! Una particolare specie di armadillidium che popola le pareti era stato preso a totem e fu così che Francesca, la bella moglie di Sandro, ci procurò dei maglioni turchesi, su cui cucì l’effigie di questo animaletto giallo e nero e l’avventura ebbe inizio. Non sapevo nulla dell’alpinismo: il mio punto di partenza era stato infilarmi in qualche grotta, sfidare quello che era l’ignoto per un bambino di 13 anni. Sono andato avanti così in maniera istintiva, appena contaminato da qualche disordinata lettura sul tema, poi ho approcciato l’arrampicata cercando di imitare i nostri maestri, quelli veri – Grillo e Calcagno – e quelli immaginati, da Preuss in avanti. La poca cultura raffazzonata, la poca tecnica che avevamo appreso e conseguentemente la poca inibizione, hanno prodotto il paradosso dell’originalità: quasi subito abbiamo abbandonato gli scarponi a favore delle Superga,

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lasciato le staffe appese agli imbraghi ed iniziato a tirare i chiodi, poi nemmeno più quelli. Infine abbiamo riesumato gli spit dalla vecchia cultura speleologica e a mano a mano, con parsimonia, iniziammo a far brillare placchette come rare stelle nel cielo d’inverno, nel mezzo delle placche più levigate. Quasi simultaneamente altri, che sarebbero diventati dei miti, facevano cose simili in altre parti d’Italia, d’Europa e del Mondo. Molti di questi li ho conosciuti o meglio “riconosciuti” ed erano così bravi, tanto più bravi di me! Tuttavia se riesco ad emozionarmi ricordando come eravamo o guardando un ragazzetto magro che, quasi con il broncio, attacca con ostinazione un blocco di resina e poi cade sul culo e si mette a ridere, è perché condividiamo le stesse emozioni, perché siamo tutti della stessa pasta! L’inquietudine esistenziale ci pervade, appena sopita dallo stato di necessità. Ma oggi c’è da mangiare anche per chi ha fame, quindi? Arrampicare forse è stato un modo per esplorare il nostro caos interiore e, parafrasando Nietzsche, ha dato luogo a stelle danzanti e chi ha visto “danzare” Berhault, può capire quanto letterale sia la metafora. Sta di fatto che facevamo quello che facevamo senza un apparente perché, senza un pubblico a meno che non fosse occasionale e di curiosi, come nel caso dell’esibizione notturna di Patrick e Nico, quella sera a Monte Cucco. Io pilotavo l’occhio di bue. Io portavo la luce! Una delle cose migliori di Nico Ivaldo? Salire Ombre Blu dal basso e poi insanamente ripeterla slegato! Già, il tema delle solitarie… siamo sopravvissuti a degli incidenti mortali, direbbe Jannacci. Ricordo un periodo di esami, scalavo poco. Tornando da Genova, la nostalgia mi portò a passare per Monte Cucco; avevo occhialini e capelli “alla Lennon” e uno spolverino chiaro degno degli scapigliati ottocenteschi. Incontrai Nico ancora zoppicante per alcuni “accidenti”; uno sguardo, sbottonai lo spolverino, infilai le scarpette e sotto gli sguardi increduli dei pochi alpinisti presenti, ci infilammo su per la Via della Pulce, in doppia solitaria. E Nico? El portava i scarp del tennis! Fortunatamente erano gli ultimi sussulti di una recherche un po’ estrema e dopo aver fatto “l’Alpino” slegato, quando era più o meno il massimo grado

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che padroneggiavo, mi resi conto che per “progredire” era doveroso proteggersi. Sfatai un tabù piantando i primi spit sulla Via di là. Sì, perché a sinistra avevamo fatto la Via di lì, ma con il concetto di obbligare il passaggio in libera, perciò il chiodo doveva stare sotto il passaggio chiave, non dentro il passaggio. Concetto apprezzato e condiviso, ma qualcuno, un certo Heinz, esagerò talmente, che per ripetere Spit Surf si dovette aspettare Patrik il quale, senza scomporsi come era nel suo stile, si assunse tutti i rischi del caso e poi commentò: “Bellissima, ma un po’ troppo sprotetta”. Detto da lui… Oggi per fortuna gli arrampicatori girano nel sole come i gatti di Alice, ma c’è ancora una luna con cui amoreggiare e tutto questo “Alice lo sa”! Caro Sandro questo è il succo, l’estrema sintesi di una storia che ben conosci, il resto andrebbe scavato nella memoria personale di ognuno di noi. Difficile dire, è un lavoro immane. Solo un grande scrittore è in grado di far convivere i vivi e i morti. Lo dice Ivano Fossati, uno che con le parole ci sa fare, ma sono sicuro che, come sempre, anche tu saprai fare. Guido Grappiolo

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PRIMA PARTE


Alessandro Grillo sopra i “Rossi”.

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Molti vivono per stare al centro dell’universo e farsi notare da tutti… io vivo per stare nel cuore delle persone che mi vogliono bene.

UNA INTRODUZIONE… TRA REALTÀ E FANTASIA Come quasi tutte le mattine, Rocco stava seduto a un tavolino del solito bar, alla solita ora – quella giusta – e mentre mescolava, in una tazza di caffè, lo zucchero con la sua vita osservava la gente che passava avanti a sé cercando di immaginare, dall’incedere e dall’espressione del viso, il fardello di vissuto che si portava appresso. Aveva smesso di fumare da moltissimi anni, ma come si sedette, estrasse dalla tasca un pacchetto di sigarette, un accendino e li posò delicatamente sul piano del tavolo alla sua sinistra, perché un tempo, dopo il caffè, prendeva una sigaretta, la serrava tra le labbra e con la mano destra impugnava l’accendino. L’accendeva sino a sentire l’acre odore del tabacco che gli riempiva la bocca, che scendeva giù per la gola, che gli riempiva i polmoni. Poi lo scacciava via, voluttuosamente, dal naso. Infine, con un grosso respiro, espelleva il fumo per poi ricominciare immediatamente quel rituale. Un giorno, però, aveva smesso, da un momento all’altro, senza esitazione; era nata la sua prima figlia, quindi, niente veleni per la casa.

Una introduzione… tra realtà e fantasia 23


Dentro le mie mura.

Quelle erano le mie mura e volli conquistarle. Furono quattro lunghezze indimenticabili, su una roccia senza pari. Particolare la seconda: 25 m, un chiodo a U infisso a metà, un cordino su una piccola clessidra, tre chiodini in uscita ed entrai così nel cuore delle mura, ben sapendo che, ultimata la via, sarei stato invaso da una sorta di amarezza per il sogno divenuto realtà. Come disse il “Fortissimo” Gervasutti una volta raggiunta una meta ambita, “credo che sarebbe molto più bello desiderare per tutta la vita qualcosa, lottare continuamente per raggiungerla e non ottenerla mai”. La scintilla divenne un fuoco, un incendio. A poco a poco, centinaia, migliaia di alpinisti (allora si chiamavano così gli arrampicatori) si riversarono su quelle rocce, sino allora solo nostre. E come disse il “Guru Calcagninda”, assieme alla quantità arrivò anche la

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Heinz Mariacher sul tiro finale, 6c, di Mura di Anagoor.

qualità. Berhault, Bernardi, Grassi, Casarotto, Bassi, Mariacher, Manolo, Güllich, Gallo, Massari, Di Bari e tanti altri, sino ai giorni nostri. Il 6c fu banalizzato, ora si cerca il 9a, il 9b, il… 10! L’alpinista è un climber, si arrampica “free”, i chiodi non esistono più, sono protezioni, i moschettoni uniti due a due da un cordino sono rinvii, le corde da 40 metri sono ora da 70/80. Non ci si assicura più a spalla o con il mezzo barcaiolo, ma con il grigri o altre diavolerie. Per non parlare delle scarpette. Chi ricorda le prime San Marco o le Adidas Tampico? Eppure con quelle scarpette che grattavano il muretto finale di Aspettando il sole, uscii da una staffa per arrivare incredulo in cima a Monte Cucco, sul bordo dell’altipiano, ove il sogno finisce per ricominciare ancora.

LE MURA DI ANAGOOR 93


Vittorio Simonetti.

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…alla ricerca di un mondo di favole alle quali noi volevamo credere.

QUEL NATALE DEL 1974 Era il giorno di Natale del 1974, e mi trovavo ad arrampicare sul Pianarella con Torio, Vittorio Simonetti, sulla parte destra di questa parete, al di sotto di splendide placche. La solita roba addosso, una corda da quaranta metri, pochi chiodi, moschettoni, cordini, due staffe “californiane” e, ovviamente, scarpe da tennis Adidas. Ah, dimenticavo, un filo di ferro per passare cordini nelle “clessidre”. A pensarci bene, ho fatto talmente tanto réclame a queste scarpe che un piccolo attestato di stima avrebbero potuto anche farmelo, questi scarpinari miliardari. Ma lo sappiamo come vanno queste cose: o sei Manolo o non ti considera nessuno. Va bene lo stesso, dai. Comunque dicevo, eravamo lì, naso all’insù. La placca era proprio bella. Un ripido muro e più in alto una fessurina che via via si faceva più ampia, sino ad arrivare ad una piccola cengia. Torio, visto ciò che ci aspettava più in alto, decise che quel primo tiro toccasse a lui. Si alzò con maestria sul muretto, non facile, ed arrivò alla fessura. Tempo prima sulla rivista Alpinismus, l’unica che raccontava qualche cosa sul mondo arrampicatorio oltralpe, avevamo visto che in Inghilterra e in

Quel Natale del 1974 157


Scozia gli scalatori erano avvezzi a proteggersi infilando dei sassi nelle fessure e avvolgendo attorno a queste dei cordini. Nel cordino si passava un moschettone e dentro a questo la corda. Il gioco era fatto. A Torio era piaciuta l’idea al punto che era solito portarsi dietro, dentro il sacchetto della magnesite, che non usava, qualche bel sassolino raccolto in spiaggia. Non mancava occasione per sperimentare quella follia. Comunque, come arrivò alla spaccatura, vidi che iniziò a trafficare nel sacchetto e continuò a salire. E così sino ad una piccola cengia, una trentina di metri più in alto. Passarono alcuni minuti e arrivò la solita parola: ”Vieni”. La corda si tese e iniziai la mia avventura. Il muretto era decisamente bello, rughe e tacche a iosa. La fessura, però, si presentava ostica. Non sapevi come prenderla, ad incastro, in opposizione… Spiccava un bel cordino rosso che usciva dalla spaccatura; al suo interno, ben incastrato, se si tirava verso il basso, un sassolino. Mannaggia a lui. Un poco più in alto la stessa storia, altro cordino, altro sasso. Mentre armeggiavo per togliere il tutto, un botto alla testa mi fece vedere le stelle. Davvero, vi posso giurare che succede proprio così. Un colpo secco secco e scotomi agli occhi, proprio quelli da emicrania con aura visiva. Un po’ di sangue cominciò a scendermi sul viso, sugli occhi. ”Cosa cazzo mi hai buttato in testa?”. “Sali, sali, ma con attenzione”. La risposta dai piani alti. “Tienimi un po’, che mi pulisco, non vedo niente”. “No, ora sali svelto e con molta attenzione”. La voce di Torio, in genere scanzonata, giunse imperativa. Con una mano riuscii a ripulirmi un po’ gli occhi e continuai a salire con attenzione. Ma un dubbio si insinuò nel mio cranio già provato. Il mio socio, appena arrivato in sosta, un gradino inclinato non più largo di due palmi ( lo vidi dopo), per assicurarsi e recuperarmi non aveva piantato alcun chiodo, avrei sentito il rumore, né tantomeno aveva usato qualche arboscello, la roccia era pulita da vegetazione. Stai a vedere che ha messo uno dei suoi sassi in qualche fessura, lì si è assicurato, lì ha messo un moschettone e mi ha recuperato con il mezzobarcaiolo?

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Stai a vedere che il sasso era venuto via, mi era precipitato in testa, e Torio era rimasto per puro caso sulla cengia con la mia corda in mano? E sì, perché secondo la sua teoria, al sasso bisognava appendersi, per farlo penetrare bene nella fessura e tenerlo incastrato! Ma come mai non era precipitato, ed io con lui e con tutti i sassolini? Mentre tutto ciò frullava nella mia testa rotta, arrivai alla sosta. Scena da film horror. Torio, pallido come uno straccio, stava rivolto alla parete, con le scarpe che occupavano un piccolo gradino di mezzo metro per uno in larghezza, pieno di terriccio. La corda in mano! E io dovevo salire lì sopra, senza alcuna protezione, senza niente a cui tenermi! Riuscii a mettermi con il palmo di una mano sulla cengetta. Ricordo ancora che era la sinistra, con la destra mi tenni leggermente alla cintura del mio amico, che mi ricoprì di insulti, portai il piede destro sul ripiano (allora ero molto sciolto) dopo averlo accuratamente ripulito dai sassolini, e mi alzai proprio a fianco di Torio, pure io faccia alla roccia. Ed ora? Che cosa ci facevano lì due malcapitati, su un piccolissimo gradino, fronte appoggiata alla pietra, assicurati al nulla? “Potrei provare a mettere un altro sas…” “Se ti azzardi, te lo metto in culo!”. Questa la nostra forbita conversazione. Fortunatamente mi portavo sempre dietro uno o due chiodi artigianali, fatti da “u Culin“ ( Nicola, Nicolino diminutivo, Culin dialettale), il fabbro di Feglino. Povero Culin, mi voleva proprio bene e assecondava le mie folli richieste, e poi dalla sua officina fronte a Cucco osservava divertito le nostre spericolate esibizioni. Gli piacevano moltissimo. “Sei propriu matti”, era solito dirci, ma sorrideva bonario e comprendeva la nostra lucida demenza. Beh, ci preparava dei chiodi, si fa per dire, fatti di profilato a Z, lunghi una trentina di centimetri, con una bella punta e, dal lato opposto, fatto un foro da 12 mm, vi metteva un anello di ferro che faceva “bollire” alle estremità per farle unire, altro che saldatura. L’operazione consisteva nel portare il ferro al “calor bianco”, mettere un poco di borace per disossidare e battere con un grosso martello sulla parte tonda dell’incudine, sino a che il metallo si fondeva perfettamente.

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SECONDA PARTE I RACCONTI DEGLI AMICI


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Giovannino Massari

FINALE PER ME Il mio incontro con la Pietra di Finale coincide quasi esattamente con la nascita di quel percorso prima passionale e poi di amore profondo che, attraverso una strada spesso tormentata da eventi anche spiacevoli, mi ha portato ad esplorare a fondo me stesso, chi sono e dove vorrei andare; questo percorso, l’arrampicata, passa attraverso un’attività dalle pieghe molteplici che ciascuno può oggi interpretare come meglio crede al di là delle mode e delle tendenze e così poterne apprezzare le reali possibilità. La mia generazione usciva dai tormentati anni Settanta e mentre cercava di sbollire la rabbia del crollo di molti miti attraverso un cattocomunismo velato di “che guevarismo” e dopo aver strizzato l’occhio a chi diceva che con la P38 si sarebbe annientato lo stato corrotto si ritrovava come persa e in cerca di nuovi inizi. Quale migliore attrattiva poteva rappresentare per me, liceale ispirato dal romanticismo francese piuttosto che da Marcuse o dal libretto rosso di Mao, il cimentarmi con l’arrampicata, allora praticamente ancora alpinismo di bassa quota, che dava certamente la possibilità di intravedere nuovi

Giovannino Massari. Finale per me 275


€ 19,90

ISBN 978 88 85475 335


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